Il varietà
Storia del teatro "leggero" e i suoi personaggi, dal cafè-chantant al varietà, dall'avanspettacolo alla rivista
Gli esordi di Totò nel varietà e gli ultimi divi
L'Italia fa il suo intervento nella Grande Guerra. Il cuore della Nazione non ha palpiti che per i suoi soldati, le sue battaglie e le sue speranze di vittoria. Nei primi due anni di lotta anche il Varietà si pone al servizio della grande causa con le sue canzoni incitatrici e l’assistenza ricreativa ai combattenti nelle retrovie, ma, nell’ultimo anno, il più duro e tormentato, le autorità stimano opportuno vietarlo in tutte le città italiane.
Disciplinato, come una vera milizia civile, il Varietà ubbidisce e tace. Poi la vittoria folgorante e il dopoguerra movimentato, turbolento ed euforico.
In questo clima particolare il Varietà cerca di riprendere il suo dialogo con il pubblico, là dove l’aveva interrotto, ma presto ci si avvede che non è la stessa cosa. I gusti, gli ambienti, la forma mentale, le abitudini, le disposizioni spirituali degli spettatori sono radicalmente mutati, trasformati, e, spesso, addirittura capovolti. La vita, in tutte le sue forme, appare assai diversa e il Varietà si avvede, sgomento, che la fine è vicina.
Nel campo dello spettacolo la Rivista, che anni prima era cominciata in sordina, tende a svilupparsi, a farsi strada e ad imporsi su tutti i palcoscenici, ma non per tanto il Varietà si dà per vinto. I penultimi divi si affacciano alla ribalta ed esplodono con tutta la forza delle nuove esperienze.
Un giovanotto magro con un’inconfondibile maschera, venuto fuori dal popoloso quartiere napoletano della Sanità, si presenta al pubblico con forme e metodi rivoluzionari. Già aveva cominciato, anni prima, a farsi notare per certe sue particolari creazioni musicali fatte di ritmo indiavolato e di movimenti assurdi, ma oggi comincia la sua sagra violenta e sconvolgente. Il giovanotto si chiama Antonio De Curtis, ma sui manifesti è scritto soltanto un piccolo nome scoppiettante: Totò.
Fantasie surrealiste, canzoncine apparentemente senza nesso nè significato, movimenti marionettistici, disarticolazioni disumane del corpo, espressioni ritmiche del viso, battute rapide, incisive ed esplodenti fanno di questo nuovo originale personaggio un artista che tutto sommerge: canoni, metodi e tradizioni.
E’ una scoperta clamorosa e un successo travolgente: Totò è la parola nuova nel campo del Varietà, ma egli, che avrà tante cose da dire, uscirà presto da quelle file e la sua figura giganteggerà al di fuori di ogni genere e di ogni schema.
Sono di quest’epoca, penultime, significative e brillanti affermazioni: Rodolfo De Angelis, multiforme e culturale; Titina, ragazza mordente e pepata; Gabrè, aristocratico e sentimentale; Castigliana, cantatrice spagnoleggiante e popolaresca; Fulvia Musette, birichina e croccante si aggiudica simpatie e consensi.
Reduce dalla compagnia di prosa di De Santis, un giovane scanzonato fiorentino si aggiudica un posto d’onore nella schiera nutrita di questi penultimi divi. E’ Odoardo Spadaro, bello, elegante e sportivo. Il suo panama fresco ed allegro richiamava alla memoria praticelli fioriti, spiaggette ombreggiate, boschetti e piccoli fiumi azzurri. Le sue canzoni semplici, dai deliziosi bruttissimi versi, le sue piccole melodie, or malinconiche ed ora allegre, gorgheggianti come cascatelle d’acqua limpida e fresca, attraverso le figure, le immagini ed i sentimenti di tutte le creature buone della spicciola umanità di tutti i giorni, gli procurarono in poco tempo un consenso schietto e vivo di simpatia calda, affettuosa, cordiale.
Se le sue doti d’italiano avevano fatto di lui a Parigi un artista singolare, la classe e le esperienze acquistate sulle scene francesi fanno di lui, quando torna in Italia un divo dall’inconfondibile stile, e, per la tenerezza delle sue espressioni, egli appare come il Puccini del Music-Hall internazionale. Così il pubblico di mezzo mondo più che cantare le canzoni di Spadaro riviveva con lui le piccole deliziose vicende che quelle canzoni imprigionavano, e che da lui erano descritte, più che cantate in varie lingue con una voce profonda e cordiale e con un calore umano che i più grandi cantanti del mondo avrebbero potuto invidiargli.
Fra le canzoni più famose e popolari del suo repertorio ce n’è qualcuna, che pare conservata come un piccolo gioiello in un cofanetto foderato di seta rosa. Quella, per esempio, che ha per titolo «Qualche filo bianco», in cui si narra, con la melodia discorsiva di Mascheroni, che «il lontano primo amore, si può incontrar per caso, un giorno per la via». I due antichi fidanzati, incontrandosi, scoprono che ognuno di loro ha qualche filo bianco nei capelli : «Qualche filo bianco hai: Qualche filo bianco ho anch’io.. .». Lei racconta che si è sposata e lui le chiede: «Sei felice?». Lei rimane pensierosa, poi sorride, nulla dice .. .».
Il solito, piccolo, tenero dramma di certi incontri di ogni epoca e sotto ogni cielo, nel quale una sottile vena di poesia colora per un attimo di celeste le cose grigie e brutali della vita di tutti.
Questi piccoli miracoli di gusto, di stile e di poetica concisione erano consueti nella produzione di Spadaro. Amò la sua città di un amore profondo, ma il suo fu un amore raccolto, contenuto, quasi pudico. E quando la celebrò, questa sua città, con la famosa canzone del «Bacione a Firenze», inventò la storiella della bambina toscana di Montevideo, che gli aveva dato incarico di portare il suo saluto alla città lontana; e alla medesima maniera, celiando, disse di avere sposata la donna che amava perchè aveva per nome Fiorentina.
Un menestrello rinascimentale con uno smoking di taglio impeccabile e un panama candido sulle ventitré: questo, lo Spadaro, così come ci è rimasto particolarmente nel cuore.
Ma il vero canto del cigno è di Anna Fougez. In quel famoso e vibrante dopoguerra ella ha per compagni di viaggio Guido da Verona e i pescicani, Pitigrilli e la cocaina, Mario Mariani, le borsette a maglie d’argento e gli abat-jours. Anna Fougez era bella, ma di una bellezza perfida e moderna. La sua voce aveva toni bassi, maliosi, conturbanti.
Più che canzonette cantava certi bozzetti musicali scritti apposta per lei, pervasi di fatalità e di cattiveria, in cui la donna mostrava una parte sola della sua anima, quella ispirata dal serpente e dal demonio.
Eppure il suo successo — può sembrare strano e paradossale, ma non infrequente nel campo del teatro — fu dovuto alle clamorose disapprovazioni, a cui era fatta segno nelle sue tournées artistiche. Molte volte la platea si divideva in due campi e spesso la parte ostile trionfava su quella simpatizzante. Ma lei passava, maliarda e fascinatrice, sui palcoscenici italiani, fra l’interesse sempre vivo del pubblico numeroso, che affollava le sale dove si esibiva:
«Vipera... vipera ...
Al braccio di colei
che ora ha distrutto tutti
i sogni miei...»
Le parole e la musica si addicevano stranamente al suo timbro di voce, alla sua pericolosa bellezza e al suo temperamento passionale.
Ma in seguito, le sole canzoni, cantate, così, semplicemente, alla ribalta, non le bastarono più. Comprese che il pubblico cominciava a stancarsi del Varietà, inteso nella sua forma lineare e primitiva, e inventò la messa in iscena del numero di Varietà. Così, precedendo di molti e molti anni le soubrettes moderne, mise in palcoscenico la scala, dalla quale discendeva, regale e trionfante, in costumi ricchi e fastosi disegnati apposta per lei con tessuti sfolgoranti e acconciature di penne di struzzo. Era come un’apparizione quando si presentava, e la lenta discesa dai gradini veniva commentata a grande orchestra con il motivo dominante della sua canzone personale;
«Nel fulgor
di piume , gemme ed or
è la donna un ideal seduttor...
Fa incantar...
Fa sognar...»
La platea rimaneva trasognata. Ai piedi della scala, il suo partner, René Thano, le prendeva la mano, gliela baciava con eleganza boulevardière e lei veniva avanti lentamente tra gli applausi del pubblico, incantato.
Le signore, tra un capitolo e l’altro di «Sciogli la treccia Maria Maddalena», parlavano di lei con malcelato rapimento. Gli uomini, ai tavoli del tabarin, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende e nei movimentati raduni politici, sognavano di lei senza fame un mistero. Si favoleggiò di un importante uomo politico e d’azione del tempo che aveva preso per lei una cotta favolosa. Il suo nome, Michelino Bianchi, e quello della Fougez si rincorrevano da un accampamento all’altro di squadristi: e forse era per questo che l’artista veniva spesso fatta segno a dimostrazioni ostili da parte degli avversari del nuovo regime.
Comunque, il nome di Anna Fougez, fu la sigla tempestata di strass di un dopo guerra tumultuoso, e lei stessa al penultimo teatro di Varietà donò uno stile particolare e inconfondibile.
Ma, dopo qualche anno, comprese che il suo regno si avviava al tramonto. Apparve anche nelle prime riviste, ma non con lo stesso splendore e la stessa classe che l’avevano resa celebre sui palcoscenici di Varietà. Così, di fronte alle stelle nuove, dignitosamente si pose in disparte.
Si è spenta alcuni mesi fa, serenamente, come una buona vecchia signora, in una sua villetta a Santa Marinella, dove da molto tempo si era ritirata. Negli ultimi anni ha cercato di vedere e incontrare quanto meno gente era possibile. Cercava di guardare quanto meno era possibile anche la sua stessa immagine. Nella sua casa non vi erano specchi.
Mario Mangini
Il Varietà, teatro minore
È apprendistato, scuola, formazione. Fregoli come Viviani, Maldacea come Pasquariello, la Fougez come la Cavalieri, Petrolini come Totò, i De Filippo come la Magnani, Macario come Dapporto si formano alle necessità del rapporto col pubblico. Il teatro di prosa chiede rigidità preordinata (dal capocomico, poi dal regista), regole strette, tempi stabiliti. Il café-chantant, le periodiche, il variété, la sceneggiata, l'avanspettacolo, la rivista, chiedono il fiuto della situazione e degli umori del pubblico, l’intelligenza della spalla, il gusto dell’improvvisazione. Qui tutto è un insieme di piano e di sregolatezza, di ordine e disordine da rimettere sempre in discussione. La prova del pubblico è tutto. Piacere è un dovere. Se il pubblico si agita, rumoreggia, non ride, non applaude o, peggio ancora, fischia, se il numero non funziona, se la canzone o il balletto non piacciono, bisogna correre ai ripari. L’esame è spietato, le bocciature difficilmente rimediabili. E non è che i “tempi” siano più laschi e molli che nella prosa, al contrario. Solo, vanno inventati dentro lo spettacolo, ricostruiti volta per volta, elaborati e fissati alla prova del loro successo. Il testo conta relativamente: può e deve essere modificato dall’intervento dell’attore e, in definitiva, del pubblico.
Il pubblico non sa quello che vuole, ma lo scopre assistendo, e allora sa come imporre il suo piacere, come rifiutare ciò che lo annoia e infastidisce. Si ripete a ogni numero, a ogni sketch, a ogni macchietta la regola d’oro della commedia dell’arte: si recita insomma a soggetto, cogliendo l’occasione imprevista, insistendo sull’effetto riuscito, scartando quello fallito e ogni superflua lungaggine. A questa scuola sono nati i grandi attori che riconosciamo a tutt’oggi grandi. Le due sole dimensioni praticabili e sensate, necessarie, nel teatro del nostro secolo (almeno fino all’avvento di quelle avanguardie motivate dall’essere espressione di nuovi soggetti sociali), il comico e l’epico nelle loro molte forme e varianti, entrambe trovano nel teatro minore il loro nucleo originario o la loro ispirazione, e se per il comico non serve dimostrarlo, basti, per l’epico, pensare al ricorso agli insegnamenti del teatro minore che autori cosi diversi come un Brecht o un Majakovskij (ma anche tra i russi Mejerchol’d, Ejzenstejn, Kulesov, gli “eccentrici”) e in generale le avanguardie storiche (qui documentate con l’esempio futurista) hanno fatto propri, nel loro sforzo di distruzione delle forme del teatro borghese.
Café-chantant, varietà, music-hall, vaudeville, nella loro versione più povera come in quella più ricca, lasciano il posto alla rivista già avanti che la prima guerra mondiale sconvolga l’assetto politico del mondo, la preesistente logica delle classi ereditata dall’Ottocento, e sconvolga, col costume, i criteri del gusto. Ci hanno lasciato in regalo, per l’epoca successiva, il grande cinema comico americano (Chaplin e Keaton, i Marx e Fields, Harry Langdon e Mae West), cosi come Viviani e Petrolini, Totò e Eduardo, assieme ai divi e alle soubrettes, agli chansonniers e alle primedonne, di più prevedibili e transitori successo e ricordo. Un brulicare di situazioni e di pubblici, di tecniche e di modi.
