Tempi nostri - La macchina fotografica (Zibaldone n.2)
Dionillo
Inizio riprese: 1953
Autorizzazione censura e distribuzione: 19 febbraio 1954 - Incasso lire 363.340.000 - Spettatori 2.595.286
(Episodio: La Macchina Fotografica)
Titolo originale Tempi nostri
Paese Italia/Francia - Anno 1954 - Durata 134 min - B/N - Audio sonoro - Genere commedia - Regia Alessandro Blasetti - Soggetto Achille Campanile, Silvio D'Arzo, Agenore Incrocci, Giuseppe Marotta, Alberto Moravia, Marino Moretti, Ercole Patti, Vasco Pratolini, Anton Germano Rossi, Furio Scarpelli - Fotografia Gábor Pogány - Montaggio Mario Serandrei - Musiche Alessandro Cicognini, Gorni Kramer, Giulio Cesare Sonzogno - Scenografia Guido Fiorini - Costumi Veniero Colasanti, Dario Cecchi
Totò: Dionillo, il gagà - Sophia Loren: ragazza - Mario Castellani: barista - Silvio Bagolini: ladro
Soggetto
Tempi nostri - Zibaldone n. 2 è un film a episodi del 1954 diretto da Alessandro Blasetti. È il seguito di Altri tempi - Zibaldone n. 1.
Esistono due versioni del film: quella originale della durata di 131 minuti (che contiene anche i tre episodi scherzosi Il bacio, Gli innamorati e Scusi, ma...) e quella ridotta di 92 minuti, dov'è stato salvato solo l'episodio scherzoso della macchina fotografica per la presenza della coppia Loren-Totò.
Mara
Da un racconto di Vasco Pratolini, sceneggiato dall'autore.
Due giovani (interpretati da Yves Montand e Danièle Delorme) fanno conoscenza in trattoria, vanno insieme al cinema e, trascorsa intimamente la serata, si innamorano. Lei gli confida che, essendo a corto di denaro, intende provare a lavorare dalla mattina seguente in una casa di tolleranza, ma lui la convince a desistere da tale proposito, per iniziare a convivere con lui, che ha un impiego come insegnante, anche se la loro situazione economica potrà essere difficile.
Il pupo
Scritto da Alberto Moravia.
Due giovani delle borgate romane (interpretati da Marcello Mastroianni e Lea Padovani) si trovano in difficoltà economiche. Lei vorrebbe lavorare, ma deve accudire il bambino che ha partorito da poco. I due stabiliscono allora, a malincuore, di abbandonare il neonato in una chiesa, ma la madre non sa decidersi sul luogo adatto ed infine anche il padre ha qualche ripensamento.
Scena all'aperto
Da un racconto di Marino Moretti, sceneggiato da Ennio Flaiano
Un uomo e una donna non più giovani (interpretati da Vittorio De Sica ed Elisa Cegani), nobili decaduti, si reincontrano per caso dopo molti anni in quanto recitano come comparse cinematografiche su una carrozza in movimento. Durante la scena devono parlare, non uditi, di un tema a loro piacimento. La scena va ripetuta più volte e così nasce l'occasione per confidarsi delle cose che non si erano detti tanti anni addietro. Decidono infine di sposarsi e fuggono via dal set a bordo della carrozza.
Casa d'altri
Da un racconto di Silvio D'Arzo.
L'anziano prete di un paesino di montagna (Michel Simon) si accorge che la vecchia Zelinda (Sylvie) è da qualche tempo triste e pensierosa. Dopo molte insistenze, riesce a farsi confidare quel che la poveretta ha nell'animo: vorrebbe porre fine anzitempo alla sua faticosa e monotona vita. Mente il sacedordote cerca animatamente di distogliela da questo proposito, scivola in un dirupo e Zelinda lo salva tirandolo su.
Don Corradino
Soggetto di Giuseppe Marotta, dialoghi di Eduardo De Filippo.
Un conducente di mezzi pubblici (Vittorio De Sica) ama far la corte a molte donne, il che gli causa delle inadempienze sul lavoro che non gli vengono perdonate dal suo superiore (Eduardo De Filippo). Capisce infine di essere amato da una ragazza (Maria Fiore) che aveva sempre visto semplicemente come un'amica. (Il dossier)
La macchina fotografica
Di Age & Scarpelli.
Una giovane donna (Sophia Loren) viene lasciata dagli amici in un locale dov'è allestito un gioco con in palio una macchina fotografica. Un avventore (Totò) la aiuta a vincere l'ambito premio, quindi si allontana con lei dal locale senza pagare e le chiede di mettersi in posa per provare la macchina fotografica, finché le confessa di starle facendo la corte. Provano così, senza successo, a scattare una fotografia insieme con l'aiuto dell'autoscatto di cui la macchina è munita. Dopo vari tentativi, decidono di farsi scattare la foto da uno sconosciuto che passa di lì per caso, il quale, dopo aver distratto i due facendoli mettere in posa, scappa via con la macchina fotografica.
Il bacio
Di Achille Campanile.
Gli innamorati
Di Ercole Patti.
Scusi, ma...
Di Anton Germano Rossi.
Critica e curiosità
Totò interpreta La macchina fotografica, episodio finale, primo e unico incontro con il regista Alessandro Blasetti. Esistono due versioni del film: quella originale della durata di 131 minuti (che contiene anche i tre episodi scherzosi Il bacio, Gli innamorati e Scusi, ma...) e quella ridotta di 92 minuti.
Così la stampa dell'epoca
Con La macchina fotografica , breve sketch comico sensuale con Sophia Loren e Totò siamo di nuovo all'aria sbagliata del prologo [..] la parte più infelice e meno riuscita [..] . Il film si alza nelle storie serie e cade in quelle comiche [...]
Alberto Moravia, 1954
Totò e Sophia Loren , comicità e sesso [...] disperatamente aggrappati alla coda del film si agitano come due naufraghi e danno un senso di pena perchè non si può in alcun modo soccorrerli [...]
Luigi Chiarini, 1954
Ho l'impressione che il nuovo film di Blasetti contenga maggior midollo del suo precedente. Non voglio dire de La fiammata, modesto incidente sulla strada del regista; ma di Altri tempi, che è un punto d'arrivo per la dimostrazione d'una certa ricchezza di temi e di contenuto della nostra letteratura passata. La trovata della bancarella forse non era nemmeno la cosa migliore, come tessuto connettivo del film, offriva però un avvio comodo. Al quale ora Blasetti rinuncia, preferendo cercate negli aspetti della cronaca o dei suoni le diverse analogie utili. Per esempio, da come mi diceva sere fa. passare da un movimento di ballo, di danza, al passo dell'oca, da una sonorità di clackson a un fischio di sirena. eccetera.
