I due orfanelli
Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsanera, la borsanera rifà il denaro e il denaro rifà la guerra.
Gasparre
Inizio riprese: estate 1947, Stabilimenti Titanus, Roma
Autorizzazione censura e distribuzione: 26 novembre 1947 - Incasso Lire 170.300.000 - Spettatori 2.365.278
Titolo originale I due orfanelli
Paese Italia - Anno 1947 - Durata 90 min - B/N - Audio sonoro - Genere Commedia - Regia Mario Mattoli - Soggetto Agenore Scarpelli (Age), Steno, Jean Jacques Rastier - Sceneggiatura Age, Steno, Jean Jacques Rastier - Produttore Excelsa, Roma - Fotografia Jan Stillich, Tino Santoni - Montaggio Ferdinando Tropea - Musiche Eldo Di Lazzaro diretta da Pippo Barzizza - Scenografia Gastone Medin, Roland Quignon - Costumi Maria De Matteis
Totò: Gasparre - Carlo Campanini: Battista - Isa Barzizza: Matilde - Nerio Bernardi: il duca Filippo - Raymond Bussières: Il signor Deval - Franca Marzi: Susanne de la Pleine - Ada Dondini: Direttrice dell'orfanotrofio - Guglielmo Barnabò: il giudice - Annette Poivre: La chiromante Madame Therese - Galeazzo Benti: Giorgio, l'ufficiale - Mario Castellani: il maggiordomo - Raimondo Vianello: un ufficiale - Ughetto Bertucci: il generale - Luigi Almirante: il boia di Parigi - Dina Romano: la domestica del boia - Luigi Erminio D'Oliva: Napoleone III - Achille Maieroni: il segretario di Napoleone - Totò Mignone: il cinese - Paolo Ferrara: il custode del parco - Irene Genna: una collegiale - Vera Bergman: una collegiale - Giorgio Capecchi: il direttore del club - Lionelli Zanchi: il cameriere del club - Mario Besesti: la voce narrante - Nico Pepe: L'abate Faria
Soggetto
Parigi, epoca del secondo impero napoleonico. In un collegio di orfanelle Matilde, una delle ragazze, è innamorata di Giorgio, un ufficiale che la vede clandestinamente, senza che la direttrice lo sappia. Il loro matrimonio è però ostacolato dalla famiglia di Giorgio per via delle origini sconosciute della povera Matilde. Intenzionata a scoprire la verità, incarica gli inservienti Gasparre e Battista (anche loro orfani dei genitori) di recarsi da una chiromante con una ciocca dei suoi capelli per scoprire le sue origini. Gasparre perde però questa ciocca, rimpiazzandola con una propria. Egli viene così a scoprire le proprie origini nobiliari. Recatosi alla casa del Duca suo zio per reclamare la propria eredità viene accolto con apparente benevolenza, mentre nel buio i famigliari ordiscono la trama per eliminare il nuovo pretendente. Dopo una ripetuta serie di fallimenti, Gasparre cade nella trappola, sedotto da Susanne de la Pleine ed è costretto a battersi in duello; la fortuna lo accompagna ancora una volta e riesce a salvarsi per una provvidenziale battaglia.
Attirati poi con l'inganno in un noto night club parigino, vengono coinvolti in un attentato ai loro danni e riescono miracolosamente a fuggire nelle fogne di Parigi dove incontrano l'abate Faria, anch'egli evaso e con lui tentano di risalire in superficie: sfortuna vuole che i tre si trovino ad emergere in una stanza del palazzo reale dove Napoleone III sta posando per un quadro. Convinto che siano dei cospiratori della corona, l'Imperatore ordina il loro arresto: Battista riesce a fuggire, mentre Gasparre viene catturato, imprigionato e condannato a morte come cospiratore. Tornato al collegio confessa l'accaduto alla direttrice che gli consegna l'indirizzo di suo padre e una medaglietta che aveva un tempo per riconoscimento. Giunto alla casa del padre, egli scopre che il proprio genitore non è un nobile né un musicista come egli aveva sempre ritenuto, ma è in realtà il boia di Parigi e lo coinvolge per aiutarlo a salvare l'amico Gasparre, condannato alla ghigliottina. Il giorno dell'esecuzione, dopo una serie di rocamboleschi tentativi di salvare l'amico, si scopre che in realtà la vicenda è tutta un sogno e la vita trascorre come sempre al collegio.
Critica e curiosità
Mario Mattoli si trovò nel fatidico 1947 dinnanzi a un dilemma che definire amletico sarebbe forse un'esagerazione, ma che certamente gli avrà tolto qualche ora di sonno (o forse no, chi può dirlo?). L'oggetto del contendere, il fulcro attorno al quale tutto doveva ruotare, era nientemeno che il Principe della Risata, Antonio de Curtis, in arte Totò. Ah, Totò! Già reduce dai fasti del teatro di rivista, dove il suo nome era sinonimo di folle plaudenti e risate a crepapelle, ma, "orrore e raccapriccio", non ancora abbastanza "pesante" da solo sul piatto della bilancia cinematografica per convincere quei cuori di pietra (e di portafoglio) dei produttori. Sì, avete capito bene: nel '47, Totò, "quel" Totò, aveva bisogno, per così dire, di una "spalla" per rassicurare gli investitori. Sembra incredibile, vero? Eppure, così andavano le cose nel dorato (ma anche un po' arrugginito) mondo del cinema nostrano post-bellico.
Mattoli, volpone dal fiuto fino, che aveva già avuto modo di apprezzare le funamboliche doti del Nostro calcando i polverosi palcoscenici della rivista, decide di puntare sul cavallo Totò per il suo "I due orfanelli". Ma, da uomo prudente e avveduto quale era (o forse solo memore delle summenzionate ritrosie produttive), pensa bene di affiancargli un compare di comprovata affidabilità comica: Carlo Campanini. Un nome, una garanzia! O quantomeno, una garanzia che i due insieme avrebbero potuto combinare qualcosa di buono, visto che già nel '45 avevano condiviso il set, seppur in circostanze belliche e cinematograficamente meno memorabili, per "Il ratto delle Sabine". La coppia era formata, il primo tassello, quello fondamentale degli interpreti maschili, era al suo posto. Il progetto poteva iniziare a prendere forma, ma mancavano ancora elementi cruciali.