La rivista ne tenta una formalizzazione unitaria, una strutturazione ordinata. Tenta, in sostanza, la definizione di un pubblico e di un mercato più omogenei e controllabili. Tenta e fallisce, poiché ben presto si ritroverà divisa in alto e basso, ancora secondo le definizioni di classe, per quanto generiche, che abbiamo indicato. Alle iniziative locali — legate a impresari locali, gestori di spazi teatrali determinati — succederanno compagnie, impresari, capocomici, divi che cercheranno di costituire catene nazionali di spettacolo, rendendo regolari le loro prestazioni e il loro successo. Lo scambio si intensifica, ma si amalgama perdendo in parte di vivacità e di vigore. Della rivista, infatti, cercano di impadronirsi i teatranti maggiori, legandola al loro carro, come variante più “facile” di un teatro di prosa ripetitivo e, tutto sommato, esangue. Anche gli intellettuali cominciano a occuparsene. Si risospingono ai margini le attrazioni, che tornano spesso al circo, loro origine, e che resteranno come riempitivi privi di reale autonomia.
Il tentativo di nobilitare il varietà facendone rivista riesce, ma paga degli scotti: la maggiore prevedibilità, alla lunga, degli spettacoli, ordinati secondo schemi adeguati al pubblico “per bene” che si cerca di convogliare nei teatri; una satira che, quando c’è, è ormai tutta interna alla logica di una simbiosi tra pubblico e autori, prodotti dallo stesso humus culturale e sociale, diventata da provocazione consolazione.
Il teatro di Varietà nacque con il Novecento, sulla spinta di una nuova moda, che pareva irresistibile. Varietà di nome e di fatto: era una babele di attrazioni varie prese in prestito ciascuna a piccole dosi dal teatro di prosa, dal circo, dall’operetta, dalla lirica, dallo sport, dal cinematografo. Oggi con questo termine un po’ troppo generico, Varietà, si intendono generi spettacolari diversi fra loro per caratteristiche estetiche, sociali e di mercato. Si parla diVarietà pensando agli spettacoli televisivi del sabato sera e simili o, al limite, per ostentare archeologia filologica, riferendosi a tutta la composita tradizione della comicità popolare italiana del Novecento. Ma in realtà essa si è sviluppata lungo le direttrici, in sé teatralmente autonome, del Caffè Concerto, del Varietà, dell’Avanspettacolo, della Rivista e, infine, della Commedia musicale. L’arco di tempo abbracciato da questi generi va dall’ultimo decennio dell’Ottocento agli anni Sessanta del secolo dopo. Con qualche sfilacciata (o scollacciata) protesi anche più oltre.
L’origine comune di questi generi è d’importazione francese, sul modello del Café Chantant: erano spettacoli che avevano vita su pedane volanti costruite all’aperto accanto ai tavolini dei caffè più lussuosi delle città. Qui si esibivano, scritturati dai proprietari dei locali, comici, duettisti e cantanti. A inizio Novecento era d’obbligo, passando per Roma, fermarsi sotto la Galleria tra l’Esedra e piazza San Bernardo dove su una piccola pedana artisti onesti e semisconosciuti intrattenevano i ricchi perditempo dell’èra umbertina. (Lì sotto, per esempio, debuttò tale Ettore Loris, duettista: quando divenne famoso si fece chiamare col suo nome e cognome, Ettore Petrolini).
Poi, quando a cavallo dei due secoli la moda del Caffè Concerto prese piede definitivamente, anche in Italia furono costruiti spazi appositi per questo tipo di spettacoli: locali chiusi, veri e propri teatri, nei quali dare rappresentazioni in ogni periodo dell’anno, non solo in estate. Primo teatro e antesignano del genere, da noi, è stato il Salone Margherita di Napoli, inaugurato nel 1890 sotto la Galleria Toledo (sempre in galleria e comunque al chiuso, al buio, hanno vissuto i comici, mai alla luce del sole). Il Caffè Concerto era fatto per ricchi in ricchi locali, ma comici, duettisti e cantanti diventarono una moda anche fra i meno abbienti. Ogni parco d’attrazioni (ce n’erano parecchi in molte città accanto alle stazioni e ai mercati) ebbe presto il suo padiglione teatrale di legno, messo su in tutta fretta, dove si esibivano attori brillanti e cantanti, ballerine e imitatori. Gli attori drammatici, invece, vi ci rappresentavano a puntate grandi romanzi d’appendice riscritti per la scena, soap opera, telefilm d’epoca. E tutto intorno un’umanità indistinta e sfaccendata appendeva i propri sogni alle illusioni messe in vendita dai maghi, dalle donne cannone, dagli incantatori di serpenti, dai fachiri, dalle streghe del futuro e dagli azzeccagarbugli dei tirassegno, dai piazzisti di cianfrusaglie e dai giocolieri. C’era una sorpresa per ogni visitatore e per ogni tasca. i militari andavano lì in libera uscita, guardavano e se ne tornavano felici; i commercianti, i perdigiorno o i forestieri arrivavano, spendevano e scappavano rabbuiati. A Roma, in piazza Guglielmo Pepe, dove si fermavano i treni che arrivavano dal Sud, il re incontrastato di tanta modernità era don Peppe Jovinelli, oriundo meridionale, proprietario del Teatro Umberto, un casermone di legno dove si pativa il freddo d’inverno e il caldo d’estate: ma quel teatraccio era il più ambito dai comici e dal pubblico perché dentro c’era sempre qualcosa di cui sorprendersi. Sulle fondamenta del teatro Umberto, neanche fosse un tempio romano o una basilica barocca, nel 1909 don Peppe costruì il suo teatro Jovinelli che per due, tre lustri è stato la chiesa madre di chi pregava ridendo. Ci recitarono i divi e ci cantarono le migliori soubrette. Poi, anni e anni dopo, ci sono state le ballerine, i maghi e i finedicitori. E infine le contorsioniste, i pugili e le spogliarelliste. Adesso è un ventre vuoto, un utero invecchiato, poi si vedrà.
Ma non corriamo. Il Varietà in senso stretto rappresenta il naturale sviluppo artistico ed economico del Caffè Concerto. All’inizio del Novecento, assieme al Salone Margherita a Napoli, le cattedrali riconosciute del genere erano i romani Teatro Jovinelli (proprio lui) e la Sala Umberto (aperta da Ettore Petrolini nel 1912 con lo splendido Amleto scritto con Libero Bovio). Qui la gente arrivava in carrozza e qui gli impresari riunirono il meglio di ciò che capitava nei Caffè Concerto e nei Padiglioni della meraviglie. C’erano comici, duettisti e cantanti, ovviamente; ma anche ballerine, maghi illusionisti e prestidigitatori, contorsioniste, donne barbute e ballerini acrobatici, forzuti e matti qualunque. Sempre i soliti, insomma. In più, sul finire degli anni Dieci, fra i vari numeri del Varietà comparve anche il cinematografo, sotto forma di breve proiezione di una farsa o di un rapido dramma a fosche tinte. Le farse si producevano a Torino e i drammi a Napoli. Pare strano questo rovescio di ruoli ma è così: erano due piccole industrie che davano lavoro a parecchia gente. Siamo a metà degli anni Dieci quando la guerra scalfisce le abitudini dell’Italia lontana dal fronte e fa arricchire improvvisamente temerari impresari teatrali che organizzano spettacoli per i prigionieri, i feriti, gli orfani, i reduci... È da tutto questo che il Varietà trasse la sua energia maggiore arrivando a essere unica forma di spettacolo totalmente nazionale e vero emblema dell’Unità d’Italia: vi si recitavano e cantavano testi scritti in tutte le lingue/dialetto italiane (non solo napoletano e veneziano, anche milanese, piemontese, siciliano, romanesco...).
Nel Varietà nacquero e prosperarono alcuni fra i massimi artisti teatrali italiani della prima metà del Novecento. Prima di tutti Nicola Maldacea, il cantante napoletano che inventò la ‘macchietta’, ossia la canzone comica in versi basata su una struttura narrativa molto articolata e di forte carica satirica. Ma c’erano anche altri divi consacrati la cui fama è arrivata fino a oggi. In ordine sparso: Gennaro Pasquariello, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Gustavo De Marco, Anna Fougez e suo marito René Thano, Raffaele Viviani, Angelo Cecchehn, Renato Maddalena, Gustavo Cacini, Virgilio Riento... e tanti altri ancora che incontreremo poi.
Oltre alla macchietta, il Varietà diede corso a una ricca produzione di canzoni popolari ma anche di monologhi, sketch e parodie. In ogni caso, tutto ruotava intorno a una trovata legata all’equivoco di un doppio senso che, se nei casi migliori nascondeva un risvolto spinto, nella maggior parte delle circostanze smetteva di essere doppio per diventare unico, palesando sconcezze fin troppo dirette. Si sta parlando, ovviamente, di trovate e trucchi comici: runico diverso, per così dire, fu Raffaele Viviani che oltre al comico su quei palcoscenici praticò anche il drammatico. Scriveva canzoni amare e commoventi,Viviani, e per lui Giovanni Capurro (il poeta di O’ sole mio) e Francesco Buongiovanni scrissero Totonno ’e Quagliarella, la sola macchietta drammatica che si ricordi.
Il Varietà ebbe un successo popolare e mondano assolutamente strepitoso (non paragonabile a quello di alcun altro genere di spettacolo dell’epoca) nei primi tre decenni del Novecento, poi dando vita in seguito a una radicale trasformazione del mercato teatrale - all’Avanspettacolo e alla Rivista, generi di altrettanto vasto successo nei due decenni successivi, ma certamente meno popolari ed economicamente redditizi del cinema.
Quando, all’inizio degli anni Trenta, l’apporto del sonoro fece impennare gli incassi cinematografici, il regime fascista decise di investire denari e forze intellettuali nello sviluppo del cinema, ritenuto lo strumento di educazione e di persuasione di massa più efficace di qualunque altro. Senza contare che la sua struttura produttiva quasi industriale, riunita in poche mani dotate di grandi capitali, consentiva un controllo a monte più marcato. Dunque, il vecchio e fortunato Varietà subì una modificazione profonda. Le sale che ospitavano quel genere di spettacoli furono indotte - anche tramite qualcosa che oggi potremmo chiamare ‘incentivi fiscali’, ma non solo - a privilegiare la programmazione cinematografica; contestualmente la produzione di film (poi autarchicamente ribattezzati filmi) fu economicamente favorita purché le pellicole realizzate esaltassero, possibilmente senza esagerare o senza farsi troppo scoprire, l’italianità, l’eroismo dei militari italiani e la supremazia dell’ideologia fascista. Tuttavia, mai nulla fu fatto per affondare direttamente il Varietà che restava pur sempre lo svago più radicato in tutte le classi sociali del Paese. Sicché gli artisti diVarietà da un lato concentrarono i loro sforzi economici per allestire spettacoli in tutto e per tutto concorrenziali nei confronti del cinematografo (così nacque la Rivista) e dall’altro accettarono il compromesso di vedere ampliato all’interno delle proprie rappresentazioni lo spazio destinato alle proiezioni. Fino a limitarsi a precedere, con un’ora di spettacolo, il film che veniva presentato a tutti gli effetti quale vera attrazione della serata (così nacque l’Avanspettacolo).
Nicola Fano
Caffè concerto, Varietà, Rivista: breve storia di una lunga simbiosi
Che non sia azzardato doversi riunire attorno ai tavoli di una taverna parigina nel 1729, per recuperare un utile punto di avvio circa la storia del teatro "minore", può confermarlo l’indecisione che solitamente assale i cronisti quando si propongono una data di partenza inconfutabile. Giacché nella trattoria Landel, ogni prima domenica del mese, un gruppo di intellettuali si riuniva per un pranzo societario obbligatoriamente intervallato dalle esibizioni dei partecipanti, nulla impedisce di assumere questo eterogeneo convivio (la Societé du Caveau) come base, appassionata e qualificata, per un’area dello spettacolo cui i decenni hanno imposto nomi diversi, destinazioni non sempre combacianti, funzioni e propositi altrettanto mutevoli.
Da Landel si davano appuntamento poeti, scrittori, canzonieri, giornalisti, verseggiatori, musicisti, commediografi e epigrammisti per "coltivare la canzone” soprattutto, ma pure per provarsi in improvvisazioni che stringevano in un unico filo, indubbiamente raffinato e non conformistico, comicità e satira, canto, recitazione, poesia.
Il “Caveau”, in altri termini, attraverso le sue successive edizioni e alterne vicende, può dunque essere privilegiato quale trasparente delle fasi iniziali di una cronaca complessa e vivace. È ben vivo, difatti, nel 1770 quando si inaugura il “Café des Musicos”, primo degli infiniti ca-fés-chantants sparsi un po’ dovunque in Europa, e persino quando la Rivoluzione dell’ ’89 spinge la canzone verso tutt’altre sponde. Ed è ancora la sua tradizione - sotto il mutato richiamo dei "diners du Vaudeville" - ad avere parte non marginale, nella seconda metà dell’Ottocento, in quel fervore di iniziative e di sviluppo che conduce alla nascita di alcuni famosi teatri di varietà: le "Foliès Bergère” (1869), il "Casino de Paris” (1881), il "Bai du Moulin Rouge” (1889). Pochi anni basteranno perché anche la rivista (nata nelle sale della “Union Artistique” nel 1898, con La révue rétrospective, messa in scena da un gruppo di aristocratici unitisi ad attori professionisti) entri a far parte di un can-
giante ventaglio trattenitivo: con i suoi divi, i luoghi deputati, i sostenitori e i detrattori, gli entusiasti cronisti.
