Il teatro di Totò: approfondimenti, immagini e rassegna stampa
Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato. Il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico: si diventa una sola cosa col pubblico. Quando facevo teatro volevo molta luce, perché mi piaceva vedere la sala, vedere che il pubblico, la maggioranza del pubblico, faceva le facce secondo la faccia che facevo i
Come Dio volle, anche la «ferma» ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi aveva affascinato. La mia famiglia, intanto, si era trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza. Il Salone Elena era, in realtà, una modesta baracca di legno dove si recitavano soprattutto «La cieca di Sorrento» e «La sepolta viva», «L’ombra del disonore» e «Il capo della camorra». Ma io sapevo che da pochi giorni era stata scritturata la «Compagnia comica diretta da Umberto Capece», che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. E fu Capece che mi consentì finalmente di passare «dall’altra parte». Non era più lo spettatore Antonio De Curtis, ma Totò attore comico. Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio da capo a piedi. «Signor Capece», gli dissi, «mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno». «Andate un po’ a far del bene alla gente!», brontolò Capece. E mi indicò la porta.
Prendendo il coraggio a due mani, anche per non dover ascoltare mia madre che invariabilmente mi rimproverava di non essere diventato ufficiale di marina, decisi allora di presentarmi a don Peppe Jovinelli che era uno degli impresari più esigenti e più temuti di quel tempo. Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi: una specie di gigante che, arrivato a Roma da un paese del napoletano, si era fermato in piazza Guglielmo Pepe ripulendola dalla giungla dei «bulli» e costruendovi, cinquant'anni fa, un teatro cui diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori come Armando Gil, Alfredo Bambi, Pasquariello e Gustavo De Marco.
Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io conoscevo a memoria: soprattutto «Il bel Cicillo» e «Il Paraguay». Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più propizio perché don Peppe aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto più di quanto potessi sperare. «Ah, siete napoletano», chiese Jovinelli. «A me piacdono i napoletani. E, ditemi, siete bravo?». Mah, dicono». «Dicono, dicono e chissà poi se è vero. Comunque vi aspetto domani per le prove». Il giorno dell’esordio, mentre il pubblico batteva ancora le mani, don Peppe si presentò m palcoscenico contrariamente alle sue abitudini. «Giovanotto, siete stato veramente bravo», nu disse stampandomi sulla schiena una pesante manata. La settimana dopo, Jovinelli mi «riconfermava» (come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove il mio nome era salito con caratteri alti mezzo metro. Sapete che effetto! Mi sembrava di sognare. Interpretando alla mia maniera le parodie vecchie e nuove, con una buffa disarticolata recitazione (più tardi mi presentarono, sui manifesti, come «l’uomo di gomma»), riuscii ad affermarmi in poco tempo. E, con l’avallo di Jovinelli, non ebbi difficoltà - allo scadere del contratto - a fermi scritturare prima all’Orfeo e quindi al Salone Margherita di Napoli, dove il successo prese proporzioni ancora maggiori.
Tuttavia restava ancora un baluardo da espugnare, il più difficile, quel Teatro Sala Umberto di Roma, che era appannaggio soltanto degli attori arrivatissimi. Gli impresari non badavano a spese pur di assicurarsi i nomi più in vista. «Dovrò farne di anticamera prima di arrivarci», pensavo passando e ripassando davanti a quel teatro. Ma, per merito di un barbiere, la conquista fu assai più rapida del previsto. Il barbiere si chiamava Pasqualino ed era una specie di istituzione dell’ambiente teatrale. Chiunque si presentasse a lui qualificandosi «artista», otteneva la massima considerazione, da uno sconto specialissimo sulle tariffe a un congruo numero di applausi a teatro. Perché Pasqualino non si contentava di servire ì suoi clienti di barba e capelli, ma finiva addirittura con l’assumerne la protezione, spellandosi le mani per applaudirli e sfiatandosi per sostenerli in discussioni che si protraevano per ore ed ore.
