Totò, l'invenzione e l'improvvisazione

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Totò teatrale e Totò cinematografico: due diverse tipologie artistiche di interpretare l'arte (naturale) dell'improvvisazione. Ma Totò inventava ed improvvisava al momento le sue famose battute? Andiamo per ordine, iniziando dagli anni del debutto in teatro fino agli esordi ed ai successi cinematografici.


I lazzi sulle tavole del palcoscenico

Totò, "l'inventore"


Sono la vocazione ed il mestiere dell'attore che portano naturalmente a improvvisare scena per scena qualche parola. Sono felice quando posso farlo anche se è un rischio. La comicità è musica poiché il fattore principale è il tempo: in teatro tutto questo risulta più facile, perché il pubblico con la sua reazione immediata suggerisce da sé la misura. Comunque l'esperienza mi insegna che anche nel cinema l'improvvisazione il più delle volte funziona.


È difficile da spiegare, ma io non ho mai nulla di preparato prima di andare in scena. Non studio nulla di prestabilito. Io improvviso. Affronto il pubblico, vado in scena e poi la comicità viene da sé, spontanea. Prima dell'entrata, ho sempre mille paure. Temo di non divertire il pubblico. Invece, puntualmente, si verifica una radicale trasformazione. De Curtis diventa Totò. Perché io e Totò siamo del tutto diversi. Agli inizi della mia carriera, la comicità della mia maschera era incontenibile, straripante, e io ne approfittai dandole libertà completa e sfruttandone al massimo le risorse. In un secondo tempo, intervenne il mestiere. Per andare in scena, io ho bisogno soltanto di un canovaccio, di una vicenda sottile, appena accennata per consentire poi a Totò di dar sfogo alla sua comicità. È strano, soprattutto se si tiene conto del mio carattere.


Il comico deve essere antico, e «lazziatore», cioè capace di inventare ogni volta lazzi e macchiette inedite e imprevedibili. Per un comico vero il copione non deve contare nulla.


Il metodo del recitare “all’improvviso” è in realtà lo stesso degli antichi comici della commedia dell’arte, che mettevano in scena dei canovacci sui quali ricamavano spunti e battute che andavano cosi a costituire nuove riserve di repertorio. Gran parte di ciò che Totò aggiungeva occasionalmente sul set cinematografico veniva da sketch e macchiette recitate e perfezionate più e più volte a teatro e talvolta anche sotto i riflettori; le aggiunte estemporanee sono pochissime, e non potrebbe essere altrimenti in un mestiere in cui tutto (le risposte dei comprimari, i movimenti dell’operatore, i raccordi di montaggio) deve essere previsto al millimetro. Lo ha spiegato chiaramente lo stesso Totò:


Sono la vocazione e il mestiere che portano l’attore a improvvisare scena per scena qualche parola. E io lo faccio ogni volta che posso, anche se è un rischio. In teatro è più facile e meno pericoloso perché la reazione immediata del pubblico suggerisce all’attore la giusta misura. Ma anche nel cinema, il più delle volte almeno, l’improvvisazione funziona.


Molti testi (o canovacci) creati per il teatro (di varietà, poi di avanspettacolo infine di rivista) da Totò, erano farciti di «a soggetto», come nelle migliori tradizioni della commedia dell'arte. Queste due semplici parole aprivano infinite possibilità a chi recitava di variare il tema base del racconto aggiungendo, migliorando e ampliando il tema della storia. Ciò non vuol dire che Totò, e chi recitava a stretto contatto con lui, fosse spontaneo, nel senso libero di interpretare la storia in libertà assoluta, senza alcuna correlazione con quanto riportato sul canovaccio della commedia: così fosse ognuno di noi potrebbe recitare. Tutto era predeterminato, prestabilito, niente era affidato al caso (definito il peggior nemico delle arti).


La mia tecnica è l’istinto. Il comico nasce, non diventa comico. Si può diventare anche comico per forza, ma allora si è leziosi, si è falsi, mentre il comico è quello istintivo, non c’è niente da fare. Lavorando si apprende il mestiere, questa è un’altra cosa. Io ho una comicità istintiva che porto nel mio lavoro e che all’inizio può non far ridere, ma poi piano piano... come lo scultore che ha un pezzo di creta che plasma piano piano...

Più in generale, non bisogna considerare le tecniche dell'improvvisazione come conseguenze di pratiche di recitazione approssimative, valide per un teatro dilettantesco. Ciò porta erronaemente a considerare che Totò non avesse bisogno di seguire alcuna traccia né di leggere la sceneggiatura, poiché in grando di inventarla al momento. Al contrario, la struttura base del racconto era precisa e ben definita, ben assimilata da tutti i componenti della Compagnia e in particolare da Totò. Nelle azioni in scena da parte di Totò, esisteva molta più premeditazione di quanto l'attore non lasciava intendere (o di quanto lo spettatore non si accorgesse).


