Totò con la compagnia di Mimì Maggio al Teatro «Orfeo» di Napoli
Con la Maggio-Coruzzolo-Ciaramella, nei primi anni di vita dell’Orfeo, ha contatti anche Totò. Questo rapporto, ancorché in una confusione di date e anche di nomi, non è stato mai sufficientemente chiarito. Beniamino Maggio ci ha raccontato in più occasioni di ricordare personalmente il passaggio di Totò dall’Orfeo. Il legame di fraterna amicizia che ha legato per tutta la vita il principe ai Maggio doveva essere sostenuto proprio da quel passaggio avvenuto, presumibilmente, tra il 1918 e il 1920.
All’epoca, infatti. Maggio è saldamente capocomico in quel teatro. Anche Peppino De Filippo annota al 1918 le prime presenze di Totò in autentici spettacoli di arte varia come imitatore di Gustavo De Marco, riconosciuto maestro della “marionetta vivente”.
E possibile che Totò, come molti altri giovani artisti, abbia ricevuto utili consigli anche dal Maggio, esibendosi in brevi intermezzi comici nella sua compagnia che proveniva dai successi al Politeama nella Villa del Popolo. Lì, alla Marinella, nel regno incontrastato di don Angelo Mazzola, impresario analfabeta che si atteggiava a guappo, pronto sempre a presentarsi in palcoscenico per annunziare al pubblico, in un italiano storpiato, il numero più importante o la improvvisa defezione più pericolosa. Mimì si è fatto un nome rispettato nell’agguerrito panorama napoletano del varietà.
Totò, che non si è ancora trasferito con la madre a Roma, dove conquisterà le simpatie del napoletano Peppino Jovinelli, proprietario dell’omonimo teatro, comincia a fare l’artista proprio a Napoli, nei teatrini della Ferrovia, quindicenne, con il nome d’arte di Clerment. Sono brevi apparizioni, forse nemmeno retribuite. I ricordi di Beniamino su Totò all’Orfeo erano abbastanza ricchi, ma si riferivano, probabilmente, soprattutto a quanto aveva sentito dire dai genitori e, una volta diventato giovanotto, dallo stesso principe de Curtis.
Una ricostruzione che tiene conto di testimonianze dirette e indirette, induce a ritenere che Totò aveva preso parte agli spettacoli organizzati da Mimì Maggio, eseguendo numeri staccati di varietà che venivano dati nella terza e ultima parte dei programmi dell'Orfeo per almeno sette mesi, da ottobre a tutto aprile.
Dopo il primo tempo dedicato allo sviluppo di un bozzetto drammatico ricco di canzoni, e a un secondo tempo quasi sempre costituito da una farsa con Pulcinella, arriva il momento dell’arte varia. Totò esegue, nella terza parte del programma, oltre a qualche macchietta imparata pescando nel repertorio di Villani, numeri “acrobatici”, in particolare quelli del “morto vivo” e quello delle “capriole a pagamento” da uno. due e tre soldi. Il “prezzo” sale in relazione alle difficoltà dell’esecuzione delle capriole concordate. Gli spettatori che “impostano” la richiesta devono poi lanciare il “corrispettivo” in palcoscenico. L’incasso, come era capitato al piccolo Viviani quando interpretava lo “scugnizzo”, è di assoluta pertinenza del protagonista.
Maggio, che apprezza molto la spettacolarità di quei numeri, come ci diceva Beniamino, non manca tuttavia di preoccuparsi anche per la “salute” della scenografia, costituita quasi sempre da fondali di carta intelaiati. Le acrobazie del giovane comico rischiano, infatti, di sfondare quelle scene messe su con fatica. Ma, acrobazie a parte, Totò passa certamente dall’Orfeo quando è nella scuderia di Eduardo D’Acierno. L’aver fatto parte di questa scuderia è un dato “certificato” dal principe nelle sue memorie e così, mettendo insieme certezze e ricordi, si può dire che proprio nel teatro dove imperava Maggio. Totò deve aver eseguito anche un altro suo numero giovanile, quello già citato del “morto-vivo”.