Il «salone» di Pasqualino si trovava in via Frattina: a due passi, quindi, dal Teatro Sala Umberto che Cataldi e Cavaniglia gestivano in via della Mercede. Fu, appunto, in un afoso pomeriggio di luglio che il cantante Gennarino De Pasquale mi portò da Pasqualino. «Artista?», chiese il barbiere, «Riconfermato da Jovinelli», rispose l’altro. Quel «riconfermato», detto con tono di sussiego da Gennarino, valeva più di qualsiasi altro argomento. Se Jovinelli mi aveva rinnovato la scrittura, dovevo essere certamente un artista con la A maiuscola. L’autorevole presentazione di Gennarino ebbe su Pasqualino un effetto insperato: fu l'apriti Sesamo, che dico?, il talismano miracoloso per mezzo del quale il Teatro Sala Umberto non fu più un’aspirazione ma una realtà immediata. Pasqualino lavorò con abilissima diplomazia, strappando una mezza promessa a Cataldi e correndo subito dopo da Cavaniglia come se il contratto fosse già stato firmato. Così ero appena stato liquidato da Jovinelli quando mi trovai da un giorno all’altro a debuttare al Teatro Sala Umberto. Fu un successo strepitoso: praticamente, il lasciapassare per tutti i grandi teatri.
Antonio de Curtis, 1960
I testimoni dei più antichi spettacoli di Totò rimangono sedotti e insieme inorriditi dalle dissociazioni e delle dislocazioni degli arti di Totò: il collo, il bacino, il gomito, tutte le giunture servivano ad alienare zone del corpo; gli occhi, il mento, le braccia, le gambe si sparpagliavano in direzioni diverse, ad un colpo di grancassa ritornavano poi tutte insieme dopo aver girato per il palcoscenico in una sorta di danza macabra. Un corpo meravigliosamente snodabile ma anche orrendamente divisibile, segmentabile. Maneggia la morte, il funerale, la tortura, dà carne e occhi vitrei ai suoi burattini, esprime l’ansia disperata di un essere che non sa decidersi tra la vita e la morte. Nel cinema, di tutto questo, rimarranno purtroppo solo delle tracce, specialmente nei film girati durante l’epoca fascista.
Totò è nato qui, al Rione Sanità
Una grinta che sarà impossibile dimenticare e che raccontava tutta la saggezza e l'infausta deformità dei vichi napoletani.
Per i giovani Totò non può significare altro che cinema; cosi come per i meno giovani egli è soprattutto un grande comico di rivista quale seppe dare al genere senso di cattiveria e di sarcasmo negli anni oscuri del fascismo e subito dopo, fra il ‘41 e ii ‘49. quando il pubblico fu trascinato dalla sua maschera famelica e dalle sue assurde, e irriverenti invenzioni mimiche negli spettacoli scritti per lui da Galdieri. Fra l’altro, non bisogna dimenticare che Totò, con l’aria di non aver fatto nulla di serio per il teatro e, con la schiva modestia che fu sempre il suo tratto di distinzione, è invece l'attore al quale dobbiamo uno dei momenti più felici e più «popolari» dello spettacolo di arte varia o, come oggi si dice, della rivista.
Chi ancora ricorda "Quando meno te l’aspetti", o "Volumineide" o "Con un palmo di naso", sa bene che la «rivista italiana», frizzante, gioconda, funambolica e sghignazzante, raggiunse il massimo della rispondenza delle platee solo per merito suo. E per meriti, bisogna aggiungere, non ancora attribuibili a contaminazioni più o meno asettiche d’oltreoceano.
In quegli anni, infatti, il gusto newyorkese dello spettacolo folies era sconosciuto in casa nostra. I mimi, i macchiettisti linguacciuti, i fantasisti e le maschere, gli acrobati, i fini dicitori e le cantanti di petto e di «bella anca» erano l'unico patrimonio della nostra rivista. E ci si lavorava a braccio, tirandosi su le maniche e cercando di spremere il meglio di se stessi, di stabilire insomma col pubblico un contatto diretto, autentico, elementare.
Tutta un’altra faccenda, per farla breve, dal successivo "grand spectacle" a base di gambe-gambe-gambee, che ebbe e ha in Garinei e Giovannini i suoi più scaltriti animatori. Senza voler mettere in discussione la validità di questo nuovo e più vistoso spettacolo alla Broadway e senza nulla togliere alla commedia musicale e coreografica, è certo che il solo a dir cose piacevoli, pungenti e interessanti in termini di rivista popolare all'italiana fu proprio Totò. Quanti furono, per esempio, ad accorgersi di quella specie di colpo basso sferrato da Totò al nazismo, mentre recitava e mimava a Roma, in piena occupazione tedesca, "Che ti sei messo in testa?" Si deve a Totò (e, naturaalmente, anche al povero Galdieri che gli stava alle spalle fornendogli spunti e malizie) se quello spettacolo riuscì a mettere alla berlina gli occupanti, presentandoli per quel che essi erano, senza troppi peli sulla lingua.