Né più né meno che la nota della lavandaia per Rossini, Blasetti fa cinema d'ogni testo possibile. Dategli una sceneggiatura, ne farà un film. E' per questo anzi che rinunciando al "soggetto scritto" della consuetudine, egli volendo dare un quadro il più esatto della società nella quale vive, si orienta verso la narrativa: vecchiotta, ottocentesca col primo zibaldone, attuale, contemporanea con quest'albo messo in cantiere dalla Cines. Gli zibaldoni, dirò, si seguono (la Cines ne sta preparando un terzo, "Cent'anni d'amore" che dirigerà De Felice) ma non si rassomigliano, salvo nella idea di partenza di fedeltà al costume, che solo uno scrittore può rendere. Per rifarsi a Leopardi dal quale Blasetti parte, va detto che se la sua materia onnai resta precisata in un pur rischioso e difficile campo letterario, quasi a riconoscere allo scrittore i meriti che di solito il cinema gli ignora, o non gli attribuisce, le preoccupazioni di una resa artistica sono tutte sue: oneri e onori. È nota sufficientemente la parte polemica sostenuta dal regista intorno alla priorità nell’opera cinematografica: chi è l'autore? Blasetti parte dal testo, dal soggetto, dalla sceneggiatura. Diminuendo la propria misura, egli si dichiara un esecutore. un direttore, colui che coordina quanto soggettista e sceneggiatori gli han preparato, secondandone lo spirito. "aiutando" il testo a venir fuori dalle sue pastoie, dalla ganga delle parole, nel tradursi in immagini.
Anche se la responsabilità par diminuita — e anzi tanto di più. — è troppa modestia: il "mestiere" di Blasetti, e certa violenza di cattivo gusto (quel cattivo gusto che fa la forza, la solidità di grandi registi come Chaplin per esempio, e di altri; ma che può anche chiamarsi indifferenza), contano largamente nella realizzazione d'un film, specie quando volta per volta gli attacchi e i risvolti narrativi non hanno più rapporto col testo sceneggiato, con l' "autore" o inventore delle parole. Ma non potrebbe esserci anche una responsabilità artistica che è poi tutta di Blasetti, e cioè uno "stile" suo che va al di là del mestiere? Si trattava con lo Zibaldone n. 2 di arrivare a una seconda prova perché l'arco dei "tempi" fosse completato, e la biblioteca ottocentesca e moderna tutta presentata, passando dal patetico dei tempi passati, dal gusto "belle époque" alla cronaca di attualità o di una contemporaneità che abbraccia da "prima della guerra", come usa dirsi, al "dopoguerra", partendo però dal dopoguerra 1920, fino a oggi.
Blasetti voleva affermare anche, la vitalità d'una vena narrativa italiana che ancora moltissimi italiani ignorano, ma che invece non ignorano i lettori stranieri. Dalla fine della guerra a oggi, non esiste fuor d'Italia grande collezione di narrativa o grande editore, che non abbiano in catalogo scrittori nostri: Alvaro, Levi, Moravia, Tecchi, Pratolini, Brancoli, Milena Milani, Joppolo, Betti, Pirandello, Quarantotti-Combini, Flajano, Coccioli, Marotta e cosi via. Scegliendo dalla produzione letteraria di costoro è nato Tempi nostri, una cronaca larga e capace, di quelle che a Blasetti piacciono e nelle quali egli si butta sbracciandosi largamente, nel tentativo soprattutto di non falsarne i caratteri, lo spirito. Varie commissioni di lettura formate da gente molto bene informata, come han diffuso i bollettini Cines, si son date a scegliere, leggere, selezionare. Il corpo centrale — ovvero i fatti — del film è nato cosi. Il resto, le analogie, gli attacchi, i rapporti di cementazione, i legami di puro ordine tecnico e dimostrativo, sono lavoro tutto posteriore e che trova giustificazioni sul piano della sceneggiatura e negli obblighi e necessità d'una produzione industriale.
Secondo mi diceva Blasetti, la ’’trovata" non era materia da trascurare; e lui, il regista, è piuttosto esigente. Il punto di partenza "letterario" è dato da alcuni raccontini umoristici, da "moralità" quasi Gli autori che si sarebbero prestati sono moltissimi: c’era prima di tutto A. C. Rossi con le sue "antinovelle" singolarmente, corpose, il Campanile delle storielle brevissime, spesso risolte tutte in una battuta; Ercolino Patti dall'unghiata pronta, ottimo "fustigatore dei costumi", c'era Steno. Marchesi e altri tutti bravi. Poi i "narratori' veri, un 'numero considerevole di scrittori che operano sempre sm immagini reali anche se trasposte, cioè "scritte". La scelta fatta, una decina di racconti che precisano le varie epoche di un’èra "nostra", non è però un giudizio di merito intorno agli scrittori, alla loro opera. Non si trattava di compilare una antologia, dove per diritti acquisiti, tutti dovrebbero figurare, perlomeno quelli che appaiono legati da un medesimo motivo o stile. Blasetti aveva bisogno di scrittori tutti corposi e vitali, ma di stile diverso, aveva bisogno di situazioni-chiave, di casi-limite. E stato alla fine accolto un racconto di Patti, mm altro di Campanile questi, garbatissimi e leggerissimi sono l’avvio a un ispessimento della materia, alla cui struttura drammatica fa da controscena un fondo musicale davvero antologico. Nel 1920 si fischiettavano queste canzoni, pare di leggere nelle didascalie; nel 1940 era di moda invece questa cantante, e nel vivo della guerra si cantarellavano i motivi lanciati dai battaglioni, e cosi avanti, fino alle sambe e alle manie di Katherine Dunham.
Se il racconto di Campanile riguarda due fidanzati che si baciano a lungo a lungo a lungo e lui pensa che ecco il cappello gli sta cadendo, gli cade, e lei pensa che in quella posizione vicino a un cespuglio sicuramente la calza si smaglia, e quello di Patti riguarda due fidanzati che si giurano e spergiurano, e lui per amore per prova va a buttarsi sotto il treno, con Pratolini, con Marino Moretti, con Silvio d'Arzo, Marotta e Moravia, il tono muta, si passa dal patetico al drammatico senza finire mai nel commemorativo o nell’esornativo. La ambizione di Blasetti è di fare il più possibile "cronaca".
Cronaca in gran parte del dopoguerra; cronaca della miseria e della stanchezza, del rovesciamento di valori, delle difficoltà in cui tutti si sono trovati, e si trovano ancora. Il neorealismo di Blasetti, lo sanno tutti, non è una trovata momentanea, e il racconto di Moravia. "Il pupo", o quello di Pratolini intitolato "Mara", gli si prestano molto bene "Scena all’aperto" cavato da un racconto di Marino Moretti, è più lirico, più tenero e anche malinconico. "Il pupo" (interpretato da Lea Padovani, che è in uno dei suoi momenti di maggiore richiesta, e da Marcello Mastrojanni) è la storia di una famiglia dove i ragazzi arrivano uno dopo l’altro all’insaputa quasi. L’ultimo nato è proprio in più. e moglie e marito decidono di abbandonarlo da qualche parte. Ma ogni tentativo è inutile, e il finale del racconto volge alla bonarietà e all’ottimismo. "Mara" di Pratolini (che interpretano Danièle Delorme e Yves Montand) racconta una storia cortissima d'un maestrino e di una ragazzetto sul punto di pigliare la piti brutta delle decisioni se vuol continuare a campare. La conclusione è anche qui cordiale, sorridente. Più malinconica invece nel racconto di Manno Moretti, "Scena all'aperto", storia 1920 della decadenza di due "signori" d’altri tempi (Elisa Cegani, Vittorio de Sica), che finiranno col fare le comparse in un film. E un ritrovarsi, e decidere di qua sui tempi avvenire.