Il teatro è quanto di meno improvvisato ci sia, deve sembrare tutto molto naturale, molto nato lì per lì, ma in realtà bisogna sapere anche dove respirare. Totò era assolutamente così, anche nei tempi, nella lunghezza delle pause: c'è un punto che è giusto ed è solo quello. A maggior ragione in cinema, dove Totò era di un rigore assoluto. A volte, magari, alla fine di una sequenza metteva una cosa pazza sua, ma era una chiusura, un'espressione, un gesto, un'occhiata, non di più.

Isa Barzizza


Totò non amava provare la scena. Memorizzava il testo nella sua interezza e, come in una specie di laboratorio, sperimentava aggiunte e varianti da apportare ogni sera ad ogni spettacolo fino al punto di avere un testo finale ben più ricco e complesso che nell'origine, il quale spesso coincideva con l'ultima data della tournée. Le poche prove servivano quindi per conoscere la trama, solo in linea di massima.

Le variazioni testuali e gestuali avvenivano in momenti separati o sovrapposti, non ha importanza come, ma con una metrica temporale simile a quella perfetta della musica, la quale doveva essere assecondata e seguita fino alla fine dalla "spalla" e da tutti gli attori presenti sul palco: ciò presupponeva, quindi, una perfetta conoscenza del testo interpretato.

Possiamo quindi affermare che per Totò apportare delle variazioni e degli ampliamenti alla staticità del testo significava personalizzare la storia, rendendola aderente alla propria maschera, facendo sembrare improvvisato ciò che in realtà è già esitente. C'è all'interno del comico, una sorta di contenitore nel quale sono conservati tutti i materiali scenici occorrenti allo spettacolo, identificabili nei lazzi, nelle battute, nelle mimiche, nella rapidità delle battute, utilizzabili in tempo reale durante lo spettacolo per inglobarli nella sequenza recitata.

Totò amava «rompere il testo in presenza degli spettatori», un componente senza il quale non poteva improvvisare. Sapeva anticipare le aspettative del pubblico ed aveva imparato ad ascoltarlo.


Vincendo l’istintiva riluttanza egli accettò di recitare la parte d’un Dante impazzito di dolore, durante un suo ritorno sulla terra sconvolta. La scena, deviando dal grottesco iniziale, si faceva improvvisamente seria e si concludeva con alcune drammatiche battute. Il pubblico, sorpreso dalla straordinaria bravura di un così insolito Totò, scattò alla fine in un entusiastico, prolungato applauso. Per due o tre rappresentazioni le cose andarono così, ma una sera Totò sentì il bisogno di scagliare un sasso contro il cristallo incantato che si levava fra lui e il pubblico, quasi vergognoso che qualcuno potesse leggergli nel cuore, e subito dopo la battuta drammatica fece echeggiare nella sala, silenziosa e commossa, un sonorissimo sberleffo. Fu un delirio. La gente piangeva e rideva e gli gridava freneticamente: ‘Bravo!’

Michele Galdieri


In questo particolare esempio Totò riesce a rompere repentinamente l'atmosfera dell'inferno dantesco, nel quale il pubblico apprezza la bravura dell'attore nell'inedita veste drammatica, virando il pathos in allegria, producendo il sonoro sberleffo. Il merito di questo incanto che si creava negli spettacoli in teatro, andava equamente diviso tra lo stesso Totò ed il suo pubblico presente in sala, il quale era oggetto di attento studio e di ascolto da parte del comico, per poi determinare i vari cambiamenti al copione. Poteva accadere che da una città all'altra, i cambiamenti dello stesso scketch fossero molto evidenti. Dipendeva, appunto, da suggerimenti che il pubblico riusciva a dare a Totò e dove lui riusciva a portarlo.

L'importanza del pubblico

Il rapporto col pubblico raggiunse, col passare degli anni, livelli sempre più alti. I confronti quotidiani sulla scena, le occasionali provocazioni, erano motivo di stimolo per perfezionare il racconto, oltre che per un miglioramento personale come attore.


Mi ricordo quello che accadde un giorno al Verdi di Firenze, nel 1941. Era una domenica, si facevano due spettacoli e Totò dice a me e a Mario Castellani: "Ecco, nel pomeriggio io faccio ridere di testa e stasera faccio ridere di petto". Impostava la battuta in un certo modo per cui il pubblico rideva di petto, oppure la impostava in un altro modo e ridevano di testa. E qua bisogna essere fenomeni...

Gianni Cajafa (attore nella compagnia di Totò)


Della vitale importanza del pubblico teatrale, negli anni del cinema Totò ne patirà la mancanza. Allo scopo, per capire nell'immediato l'efficacia di una scena, il pubblico venne rimpiazzato con le maestranze presenti nei vari set. Un altro episodio che conferma quanto scritto, è il piumetto da bersagliere che gli fu lanciato sul palcoscenico, a metà degli anni '40, al termine di una rappresentazione della rivista "Eravamo sette sorelle". Raccolse il piumetto, lo infilò nella bombetta, e si produsse unitamente all'orchestra, con al seguito tutta la Compagnia, nella passarella finale al ritmo della marcia dei bersaglieri. Questo gesto anarchico rispetto alle rigide regole del teatro, andrà avanti fino all'ultimo giorno in cui Totò calcherà le tavole di un palcoscenico. In questo caso, possiamo affermare che il pubblico ha suggerito a Totò l'arricchimento della scena conclusiva della rivista, creando un coinvolgimento fisico ed emotivo con il suo pubblico.