Districarsi tra le quinte di questo mondo scenico non è certamente agevole. Se infatti i diversi generi tutti egualmente si sottraggono ai rigidi canoni "teatrali” del dramma e della commedia, è pur vero che essi non evidenziano percorsi assolutamente autonomi. Il loro panorama, entro il quale si muovono e si prodigano alternativamente gli artisti di maggior spicco, mostra infatti evidenti tangenze, itinerari talvolta non troppo divergenti e - indiscutibilmente - punti di forza comuni. È in virtù di questi che si stabilisce un continuo interscambio, si concretano alleanze e prestiti, si vanificano preminenze o sudditanze. Il caffè-concerto, il varietà, la rivista, e pure l’operetta, l’avanspettacolo e l’attrazione, partecipando comunitariamente di avvenimenti, mode, fatti e miti, si determinano a vicenda e, di volta in volta, diversa-mente si collocano nel gradimento della platea. Una platea, per altro, non affatto omogenea, che appoggia ed esalta i protagonisti al di là della loro appartenenza settoriale.
Nell’arco delle decadi che conducono agli anni quaranta del nostro secolo, ogni filone vive logicamente la propria avventura spettacolare, il proprio momento magico, ma mai in maniera indipendente. Le vicende che sommuovono e rivoltano i territori contigui costringono ciascun settore a tenere d’occhio gli altri, a verificare ogni giorno il proprio stato di salute in rapporto agli antagonisti. Esiste, insomma, una sorta di costante richiamo a non distanziarsi troppo, a non recidere un cordone che è, nel medesimo tempo, motivo di autosufficienza e pure di oppressione. Intrecciata così la propria cronaca, e spesso congiunti i traguardi trattenitivi, rivista varietà e caffè-concerto accettano di buon grado confluenze e apporti, neppure negandosi possibili inversioni di marcia e negazioni del già avvenuto. Seguendoli nell’altalena della loro fortuna popolare e del momentaneo predominio, non è difficile poter individuare accettabili momenti di passaggio, * dei cambi di rotta, ma nemmeno si può dimenticare che questa alternanza è abbastanza complessa e, quasi sempre, motivata da fenomeni esterni.
Volendo dunque stabilire delle tappe, seppure con i naturali margini di sicurezza e con la ovvia aleatorietà delle rigorose catalogazioni, il café-chantant (o caffè-concerto per seguire la generalizzata testata nazionale) vive la sua stagione più apprezzata sino all’immediato primo dopoguerra. Negli anni venti, mentre il fascismo si consolida al potere e non trascura di intervenire con severe imposizioni - la censura teatrale inizia nel gennaio 1923 - il maggior successo va invece all’arte varia, un tipo di spettacolo in qualche modo da considerare come punto di passaggio alla rivista. Più antica, quest’ultima, avendo vissuto un’esperienza abbastanza indipendente dai giorni dell’esordio (nel 1867, con un lavoro di un brasiliano stabilitosi a Milano), salvo un prolungato scambio con l’operetta per naturale contiguità, si è proposta di dare concreta rispondenza alla denominazione che la qualifica: ossia di esemplare con i testi la sua volontà di passare in rassegna (in "rivista”, appunto) fatti, personaggi e motivi del costume più appariscenti.
Non sempre all’altezza di tale impegno critico e spesso portata a preferire elementi non polemici per far meglio risaltare il versante spettacolare, è chiaro che la rivista (salvo casi sporadici e personali come quello di Michele Galdieri, il quale riesce comunque a mettere in scena lavori - L'Italia senza sole, 1925 - non piegati alla totale evasione) deve completamente abdicare alla propria intenzione analitica quando la situazione nazionale si fa più pesante. Il diktat politico la costringe, giorno dopo giorno, a spogliarsi d’ogni istinto critico per consegnarsi al divertimento inoffensivo. E non è senza significato se il 1929 vede l’esordio italiano - con Donne all’inferno - della compagnia viennese dei fratelli Schwarz. Trovato un invitante e spreoccupato motivo d’incontro tra l’operetta e la rivista, essi hanno infatti affidato alla spettacolarità degli impianti scenici, al brillio delle coreografie e alla collettiva bellezza delle numerose interpreti il compito di promuovere una nuova stagione del teatro “minore” europeo. Non diversamente, tuttavia, da quanto già avviene - e da tempo - negli Stati Uniti.
Gli anni trenta, con una minima puntata nei quaranta ormai squassati dalla guerra, segnano dunque il successo pieno di un tipo di trattenimento oltremodo “leggero", non rigidamente chiuso nelle strutture ma piuttosto disponibile per diversi traguardi. La rivista può essere infatti improntata da un totale disimpegno narrativo, fidando quasi in esclusiva sulla presenza muliebre di battaglioni di girls; può far leva sull’estro e l’intelligenza di attori di prosa che accettano di sperimentarsi in un settore tradizionalmente “minore”; può sventagliare una serie di attrazioni internazionali o, infine, riservarsi itinerari intermedi, contando ad un tempo sul richiamo di nomi affermati e sul fascino di anonime ballerine.
Nello stesso periodo, in conseguenza di fatti connessi pure all’esercizio teatrale e cinematografico (che si sta dando rinnovate strutture), nasce l'avanspettacolo, un genere di “serie B”, limitato ovviamente nell’impegno finanziario e in quello spettacolare, cui spetta di rodare i divi di domani (i Rascel, i Fabrizi, i Dapporto-Campanini, i Billi-Riva), oppure di fornire passerelle estremamente popolari per gente che il gran salto non lo compirà mai (i Fanfulla, i Maddalena, i Cecchelin, coraggioso protagonista -quest’ultimo - di una convinta opposizione al fascismo tradotta in ripetuti divieti, censure e galera)
Ripassando questa sommaria cronologia, e ribadendo che i tre successivi tempi hanno un valore soprattutto indicativo, va aggiunto che caffè-concerto e rivista hanno avuto distinte basi operative: Napoli (e ad una qualche distanza Roma) è stata la capitale del primo genere, Milano del secondo.
Ai cafés-chantants, Napoli, ha fornito sedi di grande richiamo e di sicuro prestigio sin dal 1890 (il "Salone Margherita”, il "Circo delle Varietà”, l’"Eldorado”); ha patrocinato iniziative di incidenza nazionale: quella, ad esempio, de "Il café-chantant”, un mensile pubblicato per oltre venticinque anni; ha contribuito per il settore musicale con le massime firme (Salvatore Di Giacomo, Peppino Turco, Rocco Galdieri, Libero Bovio, Ernesto Murolo) e con solide imprese editoriali (la “Bideri”, la “Sontojanni”, la “Mario”); ha lanciato, infine, i nomi prestigiosi di quanti, a cavallo del secolo, hanno consentito, nella scia di quello francese, l’affermazione non soltanto nazionale del caffè-concerto italiano.
Se Parigi, con la prima e la seconda generazione dei cafés-chantants, può allineare interpreti magistrali come Yvette Guilbert, Mayol, Dranem, Polin, e poi Mistinguett, la Baker e Chevalier, la tradizione partenopea delle sceneggiate e delle “periodiche”, dei "tenori della posteggia”, dei pazzarielli e dei Pulcinella, esplode in una serie di figure oltremodo popolari e valide: Elvira Donnarumma, Luisella e Raffaele Viviani, Tecla Scarano, Gennaro Pasquariello, Anna Fougez, Peppino Villani, Gustavo De Marco, Nicola Maldacea. Ed ancora Armando Gill e Agostino Riccio. Con Maria Campi, Ettore Petrolini, Leopoldo Fregoli e Alfredo Bambi, quattro romani, la formazione "sudista” che calca i palcoscenici degli innumerevoli “Apollo", "Eden”,“Orfeo”, “Kursaal” nati in ogni grande o media città italiana è al completo.
Naturalmente, ognuno di essi possiede un suo carattere, una personalità precisa, un mestiere e anche una specializzazione che lo rende "unico” nel proprio genere, nonostante all’apparenza possa sembrare che recuperi l’eredità scenica di chi lo ha preceduto. Se il repertorio della Scarano, ad esempio, richiama immediatamente quello altrettanto popolaresco di Elvira Donnarumma, nettamente diverso è però il suo stile, appoggiato si a doti non comuni di attrice ma pure ad uno studio minuto squisitamente teatrale. Del pari distanti risultano le prestazioni di un Pasquariello e di un Gill, ché nel primo vibra una sconcertante naturalezza di tratti e di invenzioni (fuori d’ogni scuola e d’ogni insegnamento), mentre il secondo gioca interamente il suo ruolo su tutta una serie di sofisticati manierismi “aristocratici”. Ed ancora un analogo divario distanzia le macchiette di Maldacea (un repertorio di quattrocento tipi strappati alla strada, alla piazza, alla scrivania o al salotto) da quelle schizzate da Villani, pure attento a leggere e riprodurre la realtà umana e comportamentale di una certa piccola borghesia, ma maggiormente portato all’accentuazione comica, all’effetto istrionesco, e - insieme - ad una personale cedevolezza per i travestimenti in panni femminili.
Esclusi dal discorso Viviani e Petrolini, giacché entrambi presto trasmigrano nel teatro di prosa e con esiti di notevolissimo risalto (i “tipi” inventati dall’uno e dall’altro si collocano ben oltre la figura caricaturale o il personaggio ricalcato dal vero), è onesto riconoscere che il caffè-concerto non è patrimonio assoluto dell’Italia centrale e meridionale. Anche il nord contribuisce con nomi di riguardo: quelli di Cuttica e Luciano Molinari, e pure di Odoardo Spadaro, della Milly (con i fratelli Toto e Mity), di Gino Franzi e dell’importata Lydia Johnson (madre di Lucy d’Albert).
Mentre De Marco, straordinario “comico-zumpo” (ossia comico-acrobatico, dalla napoletana “zompata"), punta il proprio successo sulla facilità con cui gli riesce di trasformarsi in una marionetta in carne e ossa (Totò ne sarà l’erede diretto), il ligure-piemontese Cuttica dà vita ad un doppio filone „di invenzioni parecchio applaudite: le une legate al personaggio fisso del marmittone tuttoguai (alla maniera del francese Polin) e le altre ricavate da una fitta schiera di borghesi mezzemaniche conosciuti di persona in “scagni" di goviana memoria. L'eccezione strepitosa di Fregoli, un’intera compagnia di attori riunita in un solo interprete, il quale unisce destrezza e velocità sino a mutuarle in proverbialità, ha tuttavia un valido contraltare in Molinari, raffinato e misuratissimo imitatore cui riesce di essere Zacconi e Emma Gramatica, Novelli o Andò, con eguale puntualità di riproduzione e di sapiente accentuazione ironica.
La “rivista” che gli anni trenta condurranno alla quasi assoluta preminenza - mentre gli scambi tra caffè-concerto e arte varia (o varietà) s’infittiscono e l’operetta si piega a diverse esigenze, confortando gli umori cangianti della platea - ha vissuto a Milano l’infanzia e l’adolescenza. Anche Napoli ha tentato questa via, ma gli esiti sono risultati nettamente inferiori. Tenuto a battesimo nel 1867 dall’oriundo Carlo Gomez, con Se sa minga, e ribadito l’esito favorevole l’anno seguente con un testo egualmente dialettale (I'sogn de Milan), il genere trova presto autori di buon livello: Carlo Bertolazzi, Francesco e Giovanni Pozza, Alberto Colantuoni. La prima tappa di indiscusso prestigio la raggiunge comunque solo nel 1908, il 21 aprile, quando al teatro Filodrammatici una compagnia di goliardi (cui s’affianca anche Edoardo Ferravilla) mette in scena la Turlupineide di Renato Simoni. I tre atti del testo satirico - di lì a poco tenuto come base per una lunga serie di imitazioni che ne riecheggiano anche il titolo in "eide” - coinvolgono e portano in passerella temi e personaggi d’attualità: Caruso, Mascagni, Giolitti, Pascoli, Turati, D’Annunzio, i socialisti, i clericali, gli scioperi tramviari, il turismo straniero nella Penisola. La "rivista” degli avvenimenti è ricca e pungente, nella tradizione di un parlare schietto, oltre comodi paraventi e ambigue riserve.
È ancora tempo di libertà e l’esperimento di un’apposita formazione (la "Taverna Rossa”), nata a Milano nel 1914 sulle tavole dell’antico "Eden” e sotto la guida di Carlo Rota, per alcune stagioni si concreta in numerosi titoli di successo. Li firmano commediografi, giornalisti, scrittori: da Colantuoni a Fraccaroli, da Mazzuccato a Veneziani, a Scalarini, Rossato, Serretta, Zambaldi. Gli interpreti (oltre a Rota, allievo di Ferravilla) si chiamano Collino, Barella, Maria Donati, Gigi Ferrari, Olga Fabbri, Mara Ravel. Tra le reclute figura Anna Menzio, la futura Wanda Osiris.
