Totò e le donne
Cav. Filippo Scaparro
Inizio riprese: settembre 1952, Studi Ponti - De Laurentiis
Autorizzazione censura e distribuzione: 15 dicembre 1952 - Incasso lire 500.500.000 - Spettatori: 4.125.114
Titolo originale Totò e le donne
Paese Italia - Anno 1952 - Durata 95 min - B/N - Genere Commedia - Regia Steno, Mario Monicelli - Soggetto Age, Furio Scarpelli - Sceneggiatura Age, Furio Scarpelli, Steno, Mario Monicelli - Produttore Ponti-De Laurentis-Rosa Film - Fotografia Tonino Delli Colli - Montaggio Gisa Radicchi Levi - Musiche Carlo Rustichelli - Scenografia Piero Filippone
Totò: cav. Filippo Scaparro - Ave Ninchi: Giovanna, la moglie - Giovanna Pala: Mirella, la figlia - Peppino De Filippo: dott. Paolo Desideri - Lea Padovani: Ginetta, la prostituta del tabarin - Clelia Matania: Carolina, la cameriera - Teresa Pellati: Irene, una prostituta del tabarin - Alda Mangini: la signora dai gusti difficili - Franca Faldini: amante di Scaparro - Pina Gallini: la suocera - Mario Castellani: ragionier Carlini - Salvo Libassi: regista siciliano - Carlo Mazzarella: presentatore del concorso di bellezza - Primarosa Battistella: Antonietta - Mimmo Poli: infermiere (non accreditato) - Carlo Vanzina: Filippo il neonato (non accreditato) - Olga Villi: una donna (non accreditata)
La storia inizia nella soffitta del Cavaliere Filippo Scaparro (Totò) il quale, rivolgendosi in favore di cinepresa, inizia un lungo discorso contro il genere femminile. Inizia a parlare del suo difficile matrimonio con la moglie Giovanna (Ave Ninchi), per sfuggire dal quale si rifugia appunto in soffitta: l'occasione è propizia per mettere a nudo tutti i difetti del gentil sesso, attraverso racconti ed episodi narrati con la tecnica del flashback. Moglie, figlia, domestica, le amanti del passato, un ipotetico altro matrimonio, le clienti del suo negozio: nessuna si salva. A un certo punto irrompe in soffitta anche il futuro genero (Peppino De Filippo) che, spinto da Filippo, racconta altri aneddoti sulla stessa falsariga che hanno come protagonista la sua fidanzata; la bellezza della ragazza però lo convincer a rimanere con lei e sposarla. Succede poi che l'ennesima litigata di Filippo con la consorte, generata proprio da questo isolamento in soffitta, porterà lei a lasciare il tetto coniugale, non senza avergli rivelato alcuni episodi del passato che testimoniano i numerosi sacrifici compiuti per lui e per tirare avanti la famiglia, confessioni che, nel giorno del matrimonio della figlia, permetteranno ai due coniugi di ritrovarsi e riavvicinarsi.
Durante uno dei monologhi, Totò consiglia lo spettatore di sesso maschile a cercare anch'egli uno spazio proprio in soffitta dove rifugiarsi dalle angherie coniugali: conia, a tale proposito, il neologismo "soffittizzatevi", che si rifà allo slogan di stampo comunista allora in voga "sovietizzatevi".
Critica & curiosità
Totò e Peppino De Filippo si ritrovano per la prima volta a realizzare un film insieme. Memorabile lo sketch con Clelia Matania nel ruolo della domestica smemorata e la moglie Ave Ninchi, che per una dimenticanza di un nome al telefono mandano entrambe in crisi il cav. Scaparro. Alla regia risultano Steno e Monicelli, quest'ultimo impegnato nella realizzazione di un altro film, in realtà fu completato solo da Steno. I due, di comune accordo, talvolta firmano i lavori congiuntamente anche se in realtà lavorano separatamente. La scena dell'incontro con l'amante al caffè venne girata al caffè Canova di piazza del Popolo a Roma, mentre quella nella stazione venne girata nella stazione Ostiense della capitale.
Così la stampa dell'epoca
Stavolta non siamo al cinema ma a una conferenza. E' sulla cattedra il celebre professor Totò, con la sua mutria a scaleno, e infatti indirizzandosi direttamente al pubblico egli comincia sin dal principio a sviluppare la sua tesi, essere il genere femminile un genere abominevole e pestifero [...]
Filippo Sacchi, «Epoca», 1952
Non e' un film. E' una specie di festino in famiglia tra Totò e i suoi mille e mille tifosi. La farsa, basata sulle battute e le prestazioni che fecero e fanno la popolarità del comico sul palcoscenico, vuol essere una antologia di lamentazioni sulla vita del marito e dell'uomo in genere seviziato dal sesso debole. E' un film grossolano ma fa ridere a crepapelle.
Alfredo Orecchio, 1952
È un film comico polemico di Totò contro le donne in quanto egli tende a sostenere che tutte le donne, dalla moglie alla figlia, dalla governante alla vicina, dall’amante alla donna di un giorno, sono: inopportune, prepotenti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose, noiose. In questo film Totò lancia uno slogan: « Contro il logorio della donna moderna... soffittizzatevi! ». Cioè andatevene in soffitta, lassù le donne non vi seguiranno ed allora potrete veramente sentirvi liberi di fare tutto ciò che vorrete, leggere libri gialli in pace, buttare mozziconi sul pavimento, ecc. Nelle foto sopra, tre divertenti momenti del film, si vedono da sinistra: Totò con la prima moglie (Primarosa Battistella) Totò con una ballerina (Lea Padovani); Totò in uno dei rari attimi di libertà che gli concedono le donne. Altri interpreti del film che si svolge con la partecipazione di Peppino De Filippo sono: Franca Faldini, Ave Ninchi. Teresa Pellati, Giovanna Pala, Clelia Matana, Alda Mangini e Mario Castellani. Regia di Steno e Monicelli; produzione Rosa Film.
«Tempo», anno XIV, n. 51, 13 dicembre 1952
Misoginia di un comico in Totò e le donne, di Steno e Monicelli. E’ un monologo che Totò, rifugiatosi in soffitta per sfuggire alle angherie della moglie e della figlia, pronuncia contro l'altro sesso; o, piuttosto, una specie di violenta requisitoria, nella quale si intercalano episodi dimostrativi. Tutti i difetti attribuiti, equamente o no, alle donne, vi sono illustrati, con grottesche deformazioni: l'intolIeranza, l'avidità, l'ipocrisia, l'ambizione, l’esosità. Ave Ninchi, moglie urlona ed esuberante, offre con allegria i prosperi fianchi alle critiche e controbatte con attacchi egualmente violenti indirizzati al mariti.
Lea Padovani, Giovanna Pala, Franca Faldini sono le altre seviziatrici di uomini; Peppino De Filippo, come Totò, accetta con rassegnazione le sevizie. A tratti il film fa qualche concessione alla volgarità; il suo tono è quello dello spettacolo di rivista, pepato e sboccato; non dispiacerà ai fedelissimi di Totò.
lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 24 dicembre 1952
E' una specie di monologo che Totò, standosene in soffitta — unico luogo della casa dove possa rifugiarsi per trovare un po' di pace — fa contro le donne ed i loro difetti Sfilano cosi, presentati come esempi dimostrativi, vari tipi femminili, a cominciare dalla moglie e dalla figlia, con una con la sua speciale forma d’aggressività contro gli uomini, vittime fin dai giorni dell’infanzia dell'incongruenza delle donne. Il film, fatto su misura per dare soddisfazione agli ammiratori di Totò, riesce in complesso abbastanza divertente, anche se d'una comicità talvolta grossolana. Ad ogni modo un filmetto senza pretese, alla cui riuscita contribuiscono con vivacità Ave Ninchi, Lea Padovani, Franca Faldini, Giovanna Pala, Clelia Matania, Alda Mangini e Peppino De Filippo La regia è di Steno e Monicelli.
Vice, «Il Messaggero», 25 dicembre 1952
Tema obbligato di questa farsa che ha Totò come protagonista, sono le donne, i loro difetti, i loro strepiti e loro grida. moglie, figlia o cameriera che sia virgola la donna, infatti, non avrebbe altro fine che vessare con le sue mani e, uomo che le sta vicino, costretto spesso a rifugiarsi in soffitta nella speranza di trovare da su un po' di pace. Eppure, quando le preghiere al barbuto Landrou, uccisore di donne a mazzetti, e, protettore, quindi, degli uomini, sortiscono l'effetto desiderato e la moglie fa le valigie per tornare da l'infausta madre, allora l'uomo dimenticati difetti ne ricorda le virtù, la rimpiange e corre a riportarla sotto il tetto coniugale.
Una farsa, come si è detto, e di quelle che molto da vicino ricordano con le loro battute e le loro situazioni, il varietà o la rivista, ma Totò, si sa, ha sempre il suo pubblico fedele che, anche questa volta è corso all'appuntamento per ridere e divertirsi. Le interpreti sono Ave Ninchi, Lea Padovani, Giovanna pala e Franca Faldini, regia di Steno e Monicelli.
«Stampa Sera», 25 dicembre 1952
[...] Totò è un comico capace di muovere al riso e alla distensione qualunque severissimo censore, Ma dov'è ancora, quando pretende di trasportare sullo schermo scherzi e lazzi ormai vecchi perfino sui palcoscenici dell'avanspettacolo. Forse la colpa non è sua, d'accordo: cerchino dunque i soggettisti di trovare qualcosa di nuovo per lui, sennò apprezzano come merita e come è loro preciso dovere di fare.
La trama di questo Totò e le donne è un puro e semplice pretesto per consentire al comico di prodursi nei suoi atteggiamenti preferiti: Totò, padre di famiglia, ha a che fare con la moglie, con la figlia, con la serva, con le occasionali donne delle sue avventure extraconiugali. Oltre a Totò, si producono Peppino De Filippo, Ave Ninchi, Giovanna Pala, Franca Faldini. Compare in una simpatica e fuggevole caratterizzazione la bravissima Lea Padovani. Si omettono, per carità di Patria, i nomi degli autori del film.
vice, «Momento Sera», 27 dicembre 1952
La trama di questo ultimo film di Totò si ricollega quella più celebre certamente migliore di un film francese apparso recentemente sugli schermi: «Gli scocciatori». In questo ultimo gli oggetti dell'analisi erano i vari tipi di scocciatori del film di Totò invece sono analizzati i vari tipi di donne presentate sempre come ossessionanti torturatrici dell'uomo. Presentatore protagonista dei vari episodi e Totò e le sue qualità mimiche riescono a sollevare al di sopra della mediocrità un film mal diretto nel quale è andata perduta un'idea per un soggetto di una certa originalità.
rab, «La Nuova Gazzetta di Reggio», 31 dicembre 1952
Nelle dimesse vesti di «uno dei tanti», Totó consegna alla divertita comprensione del pubblico i propri sfoghi polemici contro le donne. E, per dimostrarne la perfetta legittimità, presenta un campionario delle amarezze e dei contrattempi che a lui sono venuti da parte del sesso debole nelle sue diverse raffigurazioni, dalla moglie alla figlia, dalla cameriera all’«entraineuse» di un locale notturno ed a tutte le altre donne che sono entrate (o che avrebbero potuto entrare) nella sua vita.