Altri attori sono Dany Robin e Francois Perrier, poco conosciuti in Italia per quanto invece notissimi in Francia (il film è infatti una co-produzione italo-francese). Costoro sono gli interpreti del "Bacio" di Campanile. Alba Amova e Andrea Checchi (che Blasetti utilizzò insieme nel precedente Zibaldone. per il racconto di De Marchi mi pare, "Una giornata d'amore"), saranno "Gli innamorati" del racconto di Patti. Guido Celano sarà il "regista" del racconto di Marino Moretti. Blasetti vorrebbe far di Celano una parodia il più possibile perfetta del regista Alessandro Blasetti quando deve scegliere gli attori, i generici, le comparse pei suoi film. Montand e la Delorme come ho detto sono gli interpreti di "Mara". L’episodio musicale, che non mancherà, i impostato sul noto Quartetto Cetra. La sovrapposizione di vicende luoghi personaggi e climi restituirà alla mitologia dell' oggidismo tutto il suo valore nel crescendo immancabile del decoro e della pulizia.
S'intende che questi sono solamente i dati, le notizie attorno al film. Niente di più che materiale grezzo che corrisponde all'ombra alta o bassa che una produzione getta attorno a si. Tuttavia, anche in questo sminuzzamento di notizie, di "si dice", di indiscrezioni, non è chi «mi veda nel film l’importanza nuova dell'aspetto letterario sotto il cui crisma nasce. Tempi nostri non potrebbe essere anche un notevole contributo al gusto per la lettura, che da molti si lamenta sulla via di scomparire? Non potrebbe, sott'altro aspetto anche economico, essere di chiarificazione al problema tanto lamentato dei soggetti che pare angusti i produttori i registi gli industriali?
Renato Giani «Cinema», anno VI, n.114, 31 luglio 1953
«Noi Donne», anno IX, numero 11, 14 marzo 1954
La meccanica del collegamento tra gli episodi, i frammenti rappresentati dal «Bacio » e dagli « Innamorati», servono al film da avvio — seppur lungo e monotono — per inserirci nei piccoli drammi della nobiltà decaduta (vedi «Scena all'aperto») in quelli dell’adulterio moderno (Scusi... ma) delle drammatiche giornate che hanno fatto da seguito alla guerra di cui hanno sofferto lo strascico (Mara) della miseria (Il pupo) e della solitudine (Casa d’altro).
[...]
Chi ha vissuto l’esperienza del dopoguerra, riscontrandole in «Mara» di Pratolini non può dire di ritrovarle nella versione cinematografica che ne dà il regista, cosi come la miseria e la solitudine nel «Pupo» ed in «Casa d’altri» non rappresentano che una fotografia di due fra I più scottanti aspetti del mondo d’oggi.
Se era questa l’intenzione dell'autore, quella cioè di sfiorare soltanto, mischiandole in un calderone, le amarezze e le ansie di una generazione che merita una più attenta e scrupolosa analisi dei suoi problemi, a noi pare che non sia buona intenzione quella di voler fare lo spettacolo da circo a tutti i costi. E ciò non ci interessa.
Vittorio Sala, «Il Popolo», 24 marzo 1954
A Blasetti spetta in Italia la paternità di quelle antologie cinematografiche che, sulla scia del suo primo «Zibaldone », Altri tempi, godono oggi fra noi di una larghissima voga. Eccoci, ora, al secondo «Zibaldone», dedicato questa volta non più ai tempi dei nonni, ma ai nostri, e animato, perciò, da quelle intenzioni polemiche che sempre Blasetti rivela quando tratta di cose contemporanee. La faccia della nostra epoca, infatti, è ancora segnata dalla guerra; le sue conseguenze le possiamo trovare dovunque. Ma — si domanda iI regista — come si è giunti a quello stato di cose? Per rispondere egli ricorre a tre racconti d'anteguerra (Scusi, ma...» di A. G. Rossi, Il bacio, di Campanile, Gli innamorati di Patti) che, commentati dalle spensierate cadenze del «Quartetto Cetra» ci esprimono un clima quasi di farsa, l'indifferenza di quei giorni: un indifferenza che all'improvviso, mise tutti di fronte alla cruda realtà.
[...] Certo il film, con quel prologo così volutamente superficiale e uno sketch farsesco aggiunto in coda, a mo' di conclusione (La macchina fotografica, di Age e Scarpelli con Totò e Sophia Loren), può sembrare abbastanza ineguale, ma alcune sue pagine splendono di limpido ardore drammatico: e son quelle che resteranno [...]
G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 26 marzo 1954
A partire dal felicissimo «Altri tempi » di Alessandro Blasetti la nostra produzione di film a episodi ha preso un ritmo davvero incalzante. Oggi è lo stesso Blasetti a tornare alla carica con questo zibaldone n. 2, dedicato ai «Tempi nostri», che, speriamo concluda definitivamente la pia lunga serie. La suddivisione in più parti di un fllm solo occasionalmente può infatti condurre a risultati di notevole interesse artistico; assunta invece a sistema, rischia piuttosto di compromettere l'unità stilistica dell'insieme come appunto e accaduto in quest'ultima pellicola che nella sua generosa lunghezza accoglie gli uni accanto agli altri, episodi ben riusciti e quadretti di nessun rilievo. Era forse intenzione degli sceneggiatori mostrare attraverso i vari racconti il progressivo mutare dei costumi dall'altro dopoguerra a oggi.[...]
In tutti questi episodi, dunque la recitazione è ottima, la fotografia altrettanto, la regia saggia e spesso ispirata. La loro brevità ha però costretto Blasetti a sorvolare su momenti che invece avrebbero avuto bisogno di essere maggiormente approfonditi, sicché a volte si ha l'impressione di certa sfocata superficialità il cui sospetto danneggia la validità del racconto. Tale sospetto diviene poi certezza nella farsa finale che ci mostra un Totò in montgomery alle prese con la formosa Sophia Loren e con una ribelle «Macchina fotografica».
[...]
Vice, «Il Messaggero», 26 marzo 1954
La seconda antologia cinematografica, o meglio lo “Zibaldone numero 2”,di Alessandro Blasetti ha trovato i suoi spunti nella novellistica contemporanea. I nove episodi di cui è costituita abbracciano circa 30 anni di esistenza dell'attuale generazione che ha raggiunto la maturità. Blasetti, con questa sua nuova fatica, ha dato vita a un film piacevole, arguto, insomma non è riuscito a superare se stesso, cioè a superare quella abilità di causer cinematografico, dimostrata in “Altri tempi”. [...] Totò e Sofia Loren sono i protagonisti del racconto più vicino agli attuali giorni, la macchina fotografica. “Tempi nostri”, anche se non è una delle più felici produzioni di Alessandro Blasetti, attrae e diverte il pubblico che si sente toccare da alcuni quadri della sua vita di ogni giorno.