Contemporaneamente, a Torino, l’attore Eugenio Testa e lo scrittore-caricaturista Giovanni Manca avviano un’altra fortunata iniziativa rivistaiola. La loro “ditta”, cui collaborano per i testi anche Bel Ami e Ripp, fa leva sui nomi di Emma Sanfiorenzo, Isa Bluette (più tardi a fianco di Nuto Navarrini), Milly, e su quello - ancora sconosciuto - di Erminio Macario. Nel 1921 prende pure forma un tentativo parecchio travagliato e certo sconcertante per il provinciale pubblico italiano: quello del "Teatro della Sorpresa”, una compagnia futurista diretta da Rodolfo De Angelis, poeta-giornalista-attore-pittore-commediografo e soprattutto amabile biografo del palcoscenico "minore", e con l’intervento di F. T. Marinetti. Varato al Mercadante di Napoli, lo spettacolo subisce violenze, contestazioni, critiche ed entusiasmi, provoca baruffe e gesti scalmanati, accende polemiche a non finire. Viene ripreso l’anno seguente, come "Nuovo Teatro Futurista” e con la devota partecipazione di alcuni accaniti marinettiani: Cangiullo, Prampolini, De Pero, Casavola, Mix. Ma i risultati non sono meno contrastati.
La stagione della vitalità critica, dell’impegno cattivo, della satira politica è ormai al tramonto. L’epitaffio lo pone, nel 1922, Manicomio! di Ramo-Rota-Galli, ove l’attore-cantante Lino Medini, esatta controfigura di Mussolini, sostiene il ruolo di un folle fuggito da un ospedale "parlamentare”. Anche il duce assiste alla rappresentazione al Costanzi di Roma: un mese dopo, presso la Presidenza del Consiglio, viene istituita la censura sui testi teatrali.
Negli anni che precedono il 4 novembre 1929, quando gli Schwarz presentano a Milano Donne all’inferno, le compagnie d’operetta s’adeguano al nuovo corso della rivista. Intuendo che, troncati gli umori irriverenti, il richiamo dovrà essere interamente incentrato nello sfarzo, le coreografie e l’evasione, parecchi capocomici decidono di mutare rotta. Armando Fineschi e Maria Donati, Guido Riccioli e Nanda Primavera, Nuto Navarrini e Isa Bluette, Achille Maresca, s’industriano a trovare un giusto equilibrio tra la loro antica ed esperta fatica e l’occasione nuova. Rinforzano perciò i quadri attingendo nel caffè-concerto e nel varietà; Totò passa in rivista nel 1928; lo seguono Nino Taranto, Guido e Ciccio De Rege e parecchi altri.
L’inedita forma di spettacolo non attrae però solamente quanti, da anni, stanno battendo i palcoscenici deH’arte varia. Anche gli attori di prosa si lasciano tentare dalla curiosa esperienza, ed è proprio la compagnia diretta da Dario Niccodemi, una delle più affermate e professionalmente qualificate, a volersi provare per prima in questo cambio di marcia. Un testo di Oreste Biancoli e Dino Falconi, Triangoli, fornisce lo spunto per portare avanti - in tre tempi - una minima vicenda affidata all’esperta interpretazione di Elsa Merlini, Luigi Cimara, Ruggero Lupi e Nino Besozzi. Neppure passa una stagione e un’altra formazione di grido, la "Za-Bum” guidata da Mario Mattoli e Luciano Ramo, opta anch’essa per il teatro leggero. Questa volta, con Le lucciole della città ancora di Biancoli e Falconi (chiaramente ispirata nel titolo al chapliniano Le luci della città), debuttano in rivista Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Pina Renzi, Amedia Cheliini, Giuditta Rissone, Camillo Pilotto e Franco Coop.
Nello stesso anno, il 1931, uno spettacolo di particolare impegno produttivo, Wunder Bar viene importato in Italia: alla sua versione - una trama comicodrammatica offre il pretesto per la successione di esemplari numeri d'attrazione -partecipano attori e attrici dell’operetta, della rivista, della prosa: Armando e Arturo Falconi, Mario Brizzolari, Titina, Aldo Rubens, Cesare Zoppetti, Tino Erler. È chiaro che i generi hanno ormai trovato una pacìfica coesistenza e che il tempo di una netta separazione tra palcoscenico "minore" e “maggiore” ha i giorni contati. Alla rivista stanno collaborando vedettes come Isa Bluette e Anna Fougez, per le quali si allestiscono sontuosi spettacoli: Gatte di lusso, Trionfo italico, Donne, ventagli e fiori, e attori d'impegno come i De Filippo. Anche Eduardo firma alcuni copioni; di lì a poco sarà la volta dì Mosca, Guareschi, Manzoni, Campanile. Nel 1937 va in scena Bertoldissimo di Falconi e Frattini, un omaggio al popolare settimanale umoristico diretto da Mosca e Metz ("Il Bertoldo").
Quando nel giugno 1940, con la guerra alle porte, gli Schwarz abbandonano l’Italia dopo tanto fruttuoso e remunerativo lavoro (il loro ultimo spettacolo è Mille e una perla, ma il pubblico ancora ricorda i temi del loro Al Cavallino Bianco), e Odoardo Spadaro è l’interprete - con Lucy D’Albert - di 41 ma non li dimostra, due autori parecchio affermati, Luciano Ramo e Sandro Dansi, si accingono a scrivere Questa sera si fa la rivista!, un copione tagliato a misura sulle spalle della popolarità di una Dina Galli!
Ha quarantun anni (e molti in più) e davvero non li dimostra. Dietro l'angolo stanno i Rascel, i Fabrizi, le Magnani, i Sordi, i Chiari, i Dapporto, le Nava, gente che si è formata sulle tavole dell’avanspettacolo e che si appresta a rinforzare i quadri dei Macario, Osiris, Totò, Taranto. Anche gli autori e gli organizzatori si rinnovano, ma i "vecchi" tengono bravamente sulla breccia: Biancoli, Galdieri, Paone, è di quest’ultimo, appunto, la sigla più prestigiosa del teatro italiano: dal 1927 i suoi "Spettacoli Errepi” hanno visitato la prosa, la musica, l'operetta, la rivista, il varietà, le grandi attrazioni.
Claudio Bertieri
Storia del varietà
Il varietà nasce a Parigi sul finire del XVIII secolo con il nome di café-chantant, poi café-concert. Il nome deriva dal locale dove trova battesimo per la prima volta il Café des Musicos dove, nelle ore pomeridiane e serali, viene offerto alla clientela un intrattenimento musicale e canzonettistico. Nella metà del XIX secolo, visto il successo della formula lo spettacolo si sposta nei teatri, i variétés, che si allineano con i teatri di opera, di opera comica, di operetta, di prosa. L’atmosfera però e lungi dall’essere austera. A differenza degli altri teatri, nei variétés si fuma e il pubblico può alzarsi, uscire, entrare, anche al di fuori dell’intervallo. Originariamente lo spettacolo si compone di tre parti: nella prima trovano spazio canzonette, duetti comici, romanze, esibizione di buffi, numeri di orchestra. La seconda, viene animata da numeri di attrazione, ginnasti, acrobati, giocolieri e grandi vedettes di fama internazionale che costituiscono il cosiddetto numero di centro.
Infine, la terza parte è riservata nei primi anni a un breve atto comico, un vaudeville (un misto di prosa, canto e talvolta balletto). Con il passare del tempo il programma dello spettacolo si restringe a due sole parti e non sussiste più un ordine prestabilito dei numeri: il numero di centro conserva il nome ma non è più al centro della serata, bensì al termine; subito dopo il galop finale in orchestra annuncia la fine dello spettacolo. Ma, accanto ai variétés della fine dell’Ottocento, sorgono altri locali di nuovo tipo: i cabarets (poi tabarins), cioè dei variétés in miniatura, la cui principale differenziazione è quella di non avere per il pubblico posti fissi. La fine del XIX secolo e l’inizio del XX coincidono con una innovazione: alcuni variétés parigini si danno il nome di music-hall, pur senza mutare genere di spettacolo. In Italia lo spettacolo di varietà prende piede fin dalla metà dell’Ottocento con il nome di café-chantant. Qui il successo fu enorme fino agli anni della prima guerra mondiale, ma successivamente, divenuto ormai uno spettacolo troppo facile e popolare si cercò di infondergli nuova vita arricchendone il contenuto. Fu così che dall’innesto del vecchio variétés sullo scheletro più tradizionale dell’operetta nacque la nuova rivista.
Nonostante la nascita del varietà si collochi tra il fenomeno dell'importazione del cafè-chantant e quello della nascita dei teatri di cartone, la vera genesi è ignota o perlomeno di difficile reperimento. Il varietà affonda infatti le sue radici nello spettacolo popolare (i drammi da feuilletton ma anche le commediole borghesi) e nelle esecuzioni degli artisti circensi, di strada e dei cantanti.
Inizialmente tutto era francesizzato, dai nomi alla recitazione ai gesti fin quando, almeno, non cominciarono a farne parte anche stili provenienti da altre nazioni. La necessaria esotizzazione del varietà aveva un duplice scopo: in primis, avrebbe permesso di accostare i teatri che lo ospitavano alla Belle époque parigina, sinonimo di divertimento; dal lato degli esecutori, invece, c'era la possibilità di un maggiore richiamo commerciale proprio per la (finta) provenienza straniera, che assicurava la nomea di vedette internazionale a chi stravolgeva la propria nazionalità.
Gli spazi erano sostanzialmente di tre tipi: i teatri di primo ordine, dove vi recitavano soltanto gli artisti di fama riconosciuta; i teatri di secondo o terzo ordine che potevano essere sale da caffè (caffè-concerto) o teatri veri e propri ma molto popolari, ed infine tutti quei locali dove poteva essere allestito alla buona un palco. L'ingresso era a pagamento e il successo di un artista lo decretava solo il pubblico in base al suo gradimento. Se l'artista veniva fischiato questo veniva "segnalato" su quella che poteva essere chiamata "fedina artistica" dell'artista con conseguente perdita di rispetto e prestigio.
Sul versante della recitazione e dell'intrattenimento cabarettistico, si cominciò con numeri a metà fra a canzonetta e il monologo, per passare poi alla macchietta, il cui inventore fu Nicola Maldacea, e che consisteva in una caricatura di "tipi" presi dalla realtà (fu l'inventore della macchietta del Viveur, il bello senza nulla nel cervello), per poi ampliarsi con numeri di balletto, prestidigitazione, trasformismo ed altri ancora.
La caratterizzazione del personaggio era importantissima: poiché il teatro di varietà non viveva di mitizzazione ma del reale gradimento degli spettatori, era necessario acquisire sia una riconoscibilità tale da crearsi un nome, sia riuscire a rendersi graditi tramite una tipologia ben definita di personaggio con il quale inventare numeri destinati spesso a modificarsi di sera in sera.
Il varietà era molto differente a seconda della localizzazione geografica, proprio perché gli artisti (soprattutto attori, cantanti di generi popolari, finedicitori, comici eccetera), attingevano molto alle proprie tradizioni: si potrebbe parlare perfino di un teatro del centro-nord Italia, ravvisabile nel Veneto, nel Piemonte, nella Lombardia e nella Toscana, e di un teatro del centro-sud, i cui poli erano indubbiamente Roma e Napoli.
Furono soprattutto gli artisti di queste città a contribuire alla nascita dell'attore-scrittore, ossia di colui che scriveva i pezzi da recitare in pubblico: artisti famosi del Varietà furono infatti Totò, Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Gustavo De Marco, tutti creatori di tipi ben definiti, seppur variegati. Leopoldo Fregoli, invece, contribuì all'idea di corpo dinamico dell'attore novecentesco, immettendosi con gli altri artisti nel filone del rinnovamento dell'arte teatrale di cui il varietà fu un precursore "dal basso".
Il varietà, a differenza del teatro drammatico o, in generale, del teatro "alto", non venne mai insignito dello statuto di arte. Proprio perché popolare, derivante da una cultura completamente antitetica al coevo D'Annunzio, subì sempre una sorta di ostracismo da parte dei critici e degli amanti del teatro.
Le conseguenze furono evidenti anche sul piano strettamente professionale: gli artisti di varietà non potevano accedere alle pensioni che lo Stato Italiano elargiva ai loro colleghi di altri settori, mentre i teatri di varietà stessi non fruivano di alcun sovvenzionamento o incentivo statale.
Durante il fascismo, poi, l'ostracismo derivante dalla volontà di sopprimere gli spettacoli in dialetto e di annullare i richiami all'estero in nome di una cultura di massa nazionale, sfavorirono di molto il varietà, che si trovò sempre meno ricercato e rappresentato.
Ma fu proprio la derivazione popolare a rappresentare uno dei punti di forza e di innovazione del teatro di varietà, nei generi appunto che dal popolo traevano ispirazione; e che per il popolo acquisivano linguaggi, tematiche, tempi e svolgimenti propri, tanto da rappresentare quasi una rivoluzione nel campo teatrale. Nel varietà non esisteva l'autorità del singolo, sebbene spesso l'attore fosse solo in scena: l'evento teatrale, infatti, si appoggiava sulla collettività e sfociava in qualità espressive che ad essa si riferivano. La rivoluzione del varietà fu muta, sotterranea, ma al contempo così semplice da cogliere da non essere compresa che da pochi individui.