La storia di una maschera
Ma Totò, grande e sbilenca maschera dell'antica fame partenopea, ha una a storia che comincia molto prima, in un'epoca di cui non fummo testimoni e che abbiamo ritrovata — come un manoscritto chiuso in bottiglia — proprio l’altra sera, al Valle, in "Napoli notte e giorno" di Raffaele Viviani. Non si può intendere niente dell'attore scomparso, se non lo si restituisce a quelle stesse origini; all’«universo straccione» epicizzato da Viviani e prima da Scarpetta, reso coloritissimo e parodistico dai Maldacea o dai De Marco, con le sue canzoncine, i suoi sberleffi e ghiribizzi, il suo senso esplosivo della pantomima e della caricatura al vetriolo.
Non è certamente un caso che Totò, dopo le prime oscure prove nella città natale, cominciò «la carriera» nel 1917 allo Jovinelli di Roma con un repertorio nel quale si ripetevano, in chiave dì smorfia e di imitazione, certe invenzioni marionettistiche del De Marco. Fin da allora (con Il bel Ciccillo, Il gagà, Biondo corsaro), veniva già definendosi l’immagine del personaggio: una maschera disarticolata, un eroe meschino dell’antico teatro dei pupi, un picaro in perenne e indomita battaglia con l'ordine costituito, con la decenza e la morale e la legge dei «ricchi».
Una faccia sbalorditiva
Nel 1922, alla Sala Umberto, Totò si era già perfettamente identificato allo specchio, facendo della sua faccia sbalorditiva uno strumento feroce di comicità. Era soltanto un «fantasista» ma, come si può leggere anche nei manuali di storia teatrale, si presentava subito in qualità di aggressore, di ridevole e dolente testimonio di accusa: una bombetta bisunta, un tight sgraffignato a qualche straccivendolo, calze scarlatte a righe, brache da bracalone pezzente; e quella faccia di marmo a fette, quei movimenti delle mandibole irresistibili, quella risata più simile a una ferita, quella «grinta» che sarà impossibile dimenticare perché diceva tutta la saggezza e l’ingiusta deformità dei vichi napoletani.
Nasceva allora il Totò che abbiamo amato. Nasceva dai cortili plebei di Toledo e del rione Carità, di Forcella e di Porta Capuana, dalla razza con la pancia vuota e la beffa facile, dal teatro di «sceneggiata» e di circo, dall’antico ceppo volgare che comincia con lo Zanni e con Pulcinella e che dalla commedia dell’arte si perpetua nel «varietà di fuorivia», nello spettacolo di irrisione popolare.
In tal senso, Totò ebbe un suo ruolo, forse minore ma irripetibile; e comunque non va dimenticato che egli fu macchiettista per quasi un trentennio. per quasi una vita. Venne poi il cinema, il successo, la vecchiaia. Oggi la morte. Non potremo più ridere per merito suo e solo oggi ci accorgiamo che gli dobbiamo tutti qualcosa.
Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 16 aprile 1967
Sulla scena un burattino in frac
Al contrario di Petrolini, che si piaceva molto, Totò concepì, verso la fine della vita, una sorta di risentimento verso se stesso. « Totò non mi piace », dichiarò a un intervistatore pressante, « mi diverte, ma non mi piace ». E del resto nemmeno Charlot piaceva più a Charlie Chaplin. Per Totò la ricerca delle identità era già totalmente esaurita nel titolo di Principe di Bisanzio, mentre il suo personaggio, malconcio e goffo, ancora si arrabbattava nella equivoca arte di arrangiarsi, manichino burattinesco di piccolo borghese che tende tuttalpiù a divenir medio e grande, ma non certo aristocratico. La frattura tra miseria e nobiltà era però, a ben guardare, ii grande tema del teatro napoletano, e Totò non vi si è mai sottratto: i nobili da lui rappresentati sono sempre stati sciocchi, blesi e futili, mentre i miseri hanno sempre avuto la superba affascinante crudele furbizia della fame: quella aggressiva ricerca del cibo che rendeva del tutto simile l'ometto ebreo con le sterpame beffarde sbarcato a New York e il pulcinello in frac e bombetta approdato da un basso napoletano agli sventramenti della Roma Imperiale, cioè da San Giovanni Decollato a Fermo con le mani.