La mimica — per quanto consueta — di Totò e certe sue battute qualche risata riescono a strapparla, nè si può negare che qua e là lampeggi attraverso il film qualche sprazzo di fantasia e di spirito abbastanza apprezzabile: l'accenno paro-distico a « Sensualità », ad esempio. Ma la costruzione degli episodi e la loro intonazione comica non riescono, anche qui, a superare i quanto mai discutibili limiti dello spettacolo di rivista o, tutt’al più, della farsa più facilona e grossolana. Ciononpertanto, non escludiamo che anche questa nuova esibizione di Totò possa trovare nella tuttora numerosissima rappresentanza degli ammiratori del comico napoletano ampi consensi, anche in virtù dei pregevoli scorci anatomici offerti da quelle due complete nullità artistiche che rispondono al nome di Giovanna Pala e Franca Faldini,
Personalmente, ci è dispiaciuto incontrare qui Peppino De Filippo e, ancor più, quella Lea Padovani che ancora ricordiamo come sensibile ed ispirata protagonista di «Cristo fra i muratori».
Giusi, «Gazzetta di Mantova», 7 gennaio 1953
Dulcis in fundo, Totò e le donne. Il quale, più che un film, è una conferenza sulle donne, e più precisamente sulle mogli, tenuta da Totò con la complicità e la collaborazione di Peppino De Filippo, Ave Ninchi, Lea Padovani e Giovanna Pala. E’ un film che è bene vedere da soli senza avere al fianco quella santa donna di nostra moglie.
La mia, per esempio, ad ogni scena che le rammentava per un verso o per l'altro i primi anni della nostra vita coniugale, mi stringeva amorosamente il braccio, e ad altissima voce, commossa e intenerita, gridava: «Um! tesoro! Ricordi? Anche noi facevamo così», per cui tutti gli sguardi si dirigevano su di me costringendomi ad arrossire e a soffiarmi il naso fragorosamente, tanto per darmi un contegno.
Comunque il film, nel suo insieme, è abbastanza divertente e, cosa molto importante, per la prima volta, Steno e Monicelli hanno cercato di dare al loro film non solo un significato farsesco ma anche satirico, come nell'indovinatissimo episodio del tabarin. Auguriamoci che continuino: hanno la possibilità di fare qualcosa di più che la solita scena comica finale. Auguri, signori, e che il 1953 vi sia propizio.
Osvaldo Scaccia, «Film d'oggi», 7 gennaio 1953
Cineracconto di Novelle Film
Il cavalier Scaparro veniva lungo il corridoio, strascicando i piedi sulle pezze di feltro (per non sporcare i pavimenti) e reggendo in una mano un grosso portacenere (per non spargere la cenere sui pavimenti). Se ne liberò una volta rifugiatosi nella stanza da letto, e bofonchiando prese a spogliarsi. Di lì a poco lo raggiunse sua moglie Giovanna, una donna corpulenta dal volto sempre atteggiato a fiero cipiglio. Prima d’infilarsi sotto le coltri, Giovanna volle che il marito deponesse il bacio della buonanotte su una delle sue paffute guance, il che egli fece trattenendo a malapena la repulsione. Appena a letto ella, senza dir verbo, spense la luce. Il sonno del giusto, dunque, stava per calare sull’attempata coppia. Ma il marito non aveva chiuso occhio. Dopo qualche minuto sogguardò di traverso la moglie; attese ancora un poco e infine, assicuratosi che Giovanna dormiva, si alzò silenziosamente, prese dal comodino un libro che vi era deposto, guadagnò in punta di piedi l’uscio, si dileguò per il corridoio e salì nella soffitta. Qui, finalmente sereno, sospirò di sollievo. Accese la piccola lampada bijou e si distese, comodissimamente, sopra una poltrona di vimini ben imbottita di cuscini. Quindi aperse il libro; era un romanzo giallo, dal titolo: LA vendetta, del cadavere.
A questo punto c’è da chiedersi: possibile che un uomo d’età, dopo una giornata di onesto lavoro, si riduca in soffitta per leggiucchiarsi un romanzo? O non poteva goderselo nel proprio letto? Ecco il punto: se quest’uomo, sposato da vent’anni, avesse osato riaccendere la luce nella stanza da letto e aprire il libro, anzitutto la moglie avrebbe protestato fieramente e poi gli avrebbe rivelato in un battibaleno chi, del romanzo giallo, era l’assassino! Queste, dunque, per cominciare, le delizie del matrimonio!
Pensandovi, il cavalier Scappare si innervosì. Lasciò la poltrona e, avvicinatosi a uno stipetto, accese un lumino votivo, sotto il ritratto d’un uomo barbuto.
«Landrou, mio protettore!», esclamò il cavaliere. « Ah, che grande uomo! Costui si uccise almeno una dozzina di donne... Maschiaccio! Quanto bene hai fatto all’umanità! ».
Per il cavalier Scaparro le donne erano in verità le nemiche dell’uomo. Pensate, le più recenti statistiche dicono che sulla faccia della terra esistono quattro donne per ogni uomo. Quattro contro uno: bella forza! Fin da pupo, l'uomo è vittima delle donne. Non sono forse le donne a sbaciucchiare di continuo i bambini, infastidendoli con ogni mezzo? E poi le governanti, con le loro rampogne, e le compagne di scuola che non permettono di copiare i loro compiti: finché si casca nel forno del matrimonio.
Ci sarebbe da pensare che nel cavalier Scaparro tanta animosità contro le donne traesse motivo dall’aver sposato un donnone sgraziato come Giovanna, ma in realtà non era così. Eh, eh! Prima di conoscere Giovanna, egli aveva avuto come fidanzata un fiore di fanciulla. Antonietta! Bella, spumeggiante, leggiadrissima. E se l’avesse sposata? Bravi! Se l'avesse sposata, senza alcun dubbio sarebbe accaduto che Antonietta avrebbe vinto uno dei tanti concorsi di bellezza, fino a che si sarebbe impadronito di lei il cinema. Il cavaliere, pensandoci, vedeva benissimo le cose. E che genere di film avrebbero fatto interpretare ad Antonietta? Film passionali, anzi carnali in sommo grado, appunto come suggeriva alle menti la figura di lei sinuosa e a un tempo rotonda. E per lui la vita sarebbe divenuta infernale, spaventosa... Cosi aveva sposato Giovanna.
Rivolgendosi al 'ritratto di Landrou, il cavaliere esclamò di nuovo: « Bravo! Bravo mille volte! E che è mai la donna? Prepotente, ipocrita, egoista, falsa, invadente, soffocante... Un vero flagello! ».
Eh, quante mai ne aveva passate, il cavalier Scaparro !
Tornò a sedere nella comoda poltrona, ma ormai non aveva più alcun desiderio di leggere. Pensava. Pensava a un anno fa, press’a poco di questi giorni.
Rincasava, era quasi sera, e sulle scale incontrò un coinquilino, il ragionier Carlini. Entrambi si informarono delle condizioni di salute delle rispettive consorti, e sospirando amaramente constatarono che permanevano floride.
« Purtroppo, caro cavaliere », diceva in tono funereo il Carlini.
« Ma verrà il bello, ragioniere mio », rispose Scaparro. « Comunque, io me ne sto bene, al momento. Nessun pericolo in vista! Non sporco i pavimenti e taccio sempre, ho preso la pelliccia a mia figia, e quindi per ora me ne sto in una botte di ferro. Speriamo in meglio, ragioniere! ».
« Speriamo, speriamo bene », fece l’altro, sconsolatamente.
Aveva appena bussato all’uscio di casa sua, ed ecco sua moglie e la figlia comparire. Lo afferrarono e lo portarono di peso dentro.
«Oè, sapete dirmi che succede?».
« Mettiti subito a letto », gli ingiunse Giovanna.
« Tu sei malato, papà », diceva Mirella.
« E che vi prende? Ma io sto magnificamente... Oè!... », gridava lui, dibattendosi.
Dovette mettersi a letto. Il fatto era che Mirella aveva conosciuto un medico. Di mezza età, non quel che si dice un Adone, anzi con dei baffi fin troppo buffi: eppure, era un tipo che poteva riuscir ottimo come marito per Mirella! E allora, per attirarlo in casa, le due donne avevano escogitato lo stratagemma del cavaliere ammalatissimo. Il medico venne di corsa; visitò meticolosamente il cavaliere, divagando tuttavia con gli occhi e con la mente attorno ai contorni della procace figura di Mirella. Poco mancò che non diagnosticasse il cavaliere in fin di vita! Ordinò che seduta stante gli venisse propinata una iniezione per il cuore, e si offerse Mirella per la bisogna. Figurarsi le urla e i vani tentativi del cavaliere per sottrarsi al supplizio, poiché egli sapeva che Mirella non aveva dimestichezza alcuna con siringhe e fiale!
« Oh, dottore », badava a ripetere Giovanna. « Mia figlia ci ha tutta la passione per l’arte medica!... Fin da bambina faceva iniezioni... ».
Il medico gongolava dalla gioia, serrando le mani alla ragazza; il cavaliere si divincolava in ogni senso... Finché, brandita la siringa, Mirella affondò di scatto l’ago in una parte posteriore del corpo paterno. Un urlo tremendo lacerò gli spazi! Ma fu così che Mirella si fidanzò...
Rammentando la scena, il cavaliere sentiva ancora i brividi corrergli per la schiena.
Mosse verso la poltrona di vimini allorché udì un colpo secco. Si voltò in direzione della finestrella che dava sul cortile e con enorme stupefazione vide che un gancio, lanciato dal disotto, s’era affrancato sul davanzale. « Un ladro! », pensò d’acchito. E sì nascose nella penombra, di lato alla finestra. Si udì il fruscio d’un corpo che si arrampicava, e infine un uomo balzò nella soffitta. Indossava un impermeabilone nero che copriva persino i piedi, e sulla testa recava una calotta di gomma. Il cavaliere riconobbe in costui il dottor Paolo Desideri, fidanzato di Mirella. Lo affrontò, ritenendo che gli si fosse recato lì per rubare. Gli fece una piccola paternale e poi, proprio per non lasciarlo andare a mani vuote, gli diede una palla, un ventaglio e un fuciletto. Il medico sembrava enormemente confuso.
