Totò, dalla Sanità a Roma
A sera dopo aver rimesso a nuovo quarti e quartini, verande e ballatoi, andava a intrattenersi sotto l’arco di Porta San Gennaro, sulla grande strada di Foria. Aveva quattordici anni, ormai, ed era uscito dal vicolo. Lì, a Porta San Gennaro, si raccoglievano, quando era bel tempo e quando non c’era di meglio da fare, molti ragazzi del rione: garzoni di bottega, per lo più, ma anche «signorini», cioè figli di famiglie borghesi, «signorini», però, che avevano in dispregio lo studio; i ragazzi napoletani del popolo nutrivano allora (di scuola obbligatoria non si parlava ancora) un fermo, sordo, implacabile odio per gli studenti. ’E studiente so’ fedente, afferma del resto, lapidariamente, un antico proverbio partenopeo.
Si raccontavano barzellette, su quel balcone pianoterra di Foria, si organizzavano beffe ai passanti, si arrotolavano residui di tabacco in pezzetti di carta per ricavarne approssimative sigarette da aspirare a turno, e se dal fondo di qualche tasca spuntava un soldarello si entrava in una vicina pizzeria per acquistare una «margherita» e divorarne ciascuno un sottilissimo spicchio.
Talvolta, poi, se si aveva proprio fortuna, passava qualche ragazzo bene introdotto nelle famiglie della zona, e dava la grande notizia: «C’è una periodica! Siamo tutti invitati!». Venivano denominate «periodiche» certe piccole riunioni familiari, a scadenza per lo più settimanale, in cui alla presenza di mamma, papà, zie e zii, i più giovani cantavano e dicevano versi. Divieto assoluto per il ballo; il ballo, per carità, veniva considerato come qualcosa di poco morale.
Fu frequentando quelle periodiche che Totò s’innamorò di una sua coetanea bruna (Vincenzella: più del nome di battesimo non ci è pervenuto) la quale si esibiva in languide melodie freneticamente applaudite, e fu per gareggiare con lei che s’improvvisò, in quei salotti, comico-contorsionista. Aveva molta fortuna a Napoli, a quell’epoca, il fantasista Gustavo De Marco. Quando si decise ad imitarlo, il giovanissimo Totò venne subissato da un coro di battimani, sicché anche quando gli fu passata la cotta per Vincenzella, gli rimase la fama di emulo di Gustavo De Marco. E ora erano in molti a Napoli a contenderselo, per animare le periodiche.
Il passaggio dai poveri salotti di Foria ai fatiscenti teatrini in legno della zona della ferrovia, fu, si può dire, automatico. Le stradette popolari di Napoli, ma in specie quelle intorno alla stazione erano disseminate di baracconi in cui si producevano cantanti e fini dicitori, macchiettisti e musici, Pulcinelli e donne barbute; il «Salone Margherita» della galleria Umberto viveva ancora il suo pieno splendore ed era considerato ancora il concorrente diretto delle «Folies» di Parigi, ma i cafoni che attendevano la coincidenza fra il treno proveniente da Roma e i tram in partenza per la provincia, andavano a riposarsi e a ricrearsi appunto lì, in quei teatri del rione Vasto e di Porta Capuana. «Avete bisogno di una comparsa?» domandava Totò agli impresari. C’è sempre bisogno, nei teatrini, di un ragazzo che, sul palcoscenico, si lasci prendere a calci nel didietro. Totò incominciò a trascurare i clienti di mastro Alfonso per poter fare, a tempo perso, l’attore a piazza Garibaldi, con lo pseudonimo di «Clerment».
Un ex dipendente di mastro Alfonso, rimbianchino Giovanni Caravecchia, domiciliato, oggi come allora, in un basso di vico San Felice, proprio all’angolo di via Santa Maria Antesaecula, ricorda: «Negli anni 1913 e 1914 io e Totò stavamo sempre insieme, in primo luogo perché vicini di casa e poi per il fatto che eravamo stati entrambi pittori di stanze nella " squadra ” di mastro Alfonso. Io e Totò andavamo a far colazione dallo stesso " carnacottaro ", don Vincenzo a Foria, e andavamo a farci preparare qualche panino dallo stesso oste, don Aniello alla Stella. Totò, di un anno più giovane di me, era innamorato della figlia di un fruttivendolo di via Santa Maria Antesaecula. Il fruttivendolo, che era poverissimo, contrastava l’amore fra i due giovani; desiderava, per sua figlia, qualcuno con una buona posizione. A quell’epoca Totò percepiva, dal Teatro di piazza Garibaldi, esattamente una lira e ottanta centesimi al giorno. Ebbene, ogni sera, Totò metteva quella somma in una busta e la deponeva, anonimamente, sotto la porta della bottega di frutta e verdura. Il fruttivendolo era convinto che a fargli trovare quei soldi fosse un «Munaciello» o qualche altro benefico spiritello. Di quella ragazza, Totò non si dimenticherà mai. Nel 1954, quando tornò in questo rione per interpretare «L’oro dì Napoli», Totò si informò sulle sorti della sua antica innamorata; e quando gli fu detto che era rimasta vedova e senza una lira, le fece pervenire, anonimamente, una grossa somma di danaro».