Luigi Taplei, «Momento Sera», 27 marzo 1954
Se, con questo "Zibaldone n. 2" Alessandro Blasetti si fosse proposto semplicemente di dare un seguito al primo, Altri tempi (1952), sulla base del consueto sfruttamento commerciale del successo, non sarebbe il caso di prendere le cose troppo al tragico. Si tratterebbe di un fenomeno caratteristico del mondo del cinema, generato da un più o meno esatto calcolo di natura economica. Disgraziatamente, le cose non stanno cosi. Anzi (tutto, Blasetti crede fermamente nella (bontà della formula "zibaldone", ci crede tanto da aver dato involontariamente origine a tutta una fioritura più o meno bastarda, cresciuta dall’ aureo (voglio dire fruttifero) quanto mediocre ceppo di Altri tempi. E noi non staremo qui a fare il processo ad un "genere" fortunato quanto, con ogni probabilità, destinato, come tutte le mode, ad esistenza effimera. Del resto, si tratta di un discorso che io stesso ed altri abbiamo già fatto, o almeno abbozzato. Ma il fatto più grave è un altro: che, cioè, il regista ha inteso «fare un film di cronaca», un «esame realistico, anche se incompleto, della società italiana del dopoguerra». Ora, se dobbiamo tener conto di tali intenzioni — del resto abbastanza trasparenti dal contesto del film —, non possiamo «non esprimere la nostra desolazione di fronte al risultato. Id quale conferma, se pur ve ne fosse bisogno, una cosa: che Blasetti non è un regista realista.
La sua opera può, ora sulla via dell'epica (1860, 1933), ora sulla via dell' intimismo (Quattro passi fra le nuvole, 1942; Prima comunione, 1950), colorarsi di tinte vagamente realistiche, ma si tratta di coincidenze sporadiche e non probanti. Blasetti è fatto per raccontare favole, con un più o meno spiccato estro fantastico e decorativo, con un più o meno decisivo sottofondo letterario (non per nulla egli sostiene certe teorie circa la paternità dell'opera cinematrografica, sottratta in buona misura al regista, in favore dello scenarista). Se Blasetti non ha più dato, nel dopoguerra, opere degne del suo prestigio d'un tempo, è probabilmente perché la fioritura neorealistica lo ha posto a disagio, ha creato in lui una sorta di spiegabile "complesso", il quale lo ha indotto a ripercorrere, con una sincerità soltanto ideologica (non stilistica), le orme altrui. A suo tempo Un giorno nella vita (1946) suscitò in noi una impressione di scarsa autenticità, perché, di fronte al bruciante realismo immediato di Rossellini, il realismo mediato di Btasetti non poteva non palesare la propria natura occasionale. Forse Blasetti se ne accorse, poiché andò alla ricerca di nuove strade. Ma oggi, sotto le vesti un poco arlecchinesche di uno "zibaldone", il suo realismo di seconda mano ricompare, e con esiti anche meno felici. Si intende chè, se c'è una cosa da mettere al di sopra d'ogni sospetto, questa è la buona fede del regista, ancora una volta dedito alla formulazione di un messaggio morale positivo, incoraggiante, in una parola ottimistico. Ieri egli lodava, nostalgicamente, la civiltà della gente "d'antan", oggi posa lo sguardo sulla appenata umanità dei propri giorni, ma solo per comunicare agli spettatori la sua fiducia in un domani sopportabile e forse lieto. Secondo Blasetti, «tanto meglio e tanto più presto si potranno risolvere» i problemi del momento «quanto meno ci si abbandonerà alla sfiducia, cioè alla disperazione che conduce alla violenza». In omaggio a tal principio Blasetti ha scelto questi, piuttosto che altri, racconti; in omaggio ad esso ha apportato sensibili modifiche a quelli, tra i racconti prescelti, le cui conclusioni non risultavano in linea con i suoi propositi.
Così i due protagonisti di Mara di Vasco Pratolini finiscono, nel film, per avviarsi verso una vita in comune, basata su due generici "soldi di speranza", mentre nella pagina scritta si dividevano, l'una diretta al bordello, l'altro alla sua modesta scuoletta elementare; cosi la vecchia di Casa d'altri di Silvio D'Arzo rinunzia, per Blasetti, al suicidio suggerito dalla disperazione di una vita sconfortevolmente monotona ed mutile, il quale concludeva il racconto (soggiungo che vi rinunzia in seguito ad una specie di posticcio miracolo, costituito da un incidente capitato al prete suo "confessore", salvando il quale essa può rendersi conto di essere ancora buona a qualcosa in questo mondo squallido). Parlavo poc’anzi di genericità; il termine è valido non soltanto per la conclusione di Mara, ma per ogni aspetto del film, dalla scelta del materiale letterario su cui lavorare (scelta effettuata da Blasetti insieme con Suso Cecchi d’Amico) al modo in cui tale materiale è stato sviluppato ai fini narrativi e dimostrativi. Che significa, tanto per cominciare, l’inclusione, in apertura, dei tre scherzetti Il bacio di Achille Campanile, Gli innamorati di Ercole Piatti, Scusi, ma... di Anton Germano Rossi? Essi vorrebbero rappresentare tre variazioni sull’amore anteguerra (dal 1920 al 1940), l’amore di una società non presaga della catastrofe che stava addensandosi sul suo capo. Posto che sia cosi — e altra spiegazione non vedo, non mi riesce egualmente di capire quale funzionalità essi rivestano nei confronti di quanto segue. Anzi tutto, il film non vuol essere soltanto un film d’amore, e quindi l’angolo sotto cui viene osservato caricaturalmente l’anteguerra risulta ben ristretto e casuale. In secondo luogo, l’umorismo ora caustico ora raggelante dei tre scrittori non ha potuto perdere la propria natura verbalistica, traducendosi in immagini si è ingoffito, disperso. Non sono rimaste che tre mediocri freddure, quella (Campanile) degli innamorati che proseguono ad oltranza un bacio, pur pensando a tutt’ altro di assai meno poetico (pedestremente risalta con uno sdoppiamento di figure per sovraimpressione); quella (Patti) degli amanti che litigano esasperantemente, pretendendo ognuno di poter impunemente sostenere che il proprio amore è più grande di quello del compagno; quella (Rossi) del marito, della moglie e dell’amante, che svolge in chiave di beffa il tema caro al cinema prebellico dei "telefoni bianchi”. Il colmo di tale futilità è raggiunto, tuttavia, dal film nell’ episodio di chiusura, quello, cioè, che dovrebbe, in sostanza, rappresentare l’essenza del momento che viviamo : e non è invece che un grossolano pretesto (La macchina fotografica), offerto da Age e Scarpelli all’ incontinenza di un Totò travestito da gagà in "montgomery” ed alla esuberanza di curve di Sophia Loren. Giova dire che, in simili melensaggini (poiché nell’inadeguata traduzione cinematografica anche la spiritosa invenzione di un Campanile si risolve in una melensaggine), pure il contributo degli interpreti (che, in altri episodi, è tale da risollevare considerevolmente il livello dell’opera) appare scialbo, irrisolutivo, tutt’ al più sterilmente impegnato, come nel caso di Checchi e della Amova (Gli innamorati), in una ripetizione della pungente schermagli di Meno di un giorno, in Altri tempi. La bozzettistica corrività che contradistingue il linguaggio del film non risparmia neppure l’episodio marottiano di Don Corradino.