Proprio l'immediatezza e la velocità del genere spettacolare attirarono l'attenzione di Filippo Tommaso Marinetti, che il 1º ottobre 1913 pubblicò sul giornale Lacerba il Manifesto del teatro di varietà, nel quale esaltava la novità di un tipo di teatro che rinnegava la verosimiglianza prediligendo al contrario la spettacolarità, il paradosso, l'azione e la praticità.
Questo tipo di teatro, quando fu organizzato in modo schematico diede vita alla Rivista, che era appunto l'unione di vari numeri legati però da un sottile filo che poteva essere il tema generale o altro.
Come altri generi teatrali minori, anche il varietà patì la concorrenza di cinema e televisione: scomparso dai teatri per confluire nell'avanspettacolo prima e nella rivista poi, conserva oggi nei varietà televisivi unicamente il nome.
Le innovazioni
Il successo di attori come Petrolini, Totò e Viviani, a ben vedere, fu sempre decretato nel momento in cui venivano definiti grandi attori e non, come poteva accadere per i colleghi del teatro drammatico, di interpreti: nel momento in cui gli artisti del varietà interpretavano le loro stesse scritture, senza cimentarsi nei lavori dei drammaturghi, l'unica definizione che poteva riassumere le loro capacità era quella di attore. C'è da sottolineare che, nei primi anni del Novecento, ferveva il dibattito sulla figura dell'attore ad opera di critici, studiosi e letterati come Silvio D'Amico e Luigi Pirandello: mentre Pirandello si dichiarava ostile all'arte drammatica, poiché questa tradiva sostanzialmente sia il testo che la "vita" di un personaggio, D'Amico sosteneva che al grande attore mancava la spontaneità e la capacità di improvvisazione dell'attore di varietà, facendo bene attenzione a non fare però richiami alla Commedia dell'Arte.
È pur vero che non tutti i risultati generati dal varietà sono stati interessanti e di medesimo valore, ma bisogna riconoscere in questo genere di essere sempre stato all'avanguardia se non nella concezione, almeno in alcuni mezzi espressivi così come nell'azione per e con lo spettatore da parte dell'attore, che utilizzando il pubblico come primo elemento, modificandosi e plasmando la propria interpretazione a seconda delle esigenze, non rispecchiando ma trasfigurando e contraddicendo il mondo in opposizione a ciò che il teatro borghese metteva in scena, non lasciava fermare il fruitore al solo prodotto finito ma gli consentiva di riconoscerne le varie componenti strutturali, negli agenti e nei mezzi, che ne differenziano i risultati e che quindi lo valorizzano nella poliedricità.
Non a caso sia le avanguardie storiche come il futurismo sia alcuni grandi protagonisti della storia dello spettacolo internazionale come Gordon Craig hanno subito l'influsso ed il fascino della comicità proposta al largo dei circuiti dei teatri di velluto.
Immediatezza, praticità, improvvisazione, creazione, capacità di tenere la scena ed altre furono le innovazioni del genere che contrappose la propria esperienza a quella del teatro accademico, ponendo l'accento sulla creatività dell'attore, sul teatro inteso come luogo di comunione tra gli interpreti ed il pubblico, sul corpo come mezzo espressivo, sulla satira come elemento di attinenza alla contemporaneità, verso la quale spesso (ma non sempre) il varietà mantenne un atteggiamento pur leggero ma aspramente critico.
I protagonisti
Gli artisti che si produssero nel varietà furono tanti e di non facile elencazione, anche perché la commistione di generi come il Café-chantant, l'operetta, il teatro di prosa, il teatro dialettale, il balletto, la pantomima, il music-hall ma anche successivamente l'avanspettacolo, la rivista ed il cinema e altri fu tale che spesso gli interpreti delle varie discipline artistiche passarono facilmente dall'uno all'altro, non permettendo un sintetico ed univoco quadro d'insieme.
Magia del varietà
Come una scatola da sorprese: si apre un siparietto, la sorpresa appare in maglia d’equilibrista, in guaina di danzatrice o in tight di macchiettista. Sul palcoscenico del varietà c’è sempre campo per l’immaginazione umana. Una vasta latitudine, dalla quale si può scendere nelle profondità del mistero e del mostruoso con i prestigi dell’illusionismo.
Ognuno qui si presenta con le sue bravure portate all’eccesso nel languore o nell’elasticità dei muscoli, attraverso un esercizio che in lui si prolunga per decenni, su cui la sua vita prende struttura. E l’elaborazione di queste regole e di questi accorgimenti, si è venuta formando nei secoli, dando continuamente spettacolo dei suoi risultati, nelle corti e nelle piazze. Al principio di questo secolo il varietà venne rinchiuso in piccole sale al centro delle grandi città, e in certo senso riservato ad un nucleo di consumatori della bella vita. Ma il film se lo trascinò dietro come avanspettacolo e penetrò anche nei piccoli centri della provincia, spargendovi l’attrazione e il pesante profumo dei suoi personaggi. Le sue forze migliori passavano regolarmente al music-hall. Ma rimase nel suo scucito e arbitrario susseguirsi di numeri, un forte richiamo fisico, il fascino della realtà con gli aspetti e con le seduzioni di più indiscutibile effetto. Nelle sue possibilità umoristiche, atletiche, erotiche, melodiche, il varietà sembra poter misurare l’uomo in ogni sua dimensione, e con estrema agilità sa seguirlo da un momento all’altro anche nell’imprevisto, sa adeguarsi ad ogni sua capriola, ed anzi immaginarla e riprodurla esasperata, cosi come fanno l’equilibrista e il contorsionista con le facoltà d’equilibrio e di contorsione che abbiamo innate. Nello spettacolo o avanspettacolo di varietà, l’uomo si presenta alla ribalta direttamente all’uomo, il dialogo è immediato, non vi sono finzioni che si frappongano come nel teatro di prosa, o agonismi artificiosi come negli spettacoli sportivi.
L’esibizione è fine a se stessa e non chiede che l’applauso, non suscita che una rinnovata, stupita coscienza del proprio fisico, del proprio essere. Il paragone fra le qualità naturali messe a splendere sulla ribalta e quelle nel buio di chi guarda, è immediato, evidente, suscita un’emulazione istintiva, desideri, espansione spontanea e naturale. Ci si pone su di un piano unico. Lo spettatore non deve abbandonare la vita quotidiana per salire al livello dello spettacolo: ma è lo spettacolo che entra nella sua vita quotidiana e ne scopre gli impensati fermenti, li fa frizzare e spumeggiare. Si è ingrati verso l’ilarità e la commozione che cosi ci si offrono: le si inghiotte e si dimentica subito chi ce l'ha date, anzi lo si guarda con diffidenza; perché è sceso sul nostro piano, lo si intenderebbe gettato anche sotto a noi. Non gli si perdona di averci specchiati direttamente, di non rispettare nessun mito, lo si disprezza perché ci si vergogna di essere come si è, si preferisce coltivare le più assurde illusioni.
Sik-Sik l’artefice magico, buffo fantoccio a molla caricato da Edoardo De Filippo, appena non può più far funzionare i suoi trucchi per l’imbecillità del complice a cui si è dovuto affidare nella disperazione del momento, viene coperto da ogni sorta di contumelie. Guai alla dicitrice che ha la voce indebolita, al comico fuori fase, all’equilibrista fuori esercizio. Guardano verso la galleria implorando perdono. Ma la galleria risponde con fischi velenosi. Le stelle del varietà sono comete: che al culmine della loro parabola hanno vissuto attimi di splendore. E per essi vivono. Nelle prove di forza, gli elementi del numero sorridono in coro perfino quando i timpani chiedono silenzio assoluto, e alla fine clamorosamente. Chi canta piange con compostezza o atteggia le labbra in un esperto, scettico incresparsi. Le danzatrici offrono se stesse con serafico impudore. Le girls si agitano con allegra sufficienza. Immaginano di essere irresistibili. I loro numeri prendono titolo Follie.
Vito Pandolfi
Il re del varietà: Ettore Petrolini
Il teatro a ferro di cavallo — questa fatale calamita — mi attraeva irresistibilmente. E, sotto questa azione, all’età di quindici anni mossi il primo passo verso l’arte, recandomi dall’agente teatrale Giulio Fabi. Il quale, senz'altro, mi giudicò uno scemo, e mi disse: “Portami quattro scudi di mediazione e ti mando subito nella compagnia di Angelo Tabanelli (detto il Panzone) che agisce a Campagnano (presso Roma).”
Misi in costernazione mia madre; ottenni i quattro scudi, li versai al Fabi e, da esordiente da nido, munito di una trentina di lire e di un vecchio baule di famiglia pieno di cosucce linde e pinte, senza pretensioni, partii in diligenza per Campagnano.
Il teatro di Campagnano era un vecchio granaio municipale ove, la sera stessa dell'arrivo, debuttai con la macchietta: Il bell’Arturo. Al refrain, misi un piede sull’estremità di una tavola dell’improvvisato palcoscenico, fatto di tavolacce male inchiodate e che posavano su due cavalletti. Il mio peso fece sollevare una tavola e andai a finire di sotto con una elegantissima lussazione a un piede.
Il pubblico, regolarmente, si diverti un mondo e chiese il bis, mentre io piangevo dal dolore e dalla rabbia. Fu l’inizio del mio destino. Mi accorsi che ero veramente votato all’arte comica.
Ogni sera Angelo Tabanelli portava i comici — otto o dieci — a mangiare all’osteria di Panzaliscia e pagava per tutti, tranne che per me. Io pagavo il mio conto; ma, essendo rimasto con tre lirette in tasca, mi misi a pensare: “Ho fatto un buon successo; sono vestito meglio di tutti: perché non mi parla mai della paga? Forse vorrà darmi qualche cosa in più di quel che dà agli altri e aspetterà il momento in cui rimarremo a quattr’occhi, per non mortificare i miei compagni...»
Senonché agli sgoccioli delle tre lire, mi allenai ed affrontai il capocomico con molta disinvoltura: “A me, poi, quanno me paga?” Er sor Angelo, con gli occhi strabici, ringhiò: “Pagaaare?!! Pagare cosa? Ma che sei scemo? Ma chi t’ha cercato? Ma non vedi che qui non si va avanti? Io non ho più soldi!!! Anzi, contavo su te!” E, cosi dicendo, tirò fuori quella indimenticabile cartolina che precedette ed annunziò l’arrivo a Campagnano di Ettore Loris, primo ed unico mio nome di battaglia: “Carissimo Tabanelli, tra qualche giorno arriverà il comico Ettore Loris, un fa-naticone per lavorare sul teatro. Per quello che ti costerà, lo puoi pure scritturare. Non solo non gli darai nulla, ma all’occasione (che certamente non ti mancherà) potrà anche dare un aiuto alla Compagnia, perché figlio di gente che ha qualche soldarello. Ricordati di me. Voglimi bene. Tuo Giulio Fabi.”
Il sor Angelo mi lesse questo giulebbino di cartolina con la voce acida. Poi mi guardò — per la prima volta da che ero in compagnia — con gli occhi luschi ed aggiunse seriamente: “Anzi, io avevo pensato di pregarti di scrivere o telegrafare a casa tua per avere un centinaio di lire che t’avrei restituite a Nepi, la nuova piazza, dove faremo certamente affaroni.”
Io non sapevo se ridere, piangere, chiamare aiuto, o prenderlo a sganassoni. Invece non dissi nulla, perché mi venne come una paralisi alla lingua!
Giuro che avrei rubato o fatto di peggio per fornire le cento lire al Tabanelli, se almeno mi avesse esposto le cose diversamente, se si fosse rammentato che io ero un comico, o se avesse capito che io mi illudevo di esserlo. Ma la nessuna considerazione per il mio entusiasmo al palcoscenico creò l’irreparabile tra me e lui.
Me ne tornai verso casa e, inaspettatamente, trovai un compagno nel duolo. Era un pezzo grosso della Compagnia! Sosteneva la maschera del Pulcinella nelle farse; si chiamava Totonno Lombardo (attualmente fa il cachet cinematografico); deve avere una settantina d’anni. È una figura di uomo che mi è rimasta sempre impressa. Quando mi è dato d’incontrarlo m’intrattengo con lui molto volentieri; bonariamente mi dice: "Te ricuordi il bel Cocò?” ed io me ne compiaccio. Qualche volta vado a trovarlo perché è una delle poche persone sane che io abbia conosciuto.
Totonno mi disse: “Siente, Etturu! Io nun me fido cchiu ’e sta int'a 'sta fetente cumpagnia. Jam-muncenne a Roma a piede, e bona nottel” Adorabile ed indimenticabile Pulcinella!
Cosi si fece. Misi il baule sotto assegno sulla diligenza, e via da Campagnano a Roma.