Nel teatro di piazza Garibaldi, comunque, le cose, da un punto di vista artistico, andavano tutt’altro che bene per Totò il quale, insieme con un altro comico, certo Giambinelli, veniva abbondantemente spernacchiato dagli spettatori.
«Basta con il teatro!», urlò un giorno la madre.
«Ah, sì? E allora sai cosa faccio? Mi arruolo volontario» fu la risposta. Gli svenimenti della signora Anna Clemente, giustamente preoccupata per le sorti di quel suo figliuolo (era intanto scoppiata la prima guerra mondiale) non valsero a molto.
«Sei minorenne, e per l’arruolamento ci vuole il mio consenso», cercava di far presente la signora Anna Clemente.
Ma la sua autorità materna, già minata da uno stato civile non ancora ben definito, era quanto mai esigua. Totò, poco più che sedicenne, si presentò al distretto militare e, infagottato nella divisa di fante (giberne, fasce di lana, gavetta, tascapane, zaino) venne inviato col 22° Reggimento di fanteria a Pisa, e poi col 182° battaglione, ai confini con la Francia. I graduati dovettero sembrargli quanto mai dispotici: infatti, anche se potè sottrarsi alla guerra di trincea, Totò non riuscì a scansare le patrie angherie. [...]
Finita la guerra e ritornato a Napoli, Totò che si riteneva ormai emancipato dall’autorità materna, si presentò all’impresario teatrale Eduardo D’Acierno il quale riuscì a farlo recitare in piccoli teatri. Il repertorio era quello stesso delle «periodiche»; imitazioni delle macchiette di Gustavo De Marco, imitazioni che se potevano piacere in cerchie familiari di facilissima contentatura, venivano invece accolte malvolentieri dal pubblico pagante. «Basta! Basta!» gridavano spesso gli spettatori e Totò, che già di carattere era triste, malinconico e taciturno, andava in preda a crisi depressive.
Decise, alla ricerca disperata della propria personalità, di collaudare un genere ancora più grossolano. Nel 1919 troviamo Totò alla «Sala Napoli», un teatro di piazza Carità, nei pressi del mercatino, di proprietà del ragionier Occhiuti. E. A. Mario, il celebre autore della «Leggenda del Piave», ha appena lanciato «Vipera», cavallo di battaglia della chanteuse Anna Fougez. Totò scrive una parodia della canzone, la intitola «Vicoli» e vi ficca dentro la storia di un uomo che, avendo frequentato una donna di malaffare, si è beccato una malattia venerea; per interpretare questa parodia, Totò compare sul palcoscenico abbigliato in maniera stranissima: un grosso catenaccio legato all’abbottonatura dei pantaloni. Il pubblico, grassoccio e sensibile a trovatacce, applaudiva forte, ma non fu possibile andare avanti a lungo con le repliche. Totò dovette ripiegare su un’altra parodia di «Vipera», la chiamò «Biscia» e, volendo riprodurre le movenze del serpente, della biscia, appunto, incominciò a esercitare il suo collo in quei contorcimenti che diventeranno poi una caratteristica della sua recitazione. «Totò deve a me i suoi primi successi», diceva spesso, non senza fondati motivi E. A. Mario.
Nel 1922, ormai aveva ventiquattro anni, Totò, vittima di un incidente professionale addirittura clamoroso, decise di abbandonare Napoli. L’episodio è lucidamente ricordato da un anziano attore, molto apprezzato a Napoli, quell’Enrico Demma che fu tra i pilastri del «Partenope»: «Nel 1922 Totò, il cantante Ferdinando Rubino, la chanteuse Ester Clary ed io, andammo a fare uno spettacolo al teatro " Della Valle ” di Aversa. Totò, quando venne il suo turno, incominciò a declamare le solite macchiette di Gustavo De Marco. Fu tutto un uragano incessante di fischi. L’attore dovette letteralmente fuggire dal teatro, “ Demma, non posso più rimanere a Napoli. Andrò via. Andrò a Roma ”, mi disse quella sera stessa».
Sembra niente, oggi, dire Roma. Ma a quell’epoca il direttissimo impiegava sette ore, sul percorso via Formia, e perciò i viaggiatori si provvedevano di abbondanti scorte di cibarie e di fiaschi di vino; e alla stazione venivano salutati da frotte di parenti i quali si servivano del fazzoletto più per asciugarsi le lacrime che per sventolarlo. Chi si trasferiva dava realmente l’addio a un mondo, e al massimo spediva una lettera ogni paio di mesi: del telefono interurbano, essenzialmente adoperato per le comunicazioni di Stato, i più ignoravano addirittura l’esistenza. Andare a Roma, partire, a quell’epoca equivaleva davvero a un po’ morire.
"Totò, principe del sorriso", Vittorio Paliotti - Fausto Fiorentino Ed., 1977