Il ritratto cinematografico di Totò, dopo il suo intenso revival degli ultimi anni è, è il più completo possibile basta girare le sale di una grande città. Ma ora gustosamente lo possiamo arricchire di raffinate fonti scorrendo il libro che il più fedele tra i devoti, Goffredo Fofi, ci offre col titolo provocante «Il teatro di Totò» (Più Libri, pagg. 225, Lire 10.000). Vi sono raccolti i testi dei copioni passati in censura tra gli anni 1942 e 1946, per essere recitati nell'avanspettacolo e nella rivista. Teatro, nel senso tradizionale della parola, Totò non lo ha fatto mai. Non ha mai tentato di recitare Molière (qualche regista ha provato a fargli a prendere le battute dell'Avaro, ma ne è venuto fuori tutt'altro), e solo al cinema ha accettato Scarpetta, Eduardo o Pirandello. Ha rifiutato la tentazione dell'attore colto, Forse per accentuare il distacco tra l'uomo e la maschera, che doveva essere più possibile volgare, cialtrona, ribalda e scurrile, cioè lontana è astratta. Quanto a scurrilità questi copioni non sono davvero reticenti. «Deh, lasciami andare / sui prati a bisciare» , recitava Totò Tarzan nel '38, ma l'equivoco fonetico sulla «biscia» lo si può sentire anche al teatrino di Pulcinella. Totò portava infatti sui palcoscenici delle periferie annaspanti nella volgarità del regime una voglia di aggressività verbale, di sessualità guardone, di doppi sensi oltraggiosi.
Non si può parlare mai di satira, in questi canovacci che inizialmente nascono dalla tradizione della scena napoletana il (come scroccare un pranzo all'osteria) e poi si indirizzano verso gli oggetti di dileggio ammessi dalla presunta virilità del regime, come «Il Gagà e la Gagarella» del 1942.
Sono questi gli anni dell'incontro di Totò con Anna Magnani e con la vena di versificazione qualunquistica in cui fu rigoglioso Michele Galdieri. Il cinema ci ha restituito molti di questi testi talvolta irresistibili come «l'onorevole in vagone letto» con Isa Barzizza e Mario Castellani. Della Magnani non abbiamo nulla eccetto un patetico delizioso sketch restaurato in «Risate di gioia» di Mario Monicelli. Dobbiamo dunque affidarci alla scrupolosa filologia di Fofi, cercando di ricostruire con gli occhi del ricordo (quando si ha la fortuna di serbarlo), o con la fantasia non solo l'immagine della grande maschera insostituibile, ma anche il ritratto meno confortante di una italietta forse un po' troppo dura a morire.
Tommaso Chiaretti, «Repubblica», 3 agosto 1976
Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato... il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico... si diventa una cosa sola col pubblico. Infatti quando facevo teatro volevo molta luce, perché mi piaceva vedere la sala, e vedere che il pubblico, la maggioranza del pubblico, faceva le facce secondo quello che dicevo io, secondo la faccia che facevo io... Insomma c’è una comunicazione che si forma, cosa che non accade con il cinema dove c’è solo una macchina, ma non c’è nessuno, ci sono solo uomini che lavorano, che magari mi guardano, ma guardano me superficialmente, come guardano altri. Poi in teatro, modifichiamo le battute, le intonazioni della voce, e quindi alla seconda, alla terza recita abbiamo già migliorato tante cose. Avevo come spalla Mario Castellani o Eduardo Passarelli, sempre loro, affiatati, mi capivano. La spalla è importante! Segue l’attore comico, si affiata, lo capisce, lo sente. Castellani ha lavorato con me molti anni sia nel teatro che nei film. In teatro era veramente molto bravo. Io poi quando facevo le riviste non andavo mai a provare, perché io non posso provare, e allora lui provava per me. Non posso provare e le dico perché: sono, direi, spontaneo, un istintivo, e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica e il risultato è qualcosa di meccanico, non più spumeggiante. E còsi io andavo sul palcoscenico gli ultimi due giorni, tre giorni, per vedere solamente le entrate e le uscite, senza sapere una parola del copione, andavo molto a orecchio, a suggeritore, e poi il secondo giorno io toglievo il suggeritore, lo mettevo tra le quinte, e poi dopo tre o quattro giorni spariva del tutto. Quindi all’inizio recitavo sul suggeritore e quello che arrivava era quasi nuovo, e su quel nuovo andavo avanti e recitavo e andavo avanti e fissavo i lazzi. Infatti la prima sera lo spettacolo andava benissimo, la seconda calava, la terza calava ugualmente, la quarta cominciava a salire perché si piazzano tutte le battute, tutte le intonazioni e cosi via... Intanto il suggeritore prendeva appunti, e il copione diventava copione sul serio, non più un canovaccio Lo sketch del vagone-letto durava dieci minuti la prima sera, dopo tre mesi durava un’ora, tutto lazzi e battute.