Strada facendo, Totonno mi parlava di Pulcinelli celebri: Cammarano, Petito, De Martino, e del piccolo teatro Mercadante a Fona. Io soffrivo le pene dell’inferno perché avevo un paio di scarpe di pelle lucida, piuttosto strettine e non adatte, certamente, per quella... passeggiata. Provai a levarmele, ma fu peggio: perché la strada non era levigata e io non ero abituato a camminare scalzo. A quell’epoca, Vaselli non esisteva: ed io avevo l’impressione di camminare sopra l’ossi de persiche. Però dovetti rinfilarmi le scarpe dopo un chilometro a piedi nudi. Quale inquisizione!
Non fiatai più fino a Roma. Appena a casa, piombai a letto, stanco morto. Le mie sorelle m’interrogarono, mi supplicarono. Ma io non capivo nulla. Mi aveva preso il solito febbrone da cavallo col delirio dell’uomo. E nel delirio non vedevo che l’agente Fabi il quale, al momento di partire, mi aveva detto: “Tu farai molta strada!”
Infatti avevo mantenuto la promessa. Lo testimoniavano i miei piedi ch’erano diventati come quelli della statua di Ruggero il Normanno.
Durante la notte, sognai il Fabi in uno strano modo: me l’ero messo fra li denti e me lo masticavo addirittura!
E cosi, dopo una dormita di dieci ore, con le scarpe di mio padre — quelle della festa — mi precipitai in piazza dei Cinquecento, al concerto Gambrinus dove il Fabi funzionava da tirasti: e mi gli scaraventai addosso come un ossesso.
Il Fabi ebbe un lampo di genio. All’inizio del tafferuglio, mi disse due magiche parole: “Debutterai qui!”
Quelle due parole furono per me un balsamo ed una doccia fredda. Mi calmai; ma, diffidente e non del tutto convinto, volli che me le ripetesse.
“Si, si: debutterai qui al Gambrinus come buffo-macchiettista. Ti farò dare sei lire per sera con la mediazione del dieci per cento a me. Sei contento del contratto?”
“E quanti giorni farò?”
“Dieci giorni. E, se vai benino, ti riconfermerò per altri cinque giorni. Sei contento?”
Altro che contento! Debuttare a Roma! Al Gambrinus! Il Gambrinus (ora demolito) era una specie di chalet avanti alla Stazione di Termini. Locale di terz’ordine, ma, per me, di primissimo ordine. Per me era la Scala, il Teatro Reale dell’Opera, il Colosseo... Era tutto!
Vi rimasi tre mesi. Solamente, il Fabi mi fece comprendere che, trattandosi di una lunga stagione a Roma, dove avevo la famiglia e perciò meno spese, era ragionevole una riduzione di paga. Mi offri quattro lire serali, aggiungendo che il signor Stern, proprietario del teatro, si sarebbe comportato gentilmente con me.
Io accettai con entusiasmo. (E quando non avevo entusiasmo in quel tempo). Il signor Stern, la domenica — nelle doppie rappresentazioni — tra uno spettacolo e l’altro, mandava in camerino il portaceste a domandarmi se desideravo un caffè o un gelato. Io prendevo il gelato perché poi, lo offrivo alle canzonettiste. Cosi mi avvidi anche che, decisamente, ero votato ad essere gentile con le sciantose.
Due giorni prima di terminare il mio contratto, il signor Stern mi accordò una serata d’onore: in quell’occasione eseguii un duetto con Diana Paoli, la stella del programma. Applausi, bis, ed una medaglietta di argento dorato con la scritta: “La direzione della Birreria Gambrinus a Petrolini”.
Si, Petrolini. Perché al Gambrinus volli debuttare con il mio vero nome. Gongolavo dalla gioia. E in casa, presso la mia famiglia, faceva compassione a tutti!
Un mio zio, persona integerrima, morale e di buona lega — di quelli che non derogano e dicono sempre: a prescindere, ovvio, effimero, ecc. — dichiarò a mia madre che avrebbe preferito yedermi in un riformatorio (difatti più tardi ci andai) piuttosto che al Gambrinus, buffo di caffè-concerto!
Io, invece, ilare e giulivo, giravo tutta Roma per mostrare la medaglietta della serata d’onore... È cosi difficile avere l’onore, almeno per una serata.
Finiti i miei impegni al Gambrinus, mi sentivo talmente maturo ed esperto della vita teatrale, che cominciai subito a parlare di formare una compagnia stabile e movibile di arte varia. Anche in questa presunzione sono stato un precursore.
Ettore Petrolini
L’arte del variété
È un’arte specialissima. Chi ve la insegna? L’ambiente stesso, il pubblico, ed il pubblico è il più gran maestro. S’impara da sé per propria esperienza. Pensate all’intelligenza condensata di un artista di varietà che ha pochi minuti per poter svolgere il suo “numero” e in quei pochi minuti deve convincere. Quando un comico del variété, dal solo modo di annunziare la prima “cosa” che fa, non riesce a suscitare una risata o a incatenare la generale attenzione, va incontro al quasi insuccesso.
Dopo la prima strofa del suo tipo o della sua canzone, deve correre per la sala un mormorio di approvazione, una folata di consenso, mentre la musica ripete l’introduzione daccapo. Quando l'artista non ha ottenuto questo, ha perduto già terreno, ed il pubblico del variété, addestrato all’immediatezza, rimanendo freddo dopo la prima parte, comincia ad essere disattento e, per interessarlo e scuoterlo, l’artista deve subito prodursi nel suo pezzo migliore di maggiore successo e spessissimo accade che, quando il pubblico non è preso subito, non si lascia prender più.
L’arte del variété perciò è immediatezza e sintetismo; è il pugno nell’occhio bene assestato prima di dare al pubblico tempo di riflettere. Furono e saranno ben pochi gli artisti che nel variété poterono far pensare. Molti noti strofaioli comici ebbero i loro grandi successi per la velocità della loro parlantina con la quale dicevano una infinità di cose banali; ma il pubblico, per la impossibilità stessa di poterle valutare, data la rapidità con la quale esse si succedevano, alla fine rimaneva più sorpreso che preso e, quell’attimo di disorientamento era sfruttato dal comico per piazzarvi il suo bis. Nondimeno comici di questo stampo raggiunsero larga notorietà e paghe vistose.
Quindi arte specialissima quella del variété, simultanea perché fatta di tante cose agglomerate, in cui accanto al mestiere, al mezzuccio, spesso affiora un guizzo d’arte pura, sintetica, perché a tratti, condotta con pochi tocchi sicuri e la firma... Quando io facevo il variété, mi definirono soprattutto un futurista, perché facevo una commedia da solo; da solo rappresentavo una folla senza truccarmi, con i soli atteggiamenti e le diverse inflessioni di voce; è vero che io fui un artista singolare, ma è pur vero che io ero un artista del variété. E l’arte mia è germogliata là; là si è plasmata, là ho imparato le infinite magagne del palcoscenico e a conoscere il pubblico, a capire, leggendo nell’aria, fiutando nell’atmosfera, se il pubblico era preso oppure no, se mi seguiva con interesse o no. All'attore del variété non occorre molto tempo per capire se piacerà: gli bastano le prime “battute” per formarsi la convinzione del come passerà.
Ecco perché dei grandi attori del variété ce ne furono pochi e ce ne sono pochissimi, poiché le doti, che il variété richiede, sono tante che è assai difficile poterle mettere insieme. Il comico del variété non deve somigliare a nessun altro, né deve ricordare altri: deve avere una figura a sé, un genere a sé, un repertorio a sé; più riesce nuovo, più sorprende, più il suo successo è clamoroso. Deve avere una bella pronuncia e il dono di sapersi truccare con rapidità fulminea, deve essere un auto-direttore perché non è diretto da nessuno e spesso è costretto a improvvisarsi poeta e musicista per crearsi un repertorio nel quale sfruttare bene tutto quello chd meglio sa fare, l’udito sensibile alla musica e il dono della comunicativa, per potere trasmettere alla folla quello che si propone di voler comunicare.
Raffaele Viviani
Anna Foguez, la diva del varietà
Il mio debutto all’Umberto di Napoli fu veramente trionfale. Incoraggiata dalla comprensione dell’agente D’Acierno, io feci prodigi; il pubblico fu con me espansivo, caldo, vibrante. Era il pubblico che mi ci voleva in quel momento. Esso possedeva il segreto di toccare le corde più riposte del mio sentimento, di destare le emozioni più acute del mio ancora embrionale istinto di artista precoce. Mi sentii figlia di quel popolo, cominciai a considerarmi napoletana: il pubblico mi ha sempre creduta napoletana, e non mi è affatto dispiaciuto. In fondo, il repertorio che io interpretavo era in gran parte napoletano, le musiche che cantavo erano nate a Napoli.
Dall’Umberto passai, a richiesta, acclamata, disputata, per tutti i teatri di varietà rionali della metropoli. I maestri cominciarono a pensare a me come futura interprete delle loro composizioni; i poeti mi imbeccavano graziosamente le strofette dei loro versi, che andavano recitati col garbo che richiedeva l’essenza del loro significato.
Naturalmente, le compagne d’arte, già in carriera, cominciavano ad allarmarsi dei miei successi; il pubblico esigeva da me i bis che risparmiava a loro, e per
danneggiarmi imponevano ai direttori di togliere dal mio repertorio le canzoni comprese nel loro programma, per evitare i confronti. Ed avevano ragione. Se continuavo di quel passo rischiavo di restare senza repertorio. Ed io, ingenua-mente, appunto perché senza esperienza, credevo di non dovere essere invidiata, perché nel mondo ci doveva essere posto per tutti. E cosi, portando la croce della mia celebrità, non ancora comprendevo che il mondo, cosi grande, lo rende piccolo una certa classe dell’umanità che fa trovare a disagio chi non sa procedere a furia di gomitate verso la conquista dell’idealità, e della notorietà.
La canzone, il più delle volte, è una sintesi comica o drammatica: pochi versi e tutto un dramma si illumina di scorcio, palpita e incalza con rapidità, rinchiuso nel breve respiro di una o due strofette. Personaggi ed episodi, come dinanzi ad uno svolgimento di scene molteplici, appaiono e scompaiono con una vera e propria azione mimica e dialogica. La canzone comica contiene, a sua volta, in sintesi, tutta una commedia, una situazione farsesca, un’intenzione satirica o parodistica. Non tutte le canzoni di questo genere sono belle: ma quando riescono, danno grandi soddisfazioni. Interpretare bene una canzone drammatica o comica non è più facile dell’interpretare bene una commedia o un dramma. Non faccio questione di sforzo in estensione, ma in intensità.
Spesso, il momento culminante di un dramma o di una commedia è in una scena o in poche battute, e l’impegno vero dell’interprete è in quella scena o in quel-
le battute. È li che le sue forze si raccolgono, nel loro sforzo supremo, come il talento del creatore ha sprizzato le sue più vivide scintille. Vorrei aver dimostrato con le mie considerazioni, che la canzone ha bisogno di un eguale impegno interpretativo, di un lavoro di più vaste proporzioni, nonostante la brevità della sua estensione e della sua vibrazione.Tutto questo è conosciuto benissimo dagli artisti che fanno sul serio, e che, se donne, si sono affidate soltanto alla ricchezza dei gioielli o allo sfarzo dei vestiti, per conquistare il favore del pubblico. A che servono le illusorie esteriorità, per rendere bene, con una strizzatina di occhi o di labbra, un sentimento che non sempre è adeguatamente espresso dai versi e dalla musica? Sono pertanto lieta di poter manifestare i risultati di queste mie lunghe esperienze, le quali mi sono state a suo tempo rivelate da ottimi miei maestri, preziosi consiglieri nella formazione della mia maturità artistica.
Si tratta, dunque, di possedere una tecnica che non si può né si deve improvvisare, ma che è il risultato di un lungo studio attento e minuzioso, con prove e riprove meticolose e precise. L’arte di tutti i grandi interpreti di tecnica è diretta da una grande sensibilità. Con la tecnica si supplisce anche alle deficienze di estensione o di timbro di voce. Qualche volta accade che un dono naturale, più che aiutare una grande interpretazione, si adopera a sciuparla; ciò è molto comune nel campo degli artisti lirici.
Anche nel teatro lirico, sulle grandi scene, si richiedono oggi dei buoni interpreti, dopo la riforma del melodramma: “il recitar cantando”. Dizione chiara, non spreco, ma uso intelligente e discreto della voce. Figuratevi nel Varietà dove questa specie di lirica minore si affida tutta alla efficacia dei mimi cantanti. Più che il cantante, occorre il dicitore. Mimica facciale, comica, pronunzia, voce, plastica, bel corpo, abbigliamento, truccatura, tutto concorre ad un unico risultato di una buona, perfetta interpretazione. Una pausa sottolineata da una occhiata, da un atteggiamento, un passo che accenna fugacemente ad un motivo di danza, e che continua il ritmo della strofa interrotta, una improvvisa sospensione, una accentuazione a surprise, tutto concorre al segreto della tecnica. Rivelarla è questione di un attimo: possederla è questione di anni. Ed occorre un grande spirito di osservazione, perché non sempre basta l’intuizione.
La prima funzione dell’interprete coscienzioso è analizzare attentamente, parola per parola, sillaba per sillaba, con i respiri della punteggiatura, il testo della canzone.