Avanti il prossimo! Chiusa la pratica "attori protagonisti" (con Totò relegato, per ora, a un ruolo di co-primadonna suo malgrado), Mattoli si lancia nella ricerca del secondo ingrediente fondamentale per ogni commedia che si rispetti (e che aspiri a riempire le sale): la "soubrette". La figura femminile capace di portare un tocco di grazia, pepe e, perché no, un po' di "glamour" tra le gag dei due mattatori. E dove scovarla, se non nel suo habitat naturale, il teatro? L'occhio esperto del regista cade su una giovane, freschissima (appena diciottenne!) pulzella che si esibiva al Teatro Quirino di Roma nello spettacolo "Le educande di San Babila", al fianco di Macario e delle sorelle Nava. Il suo nome? Isa Barzizza. Mattoli, novello Pigmalione della celluloide popolare, intravede in lei il potenziale della stella e, senza indugio, le offre la parte della collegiale innamorata. E già che c'era, con un colpo da maestro che mescola fiuto artistico e forse un pizzico di pragmatismo familistico, mette sotto contratto pure il padre della fanciulla, Pippo Barzizza, affidandogli nientemeno che le musiche del film. Un pacchetto completo, insomma. Famiglia sistemata, film musicato, soubrette assicurata. "Chapeau", Mattoli!
A questo punto, con gli attori principali scritturati e la quota rosa assicurata (e musicata), rimaneva da affrontare il nodo cruciale: cosa diavolo far fare a questa allegra brigata? Su quale canovaccio imbastire le loro gesta comiche? Mattoli, che contemporaneamente stava lavorando a un'opera ben più seriosa e dai toni foschi, il polpettone ottocentesco "Il Fiacre n. 13", si chiede come sfruttare quelle scenografie sfarzose e quei costumi d'epoca che già aveva a disposizione. L'idea brillante (o forse solo economicamente vantaggiosa) è quella della parodia. Ma parodia di cosa? Del "Fiacre" stesso? Troppo facile, forse troppo auto-referenziale. Meglio pescare a piene mani dal calderone del "feuilleton", quel genere letterario ottocentesco fatto di intrighi, passioni, agnizioni, cattivi perfidi e buoni perseguitati che tanto aveva appassionato le masse popolari.
Per dare forma a questa intuizione, Mattoli si rivolge a due giovani virgulti della scrittura umoristica, all'epoca impegnati a far sorridere dalle colonne dei giornali e dalle onde della radio: Age e Steno. Al secolo, Agenore Incrocci e Stefano Vanzina. Due nomi che, di lì a poco, avrebbero segnato indelebilmente la storia della commedia all'italiana, ma che in quel momento erano, chi più chi meno, agli albori della loro carriera cinematografica. Age, addirittura, era alla sua primissima esperienza con la settima arte (e presto avrebbe trovato in Scarpelli il sodale perfetto per decenni di successi). Steno, invece, qualche passo nel cinema l'aveva già mosso, contribuendo persino a uno "scombiccherato" (parola del testo originale, non mia!) film con Totò, "Due cuori fra le belve" del '43, e preparandosi a formare una coppia registica di successo con Monicelli.
Questi due baldi giovani, convocati da Mattoli alle sette del mattino (un orario che oggi farebbe inorridire qualsiasi sceneggiatore degno di questo nome), si mettono al lavoro con la foga e l'incoscienza della gioventù. In appena tre ore, prima che il regista dovesse tornare sul set del ben più compassato "Fiacre", devono tirare fuori un'idea. Scartata l'ipotesi di parodiare direttamente l'opera "seria" di Mattoli, decidono di "reinterpretare" (leggi: saccheggiare allegramente) altri classici del romanzo d'appendice. Il titolo stesso è un programma: "I due orfanelli", che fa il verso, neanche troppo velatamente, a "Le due orfanelle" di Adolphe D'Ennery, un drammone strappalacrime che aveva fatto versare fiumi d'inchiostro e di pianto. Ma Age & Steno non si fermano qui. Nel loro frullatore creativo finiscono pezzi di Eugène Sue ("I misteri di Parigi"), Alexandre Dumas ("Il conte di Montecristo") e persino Robert Louis Stevenson ("Il club dei suicidi"). Il tutto condito da un gusto per il contrasto, l'assurdo, l'accumulazione sfrenata, la contaminazione senza ritegno e, "dulcis in fundo", una spruzzatina di Laurel & Hardy, citati esplicitamente in una scena di tortura che ricalca quella de "La ragazza di Boemia". Un patchwork narrativo, un monumento allo spirito scanzonato e irriverente che prendeva a schiaffi la seriosità dei modelli originali.
La produzione del film beneficia, come accennato, di parte del cast tecnico e artistico già impegnato sul set del "Fiacre". Un'economia di scala degna di nota. Troviamo così alla direzione della fotografia il celebre operatore ceco Jan Stallich, uno che aveva illuminato pellicole come "Estasi" di Machaty e "L'assedio dell'Alcazar" di Genina. Mica pizza e fichi! E tra gli attori, ritroviamo volti noti come Raymond Bussières, Guglielmo Barnabò e Thérèse Dulac. Ma "I due orfanelli" è anche un trampolino di lancio: segna l'esordio (in una particina quasi invisibile da ufficiale) di un futuro gigante della TV e del cinema italiano, Raimondo Vianello. E, cosa ancora più curiosa, vede il debutto di Osvaldo Natale, che passerà alla storia con il nome d'arte di Dino Valdi e diventerà la controfigura ufficiale di Totò. Talmente bravo a imitarlo che finirà per sostituirlo in alcune scene del film, mentre il Principe era impegnato a portare in tournée il suo spettacolo teatrale. Immaginate la scena: Totò in teatro, Valdi sul set a fare Totò. Il metacinema prima del metacinema!
Mattoli, osservando tutto questo – la chimica tra i protagonisti, l'estro improvvisativo di Totò, la risposta del pubblico potenziale – capisce di avere tra le mani non solo un film, ma un vero e proprio "fuoriclasse" della comicità. Galvanizzato, cerca di battere il ferro finché è caldo e propone ai soliti, diffidenti produttori un altro progetto con l'attore napoletano. Ma niente da fare. I signori del denaro, evidentemente scottati da precedenti esperienze o semplicemente miopi, rifiutano. E fanno male, malissimo! Perché, "ah, l'ironia della sorte!", mentre il serioso e costoso "Fiacre n. 13" (diviso in due parti, "Delitto" e "Castigo", poi frettolosamente rimontato in un'unica pellicola per tentare di salvare il salvabile) arranca al botteghino, la scatenata e apparentemente sgangherata parodia de "I due orfanelli" fa centro. Il pubblico gradisce, le sale si riempiono, gli incassi superano quelli del fratello "nobile".
Come volevasi dimostrare: la coppia Totò & Campanini funzionava, la parodia irriverente piaceva, e Mattoli aveva avuto ragione. Il successo de "I due orfanelli" non solo consacrò definitivamente Totò come stella di prima grandezza anche sul grande schermo (tanto che da lì a poco il suo nome sarebbe finito addirittura nei titoli dei film, vedi "Totò al giro d'Italia"), ma aprì la strada a una lunga e fortunata serie di collaborazioni tra il regista e l'attore, e più in generale, a quella vena parodistica che tanta fortuna avrebbe avuto nel cinema comico italiano.