Io mi ricordo quando giovinotto non conoscevo ancora «a mille lire». Quando io ho cominciato a lavorare la nobiltà era finita da un pezzo e in famiglia erano finiti pure i soldi, non c’erano vestiti. I miei volevano che andassi in Marina, io invece cominciai a frequentare il teatro. Eramo una «chiorma» di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranze, tutti uomini che poi si sono piazzati, io, Eduardo e Peppino de Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio, l’autore di «Come piange Pierrot», che allora faceva i testi delle canzoni cantate dalla Mignonnette. Facevamo le «recite staccate» nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La «recita staccata» era una specie di week-end teatrale, due rappresentazioni, sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra. Eravamo una chiorma...
Ho fatto il teatro dell’arte in piccole compagnie e cominciai assieme a Pulcinella, ma non facevo Pulcinella, io facevo il Mametto, con poche battuteci radunavamo in camerino, e il capocomico, che era Pulcinella, era seduto, gli attori principali erano seduti, noi ragazzi in piedi.
Allora Pulcinella spiegava la commedia, faceva un canovaccio e diceva: «In questo momento io faccio così esci tu e parli, dici una cosa come ”la signora non è venuta” e qui inventi sul perché non è venuta. Dopo questa battuta esci tu che sei Sciosciammocca e parli sull’argomento». Era una canovaccio sul quale dovevamo ricamare. La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, e tante altre naturalmente.
Questa vecchia «arte» fa molto bene a un attore per incominciare, perché l’attore si esercita a improvvisare, a parlare... Ed è stata la prima tappa, a Napoli naturalmente. Poi sono entrato in varietà a fare le macchiette... Nel 1921 feci un paio d’anni la commedia dell’arte, poi fui nel ’24-’25 nel varietà, e diventai una vedette, e finalmente ebbi il piacere di passare alla Sala Umberto, poi alMaffeidi Torino, al Trianon di Milano e in altri locali di prim’ordine. Poi in una compagnia stabile dialettale al Teatro Nuovo di Napoli. Poi entrai nella compagnia Maresca, che era una grande compagnia di riviste e di operette. Dopo feci compagnia per conto mio, nel ’33, ’34, 35... Ero io l’impresario. Gli spettacoli andavano benissimo, ma io rimettevo ugualmente soldi, perché sa, per fare il copocomico bisogna essere duri, bisogna avere un po’ di cuore duro, mentre io quando vedevo che per un artista la paga era scarsa, gli davo di più, e di più a quello e di più a quello, così non andava avanti e quindi ritornai in varietà. Dopo il varietà ho fatto, dal ’40, i grandi spettacoli con il repertorio di Michele Galdieri: Quando meno te l’aspetti, Volumineide, Orlando curioso? Che ti sei messo in testa?, Con un palmo di naso, C’era una volta il mondo, Bada che ti mangio, e questo fu dal ’40 al ’50. Nel ’50 lasciai il teatro per passare definitivamente al cinema. Le riviste erano tutte belle. Bada che ti mangio, era straordinaria, e avevo fatto prima Quando meno te l’aspetti, che aveva tutto un significato politico, cioè «quando meno te l’aspetti la sorte muta», e c’erano delle battute che si riferivano al regime di allora. Le ricordo tutte perché erano veramente belle, tutte belle e piene di significato. Del lato comico m’interessavo io, c’erano molti sketches che erano miei, e quindi c’era una collaborazione magnifica tra me e Galdieri, ilquale si interessava, del resto, di tutti i testi e io mi occupavo della parte comica e gli spettacoli riuscivano abbastanza a colpo sicuro. In quegli anni, quando c’era un regime che imponeva di non aprir bocca, noi si apriva bocca, magari con la paura come facevo io... Abbiamo avuto noie terribili, e una bomba sul teatro, il Valle, tutti i giorni richiami dal Ministero della Cultura Popolare... Pochi giorni prima della liberazione di Roma ebbi una telefonata dalla Questura e una voce anonima mi disse: «Si nasconda perché verranno a prenderla». Allora io scappai, volevano portarmi al Nord, infatti. In quei momenti io ce l’avevo un po’ coi tedeschi, e nelle battute delle riviste ci mettevo un po’ di malignità. Vedevo per strada i rastrellamenti, le fucilazioni... certo, ne abbiamo passate...