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«L'Unità», 18 agosto 1995

In conclusione possiamo affermare che l'improvvisazione ha il tempo metronomico della musica: non si prescinde dal fatto che una determinata scena avvenga esattamente in quel preciso istante, sia da parte del capocomico che di tutta la compagnia e il tutto presuppone una perfetta ed accurata conoscenza del testo da seguire. Come nella musica, sarebbe inconcepibile un "fuori tempo" da parte di uno dei componenti della Compagnia, tantomento della "spalla" sempre determinante per il lavoro creativo del Totò teatrale e fondamentale, come vedremo poi, per il Totò cinematografico. In questo ruolo, irrinunciabile nell'arte comica di Totò, nel periodo teatrale gli si affiancarono Eduardo Passarelli, Guglielmo Inglese, Enzo Turco, ecc. ma solo Mario Castellani fu in quel ruolo colui che riuscì meglio, anche per la profonda conoscenza dei tempi tecnici di Totò (lavorarono insieme dagli anni '20 fino al 1967); successivamente altri grandi attori hanno lavorato come co-protagonisti con Totò (De Filippo, Fabrizi, De Sica, Taranto, Macario, ecc.) ma vanno senz'altro considerati come partner al suo pari.

Se il tempo della "spalla" si fosse sovrapposto a quello di Totò (oppure il contrario), o Castellani si fosse strettamente attenuto al canovaccio, Totò non sarebbe stato in grado di rompere il filo della scena con le sue invenzioni, pur considerando il rispetto da parte della "spalla" delle battute stabilite in modo di dare modo all'altro attore di chiudere lo sketch in maniera adeguata.


Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato... il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico... si diventa una cosa sola col pubblico. Infatti quando facevo teatro volevo molta luce, perché mi piaceva vedere la sala, e vedere che il pubblico, la maggioranza del pubblico, faceva le facce secondo quello che dicevo io, secondo la faccia che facevo io... Insomma c'è una comunicazione che si forma, cosa che non accade con il cinema dove c'è solo una macchina, ma non c'è nessuno, ci sono solo uomini che lavorano, che magari mi guardano, ma guardano me superficialmente, come guardano altri.
Poi in teatro, modifichiamo le battute, le intonazioni della voce, e quindi alla seconda, alla terza recita abbiamo già migliorato tante cose. Avevo come spalla Mario Castellani o Eduardo Passarelli, sempre loro, affiatati, mi capivano. La spalla è importante! Segue l’attore comico, si affiata, lo capisce, lo sente. Castellani ha lavorato con me molti anni sia nel teatro che nei film. In teatro era veramente molto bravo. Io poi quando facevo le riviste non andavo mai a provare, perché io non posso provare, e allora lui provava per me. Non posso provare e le dico perché: sono, direi, spontaneo, un istintivo, e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica e il risultato è qualcosa di meccanico, non più spumeggiante. E così io andavo sul palcoscenico gli ultimi due giorni, tre giorni, per vedere solamente le entrate e le uscite, senza sapere una parola del copione, andavo molto a orecchio, a suggeritore, e poi il secondo giorno io toglievo il suggeritore, lo mettevo tra le quinte, e poi dopo tre o quattro giorni spariva del tutto. Quindi all’inizio recitavo sul suggeritore e quello che arrivava era quasi nuovo, e su quel nuovo andavo avanti e recitavo e andavo avanti e fissavo i lazzi. Infatti la prima sera lo spettacolo andava benissimo, la seconda calava, la terza calava ugualmente, la quarta cominciava a salire perché si piazzano tutte le battute, tutte le intonazioni e cosi via... Intanto il suggeritore prendeva appunti, e il copione diventava copione sul serio, non più un canovaccio Lo sketch del vagone-letto durava dieci minuti la prima sera, dopo tre mesi durava un’ora, tutto lazzi e battute.

Antonio de Curtis


Le improvvisazioni di Totò erano meno di quelle che si pensa, le scene erano provate e riprovate in camerino con gli altri attori che facevano da spalla, era tutto studiato, improvvisava solo nei finali. Diceva che non si fa ridere al mattino, girava in quello che si chiama l’orario francese, dalle 13 alle 21. Non andava mai a vedere i giornalieri, il lavoro del giorno. Ogni tanto si vestiva da principe De Curtis, col blazer e il foulard, e si rivedeva in sala di proiezione: il principe era il primo ammiratore di Totò.