E così, da un'esigenza produttiva (affiancare Campanini a Totò), dalla scoperta quasi casuale di una giovane attrice (Isa Barzizza), dal lavoro febbrile e un po' caotico di due sceneggiatori emergenti (Age & Steno) e dalla geniale intuizione di mescolare alto e basso, dramma e farsa, nacque un piccolo, sgangherato, ma a suo modo fondamentale tassello della nostra storia cinematografica. Una storia fatta, come spesso accade, di talento, intuito, fortuna, e anche un bel po' di sana improvvisazione.
La scena osé
Vennero girate due sequenze diverse della stessa scena: una per il mercato italiano, l'altra per l'estero. Isa Barzizza, nel ruolo di collegiale innamorata dell'ufficiale Galeazzo Benti, a un certo punto, accompagnata dalla musica, doveva esibirsi con le sue compagne in una danza sensuale insieme ad altre collegiali, riparata da una tenda.
Isa Barzizza, intervista di Alberto Anile, 2003.
Non mancano, ovviamente, gli aneddoti da set, che contribuiscono a creare l'aura leggendaria intorno a queste produzioni. Si narra, ad esempio, di una giovane e bella debuttante, Franca Marzi, chiamata a interpretare la "femme fatale" Susanne de Mernaye. In una scena particolarmente intima (per gli standard dell'epoca, s'intende), in cui doveva ammaliare Totò stesa languidamente su un divano in abiti succinti, la povera Franca va in crisi. L'emozione, la tensione, la vicinanza del "mostro sacro"... fatto sta che dimentica le battute e scoppia in lacrime. Ed ecco che interviene lui, Totò, non solo attore ma anche nume tutelare dei colleghi in difficoltà. Con la sua proverbiale umanità (e forse un po' di sano pragmatismo per non perdere tempo), la consola: «Piccere’, non te la prendere, tu rispondi quello che ti viene in mente». Magia! Al ciak successivo, tutto fila liscio. Le battute fluiscono, Franca ritrova la sicurezza e chiude la scena addirittura con un sorriso imprevisto. Totò: 1, Tensione da set: 0.
🎩 Il Club dei Suicidi... alla Totò 💀
Una delle trovate più surreali del film, pescata direttamente dalla penna di Robert Louis Stevenson ma, ovviamente, passata sotto le forche caudine della parodia più sfrenata. Gasparre (Totò) si imbatte, quasi per caso, in una riunione del "Club dei Suicidi". Immaginate la scena: un'atmosfera che vorrebbe essere tetra e filosofica, carica della disperazione esistenziale dei suoi membri, ma che viene immediatamente fatta a pezzi dall'ingresso di Totò. I motivi che spingono questi aspiranti suicidi alla ricerca dell'oblio non sono quelli cupi e profondi dell'originale letterario, ma più probabilmente pretesti comici, lamentele banali elevate a dramma cosmico, o semplicemente il risultato di equivoci grotteschi. Totò, con la sua maschera impagabile di stupore, terrore e inadeguatezza, si muove in questo consesso come un elefante in una cristalleria. Cerca di capire le regole assurde, forse tenta goffamente di integrarsi per salvarsi la pelle, o più probabilmente cerca una via di fuga, scambiando discorsi altisonanti sulla morte per minacce dirette alla sua persona. La comicità scaturisce proprio dal contrasto stridente tra l'ambientazione potenzialmente lugubre e la reazione assolutamente pragmatica e terrigna di Gasparre, interessato più alla sopravvivenza spicciola che alle speculazioni sul nulla. È un esempio perfetto di come Age & Steno prendessero un'idea "alta" e la trascinassero nel fango della farsa più popolare, con Totò come sublime catalizzatore dell'assurdo.
🤺 Un Duello tra Impacci e Parole 😵
Come in ogni feuilleton che si rispetti (anche in quelli parodiati), non può mancare il duello d'onore. E quando uno dei duellanti è Totò, la scena diventa automaticamente un pezzo di bravura attoriale e comica. Immaginate Gasparre, magari fresco della scoperta delle sue presunte nobili origini o reo di qualche involontaria offesa, costretto a incrociare il ferro. La sua performance è un campionario di tutto ciò che un duellante non dovrebbe fare. La paura che deforma il volto, il corpo che si contorce in posizioni improbabili nel tentativo di schivare anche solo l'idea della lama avversaria, l'arma maneggiata come un attrezzo sconosciuto e pericoloso. Totò non combatte, subisce il duello. Cerca ogni scusa per ritardare, per interrompere, magari improvvisando problemi fisici o mettendo in dubbio le regole. Il suo secondo (spesso il povero Campanini, coinvolto suo malgrado) diventa il bersaglio di richieste assurde o di consigli strampalati. E poi c'è il linguaggio: il duello diventa un pretesto per scatenare la sua mitragliatrice verbale, fatta di giochi di parole, doppi sensi, frasi smozzicate dal terrore, tentativi di corrompere l'avversario o l'arbitro. La nobile arte della scherma si trasforma in una danza sgraziata e disperata per la sopravvivenza, dove la vera arma non è la spada, ma la capacità di confondere e sfiancare l'avversario a parole. Una scena memorabile perché incarna l'essenza stessa della comicità di Totò: la maschera tragica che diventa irresistibilmente comica, l'arte di arrangiarsi portata all'estremo, la dissacrazione dei rituali "alti" attraverso la lente della plebea furbizia.
⚙️ Supplizi Sincopati (Omaggio a Stanlio e Ollio) 😂
Il testo originale lo menzionava esplicitamente, ed è una delle scene più curiose e divertenti: la sequenza della tortura, chiaramente ispirata a una gag simile presente nel film "La ragazza di Boemia" ("The Bohemian Girl") con Stanlio e Ollio. Qui la parodia si fa cinefila. Gasparre (Totò) è prigioniero e deve essere "interrogato" o punito. A officiare la tortura, magari sotto l'occhio vigile del padre boia, è proprio il suo amico-orfanello interpretato da Campanini. L'omaggio a Laurel & Hardy si traduce in una comicità fisica, quasi da cartone animato. Gli strumenti di tortura sono probabilmente macchinari assurdi, che funzionano male o producono effetti inaspettati. Il dolore è mimato, esagerato, mai reale. Campanini è il torturatore riluttante, impacciato, che combina solo guai, magari finendo per colpire sé stesso invece della vittima. Totò subisce con espressioni di sofferenza teatrale, intervallate da lamentele, proteste, tentativi di impietosire o distrarre il suo aguzzino-amico. La dinamica tra i due è fondamentale: l'assurdità della situazione (un amico costretto a torturare l'altro) si sposa con la goffaggine dell'esecuzione, creando un cortocircuito comico. È memorabile non solo per la citazione colta (per l'epoca), ma anche perché dimostra come il film giochi su diversi registri comici, passando dalla parodia letteraria al puro slapstick di matrice hollywoodiana, il tutto amalgamato dalla presenza scenica dei due protagonisti.