L'attore ha il dovere di essere apolitico poiché campa al servizio del pubblico che, si presume, ha un suo credo, e deve divertirlo sfottendo questo o quello senza urtargli la suscettibilità come accadrebbe fatalmente se, essendo militante in un determinato partito, prendesse per il culo il personaggio di un partito opposto.
Ricordo che a Firenze fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a 200 lire. Ero con la compagnia Maresca: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perchè il pubblico rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti. La sera dopo lo incontrai poco prima che iniziasse lo spettacolo. Vi avevo pregato mi disse, di non monopolizzare il palcoscenico quando non siete in scena, E' vero che voi, ieri sera, non vi muovevate, ma soltanto teoricamente: perchè anche stando fermo eravate tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, fate quello che vi pare.
II fatto è che io, arrivato a questo punto della mia carriera, piuttosto che in televisione avrei preferito lavorare nel teatro di prosa. Proprio qualche settimana fa, Giuseppe Patroni Griffi mi aveva proposto di esordire in "Napoli notte e giorno" di Raffaele Viviani; ho dovuto rifiutare perché i personaggi di Viviani, umili e dimessi, non sono adatti alla mia comicità aggressiva. Che peccato!
Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare (...). Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara qual'è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.
Se copiassi integralmente De Marco sarei uno sfruttatore del talento altrui, un ladro (...). io, invece, mi ispiro a lui, che è una cosa diversa. E in questo senso il mio lavoro può considerarsi un omaggio alla sua arte.
Mi ricordo la prima risata che feci fare in teatro. Recitavo in una compagnia di commedia dell’arte, quelle farse con Pulcinella e le maschere classiche del teatro napoletano. Il primo attore era un certo Marco ’Nfru, un nome che era tutto un programma. Ero stato scritturato in una parte minore, stavo di fianco sul palcoscenico, senza parlare e facendo qualche mossa soltanto. La gente rideva e Marco ’Nfru non riusciva a dire la battuta. Siccome si recitava a soggetto, a un certo punto sbottò: «O esce questo, o me ne vado io». E giù un uragano di risate tra gli spettatori. Ma io me ne dovetti andare.
La mia tecnica è l’istinto. Il comico nasce, non diventa comico. Si può diventare anche comico per forza, ma allora si è leziosi, si è falsi, mentre il comico è quello istintivo, non c’è niente da fare. Lavorando si apprende il mestiere, questa è un’altra cosa. Io ho una comicità istintiva che porto nel mio lavoro e che all’inizio può non far ridere, ma poi, piano piano… come lo scultore che ha un pezzo di creta che plasma piano piano...
Gli inizi miei del cinema a differenza di quelli del teatro furono leggermente scabrosi. Fui chiamato alla Cines di Pittaluga ed esegui il regolare «provino». Soltanto, un regista ebbe la brillante idea di dirmi che sarebbe stato bene che, con la faccia che Iddio mi aveva data, facessi tutto il possibile per imitare... Buster Keaton. Presi cappello in senso proprio ed in senso figurato, dichiarando che mi sentivo soltanto di fare... il Totò. Così ripresi il mio fardello di Pellegrino e tornai al mio varietà, formando la compagnia di riviste che agisce ormai da cinque anni.
Vedete quella mensola? Un mio pezzo che mi sembra riuscito, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una gran voglia di volare lassù, di appollaiarmi tra lo stupore dei miei familiari. Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti! Vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze, bicchieri, vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporaneamente dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutta un fuoco artificiale; sento ancora l'odore della polvere pirica.
Certi frizzi all'interno di una comunità per mesi a stretto contatto di gomito nuocciono. Creano zizzanie, rivalità. Eppoi sono il capocomico. Avrei sempre la sensazione che acconsentano solo per il timore di contrariarmi, di essere prese sul naso. Faticano per guadagnarsi il pane, no? E allora debbono sentirsi libere di seguire il loro ghiribizzo. Ma quante ne vengono durante l'intervallo, signore o popolane che magari lasciano la famiglia o il fidanzato in platea e, tra una risatina, un "Sa sono una sua ammiratrice, Mi darebbe un autografo, Ma no, Via, Su, Cosa combina", quando ne vale la pena finisco là sopra. E magari subito dopo essersi rassettate l'abito sgualcito, quelle schifose tornano tra il pubblico e si scandalizzano per la nudità delle ballerine. Eh, l'attore. Sapeste quanto sono più facili certe cose per l'attore.