Enrico Vanzina, 2008


Fo narra Totò

Totò utilizza tutte le tecniche del vecchio teatro tradizionale e popolare. Ricorre spesso a un partner chiamato spalla. Questo partner gli dà la battuta, gli fa da contrappunto, per le ripetizioni e i rimbalzi necessari al discorso comico. Ma non serve unicamente a dargli la battuta, a recitare in contrappunto, a fare da controscena: è prima di tutto un punto d’appoggio. Lo stesso termine “spalla” deriva dall’atleta che, nel salto pericoloso, offre all’acrobata una possibilità d’appoggio, di rimbalzo, che in qualche modo lo spinge e lo proietta in avanti. È cosi che Totò utilizza la spalla e sempre mirabilmente. C’è per esempio un pezzo celebre, quello delle lacrime, della tristezza. Totò ascolta un partner leggere qualcosa. Il partner si interrompe bruscamente e il suo viso esprime un dispiacere, un dolore. Totò coglie al volo questo dolore, lo spinge al parossismo e dà nuovo sviluppo all’azione a partire da questo dolore di cui non conosce il senso. Diventa la maschera spaventosa e grottesca di un dolore sconosciuto che imita. E questo dramma, dietro al quale c’è il vuoto della conoscenza, diventa enorme. (...)

Totò aveva il dono di improvvisare, di recitare su canovaccio. Lo si vede perfino nei suoi film, per esempio in Totò Tarzan: gli attori durante le riprese cinematografiche, cioè dopo aver debitamente provato, scoppiano a ridere, si trattengono, si nascondono il viso, parlano tra di loro in modo da non far vedere che Totò con le sue improvvisazioni li ha trasformati in spettatori: ha fatto dimenticare loro il ruolo che avevano come attori.

Spesso ci si domanda come Totò abbia potuto salvare dei film con delle sceneggiature ignobili, grossolane, di terzo ordine, che si potrebbero definire incolte, senza gusto, volgari. Li ha salvati capovolgendoli. Ne ha distrutto furtivamente la storia giocando sulla situazione. È partito dalla situazione sulla quale poggia tutta la storia e l’ha spinta fino al parossismo con colpi di scena, contraddizioni, spaccature, sviluppi sempre più paradossali.

Altro elemento importante è la recitazione basata sugli equivoci. Totò crede di vivere una situazione data, di parlare di un soggetto dato — mentre si tratta di tutt’altra cosa. Spinge allora il qui prò quo all’estremo. C’è anche il gioco della paura con il capovolgimento della situazione per la rivincita sulla paura. Anche la recitazione sulla felicità ha un equilibrio precario: si mette a ridere mentre ha la morte nel cuore per fronteggiare una situazione che diventa pericolosa. È insomma la recitazione del ridere simulato, della finta cordialità che distrugge, per lui stesso prima di tutto, l’idea del dramma imminente. Sono queste alcune costanti del teatro di Totò.

Totò non rispetta assolutamente il testo. Si può anche dire che è un massacratore di testi. Il celebre sketch del Vagone letto durava all’origine 8 minuti. Era un testo completo, strutturato, con le sue battute, le sue gag e le sue controgag. Poco per volta si è sviluppato: 20 minuti, poi 25 fino all’ultima rappresentazione che durava 50 minuti e in questa versione è stato ripreso per il cinema.

Non bisogna pensare che si tratta di uno sketch forzato, che ha dei momenti vuoti. Si è trasformato fino nella sua struttura: erano i pretesti, le variazioni, i tormentoni, i lazzi, le battute che diventavano la sua nuova struttura, e la storia si svuota della sua importanza, non ha più senso. L’importante è il concatenarsi delle invenzioni, delle trovate, delle ripetizioni. È questo che sostiene il testo: la sovrastruttura diventa la struttura stessa del testo drammatico.

Ma c’è un equivoco sul gioco teatrale di Totò. Si è detto che è un attore che necessita di molta libertà, una specie di anarchico della scena, che ha bisogno di uscire dal testo, di rientrarci, di frantumarlo, di farlo a pezzi. Bisogna essere prudenti su questo punto. Totò inventa, ricostruisce, farcisce di sue invenzioni i testi che non si reggono da soli. Si tratta di brutti pezzi teatrali, di orribili sceneggiature. Quando d’altra parte trovava una struttura solida, un testo che si sosteneva da solo, ecco che diventava di un rigore, di una puntualità estremi... non sviava di una virgola, di un tempo, di uno spazio, di un respiro.

Totò inizia la sua carriera comica dal basso, nel ruolo di marno, dico marno e non mimo. Il marno è al servizio degli altri attori. È un genere, un personaggio caricaturale che non sempre è un comico. Non parla, riceve gli schiaffi e gli sgambetti. La grande novità sta nell’origine insignificante del qui prò quo iniziale. Man mano Totò acquista importanza fino a diventare il più grande comico italiano degli ultimi cinquant’anni. Totò non ha mai fatto fiasco. Ci sono stati alcuni spettacoli dagli inizi difficili, altri spettacoli costruiti male, a volte al limite del catastrofico. Ma dopo 5, 10 o 15 giorni lo spettacolo esplodeva giacché Totò si era
messo a lavorarci dall’interno, con un’assiduità a volte paradossale. Reintroduce-va tutti i materiali a sua disposizione, sia che fossero acquisiti attraverso la sua esperienza o ricevuti dalla tradizione dei grandi attori, sia forse — a sua insaputa perché non era un intellettuale — acquistati dalla commedia dell’Arte o dal teatro comico greco-latino. Questo considerevole bagaglio gli permetteva di rimettere in piedi lo spettacolo venuto male e di portare allo stesso livello di successo del teatro la rivista, il varietà. Ha sempre messo in prima fila il varietà, vale a dire la farsa, la grossolanità, la violenza, il sogghigno e la provocazione.