😴 Il Risveglio dal Sogno (con Sorpresa Amara) 🛌
Arriviamo al gran finale, o quasi. Dopo un'escalation di eventi sempre più incredibili – nobiltà ritrovata, duelli, intrighi, rivoluzioni mancate, torture e condanne a morte – siamo al culmine della tensione (parodistica, ovviamente). La mannaia sta per calare sulla testa del povero Gasparre... quando all'improvviso... Totò si sveglia! Era tutto un sogno. Un incubo caotico e sfrenato generato, chissà, da una cena pesante o da una botta in testa. Il sospiro di sollievo è d'obbligo. Ma ecco il colpo di genio (o di cinismo) degli sceneggiatori: il risveglio non porta alla lieta realtà. Gasparre si ritrova nella sua misera condizione di sempre, forse ancora nell'orfanotrofio o comunque alle prese con le difficoltà e le ingiustizie della vita reale. Il messaggio, consegnato con leggerezza ma non per questo meno efficace, è che la realtà può essere persino più dura e assurda del più strampalato dei sogni. Questa scena è memorabile perché utilizza un espediente narrativo classico (il sogno) per poi ribaltarlo con un finale agrodolce, quasi beffardo. Impedisce al film di adagiarsi su un happy end convenzionale e gli conferisce un retrogusto amarognolo, tipico di una certa commedia all'italiana capace di mescolare la risata più sfrenata con un pizzico di malinconia o di critica sociale (seppur velata).
Queste sono solo alcune delle pennellate che compongono l'affresco comico de "I due orfanelli". Ogni scena, anche la più piccola, è pervasa dalla verve di Totò e Campanini, dalla scrittura irriverente di Age & Steno e dalla regia funzionale di Mattoli, capace di orchestrare questo caos organizzato. È attraverso questi momenti specifici che il film riesce ancora oggi a comunicare la sua carica di comicità anarchica e liberatoria.
Così la stampa dell'epoca
📽️ Accoglienza del film "I due orfanelli" – tra applausi popolari e sopracciglia critiche
Quando I due orfanelli uscì nelle sale nel 1947, l’Italia era ancora convalescente dalla guerra, ma culturalmente affamata di leggerezza, risate e facce familiari. In questo clima, la pellicola si infilò come un cucchiaino nel vasetto della Nutella: non era raffinata, non era “di qualità” secondo i critici con la pipa e la sciarpa anche a Ferragosto, ma funzionava.
👥 Il pubblico: amore a prima vista (quasi)
Gli spettatori accolsero il film con entusiasmo. Totò era già una presenza amatissima sulle scene teatrali, e il suo passaggio al cinema — anche se non ancora in formato “monologo comico su pellicola” — prometteva bene. Il duo Totò–Campanini regalava una comicità slapstick, surreale, con venature da vaudeville e dialoghi pieni di trovate assurde che il pubblico adorava.
C’era chi tornava a rivedere il film solo per ridere di nuovo al sogno dell’esecuzione capitale (sì, era quella l’Italia che rideva della ghigliottina: altra epoca, altri nervi). Le sale, soprattutto nel Sud e nei piccoli centri, fecero registrare buoni incassi, e in breve la pellicola superò il fratello “serio” Il Fiacre n. 13 al botteghino, dimostrando che alla gente, più che i drammi in costume, piaceva la risata colta e scollacciata.
🧐 La critica: con la puzza sotto il naso (ma con qualche concessione)
I critici, all’epoca, non erano noti per avere grande considerazione della comicità “popolare”, e meno ancora per Totò, che veniva considerato un fenomeno da baraccone più che un artista con la “A” maiuscola. Le riviste specializzate non mancarono di sottolineare il tono disordinato, la trama traballante e il gusto grottesco della pellicola. Tuttavia, anche i recensori più snob furono costretti ad ammettere — talvolta a denti stretti — che I due orfanelli aveva ritmo, energia e soprattutto una verve irresistibile.
In particolare, alcuni iniziarono a notare l’abilità mimica e gestuale di Totò, definita “di scuola antica, ma sorprendentemente moderna nei tempi comici”. E già allora si cominciava a parlare del suo “istinto scenico animalesco”, una dote che non si insegnava né alla Silvio d’Amico né al Centro Sperimentale.
📊 Il risultato: trionfo col punto interrogativo
In soldoni: I due orfanelli non fu un film rivoluzionario, ma rappresentò una svolta. Era il primo segnale forte che Totò poteva reggere un film quasi da solo, e che il pubblico era pronto a seguirlo ovunque, anche tra sogni assurdi e travestimenti improbabili. La critica lo guardava con sospetto, il pubblico con affetto.
E, come spesso accade nella cultura italiana, fu proprio questo scarto tra successo popolare e freddezza intellettuale a decretarne, col tempo, la rivalutazione: oggi viene considerato una tappa fondamentale per comprendere l’evoluzione del cinema comico italiano, nonché il trampolino per una delle carriere più brillanti e irripetibili dello spettacolo nostrano.
«Il primo elemento da cui parte Mattoli è dunque il nome dell'attore. Nei film successivi il regista lascerà campeggiare Totò sui manifesti senza comprimari (fino a infilarlo, segno di un'ormai raggiunta gloria cinematografica, fin dentro al titolo di Totò al giro d'Italia); ma nel '47, malgrado i ritrovati fasti teatrali, l'attore napoletano non è ancora in grado di convincere da solo i produttori. Mattoli, che lo conosce bene per averlo ammirato in rivista, lo scrittura per I due orfanelli ma decide prudentemente di affiancargli Carlo Campanini, che con Totò ha girato nel '45 Il ratto delle Sabine. [...]»
Alberto Anile
Mattoli ha voluto questa volta staccarsi dal solito tipo di film commerciale per tentare in compagnia di umoristi, come Steno, un tipo di pellicola che a tratti ha fatto pensare a Renè Clair. E non come genere di pedissequa imitazione, ma con un suo estro ed una sua personale ironia. E queste osservazioni, in gran parte positive e a favore del regista e del film si possono fare sopratutto nella prima parte della parodia — puramente esterna — delle due orfanelle — che diventano due orfanelli — Totò e Campanini [...] E' un film intelligente che merita, con qualche riservo anche di natura morale una parola di schietto elogio.
e.tr, «Il Popolo», 1947
Una volta di più, Totò ha deluso quanti gli riconoscono ampie possibilità nel campo del cinema. Ma, una volta di più, bisogna convenire che anche quest'ultimo naufragio è solo e completamente imputabile a chi si ostina ad usare questo nostro estroso comico come una saporosa droga per far trangugiare un pasticcio dal poco gradevole sapore. Il pasticcio, nel caso specifico, è costitutito da un complesso di "quadri" da rivista, ricuciti insieme con molta fretta, che della rivista sfruttano gli stessi identici argomenti, assai abusati e tristi, in mezzo ai quali perfino un paio di scene più azzeccate perdono ogni efficacia. Fa coppia con Totò Carlo Campanini, mentre l'elemento femminile è rappresentato da Isa Barzizza. La regia è di Mario Mattoli.