« E che me ne faccio del fuciletto? », domandò, appena potè parlare.
« E che ladro sei? Con l’arma potrai rapinare qualcuno », disse il cavaliere.
« Macché rapinare, cavaliere! Io son venuto qua per trovare sua figlia... ».
« Mia figlia?! ».
« Sì, cavaliere. Mi ha dato. appuntamento. Sono così paludato perché ieri sera caddi nella fontana del cortile e m’inzuppai... Ora almeno ho l’impermeabile!... ».
Il cavaliere, stupito, trascinò il dottor Desideri fino alla finestrella. Guardò sotto la fontana; levando il dito teso, come ad accusare, impietrito dalla meraviglia, disse: « E come? Disgraziato! Per vedere una donna, lei casca nelle fontane? ».
« Ma è lei che vuole così... Mirella... ».
« Disgraziato! Ci sei caduto, dunque, nella trappola! E magari vuoi sposarla, eh? ».
« Sì, cavaliere... Capirà, si potrebbe dire che... che l’ho compromessa... ».
« E tu caschi nelle fontane... e la comprometti? Sei un disgraziato... Ma io voglio salvarti, voglio salvarti dalle grinfie di costei... ».
« Cavaliere, che dice mai? Mirella è vostra figlia, cavaliere... ».
« Sicuro: ma sempre appartenente al genere femminile! ».
Spinse il poveretto verso la poltrona a vimini, lo fece sedere e poi, mellifluo, mefistofelico, domandò: « Tu la vuoi sposare? ».
« E sì, e sì », rispose l’altro, atteggiando gli occhi di pesce frollo. « Mi piace, sa, mi piace tanto... ».
« Dunque ti piace... Tu l’ami, disgraziato, lei è perfetta, dunque... ».
Paolo rifletté per qualche istante e disse: « Però un difetto... ce l’ha, sì, ce l’ha... ».
« Ce l’ha! Ah, benissimo! Eureka! Tu forse puoi essere salvato... Eureka!... ».
« Sì, caro cavaliere... A esempio, far salire dalla finestra, per una corda, un uomo della mia età... E’ una cosa che non va, caro cavaliere! Come quella di voler chiamarmi passerotto... Di telefonarmi in clinica, persino, e dirmi che è la mia passerottina... E volere che io dica cip-cip-cip... ».
« Cip-cip? ».
« Sì, cavaliere... Cip-cip-cip... Cip-cip-cip... Con tutti i professori che passano e mi sentono... E i malati, e i moribondi... Non è una cosa seria, mi creda! ».
« Altro che, se lo credo! ».
« E poi gli appuntamenti », seguitò Paolo, alzandosi e mettendosi a passeggiare in su e giù. « Mai che sia puntuale. L’appuntamento è alle 4,30: passa un’ora, passa un’altra ora, e non si vede... ».
« Ma poi viene? ».
« Ah, no: manco si cura di venire, cavaliere mio! ». Scaparro si fregava le mani dalla contentezza. D’improvviso si fece scuro in volto, allungò lesto una mano e strappò la cravatta al medico. « E questa schifezza, te l’ha regalata lei, Mirella? ».
« Sì », ammise Paolo, contrito.
« Ah, ah! I regali! Il primo regalo è una cravatta, sempre così: la più fetente che si venaa, ecco che una donna te la regala... Tu le regali una stupenda pelliccia, e lei un cappello da cow-boy; tu le regali un brillante, e lei una pipa antidiluviana... Basta con i regali, basta con queste schifezze! E che uomo sei, dico! ».
Si udì un lieve fruscio; i due uomini, rapidamente tentarono- di eclissarsi dietro uno scaffale, ma il cavaliere non fece in tempo che l’uscio si spalancò.
Apparve Mirella, mezzo discinta, ammantata in una serica vestaglia.
« Che lai qui, papà? », domandò la ragazza, sorpresa e contrariata.
« Come, che faccio? Spolvero, non vedi che spolvero? », disse il cavaliere, fingendo di spolverare attentamente lo scaffale con un pennellino che provvidamente aveva trovato. « Piuttosto tu, che vieni a fare in soffitta, a Quest'ora? ».
« Non riuscivo a dormire e sono venuta quassù », rispose Mirella. Prese da una grossa mensola una pera e negligentemente incominciò a masticarla, dirigendosi verso un sofà, sul quale sedette.
Frattanto il cavaliere, sempre fingendo di spolverare, girò dietro lo scaffale e fece cenno a Paolo di fuggire, dalla finestra, badando a non farsi vedere da Mirella. Paolo annuì. Sembrava proprio che i ragionamenti del cavaliere l’avessero convinto, ma passando* da un punto ove lo scaffale era vuoto, egli intravide Mirella, seduta sul sofà, a gambe nude e con la vestaglia generosamente aperta.
« Ehi », disse sottovoce il cavaliere a Paolo, « quella la vede... ».
« La vedo, la vedo! », mugolò Paolo, svampito.
Mirella, noncurante di tutto, quanto mai affascinante nel suo splendore, seguitava a masticare la pera.
Il cavaliere riuscì a spingere Paolo fin sopra la finestra, ma qui il medico si volse di nuovo a rimirar Mirella, che s’era distesa sul sofà. L’impressione che ne ebbe gii fece perdere l'equilibrio, e capitombolò nel vuoto. Sì udì il tonfo nella fontana!
« Che è stato, papà? », domandò la ragazza, voltandosi a mezzo.
« Nulla, mia cara, nulla: uno stupido gatto in amore ch’è cascato nella fontana... ».
Mirella si alzò. Era evidente la sua irritazione.
« Che hai, figliuola? », domandò il cavaliere, sornione.
« Oh, voi uomini! Tutti uguali! », sbottò Mirella, avviandosi per uscire. « E sì che mi ero messa la vestaglia nuova! ».
Come l’uscio si richiuse alle spalle di Mirella, il cavaliere sorrise di compatimento. Le donne! Ma che cosa non complicano le donne? Un appuntamento banale, ecco che diventa un’esibizione acrobatica! Eh, anche lui, ai suoi tempi, aveva conosciuto una donna complicata! L’aveva conosciuta al mare: a Ostia. Una bellissima signora, veramente di classe. Moglie d’un gerarca del regime passato... Che donna! Lui l’aspettava in un caffè di lusso, a Roma. Erano gli anni della guerra. Lei arrivava e fingeva di non vederlo neppure. Sedeva alle sue spalle: e parlavano così, spalle a spalle, mandandosi baci sperduti, perché lei diceva che il marito era geloso, uh!, com’era geloso! E diceva che dappertutto c’era gente pronta a scoprire l’infedeltà e riferire al marito!
Un giorno, finalmente, per potersi baciare, ella gli dette appuntamento alla stazione. Con tanta gente che parte, baciarsi alla stazione è la cosa più naturale del mondo! Egli si avvicinò alla maliarda, dimenandosi sui tacchi. Mentre lei fingeva l'aria più innocente possibile, appoggiandosi all’ombrello, egli le domandò: « Perché, ieri, mi hai schiaffeggiato? ».
« Caro », rispose la magnifica, ridendo, « credevo che ci avesse visti la moglie d’un collega di mio marito... Invece m’ero sbagliata! ».
« Però io lo schiaffo l’ho preso... ».
« Sciocchezze... ».
« Tesoro, baciami! », le. sussurrò.
Di scatto la bellissima si volse e come una pantera gli morse la bocca. Un istante dopo, ella era in preda al panico. « Oh, povera me, c’è un collega di mio marito! Su, ti prego caro, sali sul treno, fingi d’essere mio fratello.., ».
« Ma il treno parte... », tentò debolmente il cavaliere.
« Ti prego, salvami... ».
Egli salì sulla prima vettura che si trovò dinanzi. E quello era un convoglio carico di detenuti politici, diretto ai lager della Germania. Così egli finì nel terribile lager di Mathausalem! Quante volte, sotto la minaccia delle armi di qualche diabolico ”SS”, egli si perdeva ad ammirare la fotografia della meravigliosa donna! La guardava sospirando profondamente e prima di riporre la foto in tasca... zac!, le sputava sulla faccia al bromuro d’argento!
Le donne! Ma non è la moglie stessa a metterti sulla strada dell’infedeltà? A esempio, quando parte per la campagna. Appena lei è uscita, che pensa il marito? Di darsi alle orge, ai baccanali, naturalmente! E la stessa sera, eccolo entrare in un tabarin, alla ricerca dell’avventura di una notte! Anche il cavaliere aveva fatto cosi. Era andato al Mocambo. Un localetto coi fiocchi! Tutte donnine allegre. Lui aveva conosciuto Ginetta. Una bella pupa, nerissima, fiammeggiante d’ardore. Gli aveva fatto ordinare una bottiglia di champagne e, sul più bello, proprio quando lui incominciava a render l’atmosfera più confidenziale, sbaciucchiandole le spalle, eccola scattare.
« Tu assomigli al mio primo amore, sai? Sei tutto lui... ».
« Ah, si? », fece il cavaliere. «Ma allora era un bell’uomo,.. ».
« Un disgraziato! M’ha rovinato la vita... E adesso è in galera! ».
Poi, gli aveva fatto sorbire una lunga tiritera sulle sciagure familiari: la madre ottantenne che veniva buttata sul lastrico da un esoso padrone di casa, il figliuoletto di cinque anni e mezzo che aveva gli orecchioni, un fratello disoccupato con tre figli, una zia rimbambita! Quando Ginetta gli mostrò la fotografia del figliuoletto, il cavaliere scoppiò in lacrime.
Eh, altro che donnine allegre! Terribili, scoccianti anch’esse!
Il cavaliere scosse il capo tristemente. Sospirò. Mandò una strizzatina d’occhi al ritratto dì Landrou, e fece per sedere e mettersi a leggere, ma l’uscio della soffitta si spalancò e comparve sua moglie. Era furibonda, non avendolo trovato più al suo fianco, nel letto. Ne nacque un alterco, al termine del quale ella gridò fieramente che era stufa di lui e d’una simile vita, e quindi tornava da sua madre.
« Come hai detto? », domandò il cavaliere, d’un tratto attentissimo.
« Sì, sono stufa, stufa marcia..,».
« No scusa, mi sembrava... tu avessi alluso a un ritorno... ».
