Totò e i caporali
Ricordate quella mia battuta: «Siamo uomini o caporali?». Ebbene, arrivato a questa età mi accorgo che al mondo di caporali ce ne sono tanti, ma di uomini pochissimi.
Ho sempre diligentemente evitato di scrivere articoli, prefazioni, prolusioni, orazioni, ricordi, massime e sentenze, pensieri, meditazioni, zibaldoni, viaggi intorno alla mia camera, dialoghi, giornali intimi. La fatica teatrale — recitare cioè ogni sera per diverse ore — ha sempre costituito, per me, un equo scotto da pagare per la mia discendenza da Adamo, e cioè da un uomo condannato al lavoro. In questi ultimi tempi, però, vi confesso, dopo tanti anni di ozio letterario, ho derogato dalla regola impostami fin da ragazzo, e ho scritto qualche verso, che potrete leggere in questo libro. Nella vita, basta derogare la prima volta, per derogare anche una seconda: e così ho acconsentito, me, vivente, di scrivere, in collaborazione con due amici, una serie di quadri dove vengono tracciati alcuni episodi della mia vita. Fasi, per lo più, tristi: in così violento contrasto con la mia vita di attore comico, di attore cioè impegnato a far divertire il pubblico. Forse, in tutto ciò, si applica la legge della compensazione che orchestra le vicende degli uomini. Un attor comico, fortunato sulle scene e sempre sorridente nella vita, costituirebbe un paradosso. A lui deve bastare la finta felicità e la falsa allegria manifestate sulle tavole dei palcoscenici.
Ma non divaghiamo.
Vi dicevo di aver deciso, dopo tante insistenze da parte di amici e di ammiratori, di erigere il mio busto nella Villa Borghese delle Lettere. A dir tutta la verità, inizialmente, avrei voluto soltanto scrivere un breve articolo per chiarire il vero significato contenuto nella frase: « Siamo uomini o caporali? », da me pronunciata, nel corso di una rappresentazione, e divenuta ormai popolare in Italia. Questa frase, nata durante la mia prima giovinezza, mi è sempre servita come sistema metrico decimale per misurare la statura morale degli uomini, e mi è servita, nuovo entomologo, per classificare l'umanità in due grandi categorie. Non si trattava di una semplice battuta, nata, magari spontaneamente, sul palcoscenico, al di fuori del copione, come mi è qualche volta accaduto. Né, tanto meno, mi è nata annotando modi dire di uso comune che, poi, ripeto sulla scena. A tal riguardo debbo chiarire che alcune mie frasi e caratterizzazioni, rimaste famose, traggono la loro origine dal caso. Scusatemi quindi se mi allontano per un momento dal tema, e consentitemi di raccontarvi come sono nate alcune « battute », come ho composto alcuni « tipi ». Sarà un’utile introduzione alla spiegazione della frase: « Siamo uomini o caporali? ». Anni addietro, mentre recitavo nella rivista « Tarzan », in attesa del mio turno, approfittai del breve respiro concessomi per avvicinarmi lestamente alle quinte e bere un sorso di caffè. Il turno mi toccò, purtroppo, prima di quanto avessi calcolato, e, con un sorso di caffè ancora in gola, dovetti rivolgermi al mio interlocutore, pronunciando, mezzo soffocato e quindi con una accentuazione errata: « Indovina un bo’... », invece di « Indovina un po’... ». La frase fece subito presa sul pubblico, e molti, per diverso tempo, ripeterono con me: « ’ndòvina un bo'... ».
Qui, intervenne il caso.
La maggior parte delle volte, però, seguendo la mia formula dell’umorismo teatrale, ho preferito rifare il verso a modi di dire ormai invalsi nell’uso comune e adoperati, spesso, da molte persone con un certo tal tono di saccenteria e di prosopopea: « A prescindere... », « Apoteosi », « Comunque... », «lo sono un uomo di mondo... ». Altre volte, mi è accaduto di pronunciare frasi formulate d’improvviso sulla scena, in risposta ad una battuta errata del mio interlocutore. Tra i miei modi di dire che hanno trovato la loro radice in esperienze dirette, abbiamo la frase che dà il titolo a questo volume: Siamo uomini o caporali? Da molti anni, questa interrogazione che, spesso, pronuncio sul palcoscenico, oltre a suscitare l’ilarità, ha spinto gli spettatori a chiedersi il preciso significato che do ad essa. Le varie interpretazioni, come accade spesso in simili frangenti, sono risultate inesatte o incomplete o infondate. In verità, la storia di questa frase trova le sue origini nella mia vita militare. Dunque: ero poco più che un ragazzo, quando mi decisi ad avanzare la domanda di volontario al Distretto Militare di Napoli.