Oggi, molti anni dopo il successo di Totò a teatro, l’interesse per Totò rinasce, soprattutto nei giovani. I giovani hanno riscoperto tutto quello che forse non si è capito di lui da vivo, cioè la portata ideologica, politica, la forza persuasiva dei momenti che rappresentano il contatto con la realtà, con il potere.

Bisogna partire dal sistema da lui usato per costruire le sue rappresentazioni. Ho detto che la storia lo interessava meno della situazione. Prendiamo per esempio La camera fittata a tre, farsa famosa che è stata ripresa con un altro registro e con un altro titolo nel Vagone letto. La situazione di base è sapere chi riuscirà ad appropriarsi del letto o della cuccetta. Ci si dimentica di questo dato, ne viene in primo piano un altro: il conflitto tra il pover’uomo, che arriva con una valigia legata con una corda senza posto per dormire (Totò), e il deputato, col quale si scontra, che è l’uomo di potere, è il potere stesso, il potere in assoluto. Poco a poco Totò lo distrugge. Con quali mezzi? Con piccoli gesti, prese in giro, ironie, lo tocca, gli starnuta in faccia, deforma i nomi; è un logoramento continuo. Pezzo per pezzo lo distrugge, per buttarlo fuori alla fine con le sue valigie, dalla finestra del treno. Ha vinto. L’essenziale non è più l’impossessarsi di un letto, ma distruggere il potere.

Siamo passati su un altro registro attraverso una serie di piccoli fatti che diventano mostruosi, smisuratamente ingranditi fino al paradosso.

Dario Fo


Il cinema: la troupe e gli attrezzisti come pubblico

Sui set cinematografici non poteva esistere l'innesco che determinava l'esplosione dell'entusiasmo del pubblico e di conseguenza il successo immediato della rappresentazione: il contatto attore-pubblico. Nell'ambiente freddo e distaccato del set cinematografico veniva quindi ricreato il pubblico, composto dalle maestranze e dagli addetti ai lavori, utile a Totò per avere la prova diretta ed immediata della qualità del girato.


Per dargli la carica, dopo ogni scena, Comencini dava lo stop, la troupe applaudiva e Totò appena sentiva l'applauso era tutto contento e continuava a recitare per la troupe e ne veniva fuori un suo show continuo.

Steno, presente sul set de "L'Imperatore di Capri"


Troppo spesso si identifica Totò come un attore che non segue il copione e che, anzi, ha riscritto e reinventato intere sequenze dei suoi film. Il cinema, al contrario del teatro dove ogni occasione favorevole e sfavorevole può essere immediatamente usata per inventare, manca di immediatezza. Possiamo anzi dire che l'improvvisazione è in antitesi con l'invenzione, la quale si poteva ricreare solo a teatro. Supponendo infatti che esista qualcuno in grado di farlo, tale  dote contrasterebbe con la logica statica della cinematografia, la quale procede per spezzoni, per sequenze non logiche che non ricalcano cronologicamente una sceneggiatura, senza contare ripetizioni della stessa scena, posizioni da mantenere, lunghi tempi morti. La quasi mancanza della prova della sceneggiatura, metodo adottato da Totò in teatro, era più complessa nel cinema per i motivi prima spiegati ma anche in questo caso emerge la grandezza dell'attore, in grado di evitare il più possibile inutili ripetizioni deleterie per la naturalezza e per la spontaneità della scena. Da notare che i film di maggior successo (Miseria e nobiltà, Totò, Peppino e... la malafemmina, San Giovanni decollato, Totò cerca casa, I pompieri di Viggiù) ebbero pochi tagli di montaggio e molti campi lunghi; paradossalmente possiamo definirli film di teatro.


Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare (...). Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara qual'è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.


Non si potevano mai considerare delle vere prove, perché Totò preferiva gettarsi adrenalinicamente allo sbaraglio e dare subito il meglio di sé nell’ansia della creazione immediata.
Stabilito che Totò non poteva inventare niente durante le riprese di un film, dobbiamo tener conto delle numerose testimonianze di chi gli è stato vicino durante la sua trentennale carriera cinematografica. Inoltre Totò ha creato su misura i personaggi cinematografici dalla sua maschera teatrale, adattandoli (o, dove possibile tentando di farlo) ogni volta. Ciò non ha mai permesso all'attore cinematografico di raggiungere la grandezza dell'attore teatrale, sia in termini di energia, sia di creatività. Questo fa capire quanto abbiamo perso non avendo la possibilità di vedere oggi Totò impegnato a teatro.


Sono, direi, spontaneo, un istintivo e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica e il risultato è qualcosa di meccanico, non più spumeggiante.