« Sì, sì, torno da mia madre-subito.,. Torno da mia madre... ».
Mentre ella usciva, il cavaliere aveva una omerica esplosione di gioia. Ballava come un bambino, cantava a squarciagola, inviava baci a dozzine al suo protettore Landrou! Scese quindi anche lui e portò due capaci valigie alla moglie, che stava ammonticchiando i propri abiti sul letto.
« Ah, sei felice che me ne vado, vero? ».
« Non posso negarlo », ammise il cavaliere.
« Sicuro, adesso che sono ingrassata, imbruttita, invecchiata... ».
« Non ho nulla da eccepire », disse il cavaliere, arricciandosi un baffo.
« Ah! », ululò Giovanna. « Vent’anni di strazio, ho passato con te.., ».
« Ma che dici? ».
« Sicuro: di strazio. A far questa vitaccia: con mille lire al giorno... E già che ci sono, devo dirti qualcosa. Tu dici sempre che mangi solo vitello, al massimo vitellone, eh? Bene: da vent’anni, caro mio, invece dì vitello hai sempre mangiato carne di cavallo! ».
« Uh, che schifo! », urlò il cavaliere.
« Sicuro. E il vino era annacquato.,. ».
« Lo sapevo », gridò il cavaliere sogghignando, « ma tu non sai che ogni giorno, dal vinaio qui sotto, mi bevevo un ottimo quartino... ».
« L'ho sempre saputo, mentre tu non sai che m'ero messa d’accordo col vinaio: ti faceva pagare di più, così al sabato mi dava un bel fiasco di vino gratis! ».
Questa volta le urla del cavaliere raggiunsero il settimo cielo.
Finalmente Giovanna terminò le
valigie. Stava per andarsene, quando egli le rammentò che portava via, insieme ai vestiti, il braccialetto d’oro che lui le aveva regalato.
« Ottanta grammi d’oro! », precisò il cavaliere.
« Di piombo! Quello d’oro l’ho venduto quando tu sei stato a letto un mese e mezzo col tifo, e non sapevamo come andare avanti... Non te l’ho mai detto, e mi sono accontentata.., ».
Il cavaliere divenne d’un tratto molto triste. Fece per richiamarla, ma Giovanna ormai se n’era andata.
Non sì videro più; fino al giorno in cui si celebrarono gli sponsali di Mirella con il dottor Paolo Desideri.
Mirella era stupenda nel candido abito da sposa, e vicino a lei Paolo sembrava continuamente emozionato, tremolante come un fuscello percosso dalla brezza! Dal suo angolo, il cavaliere tentò varie volte, a cenni, di dissuadere Paolo dal passo estremo, ma quello nemmeno gli badò, così il matrimonio ebbe luogo celerissimamente.
Mentre gli sposi firmavano, sul registro dello Stato Civile, Giovanna, fiancheggiata da sua madre, la quale dardeggiava il cavaliere con occhiate fulminanti, si avvicinò a suo marito.
«Ho degli oggetti da darti, che sbadatamente avevo portato con me », disse Giovanna. E gli passò un pennello per la barba, dei calzini, le bretelle vecchie.
« Anch’io ho qualcosa da darti », fece il cavaliere, falsamente disinvolto.
Levò dalla tasca il bracciale. Lo consegnò alla moglie, dicendo: « E’ d’oro. L’ho fatto rifare, Giovanna ». Tolse dall’altra tasca il bracciale d’ottone che lei gli aveva dato la sera dell’abbandono. « Questo me lo tengo... perché... perché per me ha un gran valore!... ».
Si vedeva che era commosso. Giovanna, commossa all’estremo, non seppe resistere e gli gettò le braccia intorno al collo. Così la pace era alfine ritornata per sempre.
Mentre tutti uscivano dall’ufficio del Municipio il cavaliere pensava: « Ecco qua: si lotta, si soffre per liberarsene, si crede d'esservi arrivati, ma invece vincono sempre loro. Le donne! ».
Naldo Pagos, «Novelle Film», 10 gennaio 1953
TOTO' E LE DONNE (italiano). — Totò è sempre Totò, ossia bravissimo, così come un film di Totò è sempre un film di Totò, ossia comicissimo. Ma, essendo la personalità dei principe-comico più forte di quella di un film stupido, il pubblico viene preso dalla prima, e cosi si diverte, perchè la bravura di Totò è di quelle che fa divertire. E cosi si guarda lui, si ride per lui, e si passa sopra a tutto il resto (trama, luoghi comuni, insulsaggini). Nel presente film, si narra tutto quello che succede a Totò in campo sentimentale, e naturalmente ne succedono di tutti i colori; è lo stesso Totò ad avvertire il pubblico che le donne non possono portare che guai e lo dimostra con quello che è capitato a lui nei suoi rapporti con le donne della sua vita: la moglie, la fidanzata, la ex-fidanzata, la sorella, l'amica, un’altra amica, un'altra amica ancora... Sfilano cosi via via Lea Padovani, Giovanna Pala, Ave Ninchi, Clelia Matania, Primarosa Battistella e — in una parte brevissima ma significativa — la promessa sposa di Totò Franca Faldini che a Hollywood ha imparato a recitare come si conviene a una futura imperatrice.
Vice, «Film d'oggi», 21 gennaio 1953
Totò è il marito di una donna molto invaderne e bisbetica sicché dopo le infinite ripicche di sempre, un giorno decide di separarsi. Provvidenzialmente giunge però a questo punto il matrimonio della loro figlia, perchè esso consente il riavvicinamento dei genitori che in fondo si volevano bene. Il film, che si avvale della collaborazione di ottimi artisti comici, contiene qualche idea o battuta felice (la donna di servizio che non ricorda le telefonate) in complesso risulta uno dei più azzeccati.
«Il Popolo di Novi», 29 gennaio 1953
Secondo i dati essenziali, il film, di Steno e Monicelli nel 1952, è recitato da Totò che i due registi avevano già diretto tra l’altro in «Guardie e ladri» assieme a Ave Ninchi, Peppino De Filippo, Lea Padovani, Franca Faldini, Alda Mangini, Clelia Matania e la preziosa «spalla» Mario Castellani. Il comico qui si chiama Scarparo, è un infelice che si rifugia in una soffitta, contemplando un ritratto dello «sterminatore di donne» Landru, quando la moglie bisbetica lo fa ammattire più del sopportabile.
«Corriere della Sera», 8 marzo 1989
Regia di Steno e Monicelli. Con Totò, Ave Ninchi, Lea Padovani, Franca Faldini, Alda Mangini, Clelia Matania, Peppino De Filippo. Comico, Italia, 1952. Raitre, ore 20.30
Rintanato in soffitta per sottrarsi alle angherie della moglie, l’infelice Scaparro (ossia Totò) trascorre il tempo a rievocare le svariate donne del passato. Tutte esperienze negative, egli conclude, tenendo costantemente gli occhi sul ritratto del suo «eroe», il famigerato Landru, sterminatore di femmine. DURATA: 1 ora e 43 minuti.
«Corriere della Sera», 10 luglio 1992
I documenti
Soffittizzatevi!
Di particolare interesse è il neologismo "soffittizatevi":
«Soffittizzarsi» 'ritirarsi, trovare riparo in soffitta'... per invocare, con maschilismo tradizionale da avanspettacolo, la necessità per il laborioso uomo italiano di difendersi dalle irrazionalità femminili, cercando, di quando in quando, rifugio in un luogo appartato. Siamo nel 1952, il boom è ancora di là da venire, gli italiani non hanno grandi risorse. Non possono permettersi attici, mansarde (tanto meno loft) o terrazze chiuse e condonate. Devono ricorrere alla soffitta condominiale..
Silverio Novelli, Treccani - Lingua italiana
Si tratta di una evidente parafrasi della pubblicità dell'epoca che, per reclamizzare la Vespa, creò l'imperativo "Vespizzatevi!".
Un'altra parodia di réclame, quella che faceva Ernesto Calindri alla radio, successivamente alla TV, con il ritornello: "Contro il logorio della vita moderna...", che Totò trasforma in: "Contro il logorio della donna moderna"...
Le donne secondo il Cav. Scaparro
Scaparro, nel suo lungo monologo in soffitta, dice che le donne sono "Inopportune, prepotenti, malinconiche, incoscienti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose, noiose, esose". Il regista aggiunge al montato il brusio degli spettatori per dar maggiore risalto al soliloquio.
Ne avevamo una a Capri, io non ho fatto altro che imitare questa Anna di Capri, che non sapeva né leggere né scrivere, parlava a orecchio e sbagliava tutto. Una volta siccome a Capri c’era un pescatore che si chiamava "‘o ricciulillo", lei un giorno mi telefonò e mi disse: "Sapete, signora, è venuto ‘o ricciulillo". "Ah", faccio io, "è venuto 'o ricciulillo, come mai, da Capri?". “No, signora, no, non è ‘o ricciulillo ’e Capri, è o ricciulillo ‘o registro". Un regista? Era Gianni Franciolini che era diventato ‘o ricciulillo. E così centomila cose. Una volta mi chiese: “Scusate signora, ma De Gasperi è comunista o appartiene alla zia cristiana?”.
Clelia Matania
Era accaduto che da qualche anno, in coppia con Totò, avevo ottenuto un notevole successo cinematografico guadagnandomi, così, la fiducia del «noleggio», la sicurezza, cioè, di aver provocato l’interesse diretto dei distributori di films. Tra costoro vi figurava il più importante: Angelo Rizzoli. [...] Infatti, si creda o non si creda ma le statistiche parlano chiare, furono i films che io girai in coppia con Totò a salvare il nostro cinema di allora che subiva la barriera delle produzioni americane, fino a raggiungere la vetta di oltre un miliardo e mezzo di incassi. Si parla di una cifra di tredici anni fa!
Peppino De Filippo («Strette di mano», Peppino De Filippo, Alberto Marotta Editore, Napoli 1974)
Esordio al cinema del piccolo Carlo Vanzina, figlio di Steno. Ricorda oggi Enrico Vanzina, il fratello: «Mio fratello Carlo ha debuttato nel cinema interpretando...Totò. Era il 1950 e papà girava Totò e le donne. In un flashback nel quale Totò ricorda: 'Sono stato ossessionato dalle donne sin da piccolo' si vede un bambino in un box che piange mentre delle zie lo sbaciucchiano. Era Carlo! Mica male debuttare facendo Totò, no?»
Henry Landrou, seduttore e mostro
Landrou, il mio protettore, Landrou. Questo si che è un uomo! Avrà messo nel forno perlomeno una dozzina di donne. Maschiaccio! Chiamalo fesso...