Se questo, storia di un maturo conducente d’autobus, il quale si serve della vettura per le sue scanzonate imprese amatorie, finisce con l’ottenere un risultato di esteriore piacevolezza, è soltanto per merito di un De Sica sorridente ed assassino, di una Maria Fiore genuina e procace, di un Eduardo De Filippo (autore dei dialoghi del raccontino, sulla base di una sceneggiatura di Continenza) come al solito sostanzioso. Ma è certo che l’iridescenza della prodiga fantasia di Marotta non è riconoscibile nella anonima scrittura blasettiana, spesso indulgente al luogo comune. Ho nominato cinque episodi, e si può dire che non uno tra essi abbia qualche precisa attinenza con l’ ambizioso programma del film, riguardante i "tempi nostri”. Qualche più o meno vaga attinenza con il tema hanno i quattro episodi centrali, come Mara, dove l’incontro d’amore tra il maestrino e l'aspirante prostituta avviene sullo sfondo delle macerie di una Firenze immediatamente postbellica (ma, anche qui, l’ambientazione è generica, direi falsa, la presenza di qualche militare alleato nello sfondo sembra occasionale; l’unica autenticità deriva dal garbo di Yves Montand e Danièle Delorme, che il doppiato costringe a toscaneggiare in omaggio al realismo). O come Casa d’altri dove la montagna emiliana (che nel racconto di D'Arzo, un po’ acerbo, un po’ ricercato nella scrittura, un po’ sproporzionato, ma non privo d’interesse, empiva di sé la pagina) non riesce ad assumere una concreta presenza ambientale, le due figure del racconto rimanendo come campate in aria, fuori di una realtà riconoscibile. (Si salva, s'intende, la trovata del narratore, che era singolare — la vecchia chiede al sacerdote se in casi eccezionali come il suo non si possa evadere dalle norme religiose ed essere autorizzati al suicidio —, ma su un piano puramente letterario, enunciativo, e quindi, ancora una volta, generico). 0 come, più vagamente, in Scena all’aperto, dove, nella scia di un racconto di Marino Moretti, si descrive l’incontro di due anziani signori, relitti di un mondo che fu, spazzato via dalla guerra, i quali si ritrovano a far da comparsa per un film, e decidono di unirsi, ormai vecchi, nel nome di un amore non realizzato a suo tempo. E’ chiaro che l’allusione ad una realtà contemporanea è qui tradotta sul piano di un bozzettino romanticheggiante, riscattato dalla galanteria impeccabile di De Sica e dalla tenera grazia crepuscolare di Elisa Cegani. Rimane Il pupo, che Suso Cecchi d’Amico ha sceneggiato e dialogato con sorvegliato gusto, sulla base, fedelmente rispettata e, direi, arricchita, di uno dei "racconti romani" di Alberto Moravia.
Si tratta di due giovani sposi, miserabili abitanti d’una borgata, i quali, ridotti alla disperazione, decidono di abbandonare il loro ultimo nato, perché altri più ricco lo cresca. E vagano dapprima di chiesa in chiesa, depositano poi il pargolo in un’auto, per finire col decidere, secondo natura, che la soluzione migliore è di tenerselo, continuando a stringere i denti, a far sacrifici e a sperare in meglio. Qui la scrittura si fa realistica (la presenza della Cecchi d’Amico penso sia stata determinante); qui il riferimento ad una realtà d’oggi non è assente, o velleitario, ma preciso, anche se espresso negli angusti termini di un bozzetto. La decadenza di una classe sociale; il dilagare della prostituzione in seguito all’estendersi della miseria, recata dalla guerra; lo smarrimento di valide ragioni di vita, in questo nostro dopoguerra. Tali sarebbero stati i temi di Scena all’aperto, di Mara, di Casa d’altri. Ma il regista ha solo sfiorato il nucleo vivo ch’essi racchiudevano, si è fermato in superfìcie, il legame tra i fatterelli da lui narrati ed altri fatti più grandi risulta nei tre episodi privo di evidenza. L’ultimo nominato, poi, potrebbe svolgersi pure in "altri tempi” (cosi era, del resto, anche in D’Arzo, che non aveva mirato ad una troppo concreta storicizzaziane della vicenda). Invece, il tema di Il pupo affiora, entro una Roma ancora recante le tracce della guerra (le camionette), grazie anche alla generosità umana della prestazione di Marcello Mastrojanni e sopra tutto di Lea Padovani, ancora una volta stupenda nel suo materno accoramento e nella sua popolaresca veemenza (ho ripensato a Cristo fra i muratori). Certo, anche l’episodio più riuscito appare indicativo dei limiti autoimpostisi da Blasetti: il suo finale ottimistico, già esistente in Moravia, non deriva se non dalla spontanea piena di un sentimento, il quale prevale momentaneamente su un crudele raziocinio. Non solo, ma l’aver ben specificato che l’azione si svolge alcuni anni addietro, all’epoca delle "camionette”, starebbe a significare in Blasetti il discutibile proposito di asserire che miserie del genere appartengono al passato. (All’oggi apparterrebbero solo i lazzi scurrili di Totò fotografo).
Insomma, con Tempi nostri si è avuto un chiaro indice della estraneità della tematica realistica al temperamento di Blasetti, dal quale sarebbe lecito augurarsi un ritorno, finalmente, alla vena epica di 1860 o a quella picaresco-decorativa di Un’avventura di Salvator Rosa (1939), a lui ben più congeniali. Ma si è avuto pure una riconferma della crisi intima del film ad episodi. Abbandonato il macchiettistico venditore di libri usati, Blasetti ha qui, infatti, puntato, per le prime pagine frivole del suo "zibaldone", sull’apporto canoro del quartetto Cetra, con Gomi Kramer al piano, poi, bruscamente, per quelle serie, su un album di fotografie che si sfogliano, generiche come il film e ai vari brani di esso ben poco attinenti. Concessioni al gusto rivistaiolo, cascami del realismo cronistico e indulgenza verso la più irrisolutiva casualità si sono dati la mano per sottolineare la grossolana imbastitura al filo bianco di un film privo di consistenti ragioni d’essere e quindi di valore rappresentativo, sia pur relativamente intenso.
Giulio Cesare Castello, «Cinema», anno VII, n.130, 31 marzo 1954
I film della settimana - Tempi nostri
E' il messaggio di Blasetti al suo tempo, che egli ci esprime con il rigore e la sapienza cui ci hanno abituato le sue pagine cinematografiche più note e migliori
Non è lecito lamentarsi, a proposito di Blasetti, della voga degli « zibaldoni » perché in Italia la paternità è la sua: gli altri ne son stati imitatori e han dato vita a un «genere» cosi diffuso che ormai comincia a stancare, coinvolgendo nel fastidio anche i film di Blasetti: ma il sentimento, ripetiamo, non è giusto perché si tratta di imitatori che per la loro frequenza, finiscono per nuocere all'imitato.
Qual'è, dunque, il problema di questi «tempi nostri»? In Altri tempi, lo zibaldone n. 1, non c’era un vero e proprio problema. Blasetti si era prefisso di raccontarci, attraverso una scelta di opere di cinquant'anni fa, la faccia dell'epoca dei nonni e ce l'aveva espressa senza approfondirne significati precisi: solo in funzione di un filone letterario che qui suggeriva la commedia, là il dramma, altrove ancora la satira. Di fronte ai « tempi nostri », invece, Blasetti sente il bisogno di andare più in fondo, quasi a trovare davvero una chiave: la chiave che gli consenta di definire i termini, i limiti, il peso dei tempi in cui viviamo. E la prova, quella chiave, in un tema che potremmo definire, alla Callot, «le miserie della guerra».