Riscriveva tutto, altro che improvvisare. Ci chiudevamo nella sua roulotte, lui dettava le battute, Mario Castellani scriveva e poi prove su prove, come a teatro. Quando andavamo davanti alla macchina da presa eravamo padroni del testo e dei tempi. Totò non permetteva a nessuno di cambiare una virgola. L’unico sono stato io, nella scena della mortadella in “Signori si nasce”, e gli scappò da ridere.

Carlo Croccolo (Titta Fiore, il Mattino 6 aprile 2017)


Quando gli fu possibile mantenne la prima maschera ereditata dal teatro, la perse col tempo ma in ogni spezzone di film è sempre presente il teatro di Totò con le sue battute, i suoi sketch.


La "mano" di Totò nel tentativo di migliorare le sceneggiature

Prima di andare sotto i riflettori, Totò aveva già fatto un proprio lavoro di massima sul testo insieme agli autori, che poi veniva condiviso e messo alla prova durante brevi riunioni poco prima che si battesse il ciak. “Di solito prima di andare sul set si andava nel camerino di Totò”, ricorderà Furia, “dove c’era Castellani che leggeva la scena che bisognava girare, Totò sentiva a orecchio se funzionava o meno. Se andava bene diceva: vabbene, e allora facciamo così. Se non gli suonava bene, cosa che succedeva spesso, allora cominciava a dire: ma no, ma qui potremmo dire..., potremmo fare..., io potrei..., tu fai questo..., tu fai quell’altro... E si cambiava”. “Riscrivevamo il copione”, aggiungerà Croccolo, “lui proponeva, poi ognuno di noi faceva delle proposte che lui accettava o meno; metteva tutto insieme come si fa in teatro e poi facevamo i movimenti: provavamo due, tre, quattro volte la nuova versione, e solo dopo aver provato un quarto d’ora, venti minuti, mezz’ora, se c’era il tempo anche un’ora, allora uscivamo dal camerino e andavamo a girare. Quando si usciva fuori, quello che era stato stabilito non solo non si toccava, ma bisognava rispettare i tempi della prova, non si poteva nemmeno ritardare o fare la ‘faccetta’, non si poteva fare niente”. “Si leggeva, poi magari a Totò o Peppino veniva in mente di arricchire un pochino la battuta e lo si faceva”, ribadirà Aroldo Tieri. “Ma quando si rientrava in studio a girare, le battute rimanevano quelle decise. E i pochi ciak che si facevano non variavano molto”.


Passavo molto tempo con lui nella roulotte a suggerirgli i dialoghi. [...] Leggevo dal copione scandendo forte e bene le parole e lui le ripeteva tra sé una per una. Poi però, quando recitava la battuta intera, a voce alta, pronunciava una frase tutta diversa. All’inizio lo correggevo e lui mi faceva si con la testa. Poi, nel riprovare, ne dava un’altra versione ancora. Ne parlai con il regista e si decise di lasciarlo libero di inventare nelle prove di memoria. Ci avrebbe pensato Pasolini durante le riprese a ristabilire il testo originale. Ma non fu cosi. Totò a ogni ciak cambiava sempre qualcosa. Vedevo che il regista spesso non interveniva. In verità Totò non faceva che girare intorno alle frasi per cercare di mettere in bocca al proprio personaggio la battuta più vicina alla sua maschera. Pasolini lo interrompeva poco perché l’attore, pur rigirando la frase, spesso modificandola nei toni, salvava puntualmente tutti i contenuti «informativi» e le metonimie. Ciò significa che nel momento di lasciarsi andare all’improvvisazione non dimenticava neanche per un istante il filo del racconto. Sapeva perfettamente tutto ciò che era successo fino a quel punto e che cosa sarebbe successo nel seguito. I suoi interventi creativi erano diretti alla forma verbale e lasciavano intatta la sostanza narrativa.

Vincenzo Cerami


Non andava mai a braccio, innanzitutto perché al cinema non puoi improvvisare se ci sono altri attori a recitare. Si rischia la paralisi. Ma spesso i copioni che gli davano non gli piacevano, lui allora chiamava tutti quelli che dovevano partecipare a una scena, ci dava carta e penna e ci dettava la scena ripensata da lui. Cambiava il copione, lo riscriveva con noi, poi lo provavamo e così andavamo al ciak preparatissimi. Mario Castellani era il suo principale collaboratore: lo accompagnava anche nella scrittura, era bravissimo, lo aiutava a rivedere i copioni. Totò cambiava ma non improvvisava. Grande professionista, era meticoloso, odiava il dilettantismo di tanti attori.

Carlo Croccolo (Giulio Baffi, Repubblica 13 aprile 2017)


Totò era uno di quelli pignoli, che provava tutto, anche i respiri.

Carlo Croccolo


«Erano film semplici, anzi filmetti spesso «ma erano anche una grande scuola professionale: sfido chiunque oggi a girare senza interruzione scene che durano un quarto d’ora come facevamo noi sui set con Totò e Peppino. Dei veri atti unici. Come accadeva in Letto a tre piazze. Steno piazzava la macchina e noi quattro andavamo avanti senza interruzioni».