Beniamino lo descriveva così:
Mastracchio è il tutore artistico di Beniamino, che ha lavorato, quando era un bambino prodigio, in duo, proprio con il trasformista, in uno spettacolo concluso dai numeri di Totò. Il numero di Beniamino è quello della canzone "Torna, torna Garibaldi".
Qui l’Eroe dei due mondi è interpretato da Mastracchio, che risponde alle invocazioni cantate del piccolo Maggio soltanto nel finale, quando, in grande uniforme e perfettamente truccato da generale, si fa prendere per mano e, dal fondo della scena, accompagnare alla ribalta, tra gli evviva improvvisamente patriottici della sala, sollecitati adeguatamente dalle trombe dell’orchestra.
Il principe, per quanto i suoi eredi abbiano cercato, non ha lasciato una traccia precisa sulla sua teatrografia napoletana intorno ai vent’anni. Da un suo diario, pubblicato c ripubblicato, sempre con successo, si ricava soltanto che nel 1919 si esibisce alla Sala Napoli in piazza Carità e che nel 1920 lavora ancora a Napoli e soprattutto al Trianon, mentre risale al 1922 il trasferimento a Roma con la madre, intanto sposatasi.
Anche Taranto ricordava Totò all’Orfeo, dove Nino aveva cominciato a lavorare:
Concorda, con lo stabilire al 1920 la presenza del principe de Curtis all'Orfeo, quanto ricorda, attraverso racconti di famiglia. Nietta Rosa, nata proprio in quell'anno. L’appena nata Nietta, che diventerà cantante eccentrica e moglie dell’eduardiano Maringola, è figlia di una cantante popolare, Rosa Vitolo, detta la Vitolina, rivale di Gilda Mignonette. Nietta Rosa sostiene che Totò la cullava mentre era in una cesta in un camerino dell’Orfeo. in attesa che “la Vitolina”, terminato il suo numero, arrivasse per prenderla al petto.
Riferimenti precisi, invece, per quanto riguarda il rapporto di Totò con Eduardo D’Acierno per recite staccate nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare, arrivano proprio dalle memorie del principe che scrive:
Eravamo una “chiorma” di amici tutti principianti che poi si sono piazzati: io, Eduardo e Peppino De Filippo. Armando Fragna e Cesarino Bixio, che allora faceva i testi delle canzoni cantate dalla Mistinguette. La recita staccata era una specie di week-end teatrale, due rappresentazioni, sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra.
Nessun accenno diretto, tuttavia, nemmeno in questo caso, all’Orfeo, dove D’Acierno, come definito attraverso numerosi riscontri e testimonianze, è di casa quasi stabilmente con i fuori programma e anche con le farse, attraverso formazioni che gestisce in proprio. E l’Orfeo e il teatro da dove fa sempre partire i giri delle sue compagnie per la provincia.
Intorno al 1920, sul piano della qualità, il capocomicato di Maggio è nel suo momento migliore. Oltre che all’Orfeo, la sua “ditta” è nel cartellone del Trianon, teatro che ospita grandi compagnie e concede nelle sue programmazioni anche spazio alla lirica, soprattutto nei mesi estivi.
Al Trianon conquista il primato degli incassi migliori la formazione di Vincenzino Scarpetta con spettacoli compositi, prosa e arte varia, compagnia richiestissima in tutta la Campania. In questa compagnia spopola una già valorosa giovane attrice e cantante: Titina De Filippo, qualche volta a manifesto soltanto Titina.
Quando la compagnia di Vincenzino Scarpetta arriva a Benevento gli “esauriti” sono garantiti e la De Filippo può contare su un pubblico addirittura tutto suo, tanto che gli industriali Alberti, produttori del già affermato liquore Strega, scossi “dai suoi occhi assassini” meditano di lanciare un nuovo liquore che vorrebbero chiamare, appunto, “Titina”.
La Maggio-Coruzzolo-Ciaramella ha una buona fetta di inattaccabile popolarità anche lontano da Napoli e non soltanto in Sicilia. A Taranto, per esempio, colleziona invidiati “esauriti” all’Eden con Vita ’e notte, scene popolari di Eduardo Pignalosa.