Cav. Scaparro
Seduttori e briganti
Era un uomo tenero e adorava sua moglie
Prima di partire per i suoi tragici week-end assieme alle vittime adescate con la promessa di matrimonio, Landra descriveva alla moglie il suo vertiginoso giro d’affari. Il processo rappresentò uno dei clamorosi e sensazionali avvenimenti mondani del primo dopoguerra
Rari cimeli di una vicenda raccapricciante venivano messi all'incanto fra reperti ormai inutili dal tribunale di Versailles nel gennaio del 1923: un montaggio sottovetro con dieci sgradevoli volti di donne anziane ad aureola intorno a quello di un uomo calvo abbondantemente barbuto, una stufa di ghisa che il direttore del Museo Grévin avrebbe acquistato al caro prezzo di quattromila duecento franchi per la morbosa curiosità dei suoi clienti, e finalmente un gatto nero impagliato, che pareva ancora crogiolarsi sul tepore di quei fornelli, come sazio di squisite interiora. E’ tutto ciò che rimaneva del famoso processo Landru, l’ambiguo personaggio accusato nel primo dopoguerra d’aver ridotto in cenere nel domestico forno crematorio un notevole numero di donne adescate con promesse di amore, di matrimonio: «Distinto quarantacinquenne, solo, privo di affetti, rendita 4000 fr. desidera conoscere signorina o vedova pari condizioni scopo matrimonio».
L'angelo e lo spirito del male avevano combattuto in lui una fiera battaglia a partire dagli anni trascorsi in un collegio religioso. Adorava la propria famiglia, il che non gli aveva impedito di spingere al suicidio suo padre, commesso in una libreria e incapace di sopravvivere al disonore, di coinvolgere il figlio maggiore Charles, un adolescente non troppo sveglio, nell’intrigo dei suoi delitti. Alla moglie Marie-Catherine Rèmy tornava con disperata furia, le dava a intendere, ma fino a che punto?, di essere preso in un vertiginoso giro di affari, la copriva di doni provenienti da altre donne, le regalava un nuovo bambino, scompariva senza lasciare un recapito, tanto più che generalmente si trattava di periodi da trascorrere in carcere, a Loos tre anni, quattro nel penitenziario della Guiana, di intensificare l’attività di malandrino sui treni, in alberghetti di provincia a truffare bravi campagnoli. Tutto ciò apparteneva alla preistoria, perchè quando gli venne in mente di sfruttare il suo potere sui cuori femminili, Henri Désiré Landru era un uomo di aspetto distinto, anzi severo, sempre vestito di nero come un vedovo, uno sposo di paese, qualità che in lui si alternavano a ritmo frenetico, e aveva già quaranta-cinque anni essendo nato a Parigi il 12 aprile del 1869.
Si serviva delle agenzie matrimoniali, degli avvisi economici, fissava appuntamenti, stabiliva carteggi e trattative sul tono romantico del cuore solitàrio in cerca dell’anima gemella, riusciva a farsi amare. Un lavoro dei più complessi da non affidare soltanto alla memoria e all’improvvisazione, poiché nella realtà le donne desiderose di ‘incontrarsi con un monsieur très bien de sa personne erano più numerose di quanto non si potesse immaginare, ed egli partiva dal principio di non scartare mai a priori la più piccola occasione. Tutt’al più nel suo schedario classificava i casi incerti come: «Da prendere in esame più in là», spesso come «Interessantissimo» o «Da trattare subito», raramente «Inutile». Scrupoloso fino alla pignoleria voleva sempre farsi un’idea precisa della situazione delle sue corrispondenti, e pur trattando simultaneamente con molte, accavallando a tempo di "fugato” le relazioni, di modo che mentre una era già a buon punto un’altra aveva inizio, e alla conclusione di una, già dava l’avvio a una nuova, stava sempre all'erta, attento come un marito infedele a non suscitare sospetti attraverso nomi pronunciati per distrazione, o lettere smarrite.
A zitelle giunte esasperate alla soglia della vecchiaia, vedove inconsolabili fomite d’un gruzzoletto, divorziate desiderose di ripetere l’infelice esperienza, Landru dava illusione e amore, ispirava fiducia, le affascinava, le persuadeva finalmente ad abbandonare ogni altro interesse al mondo per affidarsi completamente a lui, risparmi e rendite comprese. Per i suoi week-end a tragico epilogo, aveva preso in affitto la villa ”The lodge” nei dintorni di Vemouillet, più tardi si sarebbe trasferito a Gambais presso Houdon ai margini della foresta di Rambouillet, nella villa Tric.
Invitava le "fidanzate” a trascorrere con lui qualche giorno in perfetta solitudine nella pace dei campi prima di diventare marito e moglie secondo Dio e la legge, e partendo da Parigi acquistava due biglietti alla stazione, uno di andata e ritorno, l’altro di sola andata per evitare un inutile spreco di danaro. Durante la sua assenza, il figlio Charles era incaricato di sgombrare l’appartamento della vittima e di trasportare mobili e suppellettili in un garage preso appositamente in affitto; poi di ritorno a Parigi Landru si recava a ispezionare attentamente l’abitazione vuotata per essere ben sicuro di non aver dimenticato nulla e con la massima correttezza consegnava la chiave alla portinaia insieme ai saluti della sua ex-inquilina, che le mandava a dire di aver trovato finalmente la tranquillità, l’eterna pace. Le sue parole non si discostavano dopo tutto dal vero, e soltanto allora era libero di procedere alla vendita del modesto mobilio, degli oggetti di vestiario, senza esclusione di parrucche, dentiere, macabri relitti da quattro soldi.
Col tempo e l’esperienza, la sua attività acquistava un ritmo più spedito, la sua complessa personalità si moltiplicava, presentandosi volta a volta a seconda dei casi come rindustriale Paul Morel di Asnière, Raimond Diart ispettore delle Poste e Telegrafi, Edouard Cuchet, profugo di guerra delle province del Nord, il diplomatico Natier sul punto di essere nominato console in Australia, l’ingegnere Lucien Guillet, nativo di Rocroi, fabbricante di "freccette” d’aviazione, Forest, alto funzionario in Dio solo sapeva quale ministero.
Al braccio della sarta Josephine Jaume, divorziata, era andato a inginocchiarsi nella chiesa del Sacro Cuore per invocare la benedizione sulla loro prossima unione; alla vedova Guillin, ricca d’un conto in banca di duemila duecento franchi, si era presentato in marsina del ’700 a ricami d’oro, avuta in prestito da un trovarobe, spacciandosi per diplomatico. Quando entrò in rapporti con Maria Teresa Marchadier, prostituta in fase di redenzione conosciuta nel quartiere col nome d’arte di ”Ia belle Mythèse”, Landru si trovava in pessime condizioni finanziarie, aveva urgenza di stringere i tempi, perciò la faccenda venne spedita in quattro e quattr’otto. Per fortuna il desiderio di cambiar vita era altrettanto urgente nella matura traviata, alla quale una catapecchia come la villa Tric sembrò un paradiso terrestre nel quale purificare e seppellire un sudicio passato. Vi rimase seppellita anche lei. In fretta aveva fatto le valige senza dimenticare di portare con sè gli inseparabili grifoncini caffè e latte, dei quali più tardi si ritroveranno gli ossicini sotto un mucchio di foglie secche, e che durante il processo, per maggior comprensione, avrebbero procurato alla ”Belle Mythèse” il nome di "signora dei cagnolini”.
A carbonizzazione avvenuta, Landru si preoccupava di liquidare ogni altro particolare in maniera pulita, assoluta. Della Marchadier utilizzò, poiché s’era in tempo di razionamento, la tessera dello zucchero fino all’ultimo granello, di un’altra andò a cambiare un biglietto da venticinque lire, ricordo d’un viaggio in Italia, e avendo ritrovato nella vestaglia di Annette Pascal alcune monetine, non trascurò di annotare sul taccuino «A saldo conto Pascal, fr. 8,85». Pensoso di allontanare i sospetti presso i parenti di Anna Col-lombe, domestica a ore, mandò ad essi un mazzo di fiori col biglietto da visita della scomparsa, e alla sorella di un’altra, forse Jeanne Cuchet cucitrice in bianco, un cestino di frutta da Nizza, dove in buona fede tutti la credevano in viaggio di nozze.
Lo arrestarono dopo vane ricerche, la mattina del 12 aprile 1919, interrompendo l’idillio con Femande Segret, un’attricetta del varietà che, precedendo la ghigliottina, gli aveva fatto perdere la testa e viveva con lui in un appartamentino della rue Rochechouart a Parigi. L’amica di una delle tante donne scomparse lo aveva adocchiato in un grande magazzino mentre al reparto casalinghi stavano scegliendo un servizio da tavola di porcellana per il loro nido, ed era corsa ad avvisare la polizia. Allora i giornali si riempirono dell’affaire Landru, chiamato anche Barba-Blu, il ”tristo sire di Gambais” o più semplicemente "Thomme à la casquette" perchè si presentava in istruttoria davanti al giudice col berretto a visiera calcato sugli occhi, quegli occhi paragonati secondo gli umori e gli stili a due perle nere, uva di Corinto, pupille di fachiro, di volpe, di lupo. Parlava poco, rispondeva a monosillabi, rifiutava di difendersi, invitando anzi le autorità a provare la sua colpevolezza se ne erano capaci. La sola cosa certa era la scomparsa di tutte quelle donne, ma che fossero state uccise, uccise da lui, passate al forno crematorio, nulla, nessuno riusciva a provarlo.
Il processo si aprì alle assise di Versailles il 7 novembre 1921 come uno dei più spettacolari avvenimenti mondani e durò tre settimane. I posti andavano a ruba: cinquanta franchi le prime file riservate al pubblico, venticinque le altre, piene fin dall’ alba di famose attrici fra cui Mistinguette e Polaire, cocottes d’alto bordo, il Gotha parigino al completo, la nipotina del principe di Monaco, la principessa di Valentinois, l’ambasciatore della Cina con moglie e segretario particolare, la principessa Elena di Grecia, il principe ereditario di Persia e tutti i suoi zii, la scrittrice Colette, inviata speciale di un grande quotidiano, più di mille persone strette fino a soffocare in un’aula che ne poteva contenere appena trecento. E davanti a un simile parterre de rois, Landru recitava la grande commedia dell’innocenza calpestata, spiritoso, sarcastico, strappando applausi al pubblico e facendo schiumare di rabbia il presidente Gilbert, il procuratore generale Godefroy. Lo difendeva il celebre avvocato de Moro Giafferi, sostenendo la tesi che il caso doveva essere delimitato in una volgare faccenda di tratta delle bianche, piuttosto difficile da ammettere, data l’età e la scarsa avvenenza delle bianche tratte.