l.q. (Lorenzo Quaglietti), «L'Unità», 27 novembre 1947
È naturalmente la parodia maliziosa e furbastra di quel melanconioso romanzo francese cui, ai tempi del muto, Griffith s'era ispirato per un film molto serio e accigliato. Ma la vena umoristica degli sceneggiatori - tra i quali figura l'acutissimo Steno - è andata oltre questo tema vecchiotto cogliendo ad ogni istante pretesto per una satira non molto peregrina, ma sempre divertente, delle attuali agitazioni politiche: non vi manca, persino, una certa morale un tantinello amara e delusa. Totò e Campanini - un incontro veramente felice - han prestato al protagonista tutta la loro varia e saporita comicità. Mattoli ha diretto con facilità proverbiale. Gli rimprovereremo soltanto una sequenza inutilmente scabrosa.
G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 27 novembre 1947
Girato da Mattoli usufruendo dello stesso materiale scenico e degli stessi costumi che servirono per Il fiacre n.3, questo I due orfanelli (un film di "recupero", si dice in gergo) è una parodia della romantica popolare dell'ultimo Ottocento, di quella romantica, cioè, che ruota attorno ai nomi, famosissimi all'epoca dei nostri nonni, di Saverio de Montépin D'Ennery, Ponson du Terrail, ecc. Nel canovaccio, infatti, troviamo ironizzati tutti gli ingredienti - figli abbandonati trovatelli, duelli all'ultimo sangue, educande - tipici del genere, conditi con uno humour spesso anche elegante, talvolta non peregrino e "forzato". Talune "trovate" - tutto l'inizio di sapore clairiano, il brano "napoleonico" di intonazione surrealista, il gag del saluto romano, ecc. - sono intelligenti e "funzionano". Ma, man mano che il racconto - un po' frammentario e interrotto da intermezzi rivistaiuoli con sfoggio di piccanti nudità - avanza verso la fine, "trovate" azzeccate si fanno più rare e l'interesse decade come un palloncino e si sgonfia un po' per volta.
Ed è un peccato, perchè la partenza era buona, gli interpreti (Totò, Campanini, l'appetitosa Marzi, la provocante Barzizza, ecc.) simpatici al pubblico, l'operatore bravo. Una eccellente occasione perduta, dunque.
Caran. (Gaetano Carancini), «La Voce Repubblicana», 27 novembre 1947
Totò, presumendo evidentemente di poter trasferire sullo schermo di tutto peso l'intero bagaglio delle sue battute e mossette furbe da buon mimo di varietà, ha finito col travolgere e dominare, non solo il regista Mario Mattoli, ma anche coloro che, con la trama de I due orfanelli, si erano sforzati di dare al film un movimento e una libertà di motivi sardonici e acerbamente grotteschi, degni forse di miglior recapito. [...]
Alfredo Orecchio, «Il Messaggero», 27 novembre 1947
Cinefollie di Totò: I due orfanelli
E' una parodia del romanzo di appendice dell'Ottocento, coi suoi colpi di scena, i suoi duelli, le sue agnizioni, ben sostenuta dalla comicità rauca e secca di Totò, cui fa da «spalla» il bonario Campanini. Di una vicenda non è il caso di parlare, ma soltanto di uno spunto che divaga e si sparge in una serie di trovate estemporanee, che tengono della rivista e della farsaccia da collegio. [...] Parodia operetta rivista farsa, quale che sia, il film è divertente, e lasciando stare le molte freddure del dialogo, a carattere anacronistico (l'Unrra, gli impiegati... spara-statall, la guerra, il dopoguerra, ecc.) ha non poche trovate di buona lega, come quella del club del suicidi e più ancora quella del braccio ingessato a saluto romano, l'una e l'altra, però, non abbastanza sviluppate. Totò grandeggia, centrando quasi tutti i lazzi e le mosse, ma anche Campanini è perfetto nel suo controcanto. Con loro sono la provetta Dondini, l'Almirante e Isa Barzizza figlia del maestro Pippo che anche lui ha messo nelle musiche del film il suo elettrico rampino; una esordiente graziosa e frizzante.
Leo Pestelli, «La Stampa», 4 febbraio 1948
Se un attore comico riesce i far ridere, figurarsi due. Quando il regista Mattoli ha escogitato di mettere Totò e Campanini assieme nel film «I due orfanelli», il successo che se ne riprometteva era appunto in rapporto con il « doppietto » brillante: ma è accaduto, in pratica, che l'uno dei due, Totò, di più pronunciata personalità, ha inghiottito l'altro, costretto a tenergli bordone e a facilitargli la battuta allegra.[...] In quanto a Totò e alle sue ragazze, Isa Barzizza compresa, rifanno se stessi; sono, nell'immagine, ancora quelli della ribalta. Chi apprezza gli spettacoli di rivista ne ritroverà la sostanza nei «I due orfanelli» in un’edizione piuttosto dimessa.
lan (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 13 marzo 1948
Mattoli non ha fatto un lavoro difficile, questo lo riconosciamo, in quanto «I due orfanelli» non è il film che richiede tanta fatica. Si è fatto un buon gioco sulla mimica canzonatoria di Totò, su un dialogo posato su paradossali errori, su un Campanini spassoso si, ma oltremodo sconcertante. A posto ci sono apparsi gli altri caratteristi, e volte in veste troppo caricaturale. Siamo certi che il fllm piacerà a buona parte del pubblico anche se si dovranno fare chissà quali sforzi per mantenersi calmi e seri.
Vice, «Il Lavoro», 19 marzo 1948
L'umorismo di Totò non sempre è cosa facile; aggiungete a tale constatazione la eccessiva faciloneria con la quale è stato condotto il lavoro e la contemporanea presenza su altro schermo dì altro film comico di più facile e diretta presa sul pubblico, e avrete almeno in parte la chiave del relativo insuccesso conseguito da «I due orfanelli», nonostante le numerose battute di innegabile «vis» comica e la partecipazione di Carlo Campanini, uno dei «beniamini» per antonomasia.