Mi assegnarono al 22" Reggimento di stanza a Pisa. Poiché avevo imparato che, tra gii esercizi militari, il meno penoso e il più semplice era quello di marcare visita, divenni, modestamente, uno specialista in materia. I miei superiori non ritennero di valutare con il mio stesso metro le continue visite all 'infermeria. e, appena si presentò l’occasione, mi trasferirono al 182" Battaglione di Fanteria destinato in Francia, presso un reparto di marocchini. Non era mia intenzione di avere a che fare con tale genìa di soldati di colore; perciò presi la determinazione di evitare con essi spiacevoli fatti personali. Durante il viaggio di trasferimento, e precisamente alla stazione di Alessandria, accusai un tale repertorio di malesseri da dover essere ricoverato di urgenza all’ospedale militare del luogo. Il convoglio con gli altri soldati continuò il suo viaggio ed io, appena dimesso dall’ospedale, fui inviato all’87" Reggimento di Fanteria. Però le mie peregrinazioni non dovevano considerarsi ultimate. Il destino aveva deciso di farmi fare la conoscenza diretta dei più noti reggimenti italiani. Infatti, di lì a poco, si liberarono di me, lavativo per eccellenza, e fui assegnato all’88" Reggimento di stanza a Livorno. Fu in questo glorioso Reggimento che ebbi come graduato il famigerato caporale, il caporale per antonomasia, il caporale a vita, uno di quelli cioè che ti fanno odiare, per un numero imprecisato di generazioni, la vita e il regolamento militari!
Egli era stato promosso caporale per assoluta mancanza di graduati disponibili, pur essendo quasi analfabeta. A quei tempi mi piaceva la vita brillante del giovane di buona famiglia senza pensieri, sospiravo il suono della tromba che dava il via alla libera uscita e — rendendomi simpatico ai superiori con le mie macchiette teatrali — tentavo di conquistarmi la esenzione dai servizi di guardia e di corvées che coincidono, puntualmente, con il permesso serale. Ma... C’era un « ma » che sbarrava le mie intenzioni e i miei propositi; ed èra incarnato da quello strano tipo di caporale ignorante e presuntuoso il quale — animato da una irragionevole idiosincrasia nei confronti dei « militar soldati » — abusando del suo grado, riusciva a privarci della sospirata breve libertà. Per quel che mi concerne, posso assicurarvi che mi riservava i servizi più umili e più bassi: la pulizia delle camerate, dei gabinetti e del cortile, la pelatura delle patate avevano in me l’abituale esecutore.
Durante le punizioni che mi toccava scontare, rimuginavo in me un rancore senza fine nei confronti dei caporali, verso coloro cioè che, muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri con un atteggiamento da piccoli Ezzelini da Romano. Rientrai nella vita civile con il bagaglio della mia esperienza militare. Cominciai allora ad applicare questo sistema di catalogare le persone, in base ai miei rapporti tenuti sotto le armi con i caporali (non tutti, intendiamoci, sono così. Parlo solo di quei dati caporali odiosi anche ai loro colleghi). Abitualmente, le persone che si frequentano vengono divise in amiche o nemiche, utili o nocive, buone o cattive. Io le divido in uomini o caporali.
Per fare un esempio: la famiglia dei miei nonni paterni che si oppose, per ragioni di nobiltà, al matrimonio di mio padre con mia madre, appartiene ai caporali. Lo scrittore Curzio Malaparte, che per vendere il suo libro La pelle ha inventato fatti di sana pianta, diffamando Napoli e i napoletani, deve considerarsi inquadrato nel plotone dei caporali. Infine, a voler ricercare l’origine prima di questa mia classificazione, dovrei richiamarmi a Dante Alighieri che un metro fondamentalmente analogo adoperò nel gettare nell’Inferno i suoi nemici e avversari; e nell’elevare al Paradiso tutti coloro che amò o di cui vantò l’amicizia. E’ Dante che, nel canto V del Paradiso, ebbe a comporre il famoso verso: Uomini siate e non pecore matte che, in base alle mie considerazioni, potremmo modificare in: Uomini siate e non dei caporali Non è dei migliori endecasillabi. Però il suo contenuto riscatta la inevitabile deficienza poetica.
Antonio de Curtis ("Siamo uomini o caporali?" - Alessandro Ferraù e Eduardo Passarelli - Ed. Capriotti, 1952)
- Scusi, ma i caporali di che opinione sono?
- I caporali non sono di opinione... i caporali sono di giornata.
In una lettera, «i gradi di caporale», il guardiano di un ospedale è tacciato di rigida osservanza di sapore borbonico perché è stato ligio ai regolamenti. Non ritengo che sia di buon gusto mettere alla ribalta i «gloriosi gradi di caporale».
Troppo spesso, forse per una battuta infelice dei comico Totò, si ridicolizzano le funzioni del caporale, dimenticando che detto grado è la base costruttiva delle forze armate. Io, da parte mia, posso, per diretta conoscenza, senza tema di smentita, dimostrare quanto hanno saputo distinguersi i caporali nei momenti delicati sia in guerra che in pace.
Ten. col. Pietro Ruggia (Milano) - «Corriere della Sera», 6 ottobre 1973
La filosofia di Totò (Siamo uomini o caporali, 1955)
Riferimenti e bibliografie:
- Prefazione dal libro "Siamo uomini o caporali?" (Alessandro Ferraù e Eduardo Passarelli) - Ed. Capriotti, 1952