I tempi nostri, dice Blasetti, son ancora segnati dalla guerra; non solo il ricordo non ne è scomparso, ma nemmeno le conseguenze: tutto, sotto il suo segno, acquista una fisionomia precisa. Interpretiamoli, dunque, sotto questo segno. [...] Come potrebbe scomparire l’epilogo; una farsa un po' grassa, tratta da un racconto di Giuseppe Marotta, Don Corradino, e uno sketch di dubbio gusto, scritto da Age e Scarpelli, La macchina fotografica. [...]
Gian Luigi Rondi, «La Fiera Letteraria», anno IX, n. 14, 4 aprile 1954
Durante la lavorazione, Blasetti dichiarò di voler con Tempi nostri condurre un esame realistico della nostra società nel secondo dopoguerra. A parer nostro non c’è riuscito. Infatti anche se lo Zibaldone n. 2 si distacca per tono e per stile dalle altre infilzate di episodi sul mezzo secolo, Blasetti, oltre ad assorsi dimenticato del periodo della guerra (’39-44) e di certe situazioni e di certo costume di anteguerra, i cui deleteri effetti si risentono ancora sul nostro periodo, si è limitato a «tradurre» dei testi letterari, non coordinandoli nè interpretandoli in vista di un quadro critico di questi nostri tempi. Abbiamo cosi un'antologia e non un ritratto. Antologia che poi risulta scelta con un criterio che convalida la nostra affermazione.
I primi tre episodi (come l'ultimo pieno zeppo dei soliti inutili lazzi di Totò) non significano nulla: non ci danno infatti un’idea dell'anteguerra, ma solo di certo tipico umorismo d'allora. Degli altri episodi, anche quelli che affrontano gravi ed impegnativi problemi (la prostituzione, la miseria, il suicidio...) sono trattati in superficie e inoltre i finali di due di questi racconti sono stati mutati: indice questo di una certa accondiscendenza verso l’ottimismo a buon mercato, e cioè ai gusti dei pubblico che vuol stare allegro e non aver di che pensare.
Comunque tutti gli episodi sono svolti con esatto stile o calibro, doti queste che non si possono non riconoscere alla regia di Blasetti. L’episodio più bello? «Mara» di Pratolini. Il più «blasettiano?» il dolce e patetico «Scena all'aperto» di Moretti.
«Il Monferrato», 9 aprile 1954
Incoraggiato dal successo di «Altri tempi» Blasetti ha creduto opportuno imbarcarsi nella fatica di dare episodicamente un quadro della vita dei «Tempi nostri» ma, come sovente accade, i risultati di questo seecondo tentativo sono stati assai meno lusinghieri ed i difetti invece di correggersi si sono moltiplicati. Così il cattivo gusto che aveva caratterizzato «Questioni d’interesse» in «Altri tempi» ha preso un po' la mano al regista, infatti i primi tre episodi (Il bacio, Gli innamorati, Scusi ma...) che dovevano dare una sintetica visione, della nostra vita anteguerra, sorgono racconti scadentissimi e peccano di uno sciocco ed inutile elzevirismo. La seconda parte del film composta da sei episodi ha invece ben più largo respiro soprattutto per il più alto impegno culturale riscontrabile nei testi letterari. I sei racconti sono Iegati ad un tema ben definito quello cioè di seguire passo passo la vita del dopoguerra dal sorgere, delle prime speranze fino al fiorire di una nuova umanità che riesce a ritrovare la gioiosa e vivace spensieratezza del tempo di pace.
Vedremo quindi seguendo il susseguirsi dei vari episodi fino a che punto tale tema sia stato svolto e rispettato. [...]
Se vogliamo ciò sarà più coerente allo spirito del film ma rappresenta comunque un deprecabile arbitrio. Il penultimo episodio è dominato dalla esplodente interpretazione di Vittorio De Sica, un «Don Corredino» impagabile uscito dalla frizzante vena napoletana di Giuseppe Marotta. Siamo cosi giunti alla fine dove troviamo, dulcis in fundo, il più inutile sciatto e insopportabile dei Totò a dimostrarci che dopo aver ritrovato un po' di spensieratezza ci stiamo avviando sulla strada della, scemenza.
rab., «La Nuova Gazzetta di Reggio», 9 aprile 1954
Che i film a episodi abbiano ormai superato il momento di interesse e denotino, quasi tutti. una certa stanchezza, abbiamo già detto ed a più riprese; nè questo «Tempi nostri» di Blasetti è sfuggito al comune destino. Si è anche detto che almeno una certa unità — nella frammentarietà del film — è necessaria affinchè tutto appaia organico ed accettabile; unità che manca alla pellicola.
Questo «zibaldone n. 2» vuole essere una continuazione di «Altri tempi», abbracciando un periodo che va grosso modo dal '18 ai nostri giorni ma la scelta dei racconti è perlomeno opinabile: se Blasetti intendeva con essi dare un quadro del periodo, ha mancato lo scopo; se invece intendeva soltanto cucire assieme alcuni episodi e fare un'opera divertente, c’è riuscito solo in parte
Il discorso, ovviamente, si fa lungo, ma è necessario, quando si tratta non già di esaminare un film ed un soggetto, ma una serie di piccoli braci filmistici con altrettanti soggetti. L’introduzione, affidata al quartetto Cetra avverte immediatamente che la fotografia non ha certo provocato eccessivi sforzi cerebrali al realizzatore, tanto appare malsicura; poi lo stesso quartetto è quanto mai fuori forma. Il bacio è il primo episodio: Dany Robin e Francois Perrier gli interpreti. Il soggetto è di Achille Campanile ma, mentre il racconto era divertente da leggersi la realizzazione cinematografica è insignificante. Gli innamorati di Ercole Patti, con Andrea Checchi ed Alba Amova, ritira in ballo due personaggi del precedente «Altri tempi», ma da quel tempo ha perso freschezza ed interesse; bravi però gli interpreti.
[...]
Chiude il film una specie di farsa. La macchina fotografica, di Age e Scarpelli, con Totò e Sophia Loren: qui, mentre Totò non ha attenuanti ed appare stucchevole Sophia Loren può almeno offrire altri argomenti, anche se non propriamente attinenti con la recitazione e con il film. Nel complesso è un seguito di storie che si lascia vedere ma, da qui a dire che si tratta di un film, e per giunta riuscito, ci corre molto.
Zef., «La Gazzetta di Mantova», 30 aprile 1954
A Roma sono stati conferiti gli annuali «Nastri d'Argento» del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici ai migliori film italiani della stagione. Un produttore (meglio tacerne il nome perché non siamo sicuri che scherzasse) si è lamentato che non ci fosse anche un «Nastro» per il film peggiore: gli sarebbe toccato di diritto. Ecco un punto di vista interessante in tanto discutere di premi e di sovvenzioni. Quel produttore si vantai di fare brutti film e ne vorrebbe il riconoscimento ufficiale, convinto com'è che con i bei film si guadagnano premi ma non soldi. Oltre a tutto, un film artisticamente valido non è mai né conformista né anodino, e quel produttore (e come' lui tanti, ahimè!) non è tipo da battagliare con la censura. È uno che sa vivere. Per aumentare il successo commerciale dei suoi brutti film, tenta di contrabbandare all’occasione un po’ di pornografia: se gli riesce, bene; se non gli riesce, tanto peggio.