Dopo la lettura del verdetto che lo condannava a morte, Henri Désiré Landru strinse commosso la mano al suo difensore concludendo: «In tutte le battaglie vi sono sempre dei morti...», poi volgendosi al pubblico: «Il tribunale ha commesso un errore, io non ho mai ucciso nessuno: questa è la mia ultima protesta!», e abbottonandosi il cappotto pregò le guardie di chiedere a nome suo un autografo a Colette. «Se mi condannano a morte — aveva detto il giorno prima — saprò morirò in bellezza», difatti al barbiere della prigione ordinò di tagliargli i capelli all’ultima moda, perchè voleva lasciare alle donne un ricordo piacevole.
La mattina dell’esecuzione, quando vennero a svegliarlo, ancora il sostituto procuratore della repubblica gli domandava se avesse qualche ultima dichiarazione da fare, e risentito, mentre faceva una toilette accurata e si spazzolava la barba, Landru ribatteva: «La vostra domanda è offensiva poiché sono innocente! Mi meraviglio che la legge vi permetta di rivolgermela!».
Si comportò in maniera spavalda fino all’ultimo istante, e quando la sua testa rimbalzò nella segatura del paniere disposto sotto la mannaia della ghigliottina, de Moro Giafferi che non se l’era sentita di assistere alla scena, disse rivolto a quanti gli stavano vicino nella prigione: «Ricordatevi della frase di Victor Hugo: ”Un castigo irreparabile implica una giuria infallibile!”».
Antonietta Drago, «Tempo», giugno 1962
Il Barbablù del ventesimo secolo
Cinquant'anni fa il processo Landru
La stufa dove Landru bruciava le vittime, dopo averle strangolate, è tuttora uno dei « souvenirs » criminali più ammirati del museo Grevin, a Parigi. È un grande parallelepipedo dalle dimensioni di una caldaia, in lamiera di ferro molto spessa, e con tre sportelli. Il più basso è alto e largo, calcolato in modo che Landru non dovesse faticare troppo a introdurvi le sue fidanzate per ridurle in cenere.
In gioventù, l'assassino era stato un inventore dilettante, aveva avuto il pallino della tecnica, e non è improbabile che, dopo aver comperata la stufa, l’abbia migliorata con qualche macabra innovazione per ottenerne il massimo rendimento. Non esistendo in commercio forni crematori da collocare a domicilio dei clienti, l'ipotesi appare verosimile.
La stufa che il museo Grevin comperò nel 1922, alla conclusione della terrificante vicenda, pagandola 4200 franchi, Landru l’aveva piazzata al piano terreno di una villa presa in affitto a Gambais, allora villaggio di novecento abitanti nella campagna attorno a Parigi. Era un villone tozzo e grigio, stile nordico, circondato da un piccolo giardino e da un muro di un paio di metri. Sul tetto c'erano due camini a tre canne particolarmente vistosi e uno specialmente era sovente in funzione, ne usciva un fumo denso e plumbeo. In paese ci si meravigliava che il camino fumasse anche nella bella stagione, quando Gambais era immerso nella calura opprimente, e questo fu uno dei tanti indizi che contribuirono a smascherare il tranquillo e solitario signor Dupont, come si faceva chiamare l’inquilino della villa, e a rivelarlo uno dei più spietati assassini della storia.
Henri Désiré Landru, nato nel 1869, studente in un istituto di religiosi, impiegato, sposato e padre di quattro figli, era stato fino al 1902 un galantuomo. Quell’anno venne condannato per truffa, ma si disse innocente. Raccontò che era stato derubato di un brevetto di sua invenzione applicabile alle motociclette, e che gli avevano trafugato anche una somma di denaro. L'episodio non è mai stato chiarito, certo è, però, che a un dato momento Landru smise di essere un impiegato modello e un padre esemplare e nel 1912 e nel 1914 subì altre due condanne per truffa. Oramai 'campava di espedienti e sul finire del ’14 dalla via delle truffe dirottò su quella del delitto.
Con un piano premeditato in ogni dettaglio, senza lasciar nulla al caso e alla sorpresa, si trasformò di punto in bianco in un personaggio più sanguinario di Barbablù, l’assassino di sei mogli inventato da Perrault. La strategia di Landru, rimasta immutata per l’intera catena di undici delitti, era sempre questa: avvicinare con inserzioni matrimoniali una vedova il più possibile facoltosa, sedurla, appropriarsi dei suoi beni e infine sopprimerla.
Nel gennaio 1915, il debutto. Landru affìtta una villa a Vernouillet, sulla Senna, si presenta come signor Diard alla vedova Cuchet, quarantenne e piacente, si fidanza con lei, poi la invita nella sua residenza di campagna con il figlio. La presenza del ragazzo complica la situazione ma Landru la risolve senza troppe perplessità: uccide entrambi. In maggio, circuisce la vedova Laborde, di origine brasiliana, la spoglia di ogni avere, compresi i mobili, l’accoglie a Vernouillet e di lei scompaiono le tracce. Segue la vedova Guillin, una ex guardarobiera, che risponde all’inserzione di un diplomatico che cerca moglie. Cinquantenne, bruttina, la Guillin ha ereditato dai padroni 20 mila franchi e s’innamora del console francese in Australia, Natier, che non e altro che Landru e che per suggestionarla indossa abiti lussuosissimi noleggiati in una sartoria teatrale. Anche per la Guillin il viaggio a Vernouillet si concluderà tragicamente.
La villa è troppo piccola per un’attività criminosa organizzata su scala industriale e Landru si trasferisce a Gambais, in una sede più attrezzabile, e vi arriva con la vedova Héon, 55 anni, di Le Havre, dal passato piuttosto burrascoso. Chiamandola teneramente « Petite », Landru la infila nel forno. La Héon però è più fumo che arrosto: nonostante le apparenze risulta di condizioni modeste. Landru cerca perciò di rifarsi, diventa più cauto, valuta meglio le vittime e si fidanza con la vedova Collomb, marsigliese, impiegata in banca, dopo che ha toccato con mano la sua consistenza patrimoniale di circa centomila franchi. Fingendosi un industriale fuggito dalla zona invasa dalle truppe tedesche, e quindi sprovvisto provvisoriamente di denaro liquido, Landru sorprende la buonafede della Collomb e la conduce a Gambais per uno dei suoi tradizionali week-end.
Evidentemente, oramai Landru assapora il piacere di uccidere e uccide anche senza tornaconto, come nel caso di Andreina Babelay, una domestica squattrinata, per giunta giovane e graziosa. Landru l’incontra sul metro, si interessa al racconto delle sue traversie, le regala un po’ di denaro e la porta a Gambais. Di tutti i delitti di Landru, questo è il più misterioso, inspiegabile. Sembra senza movente, a meno che Landru non avesse una ragione segreta, per esempio che la Babelay avesse scoperto qualcosa di sospetto ed egli abbia voluto eliminare un’eventuale, pericolosa testimone.
Subito dopo, torna alle vedove, e la signora Buisson ha però una sorella, la signorina Lacoste, che ingarbugliò la faccenda. La Lacoste detesta l’uomo che corteggia la sorella, ne diffida e va a Gambais per esortarla a non sposarlo. La donna non l’ascolta e la stufa la inghiotte. Nel maggio ’ 17, Landru tenta di persuadere Luisa Jaume, 36 anni, separata dal marito, a divorziare. La Jaume, molto bigotta, recalcitra, e Landru l’accompagna alla Chiesa del Sacro Cuore, sulla collina di Mont-martre, e con lei prega a lungo, genuflesso, prima di ospitarla a Gambais. Nell'aprile '18, Annette Pascal, proprietaria di un laboratorio di confezioni di biancheria per signora, fa la fine delle precedenti spasimanti. Chiude la serie, finalmente, Marie Marchadier, da Bordeaux, che si trasferisce nella villa con i tre cagnolini. Le ossa delle bestiole saranno ritrovate sepolte nel giardino.
Possibile che per tutto questo tempo, per oltre tre anni, dieci donne, e una addirittura con un figlio, siano scomparse, e la polizia non abbia mosso un dito? Possibile che Landru sia riuscito ad agire indisturbato, a dividersi fra la famiglia e le ville di Vernouillet e di Gambais senza destare il minimo sospetto? È possibile, perché non va dimenticato che tutto questo si è svolto in un momento particolare, a-normale, mentre c’era la guerra, il mondo era a soqquadro, e le persone si spostavano da un luogo all’altro. E poi nessuno avrebbe potuto supporre che le scomparse fossero gli anelli di una medesima catena. Fu solo quando la polizia trovò un collegamento fra le sparizioni di due vedove che scattò il dispositivo di allarme.
Accadde nel gennaio del ’19, con le deposizioni di parenti e amici delle vedove Collomb e Buisson, in base alle quali emerse che le due donne avevano frequentato un misterioso signor Freynet, non meglio identificato. Le indagini vennero assunte dal commissario Dautle e dall’ispettore Belin, ed essi, seguendo la pista del signor Freynet, raggiunsero la villa « L’ermita-ge », a Gambais, dove tuttavia appresero che non esisteva alcun Freynet e che nella casa abitava saltuariamente un tale che si chiamava Dupont, un ometto sulla cinquantina, calvo, baffi e barba nera, lo sguardo stravagante, un tipo ch’era l’esatto contrario del conquistatore di cuori femminili.
Si accertò anche che il famoso camino, sul tetto della villa, fumava abbondantemente ogni volta che arrivava il signor Dupont, e che questi aveva comperato cinquecento chili di carbone all’inizio dell’inverno. L’ispettore Belin considerò il quantitativo sproporzionato ai brevi soggiorni dell’inquilino ma pensò che forse il signor Dupont era molto freddoloso.
Qualche tempo dopo Landru entra in un negozio di casalinghi, « Le Lion de Faience », situato in rue de Rivoli, e compera un servizio di piatti pregando il commesso di recapitarglielo a casa, rue Rechechont 7. Uscendo, il cliente, che al commesso si è presentato come l’ingegner Luciano Guillet, incrocia un’amica della signorina Lacoste, sorella della vedova Buisson. La donna ricorda di aver già visto quell’ometto barbuto dallo sguardo allucinato, e proprio in compagnia della Buisson. Chiama al telefono la Lacoste e la sorella della vedova avverte l’ispettore Belin. Ovviamente Belin si precipita nel negozio e poi all’indirizzo dell’ingegnere Guillet. Nel frattempo Guillet è partito con l’amica, Fernande Segret, cui è intestato l’appartamento. L’assenza si protrae per un paio di settimane.