Io il pubblico so come farlo patire di piacere.
Sono passato dalla Commedia dell'Arte alla prosa, dal varietà al cinema, dalla poesia alla musica. Certo, rimango sempre Totò, perché non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.
Sono nato un 15 febbraio: acquariano, porta buono. Ma l'anno, che importanza può avere? Un attore non lo deve sapere mai. L'importante è sentirsi giovani. E io mi sento giovane e sempre pronto - se dovesse presentarsi un'occasione favorevole - a tornare ancora una volta sul palcoscenico e a togliere dal "cassetto dei ricordi" quel piumetto che un bersagliere del Terzo mi gettò una sera dal loggione ai tempi di "Eravamo sette sorelle". Quel piumetto che diede vita alla mia più felice e sfrenata improvvisazione...
Vede, quelli che vengono dal teatro vanno bene in cinema, perché hanno esperienza; noi abbiamo una carrriera, abbiamo le fondamenta.
Io posso far ridere, ma se ho vicino a me uno che fa ridere più di me, anch'io faccio ridere di più.
Voglio confessarvi anche una mia segreta ambizione: interpretare il Don Chisciotte. Ci penso sempre e spero che il mio desiderio si avveri, poiché Don Chisciotte mi è molto simpatico. (1957)
Per me è una gioia tornare a recitare con Anna Magnani. lo ci ho lavorato diversi anni a teatro e facevamo begli spettacoli al Valle. Sono commosso ... emozionato no, perché ormai mi sono inveterato ...
Adesso il pubblico è molto più facile. Una volta si sudava sangue sui palcoscenici per strappare un applauso. Oggi mi sembra invece che ci siamo abituati a una certa mediocrità. Quel che è successo in fin dei conti annche in altri campi dello spettacolo. A molti cantanti atttuali vent'anni fa non gli avrebbero neppure lasciato aprire la bocca, li avrebbero arrestati. Questa facilità, questa mediocrità non sono colpa del pubblico. Siamo noi che l'abbiamo provocata. Prendiamo il mio caso. È stato il successo troppo facile a rovinarmi. Sono stati i produttori che hanno incassato un sacco di soldi con i miei film. Non ho mai avuto grandi attrici al mio fianco o buoni soggetti, per anni. Facevano delle porcherie e guadagnavano milioni, quindi non hanno mai pensato a fare meglio. Mi hanno detto che potevo diventare uno Charlot italiano. Li ringrazio, ma di Charlot ce n'è uno solo. È vero però che io sono un mimo nato, lavoro con la faccia senza trucco. Avrei potuto andare per il mondo con la mia faccia, far ridere tanta gente, com'è accaduto con L'oro di Napoli di De Sica o con Napoli milionaria di Eduardo. Mi hanno ridotto invece al ruolo di attore regionale: copioni creati soltanto per l'Italia, film che non costavano una lira. Sono stato male amministrato, il mio patrimonio di attore mi sembra che sia stato sciupato. Questo è il mio rimpianto.
Spesso mi sono sentito dire che dovrei fare l'attore drammatico, ma io non sono d'accordo. Rappresento la vita, che è un mistero di comicità e tragedia, e quindi non capisco perché dovrei convertirmi da un genere alll'altro. La vita non si sceglie, si accetta.
Perché debbono contestarmi la possibilità di essere autore di qualche cosa? Sono iscritto alla Società degli autori da trent'anni, da quando cioè mi fabbricavo da solo gli sketch per le macchiette che interpretavo sui palcoscenici dell' avanspettacolo. E ne scrivevo anche per i miei compagni e persino per i miei concorrenti. Ero in bolletta e il fatto che me li pagassero due lire l'uno mi spronava a inventare sempre nuove battute e nuovi personaggi.
Recitare, lavorare è la mia vita.
Chiudo in fallimento, caro amico. Avrei potuto diventare un attore internazionale. Credo di avere una vis comica naturale, ma non ho fatto niente. Sono un uomo sconfitto.
Riferimenti e bibliografie:
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Paese Sera
- Repubblica