Con simili chiari di luna, c’è da stupirsi che esista ancora chi s’intesti di realizzare film con intenti d'arte e, quanto meno, con decoro. Con l’occasione dei «Nastri», fermiamoci dunque un momento con questi paladini che hanno la sensibilità di commuoversi ricevendo pochi grammi d’argento sui quali però c’è scritto che hanno bene meritato. (L’«Oscar» William Holden, intervenuto alla serata, ha detto al microfono: «Lo so come ci si sente in certi momenti. È una gran bella emozione. E sono lieto di trovarmi a Roma proprio in questa circostanza».)
Fra i tredici «Nastri» troviamo premiati, per una ragione o per l’altra, I vitelloni (il produttore Pegoraro, il regista Fellini e Alberto Sordi), Cronache di poveri amanti (il musicista Zafred e lo scenografo Pek Avolio), Pane, amore e fantasia (Gina Lollobrigida), Magia verde (Gian Gaspare Napolitano e l’operatore Craveri), Anni facili (gli scenaristi Brancati, Amidei, Talarico, Zampa e il protagonista Nino Taranto), Il sole negli occhi (il regista Pietrangeli), Tempi nostri (Elisa Cegani). E Lea Padovani, distintasi soprattutto in Una di quelle e in Tempi nostri, ha avuto un «Nastro d'Argento» speciale per il complesso delle sue interpretazioni.
Forse Cronache di poveri amanti meritava un maggior riconoscimento e, dal punto di vista della qualità, allo scenario di Anni facili è preferibile quello de II sole negli occhi o quello di Pane, amore e fantasia; ma, in complesso, la premiazione ha indicato i migliori della stagione e può dirsi soddisfacente.
Particolarmente lieta era la Lollobrigida. «Per molto tempo», ha detto, «la stampa mi ha considerato solo una "maggiorata fisica ”...» (Risa e applausi.) «Il premio», ha ripreso, «significa che la stampa ha cambiato idea e questo mi fa un enorme piacere.» Elisa Cegani, Nino Taranto e Lea Padovani erano veramente commossi; tanto più commossa e al settimo cielo la Padovani che aveva appena ricevuto la comunicazione che a Saint Vincent un’altra giuria le aveva attribuito la «Grolla d’oro». Bisogna dire che essa merita questi premi. Semmai c’è da osservare che li avrebbe meritati molto prima. E lo stesso rilievo si può fare per Elisa Cegani.
Per manifestare la sua soddisfazione, Alberto Sordi ha scritto una poesia e l’ha declamata alla folla che stipava la «Villa dei Cesari». S’intitola «Nastro d’Argento». È una di quelle sue poesie drammatiche popolate di steppe, di tenebre, di nonnette, poesie che dalle parole e per l’accento commosso col quale sono dette, dovrebbero strappare pianto e gridi di dolore. Dovrebbero, dico; perché in effetti l’assurdo delle parole e dell’accento è in tal modo combinato che la gente ride a crepapelle. Credo che di Sordi piaccia soprattutto questo: che sia discolo, dispettoso e bravo ragazzo.
Due soli assenti fra i premiati : Amidei, in Germania con Rossellini, e Craveri che sta girando Continente perduto in Indonesia. Fra i non premiati, assenti i delusi. Il record degli applausi è toccato alla Lollobrigida.
«Epoca», 29 luglio 1954
La censura
Anche La macchina fotografica, in cui le forme della Loren sono particolarmente provocanti, verrà eliminato in parte o del tutto da alcune copie; del che potrebbe però essere colpevole Ponti che, maritata la Loren, diventa desideroso di togliere dalla circolazione le tappe meno eleganti della carriera dell'attrice.
Sono otto episodi con prologo interpretato dal Quartetto Cetra e una sorta di "comica finale" con l'episodio di Totò. Il film intendeva festeggiare i 25 ani di attività di Alessandro Blasetti , e può essere considerato il seguito di "Altri tempi - Zibaldone n.1" dello stesso regista . Ebbe varie disavventure con la censura, alcuni episodi totalmente eliminati e l'episodio interpretato da Totò in alcune copie è stato eliminato.
I documenti
Nella mia carriera di regista non ho diretto solo due attori tra i tanti con cui ho fatto film: Petrolini e Totò, perché Petrolini e Totò erano contemporaneamente autori, registi e attori. Totò aveva questo di diverso da Petrolini: non se ne accorgeva. Lo faceva senza alcuna intenzione, senza alcuna volontà, direi, quasi chiedendoti scusa. E questo per me rendeva più gradito, più accetto il cogliere qualsiasi sua proposizione nuova.
Alessandro Blasetti
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Film in nove parti, da abbozzi minimi (gli insignificanti "Il bacio" e "Gli innamorati") a episodi notevoli ("Mara", con gli straordinari Montand e Delorme, "Scena all’aperto", superbi De Sica e la Cegani, e "Don Corradino", così marottiano che più marottiano non si può). La chiusura è sorprendente debole, col brutto episodio con Totò e la Loren, ripetitivo e privo di idee. Ma il film si assesta come opera discreta, grazie ai tre segmenti citati e a interpretazioni di ottimo livello.
- Preceduti da tre brevi sketches accompagnati dalle canzoni del Quartetto Cetra e dalle note di Kramer al piano, sei episodi di diverso valore per un film antologico complessivamente modesto, nonostante le origini letterarie dei soggetti e i nomi coinvolti a livello di sceneggiatura e cast. I migliori sono "Mara" con la coppia Montand/Delorne e quello con Simon nei panni di un prete di campagna che cerca di dissuadere dal suicidio una povera lavandaia. Risulta piacevole anche il garbato duetto De Sica/Cegani in "Scena all'aperto", mentre molto mediocre è quello finale con Totò/Loren.
- Gradevole. Anche se non tutti gli episodi sono riusciti, la sensazione finale è quella di aver assistito a un buon prodotto. Gli episodi con gli attori francesi sono tutti da eliminare (nonostante una bella interpretazione di Simon), mentre De Sica in duplice ruolo è straordinario (soprattutto in coppia con Eduardo), Mastroianni e la Padovani sono toccanti e Totò riesce, pure nella pochezza della sua storia, a far sorridere come sempre. Sordi fa un episodio brevissimo, ma si fa notare per simpatia. Buono.
- Non mi è dispiaciuto; alcuni episodi, nella loro "semplicità" (leggi tragicità), affrontano temi importanti (anche se costretti nello spazio di pochi minuti) e mostrano un'Italia molto diversa da quella attuale, ovviamente nelle scenografie, ma soprattutto nelle persone e nel loro modo di essere. Ci sono scene anche divertenti e, oltre ai protagonisti, sono presenti un numero di comprimari, talvolta importanti, che saranno sempre più presenti negli anni a venire. Si poteva eliminare qualche episodio ora inutile (che all'epoca però poteva risultare gradito).
- A episodi, ognuno dei quali con diversa taratura: sentimentale, drammatica, comico-grottesca (che a volte si mescolano). Tra tutti il migliore (per me) è l'ultimo, sottilmente allusivo e brevissimo, con un Totò e una Loren perfetti. L'agrodolce e la malinconia fanno da filo conduttore. Un prodotto in bilico tra il salire in alto e il precipitare nel dimenticatoio.