Alle 6 del mattino del 12 aprile del 1919, Belin suona all’uscio e l’inge-gner Guillet, in pigiama e mezzo addormentato, viene ad aprire. Belin invita Guillet e l’amica al comando di polizia. L'ingegnere protesta, lo accusa di violazione di domicilio, dice di essere un integerrimo professionista, vanta amicizie altolocate, infine si veste e acconsente con degnazione a recarsi al comando di polizia. « Andiamo » dice a Fernande « così chiariremo subito tutto. » Al comando di polizia, l’ingegnere è identificato come il pregiudicato Henri Désiré Landru, e la sua amica sviene per la sorpresa. Landru la tranquillizza. « È un equivoco, un malinteso, chiariremo tutto. »
Prima dell’interrogatorio, un agente perquisisce Landru, gli svuota le tasche e fra gli oggetti compare un taccuino pieno di nomi, date, indirizzi. Belin lo sfoglia e l’occhio si ferma su una paginetta dove c’è scritto « Cu-chet, J. idem, Brésil, Havre, Collomb, Babelay, Buisson, Jaume, Pascal, Mar-chadier ». 1 nomi Collomb e Buisson racchiudono la chiave deH'enigma. Si tratta infatti dell’elenco delle vittime, che Landru ha annotato con il massimo scrupolo, per non perderne il conto. Qualcuna è segnata solo con un nomignolo: Brésil era la Laborde, brasiliana; Havre la Héon, appunto di Le Havre, J. idem significa il tìglio della Cuchet. In un’altra pagina del taccuino c’è la nota spese di un viaggio a Gambais: « Un biglietto di andata e ritorno 4,95, un biglietto andata 3,90 ». Per le sue fidanzate, infatti, il viaggio di ritorno non era previsto.
Nella villa di Gambais la polizia trova 986 grammi di ossa umane carbonizzate. Nei cassetti, catalogate in ordine alfabetico, 283 lettere di donne che avevano risposto agli annunci matrimoniali. Anche di fronte alle prove schiaccianti, l’assassino si proclama innocente e dichiara di essere vittima di un’oscura macchinazione.
Al processo, che si svolge nell’aula della corte d’assise di Versailles, il contegno dell’imputato, difeso dall’avvocato Moro Giafferi, è sconcertante. Risponde alle domande con tono sarcastico e ostenta indifferenza per la sua sorte. Al presidente che gli domanda: « Ma in casa vostra i figli non vi chiedevano dove andavate durante le continue assenze? », ribatte: « Ignoro se avete figli e come li educate, ma i miei non fanno domande ».
E quando il presidente ammonisce il pubblico, che rumoreggia, e minaccia di mandare tutti a casa, Landru interviene esclamando in tono sarcastico: « Sono perfettamente d’accordo, anch’io me ne vado volentieri ».
Battute analoghe ricorrono durante l’intero dibattito cui assiste una folla strabocchevole. Le nobildonne dell’alta società sono in prima fila, elegantissime. Fra i giornalisti ci sono anche Colette ed Henri Béraud. A parecchie udienze partecipano vedette dello spettacolo come Mistinguett. L’opinione pubblica si schiera in due fazioni, prò e contro il « barbu ». La deposizione di Fernande Segret lo descrive come un uomo sensibilissimo e buono, racconta le loro passeggiate sentimentali al Bois de Boulogne, gli incontri alla stazione Etoile del metro, le sue romantiche attenzioni. « È un poeta » dice « il suo autore preferito è De Musset e ne declama spesso le poesie. Gli piace la lirica, Faust e Manon l’abbiamo visti due volte. »
Dopo tre settimane, il processo si conclude con la condanna a morte, che Landru ascolta impassibile.
La sentenza venne eseguita all’alba del 25 febbraio 1922. Alle ore 5.45, quando il difensore entrò nella cella per il commiato, Landru gli disse stringendogli le mani: « Caro avvocato, non è la prima volta che si giustizia un innocente ». Ma il penalista insistè perché, almeno in quell’ultimo momento, Landru gli dicesse la verità. « Non partite » disse « con questo segreto. » « No » rispose il condannato « io desidero partire proprio con questo segreto, è il mio bagaglio ». Poi lasciò che il barbiere gli tagliasse gli unici capelli che aveva sul collo e gli raccomandò di tagliarglieli all’ultima moda perché doveva piacere alle signore. Rifiutò di assistere alla messa dicendo al cappellano: « Lo farei ma non posso far aspettare quel signore » e indicò il boia Debler. Porgendo il capo alla mannaia aggiunse: « Rispettate la barba, vi prego ».
Ancora oggi, nella tabaccheria di Gambais sono in vendita le cartoline con l'immagine della celeberrima villa e la scritta: « Per provare che l'amore è un fuoco che divora, un giorno Landru nella sua casa invitò ardenti e gioiose donne, avide di amare. Poi la fiammella sprizzò e la stufa arrossì. Morale: ci si scotta frequentando gli uomini con stufa ».
Con la ghigliottina il sipario non è calalo del tutto sul caso Landru e per molto tempo gli innocentisti hanno tentato di riabilitarlo dimostrando che era stato travolto da una macchinazione del governo francese per distogliere l’attenzione del pubblico dalle violente polemiche provocate dalla pace di Versailles. Fra le numerose testimonianze a favore di questa tesi c’è stata soprattutto quella del famoso clown Grock che dichiarò, e persino scrisse nelle sue memorie, di aver incontrato in Argentina, parecchi anni dopo l’esecuzione, Henri Désiré Landru. Grock avrebbe anche raccolto la confidenza del direttore della polizia di Buenos Aires Castinevias Ruzco, il quale gli avrebbe confermato che l’uomo da lui visto era realmente Landru e che al suo posto sarebbe stato giustiziato un altro, tale Pierre Royère, un bandito qualunque.
Alberto Macchiavello, "Il Barbablù del ventesimo secolo", «Storia Illustrata», Anno XVI, n.171, Febbraio 1972
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Film a due ben dissimili velocità. Alterna infatti tocchi geniali e verosimili (la domestica - è Clelia Matania! - che non ricorda chi ha telefonato...) a momenti fiacchi (la triste serata al night) o ripetitivi (la scelta della stoffa). Certo non è il miglior Totò, ma è sufficiente, tutto sommato (**). Totò in gran forma, Ave Ninchi perfetta, Castellani piacevole come di consueto.
- Riflessioni sulle donne da parte di un commesso, costretto a rifugiarsi in soffitta per sfuggire alle angherie della consorte. Film composto da una serie di siparietti brillanti, non sempre divertenti. Il pregio maggiore del film è costituito dalle performance dei suoi interpreti, non solo il grandissimo Totò ma anche De Filippo e gli ottimi caratteristi che rendono la pellicola godibile al di là di qualche calo di ritmo.
- Affiancato da un notevole gruppo di comprimari tra i quali l'amata Franca Faldini, Totò si esibisce -una volta tanto- all'interno di una sceneggiatura di certo spessore, opera congiunta di Age/Scarpelli e dello stesso Mario Monicelli. Potrebbe sembrare strano, ma le tematiche del rapporto di coppia non appaiono datate, pur essendo sviluppate in un periodo (il 1952) pre-femminista. Ave Ninchi è bravissima e contribuisce a rendere esilaranti le gag del grande comico. Attenzione a Filippo in fasce: è il regista Carlo Vanzina, fratello di Enrico.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La scena della domestica al telefono: che si dimentica -regolarmente- i motivi delle chiamate.
- La vera nota negativa di questo film è il voler filosofeggiare un po' troppo sull'argomento (la donna come fonte di guai e di stress per l'uomo). Ed è un peccato, perchè comunque l'idea di far parlare Totò direttamente col pubblico, in una sorta di confessione di tutte le angherie che ha subito dal gentil sesso, non è affatto male. Lui è molto bravo, ma spesso, il contenuto delle sue disquisizione non riesce a valorizzare in pieno il suo immenso talento comico. Comunque, le varie gag sono piuttosto spassose, come Ave Ninchi e De Filippo. Buono.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Impagabile Totò in soffitta, lontano da tutti (specialmente dalle donne), che venera Landrù, in foto come un santino.
- Passerò per una inguaribile femminista se confesso che questo è uno dei Totò che mi piacciono di meno? La colpa non è certo sua, ma di una sceneggiatura un po' lasca, che se azzecca qualche gags carina negli episodi portati ad esempio (anche grazie alla bravura del cast di contorno), è debole nei soliloqui in soffitta, ripetitivi e ben presto stancanti. E poi per funzionare al meglio Totò ha bisogno di un interlocutore (sia compare oppure avversario) con cui interagire, cosa ovviamente impossibile se si rivolge direttamente allo spettatore.
- Buon film che come al solito ha negli attori il suo punto di forza, anche se i monologhi nella soffitta annoiano un po': se qui Peppino è poco sfruttato, molto diverterti sono gli episodi che esplicherebbero i difetti delle donne, alcuni dei quali spassosi. Grandi in comicità Ave Ninchi e Clelia Matania (la servetta) che si affermerà nelle commedie musicali di Garinei e Giovannini e bellissima la Faldini. Da culto il "culto" a Landru (ma poi...).• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La serva e il telefono; esequie!; i chiarimenti sul menage coniugale tra moglie e marito.
- Uno dei Totò-movie più studiati (non a caso porta le firme di Steno e Monicelli). L'idea satirica di base funziona bene, permettendo al grande protagonista di dar vita a mini-sketch molto divertenti, che forse oggi non sarebbe più possibile realizzare visto il femminismo e perbenismo imperanti. Con lui per la prima volta Peppino, che appare in poche occasioni ma lascia il segno dimostrando già il grande affiatamento con Totò. Bene anche il reparto femminile, con un'ottima Ave Ninchi e una divertente Matania. Notevole.
- Altro episodio dell’epopea del Principe, stavolta in versione landruesca, che tanto si dovrebbe confar (almen secondo l’iconografia) all’indole monicelliana (e dell’allora socio Steno). In verità la verve misogina è molto bonaria (se la si confronta col ben più crudo e tardo Totò Peppino e le fanatiche) ed è proprio il tono di understatement leggero in cui son condotti i vari sketch a delineare il peculiare tratto della pellicola. Il primo approccio tra i due mattatori è conseguentemente soft; molto bella la Faldini ma indimenticabile la servetta Matania.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: L’iniezione.