Ogni parola ha il suo significato, ogni pausa ha la sua muta espressione, ogni segno di interpretazione ha la sua particolare sfumatura. Tutto ciò va reso con severa precisione. Soltanto cosi noi possiamo trovare nel pubblico quella comunicazione immediata, sentimentale, ilare o triste, all’azione che esercitano le nostre parole. E tutto ciò si può raggiungere, quando su noi stessi abbiamo addensato una forza di persuasione che dobbiamo provare per primi, se vogliamo indicarla agli altri. Tutto è fatica nella vita e nell’arte. E, senza fatica, non si hanno frutti. Quando sono maturi, essi possono, essere gustati, non prima. Cantare una canzone, dunque, è facile cantarla bene, ma interpretarla è difficile. Per dipingere il sole, è necessaria la tavolozza della luce.
Anna Fougez
Il caso volle mi dedicassi al teatro.
Fu veramente un caso. Frequentava la nostra abitazione un vicino, maestro di musica, che lavorava nei più modesti caffè-concerto di Roma e dava lezioni alle chanteuses principianti. Io, cantavo tutto il giorno; mi senti e disse ai miei che, volentieri, mi avrebbe insegnato qualche canzonetta. Mi spiace non ricordare il nome di questo brav’uomo che mi iniziò nella carriera artistica e, per il quale, il mio repertorio cominciò a costituirsi, con tre canzoni: Il cavallo del colonnello, Le streghe e Chiara stella.
Comperai a Campo de' Fiori una stof-fettina celeste e un paio di scarpe. La confezione del vestito fu fatta in casa. Andai due sere a provare. Il tragitto da via Napoleone III, a piazza Navona, era lungo e non potevo permettermi il lusso neppure di un tram. Riuscirono, con molti sforzi, a farmi scritturare in un teatrino a piazza Navona, dove guadagnavo, niente meno, una lira per sera!... Per debuttare, erano necessari almeno due costumi, ma io non avevo il denaro sufficiente per acquistarli. Con gesto magnanimo, l’impresario consenti di ridurre, ad un solo vestito, Q mio guardaroba artistico e mi anticipò trenta sere: trenta lire!
Mia madre, la mia buona mamma, mi accompagnava. Ricordo, con terrore, il viaggio di ritorno, dopo lo spettacolo: stanche, sole, sfiduciate! Dopo mezzanotte, andavamo frettolose verso la casa squallida, verso la desolazione e la miseria! Quando ripenso a quell’epoca della mia vita, una tristezza indicibile mi assale, e, se i trionfi posteriori mi fecero lieta, non posso, senza infinita pietà, pensare a tante mie compagne d’arte che hanno, con me, intrapreso il teatro e che non hanno mai avuta la fortuna di ascendere. Nessuno sa cosa soffre, cosa tribola un’artista! Oro e orpello si fondono e si confondono! Debuttai. Avevo quattordici anni.
Di questo mio immaturo ingresso nella vita artistica, conservo un confuso ricordo di paura. Nebulosamente, rivedo quel che mi circondava. Orchestra: un piano scordato e flebile. Scena: quattro quinte scolorite e un fondale strappato e pieno di toppe. Pubblico: eterogeneo e facile all’entusiasmo e alla sonnolenza. Programma: alcune canzoni e una farsa, il cui titolo (seguito da parecchi “ovvero”) spiccava a grosse lettere rosse e nere sul cartellone giallastro, fatica particolare del botteghinaio. Allorché, la sera del mio debutto, “fui di scena”, ricordo che una robusta e inesorabile mano ignota, mi proiettò verso il boccascena spalancato. Non vidi nessuno. Tremavo. Esitavo.
In questo attimo terribile, intravidi la mia povera casetta: la necessità! Inconsciamente articolai le labbra, usci qualche suono. Cessò la musica del piano scordato, un frastuono di mani plaudenti mi scosse e, quasi automatica-mente, caddi fra le quinte singhiozzando!...L’introduzione della mia canzonetta era già stata ripetuta due volte, dal sonnolento accompagnatore. Dalle quinte, mi raggiungevano sibili imperiosi, minacce ingoiate: “Attacca!... attacca!...” Le mani trepide, tormentavano il vestitino maladatto al mio povero corpicciolo tremante. La bocca non riusciva ad aprirsi. La gola, aggroppata dallo spavento, non emetteva alcuna nota.
Quando, molti anni dopo, la critica dei grandi quotidiani americani, rilevava che uno dei pregi della mia voce era “il caldo singulto appassionato che arrotondava il mio canto”, ho ripensato che il mio debutto fu dolente e che, forse, quella sera, nella fumosa e nuda sala di piazza Navona, la mia voce ricevette il crisma del singhiozzo che si confuse, per sempre, alle mie note appassionate!
Dal Teatro di piazza Navona, passai al Grande Orfeo e al Diocleziano. Il sonnolento accompagnatore, il maestro Molfetta, era divenuto il mio istruttore e il mio manager. Cominciò di qui, la mia rapida ascesa. La paga serale era considerevolmente aumentata: dieci e quindici lire! Il mio repertorio si era arricchito di alcune primizie, tra cui La Ciociara, Funiculi-Funiculà, e La Francesa, di Mario Costa.
Il mio guardaroba, a paragone del primo vestitino striminzito, era addirittura regale. Tanto è vero che possedevo alcune toilettes di... un’altissima personalità! Sicuro! La prima cameriera di questa grande dama, vendeva gli abiti che la sua padrona non indossava più e, qualche volta, alcuni vestiti che non aveva mai indossato. Io, fui una delle acquirenti.
Fu certo, ad uno di questi vestiti, che dovetti il primo premio di bellezza, guadagnato al Teatro Costanzi di Roma, in occasione del carnevale, fatto questo che contribuì infinitamente al mio lanciamento. Fui poi scritturata al Salone Margherita, e, infine, a Napoli. Questo, costituì il trampolino da cui spiccai il salto, che mi fece varcare le Alpi. E raggiunsi Parigi, dove, alle Folies Bergères assaporai i primi autentici trionfi.
La grande sirena ammaliatrice delle anime provinciali, la immensa metropoli internazionale, l’oasi di tutti gli amori! Vi piace la sala? Tutti la conoscono, è elegante, civettuola, ben illuminata, gremita, in ogni ordine di posti, di un pubblico eccezionale.
È la massa spaventosa dei giudici inappellabili che dovrà, “pollice dritto” o 'pollice verso”, decidere della mia carriera artistica. Nel mio camerino, inondato di fiori inviati dagli immancabili aprioristici ammiratori, dò gli ultimi ritocchi al mio trucco e ispeziono, con cura, ogni particolare della mia toilette.
Un picchio all’uscio. Una voce cortese:
“Mademoiselle, c’est à vous.”
Esco, fra le quinte. Con quella tal paura che tutti gli artisti conoscono e che tutti, più o meno, hanno provato sempre, traverso lo spazio che mi separa dalla scena. Un vocio indistinto di pubblico che attende, mi giunge all’orecchio. La luce della ribalta mi acceca. Un campanello. L’orchestra attacca... Esco. Canto. Ballo. Sono più calma, torna la fiducia e con essa le possibilità artistiche. NeH’intervallo fra un refrain e l’altro, mi accorgo che il pubblico mi segue. Mille bianchi petti incorniciati di nero, mille pinguini, quasi immobili, mi si parano d’innanzi allineati.
Qua e là, qualche luccichio di gioielli, breve macchia di color vivo, sull’uniformità immobile degli spettatori. La musica cessa. Mi inchino nell’ultima battuta della mia canzone italiana, un clamore assordante mi stordisce, un lungo applauso mi investe. Ho vinto.
Vi ricordate? Questa è la sintesi delle mie impressioni sul battesimo parigino alle Folies Bergères, dove siamo entrati insieme, e dalle quali possiamo, insieme, uscire a notte alta, fra la folla che mi attende alla porta, per vedermi da vicino e per gridarmi ancora: Bravo! con un formidabile erre strisciato e con un sicuro accento sull’o.
Al mattino seguente, critiche assai benevole sui giornali, lettere e dichiarazioni, fiori e regali. Alla sera, il mio nome scintillante fra mille luci sui boulevard; nuovo spettacolo, nuovo successo. Dopo alcuni giorni, molti biglietti di banca, impresari col cilindro in mano e l’immancabile gardenia all’occhiello e tre bei contratti firmati, ad ottime condizioni, per Londra, Berlino e Pietroburgo. La celebrità e l’agiatezza.
Lina Cavalieri
Verso la morte del varietà
Se, come dice Spadaro, “con la guerra si è cambiato rotta”, il dopoguerra imporrà un cambiamento ancora più grande con l’avvento del fascismo: la satira politica scomparirà dalle scene, il dialetto verrà osteggiato per legge, i criteri dell’evasione piccolo-borghese domineranno, con la loro pesante e superficiale patina di perbenismo. E tuttavia il cambiamento non è stato solo voluto o imposto dal fascismo, ma era forse nell’aria e il teatro se lo è imposto da sé, come negli anni Trenta se lo imporrà il cinema. L’intervento censorio è in realtà canalizzato, per volontà superiore mussoliniana, secondo un criterio di fondo: evitare di parlare di politica e di quant’altro alla politica del regime potesse direttamente richiamarsi, sia in prò che in contro, e favorire invece la mera evasione, il bel garbo dei “telefoni bianchi” o dei duetti Melnati-De Sica nella Za-Bum o delle commedie di De Benedetti.
Attori ricchi, attori poveri. Ma anche attori che da “poveri” diventano “ricchi’. Nel primo dopoguerra, Viviani, il più grande di tutti, ha già abbandonato il varietà per la prosa, per la corposa e corale commedia umana di una Napoli descritta nelle sue contraddizioni sociali più brucianti, che si serve della canzone, dell’intermezzo comico, della struttura stessa a scenette che era stata del varietà in una nuova forma di teatro irrecuperabile, in questi modi, alle convenzioni del teatro borghese; i De Filippo hanno spaziato tra farsa, commedia e cinematografo, perfezionando i loro mezzi e dando, con Natale in casa Cupiello, il vero capolavoro di Eduardo: no, il presepio a Peppino (e a maggior ragione anche, ad altro livello, a Eduardo) non piace, ma non è lontano il momento in cui tornerà a piacergli; Petrolini scompare dopo aver raggiunto l’apice del successo e essersi permesso, con Nerone, il massimo: di sbeffeggiare apertamente l’amato Benito, per l’irresistibile e irriducibile istinto del vero comico a sputare nel piatto in cui mangia; e Totò, come Petrolini, passato dal sudato avanspettacolo ai primi sfarzi della rivista, col suo vorace marionettismo insofferente di leggi sociali e di leggi fisiche, non resisterà, non può resistere, alla sua stessa incontinente irriverenza, senza la quale la sua maschera semplice-mente non esisterebbe.E tuttavia con la guerra c’è un terzo tempo della censura fascista, costretta ad allentare le redini e a tener conto dei disagi crescenti e della crescente lamentela, se non protesta, della popolazione. Dal ’39 tessere e bollini, oscuramento, treni o autobus di nuovo in ritardo e sovraffollati, servizi scadenti e carovita diventano in modo più o meno scoperto i temi centrali della comicità rivistaiola — trovando in alcuni autori (Galdieri, Nelli e Mangini) e attori (Totò, Taranto) una prontezza a coglierli che fornirà al pubblico occasioni di sfogo a non finire — stante infine nuovamente la regola del “buffone di corte”, della comicità permessa come scarico alle insofferenze sociali. Ma prima, negli “anni del consenso”, tutto è rosa e semmai, dietro il rosa, opera, con un bromuroso annacquamento della comicità e con il contorno di un lusso irraggiungibile, in una rimozione costante della realtà, la quale potrà esprimersi, e poco, solo in certi film di Camerini e in certe riviste degli autori citati, trovando invece nei copioni teatrali e cinematografici “ungheresi” o nei copioni scipiti delle riviste di Macario e della Wandissima i più raffinati meccanismi di sublimazione. Con la guerra, torna nel teatro minore il vento di uno scettico qualunquismo protestatario, che assume, coscienti o no i suoi autori, qualche significato “di sinistra”. Col dopoguerra dopo l’esplosione scatenata dalla liberazione, e già con i nuovi copioni di Galdieri e con il Soffia, so’ (che voleva dire, da Roma, “Soffia, soffia pure, vento del nord, ché tanto, qui, ce ne freghiamo altamente”), nuovi e più virulenti significati “di destra”.Questo criterio non sarà dato una volta per tutte, e dei cambiamenti sono documentabili. Dapprima il regime sembra favorire una funzione di propaganda anche del teatro di rivista, in senso più nazionalistico che direttamente fascista (Trieste, le sanzioni...) ma di fronte alle trasformazioni della stessa politica fascista (soprattutto internazionali: ci sono sketch antitedeschi nel periodo dell’Anschluss, ritirati di corsa dopo la nuova alleanza) si preferisce espungere a propaganda diretta dai divertimenti del regime, riservandola alla radio e ai cinegiornali che invece da essa saranno totalmente condizionati e a essa asserviti. Il censore teatrale Leopoldo Zurlo, più “signore” napoletano che non fascista a orbace, si attiene alla decisione mussoliniana secondo la quale nelle cose frivole per definizione, come il teatro di varietà e di rivista, le cose “sacre” (il fascismo) non vanno neanche nominate, non ci vanno mischiate.