- Spiace dirlo, perché ritengo Blasetti uno dei più grandi registi del nostro cinema (purtroppo oggi un po' dimenticato), ma questo film a episodi è veramente bruttino. Nato come sequel del più riuscito Altri tempi (1952), è stato funestato da interventi censori vari ("Casa d'altri" è l'episodio più rimaneggiato) e oltretutto la scelta delle novelle da trasporre non è fra le più felici. Anche "La macchina fotografica", interpretato da Totò e dalla Loren, in alcune copie è stato ridotto di circa la metà e in altre del tutto soppresso.
- Con scrittori di vaglia come Pratolini, Campanile, Moravia, Patti e altri, con valenti sceneggiatori come Age, Scarpelli e Continenza e un cast stellare, Blasetti riesce a partorire nove “topolini”, nove ipotesi di drammi o di commedie alcune delle quali sono solo delle freddure. Passabili “Don Corradino”, “Scene all'aperto” e “Casa d’altri”; mi ha intrigato quello con Sordi “Scusi ma...” che ho trovato di una furbizia molto sottile, mentre l’episodio con Totò e la Loren è solo un francobollo attaccato alla fine e neanche molto spiritoso. Merita una visione.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Gustosissimi i siparietti con il Quartetto Cetra, L'esplosiva bellezza casareccia di Sophia Loren ruba la scena persino a Totò.
Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo | |||
EPISODIO "DON CORRADINO" - La piazza dove, durante l’inseguimento in sidecar all’autobus condotto da Don Corradino Scognamiglio (De Sica) e che a sua volta stava inseguendo la vettura sulla quale era salita Nannì (Fiore), il controllore Amedeo Stigliano (De Filippo) rimane imbottigliato nel traffico, ha doppia natura. CAMPO: nel campo, quando vediamo vediamo De Filippo bloccato dal vigile, siamo in realtà in una finta piazza, ovvero all'incrocio tra Via Matteo Renato Imbriani (dalla quale proveniva il sidecar) e Via Salvator Rosa a Napoli. | |||
CONTROCAMPO: nel controcampo viene, però, mostrata la parecchio distante Piazza Piedigrotta, sempre a Napoli. | |||
EPISODIO "MARA" - La casa d’appuntamenti dove vorrebbe andare a lavorare Mara (Delorme), che vi rinuncerà consigliata da Vasco (Montand), si trovava in Lungarno degli Acciaiuoli a Firenze, ospitata in una edificio semidiroccato oggi risanato e totalmente modificato, così come tutti gli edifici circostanti, che all’epoca mostravano ancora i segni delle guerra. EPISODIO "MARA" - La casa d’appuntamenti dove vorrebbe andare a lavorare Mara (Delorme), che vi rinuncerà consigliata da Vasco (Montand), si trovava in Lungarno degli Acciaiuoli a Firenze, ospitata in una edificio semidiroccato oggi risanato e totalmente modificato, così come tutti gli edifici circostanti, che all’epoca mostravano ancora i segni delle guerra.Che si trovi sul Lungarno degli Acciaiuoli lo dimostra questo fotogramma, nei quali vediamo Mara e Vasco attraversare la strada proprio di fronte al bordello, mentre sullo sfondo si riconoscono gli edifici del Borgo San Jacopo. | |||
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Senza alcuno stacco d’inquadratura – confermando quindi che siamo proprio in questo luogo – i due raggiungono l’esterno del bordello. Più sotto come si presentava l’edificio posto immediatamente a destra del bordello. Risanate le ferite inferte dalla guerra, oggi il Lungarno degli Acciaiuoli si presenta così (visto da Ponte Vecchio per rispettare il medesimo angolo di riprese degli ultimi due fotogrammi, foto a colori): la zona dove si trovava il bordello è quella dove la palazzata ha un “buco” (l’edificio più basso ha un aspetto più recente rispetto a quelli circostanti). Proprio alle spalle di quel punto si trova la Piazzetta dei Del Bene (quella che si vede nell'ultimo fotogramma), che fu aperta dopo le distruzioni della guerra. | |||
EPISODIO "DON CORRADINO" - Il ristorante dove Don Corradino Scognamiglio (De Sica) offre un pranzo a tutti i passeggeri dell’autobus, compreso il controllore Amedeo Stigliano (De Filippo) che l’aveva appena licenziato, felice perché Nannì (Fiore) aveva ammesso di essersi innamorata di lui molto probabilmente non è mai esistito: dal confronto con le immagini di ieri ed oggi pare che la scena sia stata girata posizionando un'insegna posticcia alle spalle di uno dei belvedere del Parco Virgiliano, situato in Viale Virgilio a Napoli, dove son stati piazzati dei tavolini. | |||
EPISODIO "DON CORRADINO" - La strada dove, durante l’inseguimento in sidecar all’autobus condotto da Don Corradino Scognamiglio, al controllore Amedeo Stigliano (De Filippo) cadono in testa dei panni stesi, "tranciati" dall'autobus è Via Santa Maria della Neve a Napoli. La cancellata sulla sinistra è quella della chiesa dove si sposerà Filumena Marturano. | |||
La piazza dove un gruppo di turiste inglesi, dopo essere scese alla fermata dall'autobus, scattano una fotografia all'autista Don Corradino Scognamiglio (De Sica) è Piazza Dante a Napoli. | |||
EPISODIO "IL PUPO" - La prima chiesa dove Maria (Padovani) e il marito cercano di abbandonare il loro bambino perché impossibilitati economicamente a crescerlo, ma rinunciano perché la chiesa non piace a lei, è la Chiesa della Santissima Annunziata, situata in Piazza Regina Margherita a Sabaudia (Latina). | |||
EPISODIO "DON CORRADINO" - La fontana presso la quale Corradino Scognamiglio (De Sica) lascia l'autobus e dalla quale saluta l'affascinante straniera dopo una notte d'amore è la Fontana del Gigante (o dell'Immacolatella), in via Nazario Sauro a Napoli. | |||
EPISODIO “MARA“ - La scuola elementare dove insegna Vasco (Montand) è l’ex orfanotrofio Pestalozzi (chiuso nel 1943), situato in Via dei Benci 9 a Firenze. Oggi l’edificio è di proprietà della vicina chiesa evangelica metodista, che si vede sulla destra, ospitata nell’ex chiesa cattolica di San Jacopo tra i Fossi.Il fotogramma è ripreso dall’interno del bar frequentato tutte le mattine da Vasco per la colazione (se ne intravede la tendina sulla sinistra): trattasi del ristorante "Le Colonnine", in Via dei Benci 6. | |||
EPISODIO "DON CORRADINO" - La strada in cui passa l'autobus di Don Corradino (De Sica) mentre insegue la vettura con a bordo Nannì (Fiore) è Via Piazza Larga, a Napoli. |
Tempi nostri, episodio "La macchina fotografica" (1954) - Biografie e articoli correlati
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Totò e... Furio Scarpelli
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Totò vent'anni dopo riabilitato dalle risate dei giovani
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò proibito", Alberto Anile - Ed. Lundau, 2005
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- Alessandro Blasetti in "L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. 1", (Franca Faldini - Goffredo Fofi), Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009
- Renato Giani «Cinema», anno VI, n.114, 31 luglio 1953
- «Noi Donne», anno IX, numero 11, 14 marzo 1954
- Giulio Cesare Castello, «Cinema», anno VII, n.130, 31 marzo 1954
- Gian Luigi Rondi, «La Fiera Letteraria», anno IX, n. 14, 4 aprile 1954
- "Totò, un napoletano europeo" (Valentina Ruffin), Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996