Entrare nel gioco; solo in tal modo si è nelle migliori condizioni per apprezzare il caustico umorismo del marchese de Curtis, talvolta personalissimo al punto da riuscir difficilmente comprensibile, spesso appena accennato nel mezzo di una azione per altri elementi già comica di per se stessa. Entrare nel gioco: solo così il «significato» del film riesce comprensibile appieno, e il medesimo diventa qualcosa di più che semplice pretesto per una serie più o meno indovinata di «sketch».
d. s., «Il Piccolo di Trieste», 2 giugno 1950
Totò principe clown: I DUE ORFANELLI - ore 21,20 secondo
Dopo essere stato clamorosamente «riscoperto» dal pubblico dei cinematografi, Totò arriva alla TV, con un'ampia rassegna che si propone di rammentare alcune delle tappe più significative e esilaranti della sua carriera di comico fantasioso e protervo. Chi, da un paio d'anni a questa parte, si è lasciato qualche volta attrarre dalla nostalgia, ed è andato a trascorrere la serata in un cinema in cui si proiettava una delle vecchie pellicole del principe Antonio de Curtis, ha potuto constatare di persona quale sia il livello di adesione degli spettatori alla sua irresistibile vis comica, e certamente non ha potuto evitare di restare coinvolto in quella adesione. Come si spiega la riscoperta; come si spiega la immutata capacità di divertire di film qauasi sempre raffazzonati e mediocri nella fattura complessiva, tutt’altro che ricchi di fantasia inventiva nelle situazioni e nelle vicende rappresentate, ingolfati alla buona di attori di mezza tacca e di ragazze irrimediabilmente fuori moda nei loro sforzi per apparire desiderabili e procaci? Si spiega nel modo più semplice, e cioè con la presenza di Totò.
Totò, con le sue invenzioni a getto continuo, con il suo gusto popolaresco per la smitizzazione e la distruzione dei luoghi comuni, con la sua carica di umorismo ora plebeo, ora lunare e astratto, spiega anche perché non solo il pubblico, ma la critica lo abbia oggi classificato come comico di primissimo piano, l’ultimo grande clown che il teatro e il cinema italiani abbiano avuto. Il film che apre la rassegna, I due orfanelli, fu diretto da Mario Mattoli nel 1947, ossia prima che il «fenomeno cinematografico» Totò esplodesse in pieno (gli anni del suo massimo successo stavano comunque per arrivare). Qui Totò è in coppia con Carlo Campanini, e gli stanno a fianco Isa Barzizza, Vera Bergman, Franca Marzi e Nerio Bernardi.
Sono i personaggi di una storia che ha per protagonisti due trovatelli, Ga-sparre e Bastiano, impiegati in un orfanotrofio di Parigi rispettivamente come economo e come giardiniere. Bastiano scovre d'essere in realtà il rampollo d'una nobile e ricca famiglia, nella quale il suo posto è stato preso da un usurpatore. Si pone con l'amico alla riconquista dei propri diritti, e va incontro a difficoltà, peripezie e pericoli, si trova addirittura, a un certo punto, a dover indossare i panni di Napoleone. Alla fine riesce a spuntarla. Ma è stata un’avventura reale, o Bastiano e Gasparre l’hanno soltanto vissuta nel sogno?
«Radiocorriere TV», anno 50, n.13, 25-31 marzo 1973
Roma, 26
Per Mario Mattoli, il regista del primo film del ciclo che la televisione ha dedicato a Totò considerò l'attore napoletano uno dei pochi veri attori comici che il mondo abbia avuto da molti anni a questa parte. «Attori di quei livello, direi formidabili — ha precisato — ce ne sono e ce ne sono stati in tutto due o tre, non di più. In questo rilievo è anche la spiegazione della eccezionale ripresa dei film di Totò che c 'è stata negli ultimi due anni. A mio parere si tratta di una ripresa commerciale unica nella storia del cinema, cominciata dapprima con qualche timida apparizione nei cinema d’essai e rapidamente sviluppatasi fino a giungere — ritengo peraltro con un po' di ritardo — alla televisione».
«Naturalmente — ha continuato il regista — io sono felice che nel prossimo ciclo televisivo la mia firma appaia due volte (”I due orfanelli” e ”Totò sceicco”) anche perché così il mio nome, che ho sentito recentemente storpiato o anche ignorato, riavrò almeno la sua abituale composizione».
— Cosa l’ha colpito di più del Totò attore?
«Totò, del quale io ho diretto alcuni film "prima maniera”, era soprattutto un attore che non sopportava che nel film stesso venissero presentate "tesi”. Era un vero comico e preferiva, almeno nella prima parte della sua lunga attività cinematografica, affidare il successo alla sua eccezionale mimica, alla sua spontaneità. In Totò era rappresentata tutta la tradizione del teatro dialettale ed in particolare di quello napoletano ,che ha avuto, in tale genere di spettacolo, diversi validi rappresentanti espressioni di una situazione particolare della città partenopea, forse per il clima stesso, o anche per una predisposizione naturale. Fra questi j comici, però, Totò era senza il dubbio il migliore, il più completo».
— I film di Totò «prima maniera» erano quindi quelli che Totò, in definitiva, voleva e quindi il Totò piu povero?
«Esatto. Ho già detto che l'attore non gradiva le "tesi" e quindi non è, come alcuni critici sostengono, che il valore dell'artista sia stato soffocato o mi-sconosciuto. Era lui che preferiva quel tipo di comicità. Nella ultima parte della sua carriera, poi, le cose sono un po' cambiate ma il Totò più genuino si può apprezzare solo in quei film in cui egli poteva esprimere la sua personalità liberamente, come intimamente preferiva. E io non posso essere che felice che due dei film che verranno offerti ai grande pubblico della televisione siano stati diretti da me, Mario Mattoli, ripeto Mattoli».
«Il Piccolo di Trieste», 27 marzo 1973
I Documenti
Ecco una panoramica dettagliata delle principali edizioni in VHS e DVD del film I due orfanelli (1947) di Mario Mattoli, con Totò, Carlo Campanini e Isa Barzizza.
📼 Edizioni VHS
1. Eagle Home Video – Collana Prestige
- Anno di uscita: Anni '90 (data precisa non disponibile)
- Formato: PAL
- Note: Edizione da collezione con copertina rigida nera e inserti fotografici.
2. Fabbri Video – Il Grande Cinema di Totò (Sc.10)
- Anno di uscita: Anni '90
- Lingua: Italiano
- Durata: 90 minuti
- Note: Parte di una collana editoriale dedicata a Totò.
3. Fatcira Video – Edizione Standard
- Anno di uscita: Non specificato
- Formato: PAL
- Note: Distribuita in Italia, disponibile su piattaforme di vendita online.
4. Edizione NTSC per il mercato americano
- Anno di uscita: Non specificato
- Formato: NTSC
- Note: Adatta ai videoregistratori americani, in lingua italiana.
💿 Edizioni DVD
1. Warner Home Video
- Anno di uscita: 2007
- Lingua: Italiano
- Durata: 85 minuti
- Formato video: 4:3
- Audio: Dolby Digital Mono
- Note: Distribuzione ufficiale con qualità video restaurata.