«Il lavoro, improntato a un’impeccabile linea d’arte a schietto sentimento», scrive il corrispondente pugliese de "Il re di denaro", periodico diretto da Eduardo Nicolardi con lo pseudonimo di O. Lardini, «intermezzato con rapide scene di vivace comicità, nella dipintura felice di tipi e macchiette del nostro popolino, nell’interessare riuscì anche a commuovere profondamente il pubblico che festeggiò i valorosi interpreti con l’evocarli frequenti volte agli onori del proscenio».
La presenza di un autore colto come Pignalosa non è casuale. In questo caso “certifica” il valore artistico della compagnia di Maggio. Lo stesso Pignalosa, giornalista e drammaturgo, si fa rappresentare anche dalla Fumo-Cafiero - era questa, nel 1920 la successione dei cognomi -, che al Trianon rappresenta Sciurella, storia d’amore, passione e odio con Eugenio Fumo, Salvatore Cafiero, Margherita Parodi, la graziosa Pellizzi, il noto e valoroso Pironi, l’Alt ieri. Sciurella ha il privilegio di inaugurare il secondo teatro di Salsi che, intanto, è stato completamente restaurato e abbonda in stucchi, velluti e ori che hanno definitivamente cancellato i vistosi segni delle bruciature, conseguenza di un incendio scoppiato durante un’esibizione di Fregoli.
Comincia a farsi strada Ciccillo Rondinella che, «fine, distinto, dotato di una forte personalità», medita di formare compagnia. Titina continua a conquistare simpatie cantando pezzi assai commoventi che richiedono interpreta/io ni sofferte, incisive, come per Chi lassa ’a mamma. Per migliorarsi come interprete drammatica non manca, quando può, alle recite nella Sala Gervasi dove Maria Zampelli, moglie del proprietario del locale, Giovannino, è la regina delle attrici che si esibiscono soltanto per beneficenza, pur possedendo peso, qualità e misura per stare in primo piano anche in compagnie di professionisti.
Nel frattempo Totò conquista Roma poi, a seguire, l'Italia...
Nino Masiello ("Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli", Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994)
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Ogni tanto si vedono in giro le vecchie maschere della commedia: ma sono cosi mutate che il pubblico, il quale deve oltre tutto apprezzarle nelle ricostruzioni ideali, non può riconoscerle. Da una generazione all’altra quelle maschere gli si sono evolute sotto gli occhi cambiando costumi, seppure restando fedeli agli usi, e non lo divertono più. D’altra pane, le maschere sospettano appena di trascinare un’eredità tanto curiosa e ricercata. Ancora vive non pensano nemmeno di essere oggetto di studio, che persone d’ingegno, cioè, vorrebbero ricostruire quel segreto così naturale per loro nelle accademie e nei teatri di Stato. Se lo sapessero, forse, sarebbero felici di farsi sezionare, seppure il loro gesto sarebbe compreso.
Incontrarle non è facile: di quelle che si proclamano «maschere» da loro stesse c’è, a ragione, da diffidare. Le vere, spesso, formano una sola famiglia; e quando, per un comprensibile pudore, non sfuggono le grandi città, si accontentano di riempire gli spettacoli nei cinema popolari. Ma è la loro invincibile razza che le scopre.
Per qualche sera, ad esempio, la compagnia del cav. Mimì Maggio ha recitato al Cinema Centrale. Nella recita d’addio, il cavaliere in persona è avanzato sul boccascena, a ringraziare, dicendo che «imprescindibili impegni» lo chiamavano altrove, ma ch’egli avrebbe portato con sé il ricordo di un pubblico che l’aveva onorato con la sua cara accoglienza. Mentre il vecchio attore, insolitamente impacciato, parlava, il pubblico di quel cinema, che è imo dei più generosi ed entusiasti della città, rimase attento e commosso (anche il ragazzo delle gazose, che fino allora aveva camminato sulle nostre scarpe, mostrò col suo contegno un'anima suscettibile di perfezione). Quanto a noi, oltre tutto, pensando. per contrasto al preoccupato pubblico dei teatri normali che passa i terz'atti col pastrano sulle ginocchia, pronto a fuggire alle penultime battute, per un attimo ci affacciammo il dubbio che nella crisi del teatro debba entrarci la maleducazione, che è una forma sgradevole d’indifferenza.