A braccio?

«Macché! Era tutto scritto. E da grandi autori, gente come Marcello Marchesi, come Jurgens e come Metz. Non è affatto vero che si improvvisava. Tutt’al più, prima di girare, ci vedevamo nel camerino di Totò e ripassavamo le battute».

Nessuna aggiunta o correzione?

«A volte veniva in mente qualche ritocco a Totò o a Peppino. E, naturalmente, lo facevamo. Lavorare con loro è stato formidabile. Mi ha dato un senso dei tempi comici che non ho più dimenticato. Totò era fantastico e Peppino aveva dei momenti di vera genialità. Un attore irresistibile, come in quella famosa scena della lettera in Totò, Peppino e la malafemmina. Totò conduceva, ma Peppino si inseriva negli spazi con una precisione, con una mimica, uno sguardo fantastici».

Aroldo Tieri (Marco Molendini, «Il Messaggero», 26 luglio 1998)


Spesso o quasi sempre, in particolare nella seconda metà del suo periodo cinematografico, Totò non era soddisfatto delle sceneggiature. Qui entrava in gioco il suo estro, la capacità di trovare un aspetto almeno decente nell'insulsità e nella banalità delle maggior parte delle scritture a lui sottoposte; riadattava il tutto alla sua maschera, tenendo conto degli attori al suo fianco. Tecnicamente Totò effettuava un'ulteriore revisione successiva a quelle apportare dagli sceneggiatori, come detto spesso di livello veramente basso. Dava un senso a quello che sarebbe stato poi girato, un'essenza logica, creativa e comica senza le quali oggi molti film senza la sua presenza e il suo intervento rimarrebbero sicuramente sconosciuti. Film realizzati in poche settimane ritenuti accettabili solo per la presenza di un grande attore come Totò e dall'influenza che ebbe il teatro, quasi sempre riporoposto nei suoi film. Società cinematografiche sull'orlo del fallimento si salvarono girando film con la presenza di Totò, produttori che ingaggiavano il comico per garantirsi ottimi incassi senza particolari sforzi. Ciò, come detto, determinava la scrittura di sceneggiature mediocri, spesso al limite della decenza.

Dopo la riscrittura, spesso avveniva l'improvvisazione, quando Totò era accompagnato da partner ben disposti a seguirlo, vecchi compagni di lavoro provenienti dal varietà, dall'avanspettacolo o dal teatro popolare, come De Vico, Turco, Passarelli, Giuffrè, De Filippo, ecc, dove si sopravviveva se si era capaci, in tempi brevi, di trovare una rapida soluzione in caso di cambiamento previsto dal copione. Nel caso il compagno fosse un attore proveniente dall'Accademia di Arte Drammatica (il caso di Nino Manfredi nel film Operazione San Gennaro), Totò si premurava di "avvisarlo" di ogni variazione rispetto alla traccia imposta dal copione. Per attori dilettanti, alle prime armi o di provenienza esclusivamente cinematografica, recitare con Totò poteva essere un'esperienza negativa: una variazione di tono, la modifica di una battuta potevano condizionare la loro concentrazione negativamente. Enzo Biliotti, per esempio, ebbe difficoltà nel concludere la scena dei timbri nel film Totò cerca casa, data la prorompente vitalità di Totò nella specifica scena. Anche Andreina Pagnani ne Il comandante ebbe difficoltà in qualche sequenza per gli imprevisti cambi di tono o del testo da parte di Totò.


Totò era uno di quelli pignoli, che provava tutto, anche i respiri, anche i tempi, anche i movimenti, perchè diceva che il tempo comico è praticamente come la musica, dev'essere quadratissimo, talmente veloce da non far prevedere la battuta comica, però sufficientemente lento da farla capire. E' un tempo ideale difficilissimo da raggiungere. E infatti non tutti sanno far ridere.

Carlo Croccolo


C’è anche, è vero, qualche gustosa occasione in cui Totò si diverte a spiazzare gli altri attori, a far loro qualche tiro birbone, soprattutto se sono più giovani, proponendo loro azioni o battute non annunciate (ma che lui aveva già deciso), e ricevendo in cambio occhiate perplesse o insopprimibili sbuffi di risa; un esempio delizioso è la Gianna Maria Canale che si volta a guardare tecnici e macchina da presa quando Totò, in un guizzo parodico, mastica e quasi divora la sigaretta che sta fumando in Totò le Mokò. Con partner più navigati come Peppino, De Sica, Passarelli, Pavese ed Enzo Turco, lo stesso gioco assume invece i contorni di una continua sfida comica, in cui si tratta di rimpallarsi un dialogo mantenendosi grosso modo all’interno della sceneggiatura, con un risultato che dovrà sembrare fresco e inedito ma che è in realtà costruito attraverso l’assemblamento di gesti e motti di spirito già sperimentati mille volte, e con i pubblici più cattivi. Il termine ‘improvvisazione’ va quindi inteso non solo come metodo ma anche e soprattutto come risultato: l’abilità dell’attore consiste nel camuffare il più possibile un lavoro di ricuciture, il gesto o la battuta inserita non deve tradire la provenienza da un repertorio ma sembrare al contrario spontanea.