2. Il Sole 24 Ore – Collana “Comicamente”
- Anno di uscita: 2008
- Lingua: Italiano
- Durata: 87 minuti
- Formato: PAL
- Note: Parte di una collana editoriale allegata al quotidiano, con edizione corretta.
3. Amazon Italia – Edizione Italiana
- Anno di uscita: Data non specificata
- Lingua: Italiano
- Durata: 87 minuti
- Formato: PAL
- Note: Disponibile su piattaforme di e-commerce, con copertina illustrata.
🎁 Contenuti Speciali
Le edizioni disponibili non riportano informazioni su contenuti speciali significativi, come interviste, dietro le quinte o commenti audio. Le edizioni editoriali, come quella de Il Sole 24 Ore, potrebbero includere libretti o inserti informativi, ma non sono specificati dettagli aggiuntivi.
I due orfanelli: una farsa travestita da rivoluzione
🎭 I due orfanelli: la farsa rivoluzionaria che fece decollare Totò nel cinema (e decapitò l’Italia borghese con una risata)
Certe svolte non si annunciano con squilli di tromba, ma con un ghigno sornione e una maschera grottesca. È il caso de I due orfanelli, film del 1947 che segnò la vera nascita cinematografica di Totò, traghettandolo dal teatro all’Olimpo della comicità su pellicola. Un’opera nata quasi per sbaglio, con scenografie di recupero, una sceneggiatura scritta in fretta e furia, e un piglio anarchico che oggi farebbe sbiancare un consigliere Rai.
Eppure, proprio nella sua anarchia sgangherata, nella sua struttura zoppicante e nel suo sfacciato uso di cliché, I due orfanelli trova la forza per colpire dritto al cuore — o meglio, al diaframma — di un’Italia stanca, confusa, assetata di sogni e satira. Perché dietro le gag, i travestimenti e le improbabili ghigliottine, c’è un discorso profondamente politico, una lama affilata infilata tra le costole di ogni potere costituito.
🎬 L’Italia del 1947: tra repubblica neonata e teatri di cartapesta
Il contesto è fondamentale: il fascismo è appena caduto, la guerra fredda deve ancora cominciare, la Monarchia è stata archiviata a furor di referendum, e la Democrazia Cristiana sta iniziando il suo regno incontrastato. Il cinema italiano, tra neorealismo e nostalgia d’operetta, cerca un’identità. Ed è qui che irrompe Totò, ancora acerbo rispetto ai capolavori futuri, ma già pronto a disintegrare con un’alzata di sopracciglio ogni forma di ipocrisia sociale.
La genesi del film ha del farsesco: finito il polpettone Il Fiacre n. 13, Mattòli si ritrova con costumi e scenografie ottocentesche sul groppone. Chiede allo sceneggiatore Age (Agenore Incrocci, futuro partner di Scarpelli) di buttare giù un’idea veloce. Nasce così I due orfanelli, dichiaratamente ispirato al feuilleton Le due orfanelle, ma reinterpretato con gli occhi strabuzzati di chi ha vissuto vent’anni di regime e vuole finalmente ridere di tutto e di tutti.
🔥 Satira a 360°: si salva solo il proiettore
Nel film nulla viene risparmiato: la Magistratura è corrotta, l’Esercito è incapace, la Monarchia è anacronistica, i politici sono opportunisti, e persino le donne sono dipinte come scalatrici sociali o svampite. Non si salva nemmeno la sinistra, con le sue retoriche sulla “riappropriazione proletaria” che nel film diventano una parodia grottesca del conflitto di classe. Il film è una sorta di Decamerone postbellico, un’orgia citazionista dove convivono Balzac e Dumas, Offenbach e Napoleone, Hugo e il kitsch musicale da pianoforte della zia zitella.
E poi c’è lui: Napoleone-Totò, in una delle sequenze più geniali, in cui il comico veste i panni del generale per una guerra delirante e surreale, riflesso caricaturale dei veri totalitarismi europei (Hitler, Stalin, Churchill: c’è posto per tutti). Gli eserciti sono marionette senza scopo, la gloria militare viene assegnata per imboscamento, e l’unico che si salva è il mediocre furbo, l’“uomo qualunque” che nel dopoguerra aveva anche un partito tutto suo. Altro che commedia: questa è guerriglia culturale in costume.
💣 L’assurdo come grimaldello ideologico
Se l’Italia ufficiale cercava decoro, I due orfanelli la prendeva in giro con un cortocircuito continuo tra alto e basso, tra estetica d’appendice e surrealismo da bistrot. C’è una tensione evidente tra due anime del film: da un lato, il gusto popolare per il lazzo, la battuta greve, il travestimento da operetta; dall’altro, un sottotesto corrosivo, un’aggressività ideologica quasi pasoliniana ante-litteram, rivolta contro tutte le strutture del potere.
E non è un caso se le scene più riuscite non sono quelle “comiche” in senso stretto, ma quelle in cui la satira si fa simbolo: Totò che entra nella garçonnière con un giglio in mano mentre una sonata da vergine fa da sottofondo; il duello scatenato non da un tradimento, ma dall’oltraggio di camminare a piedi scalzi in una casa “per bene”; il bagno voyeuristico delle orfanelle che diventa parodia felliniana ante-facto. Persino il finale, con la ghigliottina onirica e il ritorno alla “realtà uguale al sogno”, sembra uscito da un film di René Clair diretto da un Totò filosofo.
🎭 Totò: tra maschera, mito e miracolo
Al centro di tutto, Totò. Ancora legato a certi meccanismi teatrali, con una recitazione iterativa e caricata, ma già potentissimo. Le sue smorfie, i suoi tempi, i suoi gesti sembrano caricature di un’arte comica antica, eppure già pronte a esplodere in una nuova grammatica cinematografica. I due orfanelli è il punto in cui Totò smette di essere “il comico napoletano del varietà” e diventa “Totò”, la maschera assoluta del Novecento italiano, capace di parlare a tutti e contro tutti.
Il film ha difetti evidenti — attori comprimari insipidi, scene ripetitive, momenti di volgarità non sempre consapevoli — ma ha anche una forza visionaria che travolge ogni tentativo di incasellarlo. Non è un capolavoro, certo, ma è un’opera necessaria: uno spartiacque, un laboratorio, un saggio di comicità politica mascherata da farsa.
🧠 Conclusione: la risata come atto eversivo
I due orfanelli non è solo il film in cui Totò “funziona” per la prima volta al cinema. È anche una pellicola coraggiosa, che sfrutta il caos del dopoguerra per dire tutto quello che non si poteva dire: contro la guerra, contro le classi, contro l’autorità, contro l’ipocrisia. E lo fa con la forza disarmante della risata.
A rivederlo oggi, tra una scena slapstick e una satira feroce, ci si accorge che dietro ogni gag c’è una ferita. E che la comicità, in fondo, è solo il modo migliore per dire la verità senza finire alla ghigliottina. O magari sì — ma almeno ridendo.