Ma, a parte ciò, il cav. Maggio, col suo discorsetto, non stava riportando lo spettacolo in termini d’un tempo, a uno scambio di simpatie e di responsabilità tra platea e palcoscenico? Quando, tra gli applausi, sparì definitivamente nelle pieghe del sipario, il suo corpo legnoso era appunto quello di un propiziatorio imbonitore.
Della compagnia Maggio, attratti per puro caso dalla singolarità del programma che annunziava commedie «tratte da canzoni», abbiamo seguito le recite fedelmente. Per dei curiosi ricercatori delle fonti metafisiche del melodramma, come siamo, l’occasione non avrebbe potuto essere migliore, e oltre a confortarci nell’idea che le vecchie maschere girano ancora ci è servita per conoscere nuovi procedimenti drammatici, davvero curiosi.
Nel costruire le sue commedie l’arzillo cavaliere non manca di idee e di fantasia. Una buona commedia, secondo Molière, dovrebbe descrivere caratteri e costumi, contenere comicità e sorprese, definire una morale: ebbene, a tutto ciò il cav. Maggio aggiunge di suo il «sentimento». Perché i suoi attori sanno recitare e cantare (recitare con la naturale grazia dei napoletani e cantare con la loro appassionata convinzione) egli non fa che imbastire un canovaccio entro il quale gli attori possono esaurire le loro attitudini comiche e al momento opportuno, se la scena lo richiede (e la scena lo richiede spesso), incastrare canzoni che si adattino. Di regola la canzone che dà il titolo alla commedia è quella che viene spiegata con l’azione: è un risalire alla sorgente, un riprodurre l'ispirazione del compositore che non manca di logica. E del resto, queste manipolazioni melodrammatiche, se aggiungono la generosa retorica delle stampe popolari all’azione, non tolgono agli attori una radicata scioltezza di osservazioni. In Non ti scordar di me, per esempio, ad un vecchio malaticcio che la padrona di casa vorrebbe mandare all’ospedale la moglie impone con sottigliezza chamfortiana di star tranquillo, di non ascoltare intimidazioni, di morire pure tranquillamente.
E soltanto una maestria ereditata potrebbe permettere a questi attori di troncare, come fanno, le scene patetiche, quando seguitarle sarebbe intollerabile, con improvvise buffonerie che smontano gli effetti precedenti: né il gusto dei «ritorni», quel modo di battere a intervalli periodici su un punto efficace, potrebbero averlo appreso dagli esempi del teatro d'oggi. Guardate come tutti tormentano il povero vecchio colpevole di aver «le orecchie piccole» (il che vorrebbe dire, ci viene spiegato, morte prematura) col rimproverargli di «non rispettare i proverbi». Pian piano la battuta dà il ritmo alla scena, colma le pause, ottiene l’ilarità per forza meccanica.
Pur se cambiate dal gusto del tempo, se passate attraverso il teatro borghese e veristico, queste maschere fanno capire di aver recitato «sempre», di avere addirittura trovato il loro ruolo sul cuscino. Usufruendo di un'esperienza segreta, riescono a dire cose gradevoli né più né meno come due o tre secoli fa. E per questo, forse, soltanto il pubblico popolare, che non ha perso la memoria, è in grado di apprezzarle pienamente.
Riconoscere Pulcinella nel giovane sfrontato dagli occhiali di falsa tartaruga, Colombina nella languida aspirante al cinema, Fiorindo nell’operaio generoso e Pantalone in quello che «ha fatto la guerra ed è stato prigioniero» è arduo, d'accordo; ma convince che tali maschere sono entrate nella vita e ne portano un’eco vivace sulla scena. E proprio nel non farsi riconoscere a prima vista sta tutto il segreto della loro continuità.
Ennio Flajano, «Oggi», 9 dicembre 1939
Riferimenti e bibliografie:
- "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994