- Film che si fa ricordare più che per la sua cifra reale per il fatto di essere il primo di una lunga serie che il Principe girerà con Peppino De Filippo come spalla. Non esilarante come alcuni classici della neo coppia qui formatasi, ma non per colpa loro quanto di una sceneggiatura che aspira addirittura a lambire una sorta di metacinema (Totò che spesso guarda e parla alla mdp) senza però avere un minimo di anima e rifugiandosi in inutili e tristi luoghi comuni sui rapporti (soprattutto se coniugali) tra i due sessi. Buono il cast di contorno.
- Una sceneggiatura niente male arricchita da simpaticissime scenette dove tutto l’estro di Totò emerge immediato. Steno sceglie un registro audace, dove Totò è lo stesso narratore che dialoga in prima persona con lo spettatore, come fosse realmente seduto vicino a lui. Le spalle sono di lusso e nonostante qualche piccolo intoppo raggiunge la piena sufficienza.
- Film ad “episodi sketch” diretto dal solo Steno nel quale un Totò realistico, concreto, riflessivo e di estrazione piccolo-borghese riflette sul tema dell’”eterno femminino” come poteva farlo un uomo italiano all'inizio degli anni’50. Ma la serpeggiante misoginia del film non inficia la carica farsesca delle lezioni tenute ex cathedra da Totò, che usa l’innovazione stilistica della camera-look per parlare direttamente e continuamente con lo spettatore trattandolo alla pari e cercandone furbescamente la complicità. Divertimento intelligente garantito.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Ottima la recitazione di impostazione teatrale di tutti gli attori. La scena del telefono tra Totò e una smemorata Clelia Matania è divertentissima.
- Pellicola costruita tutta su Totò; forse stavolta l'attore viene abbandonato eccessivamente a se stesso. Nonostante l'affiatamento con Ave Ninchi e con le altre "spalle", il film risulta complessivamente troppo evanescente. I singoli sketch sono divertenti, alcuni memorabili e lo stesso Peppino, sia nei suoi momenti da solo che nei duetti con Totò, funziona bene. Ma il limite del film sta proprio nell'assenza di un efficace collante che unisca le parti. Frammentario ma, tutto sommato, godibile.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Totò con l'ipotetica moglie-attrice, la scena dell'iniezione e quella in cui sfascia disperato il telefono.
- L'idea era buona (una tirata maschilista conclusa con un inchino alle donne), ma il regista è Stefano Vanzina, non Monicelli (che si stava occupando di un altro film e si limitava a dare qualche dritta). La regia, infatti, è tipicamente alla buona, nonostante gli attori di prim'ordine e in forma. Il film manca di grinta (alla quale si supplisce con rumori e grida), di ritmo e di attenzione ai dettagli. Emblematico il libro "giallo" di Totò: un testo scolastico della Paravia con un foglio incollato sopra, disegnato col pennello.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il quadretto in soffitta, dissimulato da una porticina, con "San Landrù" e cero acceso.
- Una mediocre storia sfacciatamente ed esageratamente misogina diventa per Totò ed Ave Ninchi l'occasione per esibirsi in numerosi duetti irresistibili. E gli interpreti secondari (su tutti De Filippo e Matania) sono inarrivabili; nota dolente è Giovanna Pala, che recita qui con la sua voce, naturalmente antipatica e poco incisiva. Ma le insistenze filosofiche della pretenziosa e pessima sceneggiatura di Age e Scarpelli pesano non poco, ed alcuni sketch risultano raffazzonati e forzati. Pina Gallini, non accreditata, è la suocera di Totò.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Filippo (Totò) alla moglie (Ave Ninchi): "Io ti sfuggo nottetempo perché non posso sfuggirti giornotempo!".
- Uno dei miei Totò preferiti. Firmato solo nominalmente in coppia da Steno e Monicelli (in realtà se n’è occupato solo il primo), il film presenta un Principe scatenato improvvisatore. Se i monologhi in soffitta possono alla lunga annoiare, i flashback sono irresistibili (splendido, nella sua struttura classica, lo sketch con Alda Mangini insopportabile cliente). Bravissime Ave Ninchi e Clelia Matania, mentre sembra ancora da affinare l’intesa di Totò con Peppino.
La censura
La Commissione di revisione cinematografica esprime parere favorevole alla proiezione del film in pubblico, a condizione che siano apportati alcuni tagli.
La censura, in sintesi, ha chiesto un paio di tagli alle splendide gambe di Primarosa Battistella e Giovanna Pala e qualche battuta che interessava il ministro Scelba ed altre di contenuto erotico.
Le incongruenze
- Nella scena in cui Totò accende la lampada in soffitta, in una inquadratura è lontano mezzo metro circa dall'altalena, in quella successiva la tocca con il gomito.
- Totò si lamenta perché a scuola le compagne di banco non gli passavano i compiti, ma nel flash back l'unica alunna che si vede negargli l'aiuto gli è davanti e quindi non è ovviamente una sua compagna di banco.
- Durante la rissa sul filobus i passeggeri dietro a De Filippo cambiano posizione al cambio d'inquadratura.
- Le divise delle SS sono di pura fantasia.
- Nel campo di concentramento quando Totò guarda la foto dell'amante, nelle diverse inquadrature, la posizione della mano sinistra, ossia quella che regge la foto, è diversa.
- Quando Totò è al tavolo con l'intrattenitrice, in un cambio d'inquadratura la scena ha molte differenze, tra le quali: Totò prima ha le braccia consente e poi quello sinistro è disteso sul tavolo, mentre l'intrattenitrice ha in una posizione completamente diversa il bocchino per la sigaretta, rispetto ad un attimo prima.
- Le foto dell'intrattenitrice sono invertite se si segue la logica del dialogo, rispetto alla logica dei movimenti delle stesse foto. Nell'inquadratura dove si vedono davanti è lampante come quella più grande sia quella che raffigura il bambino, mentre quando si vedono i loro retri bianchi, le battute pronunciate dai due attori fanno credere che il ritratto più grande sia quello del fratello barbuto.
- Totò spesso racconta avvenimenti del passato, tra i quali l'eventualità di sposarsi con una sua ex fidanzata. L'ipotesi di matrimonio con Antonietta è logicamente ambientato nei primi anni '30 (considerato che il connubio sarebbe avvenuto in alternativa a quello reale, celebrato ormai da 20 anni, come specificato da Ave Ninchi e dal fatto che abbiano una figlia con età da marito); ma sia l'abbigliamento in luna di miele che la moralità del presunto film "Passione carnale" appaiono anacronistici per l'epoca del racconto. Sembra più ambientato nell'epoca "attuale" quando Totò racconta, ossia gli anni '50.
- Totò ad un certo punto accende una candela al suo "nume tutelare" (un assassino di donne!), cui ha costruito un altarino in soffitta, poi prosegue il suo "dialogo" con lo spettatore; nel frattempo arriva Peppino De Filippo (il fidanzato della figlia di Totò), i due parlano e Totò continua a esporre aneddoti sulle donne. Ebbene, il tempo passa e la candela non si consuma e la cera non cola.
- Totò al tavolo con l'intrattenitrice non ha nulla in mano. Appena si alzano per ballare la rumba ha nella mano destra un fazzoletto bianco.
- L'intrattenitrice, prima di passare le foto a Totò, volge lo sguardo a quella di sopra e non si accorge che è quella del fratello, invece che quella del figlio Otelluccio, di cui invece parla con eccitazione.
- Nel flashback in cui Totò è bambino e le donne tentano di baciarlo nonostante il bavagliolo c'è qualcosa che non quadra: nel film Totò dovrebbe avere fra i 40 ed i 50 anni, e siamo nel 1952-53, per cui si presume che il flashback in cui è bambino dovrebbe svolgersi all'inizio del secolo. L'abbigliamento delle signore così come quello del bambino però è certamente quello in voga negli anni '50, quando cioè è stato girato il film.
- Il flashback in cui Totò da bambino non riceveva i compiti dalle compagne di scuola dovrebbe risalire agli anni '10, più o meno, visto che la storia narrata è del 1952 e Totò ha circa 45-50 anni. Però i grembiulini che i bambini indossano a scuola sono di quelli che si usavano negli anni '50 e '60, nei primi anni del secolo nella maggior parte delle scuole non c'era l'obbligo del grembiulino...
- All'inizio del film Totò si rifugia in soffitta per leggere in pace il suo romanzo giallo. Quando inizia a leggere ad alta voce, nell'elencare le armi impugnate dall'assassino con tre mani (!) ha una evidente esitazione quando dice "Con una mano impugnò il pugnale, con l'altra mano impugnò... la sciabola...". Evidentemente il grande Totò non stava leggendo affatto, ma stava improvvisando...
- Quando Totò cade dalla scala nel negozio di stoffa la signora taglia un pezzettino di stoffa ma nell'inquadratura successiva quando si alza manca un pezzo molto più grande di quello che la donna porta via con se come campione.
- Quando arriva una telefonata a casa Scaparro, la svanita cameriera di Totò si avvicina timorosa al telefono.... qualche secondo prima che questo cominci a suonare.
- Inizio film: è notte e Totò e la moglie vanno a letto, spengono la luce, ma la stanza rimane illuminata. Successivamente Totò si alza dal letto, gira per casa e va in soffitta, senza aver bisogno di accendere la luce in quanto tutto il percorso è illuminato. Solamente giunto in soffitta accende una piccola bajour e la stanza si illumina ulteriormente, ma di poco.
www.bloopers.it
Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo |
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Il paese fuori mano nel quale, da giovane, il cavalier Filippo Scaparro (Totò) sognava di portare in viaggio di nozze la fidanzata Antonietta (che non sarà la donna che sposerà) è Fiuggi (Frosinone). L’edificio che si vede al centro del fotogramma è questo. |
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La scena di "spalle" tra Totò e Franca Faldini fu girata al Caffè Canova di Piazza del Popolo in Roma |
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La scena del saluto alla stazione fu girata a Roma, Stazione Ostiense. |
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Totò e... Furio Scarpelli
Totò e... Mario Castellani
Totò e... Mario Monicelli
Totò e... Peppino De Filippo
Totò e... Steno
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- "Totò attore" (Ennio Bispuri) - Gremese, 2010
- «Tempo», anno XIV, n. 51, 13 dicembre 1952
- Naldo Pagos, "Novelle Film", anno VII, n.264, 10 gennaio 1953
- Alberto Macchiavello, "Il Barbablù del ventesimo secolo", Storia Illustrata, Anno XVI, n.171, Febbraio 1972
- Documenti censura Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - www.cinecensura.com
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Epoca
- Tempo
- Momento Sera
- La Nuova Gazzetta di Reggio
- Gazzetta di Mantova
- Film d'oggi
- Novelle Film
- Il Popolo di Novi