Di solito prima di andare sul set si andava nel camerino di Totò dove c'era Castellani che leggeva la scena che bisognava girare. Totò sentiva a orecchio se funzionava o meno. Se andava bene diceva: vabbene, e allora facciamo così. Se non gli suonava bene, cosa che succedeva spesso, allora cominciava a dire: ma no, ma qui potremmo dire..., qui potremmo fare..., io potrei..., tu fai questo..., tu fai quell'altro... E si cambiava.

Giacomo Furia


L'unico parallelismo che possiamo fare con il Totò attore teatrale, è quello della dilatazione degli spazi recitativi per trovare una propria definizione, adattare e avvicinare il soggetto alla propria maschera. In ogni film, possiamo dire, Totò si crea un proprio spazio nell'interno del quale si svolge la "sua" storia.

In molti casi il cambiamento inaspettato risiedeva solo nell’intonazione, un altro dei trucchi in cui l’attore era maestro, attraverso cui riusciva a rendere diversa a ogni ciak una battuta testualmente identica. Totò non stravolgeva mai il copione, la sua era una sperimentazione cauta, ingabbiata in una struttura definita. Quando, più avanti, la perdita della vista gli impedirà di studiare il copione confrontandosi personalmente con la pagina scritta, sarà comunque sempre in grado di mantenere il senso complessivo della frase modificandone solo la forma, l’espressione (se ne accorgerà Vincenzo Cerami sul set di Uccellacci e uccellini), in modo da salvare i contenuti essenziali alla comprensione della narrazione e da mantenere al partner un sufficiente aggancio per le sue battute.


Riscrivevamo il copione, lui proponeva poi ognuno di noi faceva delle proposte che lui accettava o meno; metteva tutto insieme come si fa in teatro e poi facevamo i movimenti: provavamo due, tre, quattro volte la nuova versione, e solo dopo aver provato un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, se c'era il tempo anche un'ora, allora uscivamo dal camerino e andavamo a girare. Quando si usciva fuori, quello che era stato stabilito non solo non si toccava, ma bisognava rispettare i tempi della prova, non si poteva nemmeno ritardare o fare la "faccetta", non si poteva fare niente.

Carlo Croccolo


Va considerata quindi una leggenda, un falso mito, quello che vedeva Totò stravolgere i copioni cinematografici; si tratta di una semplificazione buona a impressionare il pubblico confondendolo ancora di più: se fosse rispondente a verità sminuirebbe Totò e il suo lavoro. Totò non inventava nulla e per invenzione abbiamo ben spiegato precedentemente il significato.


Poteva anche essere un difetto, aggiungere gag e allungare le sequenze. Lui stesso diceva a Corbucci: “Sai, noi la facciamo, se poi viene troppo lunga, ppù”. Il suo famoso “ppù” stava per “zac”, un taglio e via. Cosa che succedeva perché non si fermava più. Parecchie volte la scena veniva spezzettata, da una frase compiuta a un’altra si saltava attraverso un controcampo, qualche “ascolto”, si ritornava su di lui e il gioco era fatto. C’era il suo benestare, anzi lo suggeriva lui stesso...

Enzo Barboni (direttore della fotografia)


Non andava mai a braccio, innanzitutto perché al cinema non puoi improvvisare se ci sono altri attori a recitare. Si rischia la paralisi. Ma spesso i copioni che gli davano non gli piacevano, lui allora chiamava tutti quelli che dovevano partecipare a una scena, ci dava carta e penna e ci dettava la scena ripensata da lui. Cambiava il copione, lo riscriveva con noi, poi lo provavamo e così andavamo al ciak preparatissimi.

Mario Castellani, 1973


Inventava continuamente la parte, le intonazioni, non le battute; inventava continuamente il personaggio.

Mario Monicelli


Qualche parola, non di più. Al massimo un’espressione, un gesto, un’occhiata. Nel cinema era di un rigore assoluto.

Isa Barzizza


Riferimenti e bibliografie:

  • Giacomo Gambetti, Intervista con Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Garzanti, Milano 1966, p. 243
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • "Consigli a un giovane scrittore", Vincenzo Cerami, Mondadori, 2010
  • Michele Galdieri, "Il pudore di Totò", L’illustrazione Italiana, dicembre 1948-gennaio 1949
  • Alfonso Madeo, Totò a scatola chiusa, Corriere della Sera, 20 settembre 1964
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "I film di Totò, 1930-1945: l'estro funambolo e l'ameno spettro" (Alberto Anile), Le Mani-Microart'S, 1997
  • "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
  • Gianni Canova, "Totò: ottanta film, ma ne ricordo solo uno", Il giorno, 19 febbraio 1962; sull’argomento si veda Premessa sull’improvvisazione in Alberto Anile, I film di Totò, cit., pp. 13-28 con le testimonianze all’a., qui in parte riprese, di G. Furia (1995), I. Barzizza (1995), C. Croccolo (1995), M. Monicelli (1995), A. Tieri (1995)