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Il presunto orfanello Gasparre scopre di essere in realtà il figlio di un nobile parigino e deve affrontare insieme al compare Battista i tentativi dei parenti per farlo fuori... Primo grande successo di Totò nella parodia di un feuilleton ottocentesco che richiama nel titolo un vecchio film muto di Griffith, felicemente incurante di ogni logica, tanto da mettere in campo anche Napoleone e l'abate Faria. La satira politica affidata alla voce narrante, è assai qualunquista, ma il divertimento non manca grazie alle numerose trovate, anche se Totò non è ancora esplosivo come nei film migliori.
- Uno dei film più surreali di Totò, con una trama e un'ambientazione che richiama i lungometraggi di Laurel e Hardy in costume (in particolare La ragazza di Boemia). La coppia con Campanini funziona, ma è più questo a suscitare la maggior parte del divertimento che non lo stesso Totò, che limita più di altre volte la sua esuberanza. Buoni costumi e scenografie, un po' assente la regia di Mattoli. Nel complesso piacevole.
- Forse l'unico Totò movie che mi porta alla mente nell'immediato non battute fulminanti o gag surreali ma la sua presenza nello spazio, le sue posture. In effetti anche nella "revisione" il film spicca per ricercatezza di scenografie/costumi (ereditati peraltro da altri set) e uno script (Age e Steno) meno grezzo del solito, che pare rimandare ad alcuni lungometraggi di Laurel & Hardy (il fondo patetico, i nostri due "servi d'amore" per Benti e Barzizza). Mattoli non spinge da par suo. Notevole la tenuta di Campanini, attore a cui è stato dato meno del dovuto.
- Una storia divertente e con un metro tutto suo, con puntate tra il surreale e l'onirico; ma d’altronde la comicità di Totò, quando viene lasciata libera di esprimersi, è in qualche modo legata al surreale. Per quanto appaia datato ha dalla sua parte una spensieratezza e una leggerezza che lo rende gradevole. Non ci sono momenti di vera stanca e si arriva alla fine senza troppe difficoltà.
- A mio avviso uno dei primi film "davvero" divertenti del grande Totò - anche se io faccio iniziare il "mio" Totò, quello che preferisco, da Fifa e arena (1948), considerando invece Il monaco di Monza (1963) l'ultimo film dove mi diverte ancora tanto - che fino a quell'anno non aveva trovato una sua formula comica efficace e davvero funzionante, limitandosi a copiare comici americani come Larry Semon o simili. Simpatica e ben sviluppata l'idea di parodiare i romanzoni d'appendice. Una nota di merito anche a Carlo Campanini.
- Il film della svolta, per Totò, fondamentale per la sua carriera cinematografica. Primo di diciassette diretti da Mario Mattoli, primo di grande successo al botteghino per il Principe della risata e prima parodia (del feuilleton francese "Le due orfanelle") da lui interpretata. Minestrone sostanzialmente riuscito con una storia tra il dramma familiare e la farsa scatenata, con balli e canti tolti di peso dal teatro di rivista, interventi di satira politica a profusione, ricche scenografie, voce fuori campo e rivelazione finale...
Le incongruenze
- Tra le brevi scenette che introducono l'inizio del film ce ne è una dove si vede un politico che si suicida per un ammanco di 2 soldi. Prende la pistola, si spara un colpo mancandosi clamorosamente. . . e muore!
- La porta della casa del boia di Parigi ha uno spioncino che si aziona facendo salire e scendere una riproduzione della lama di una ghigliottina. Tale finta lama, però, la si vede salire e scendere nelle riprese esterne, mentre manca quando viene mostrato il lato interno nella porta.
www.bloopers.it
Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo
La piazza di Parigi dalla quale la direttrice dell’orfanotrofio (Dondini) parte con la diligenza quando dovrà assentarsi per qualche giorno, lasciando la direzione nelle mani dell’inserviente Battista (Campanini), è in realtà Piazza di San Bartolomeo all'Isola a Roma.
L’orfanotrofio femminile di Passy nel quale vivono Gaspare (Totò) e Battista (Campanini) è in realtà Villa Sciarra, situata in Via Calandrelli 23 a Roma
Il parigino Bois de Boulogne, nel quale Gaspare (Totò) trasforma un semplice duello in una colossale rissa è in realtà Villa Borghese a Roma. Per la precisione il “principe della risata” si trovava nel settore posto di fronte all’ingresso del giardino zoologico, che intravediamo sullo sfondo
Nel controcampo, il momento dell’arrivo di una piccola truppa di passaggio che sarà attaccata dai litiganti: sulla sinistra si vede il finto tempio romano di Antonino e Faustina, fatto costruire nel 1792 dal principe Marcantonio Borghese. A destra, il punto rosso indica dove si trovava Totò.
Palazzo Latour-Lafitte, nel quale Gaspare (Totò) si reca per reclamare dal duca Filippo Latour-Lafìtte (Bernardi) la sua parte di eredità, dopo aver scoperto da una chiromante che si trattava di suo zio, nella finzione si trova sulla parigina Rue de Varennes ma, in realtà, quello è il Villino Borghese del Vivaro, situato in Lungotevere Marzio 14 a Roma.
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Il grande Totò muore ignorato dalla critica - «Il principe straccione»
In TV la rivincita di Totò
Incrocci Agenore (Age)
Konopleff Cirillo (Kirill Grigor’evič )
Majeroni Achille
Marzi Franca (Marsi Francesca)
Mattòli Mario
Mignone Carla (Mity)
Mignone Toto (Ottone o Totò)
Poivre Annette (Perron Paule Marie Jeanne)
Steno (Vanzina Stefano)
Totò e... Age
Totò e... Carlo Campanini
Totò e... Isa Barzizza
Totò e... la parodia
Totò e... Mario Mattoli
Totò e... Raimondo Vianello
Totò e... Steno
Totò, il principe surrealista di Napoli
Uomini a nolo (1937)
Vianello Raimondo
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- e.tr, «Il Popolo», 1947
- l.q. (Lorenzo Quaglietti), «L'Unità», 27 novembre 1947
- G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 27 novembre 1947
- Caran. (Gaetano Carancini), «La Voce Repubblicana», 27 novembre 1947
- Alfredo Orecchio, «Il Messaggero», 27 novembre 1947
- Leo Pestelli, «La Stampa», 4 febbraio 1948
- lan (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 13 marzo 1948
- Vice, «Il Lavoro», 19 marzo 1948
- d. s., «Il Piccolo di Trieste», 2 giugno 1950
- «Radiocorriere TV», anno 50, n.13, 25-31 marzo 1973
- «Il Piccolo di Trieste», 27 marzo 1973
- D. Cammarata - "Il Cinema di Totò", Roma, Fanucci, 1985 (Dal sito comune.re.it)