Non sempre dunque il passaggio dal “povero” al “ricco” è conformismo e rinuncia. Ma certo il pubblico è diverso, quello del Dal Verme e del Sistina non è quello dell’Ambra Jovinelli e del Salone Margherita: ha la pancia piena, o quasi, e chiede qualcosa di diverso da ciò che l’altro pretende: lusso e decoro e una volgarità sotterranea, da ruttino postprandaile, altra da quella di chi la pancia l’ha vuota. I punti di contatto offerti da questi grandi nomi tra due culture e due pubblici spariscono negli altri: di qua Macario, la Za-Bum, Dapporto (e i Falconi, i Gandusio, le Galli della prosa “leggera”), di là Fanfulla e i Maggio, Riento e Tina Pica, il primo Sordi e il primo Rascel e i De Rege. Per costoro l’invenzione e la sperimentazione, sia pure nella progressiva definizione di una maschera o di una macchietta rigide, sono obbligate dal pubblico rumoreggiante e, come loro, affamato, mentre per i primi la ripetizione è norma, e si tratta semmai di variare il pretesto e lo sfondo, di aumentare il numero delle girls, di allungare le scale, di moltiplicare i metri di tulle e di organza. Anche in questo c’è “arte”, un artigianato che è scuola e mestiere, una spettacolarità che deve però corrispondere al tempo e alle esigenze dei sogni di piccolo benessere. I ricchi, in Italia, non sono ancora legioni, e la rivista è il lusso del sabato sera — come i film di Greta e di Gary, e i loro anch’essi esotici, lontanissimi paradisi.
I film, il cinema. L’evasione, il divertimento, hanno trovato dagli anni Venti un rivale grandioso al teatro, a tutto il teatro. La rivista si pone in concorrenza con il cinema, offre divi in carne e ossa, seppure autarchici. L’avanspettacolo, e già il suo stesso nome lo certifica, con il cinema scende a patti, cerca di allearsi. Al pubblico più povero e più marginale offre, assieme all’evasione del
film, la realtà di copioni abborracciati, di comici ben presenti e riconoscibili, di ballerine magari un po’ sfatte, ma di carni vistose e vicine. Da un lato, l’avanspettacolo, figliato dalla rivista, rifornirà continuamente le compagini del cinema nazionale con nuovi talenti e nuovi umori; dall’altro, offrirà al pubblico “non abbiente”, cui la rivista ha voltato le spalle, una partecipazione che il cinema non potrà mai dargli. Il cinema è lontano, offre un onirico e sublimante sfogo all’immaginario più ardito, mentre che l’avanspettacolo riporta con i piedi per terra: le luci del proscenio non nascondono le facce della sala, e tra pubblico e sala c’è lo strizzar d’occhi di chi si capisce e s’intende, e tutto riporta a una materialità pesante, dove il “fuori” è vicino, e a esso, alle sue difficoltà, dopo mezz’ora o tre quarti di rumore e musica e risa dovranno tutti tornare, gli spettatori come gli attori.
Fine del varietà
Poichè giorno non passa senza che non si debba lamentare la fine di qualche genere di teatro (si legge, fin troppe volte, che è morto il teatro di prosa, che il teatro lirico fu, che l’operetta si è resa defunta...) mi pare proprio necessario avvertire che il teatro di varietà non ci tiene a far brutta figura con le arti sorelle e maggiori.
Ragion per cui, con animo affranto, si annunzia, Signori e Signore, che il teatro di varietà non è più.
Era vecchio, d’accordo, il varietà: ma, come dico, gli anni li portava abbastanza bene. Ricette di bellezza, inglesi ed americane; cosmetici di lusso, marca parigina; massaggi made in Germany; bagni e docce sistema argentino... tutto, assolutamente tutto quanto la moderna scienza del far-più-giovine suggerisce, amici e conoscenti avevano esperimentato per dare al suo fisico un aspetto attraente. Ha speso un patrimonio, il vecchio varietà, in ritrovati e ricette, per darla ancora ad intendere. C’è, naturalmente, chi sostiene che fu precisamente questo pazzesco treno di vita a dargli il tracollo. E può anche darsi. Fatto sta che ormai non ci resta se non lacrimare sulla sua spoglia immemore. Eccone un’altra per cui la scena se ne sta muta, pensando all’ultima sciagura personale, ne sà quando una simile forma cosi teatrale, ancora il palcoscenico a calpestar verrà...Non era, no, nel fiore degli anni. Perché, a dirla schietta, aveva una bella età: si era cercato, si, in questi ultimi tempi, di praticare ai suoi tardi inverni, quei rimedii che la medicina definisce, chissà perché, eroici. Ma di veramente eroico, non c’era rimasto, in fin dei conti, che l’impresario, i cui atti di valore, assolutamente leggendari, restano e resteranno a torto sconosciuti, fino al giorno in cui qualche Omero del music-hall non si deciderà a cantarne l’Odissea.
Mi accorgo, peraltro, che cotesto signor Omero del music-hall ritarda: ho una maledetta paura che finirà per non farsi vivo, né oggi né poi. Una cosa veramente seccante; dirò di più. È deplorevole. Non vorrei che questo povero varietà se ne andasse al cimitero senza che nemmeno un cane dica due parole al funerale. Che diamine! Eppure, qualche cosa di buono ha fatto anche lui, nella vita. Qualche ora di buon umore ce l’ha data a tutti; qualche spasso, un po’ di distrazione, una serata intenzionalmente gaia non ce l’ha fatta mancare.
E, quindi, come formare un programma senza ricorrere alle grandi agenzie di Berlino e di Parigi? Essendo in casa nostra assolutamente sprovvisti di “generi di lusso”, due sono i casi che, in questi recentissimi tempi s’erano affacciati all’orizzonte dei direttori di varietà:
1. il grande programma, cioè la celebre vedette forestiera, al centro di ottimi numeri (risultato: passività garantita al cento per cento);
2. il programma qualsiasi, cioè la vedette per modo di dire, con contorno racimolato ad un famoso bar di piazza Duomo (risultato, passività al mille per mille).
Come si vede, speculazione di primissimo ordine. Uno che si è occupato, per un paio d’anni, di presentare alcuni grandi programmi in un teatro milanese, fatto e costruito appositamente allo scopo, mi ha narrato adesso vita morte e miracoli del perfetto teatro di varietà. Mi ha messo amabilmente al corrente in questi giorni di “chiusura per fine stagione” di tutte le fasi che hanno preceduto la passione e morte del Nostro.
“Probabilmente tu sai”, cosi ha cominciato il mio uomo, “che al mondo, oltre ai proprietari di terreni auriferi, alle odalische del sultano e ai pedicure, c’è una quarta categoria di privilegiati dalla sorte, per i quali non esistono incertezze del domani, sorprese del Destino, avversità di Natura. Questa quarta categoria di gente che ha risolto, senza colpo ferire, il problema della vita, è costituita dagli agenti di varietà. Bada: ti parlo del grande agente, di quello che ha il suo lussuoso bureau sull’Avenue des Champs-Elysées, o nella Kurfursterdamme, o nella Karnestrasse, o nello Strand... Gente come si conviene, dove si fa un’ora d’anticamera, dove vedi entrare o uscire come niente fosse, Raquel Meller, Maurice Chevalier, Jack Hylton, Kubelick, Rastelli, Scialjapin, Padilla, le Dolly Sisters. Dove senti ridere in inglese, sacramentare in tedesco, telefonare in russo, parlare in americano... Dove infine ti par di essere, che so, in una pagina di Guido da Verona, rendo l’idea?...”
“Quanto costa un grande programma di varietà?”
“Dalle dieci alle quindicimila lire serali. Perché oggi, cioè ieri, al pubblico non basta più come ai bei tempi, un solo grande ‘numero’, a modesto contorno. Quel contorno, che era, poi, il maggior divertimento della serata. Ah no! Oggi si pretende tutto un seguito ininterrotto di delizie. E il seguito ininterrotto costa da un minimo di trecento lire al minuto, ad un massimo che mette il capogiro... Né è sempre detto che, quello che tu hai constato, de visu, come una delizia indiscutibile per il pubblico di Vienna o di Amburgo, o di Londra, lo sia altrettanto per
il pubblico di Milano, o di Roma, o di Torino... Ma che! Dispiaceri in materia, sono all'ordine del giorno. Conosci Robins?”
“No, grazie.”
“Beh, io ho visto il pubblico londinese ridere come matto. Quando fu portato in Italia quel famoso comico musicale, appena appena ‘l’hanno guardato in faccia’, come suol dirsi. Hai Shermann, la prima volta ch’è stato in Italia, dovette sudare venti minuti prima di farsi applaudire. Ed il celeberrimo Uomo-Mulo, il beniamino di tutta Europa, passò presso che inosservato... Dopo di che, io ti domando se c’è sugo a profondere ancora il nostro danaro in questo gioco del lotto internazionale che è il variété. Cento volte meglio chiudere bottega.”
“Come infatti mi pare che si sia chiuso da per tutto.”
“O quasi. Certo, i ‘centri’ più reputati del genere, in tutta Italia, sono, da molti mesi, o chiusi o destinati ad altri spettacoli. La maggior parte di essi ospita il cinema, inasprito da piccolo varietà. Qualche altro si è dato alla prosa. Uno, fra tutti, ha fatto una fine curiosissima: sarà occupato da una banca. E sarà forse la prima volta che vedrà un po' di soldi...”
Luciano Ramo
Così la stampa dell'epoca
«Cafè Chantant», maggio 1928
Poi che giorno non passa senza che non si debba lamentare la fine di qualche genere di teatro (si legge, fin troppe volte, che è morto il Teatro di prosa, che il Teatro lirico fu, che l’Operetta si è resa defunta...) mi pare proprio necessario avvertire che il Teatro di Varietà non ci tiene a far brutta figura con le arti sorelle e maggiori. Ragion per cui, con animo affranto, si annunzia, Signori e Signore, che il Teatro di Varietà non è più.
Non era, no, nel fiore degli anni. Perché, a dirla schietta, aveva una bella età : si era cercato, sì, in questi ultimi tempi, di praticare ai suoi tardi inverni, quei rimedii che la medicina definisce, chissà perché, eroici- Ma di veramente eroico, non cera rimasto, in fin dei conti, che l’impresario, i cui atti di valore, assolutamente leggendari, restano c resteranno a torto sconosciuti, fino al giorno in cui qualche Omero del Music-Hall non si deciderà a cantarne l'Odissea.
Era vecchio, d'accordo, il Varietà: ma, come dico, gli anni li portava abbastanza bene. Ricette di bellezza, inglesi ed americane; cosmetici di lusso, marca parigina; massaggi made in Germany bagni e doccie sistema argentino... tutto, assolutamente tutto quanto la moderna scienza del far-più-giovine suggerisce, amici e conoscenti avevano esperimentato per dare al suo fisico un aspetto attraente. Ha speso un patrimonio, il vecchio Varietà, in ritrovati e ricette, per darla ancora ad intendere. C'è, naturalmente, chi sostiene che fu precisamente questo pazzesco treno di vita a dargli il tracollo. E può anche darsi. Fatto sta che ormai non ci resta se non lacrimare sulla sua spoglia immemore. Eccone un'altra per cui la scena se ne sta muta, pensando all’ultima sciagura personale, ne sà quando una simile forma così teatrale, ancora il palcoscenico a calpestar verrà...
Mi accorgo peraltro, che cotesto signor Omero del Music-Hall ritarda : ho una maledetta paura che finirà per non farsi vivo, né oggi né poi. Una cosa veramente seccante; dirò di più. E deplorevole. Non vorrei che questo povero Varietà se ne andasse al Cimitero senza che nemmeno un cane dica due parole al funerale. Che diamine! Eppure, qualche cosa di buono ha fatto anche lui, nella vita. Qualche ora di buon umore cc l'ha data a tutti; qualche spasso, un po' di distrazione, una serata intenzionalmente gaia non cc l'ha fatta mancare. E dunque?
Sarebbe esagerato, d'accordo, consentire al paradosso di Marco Ramperti, quando Marco giurò che la sola forma di teatro che interessasse Ramperti era il Varietà. Né è conveniente risalire il corso di qualche decennio, per ricordare che quegli stessi mortali principi erano condivisi, dirò meglio, banditi da Filippo (scusa, Eccellenza) Tomaso Marinelli, quando, reduci dalle inobliate serate del Trianon, (e non eravamo a Versailles) il gruppo primogenito del Futurismo, cioè Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo, con seguito di adepti e simpatizzanti, muoveva, nottetempo, a battezzar d'inchiostro copiativo e d'altre materie indelebilmente coloranti, alcune undesirables statue cittadine del Parco o dei Giardini. Orbene, quelle spedizioni punitive erano, ricordo, scrupolosamente organizzate nel camerino di un teatro di Varietà, auspice Luciano Molinari, il più interessante, il più intelligente «numero» di allora.
Il Varietà italiano, a quei tempi, parlava, suonava e cantava ancora italiano. I tempi di Maldacea, della Di Landa, della Sampieri, di Viviani, della Donnarumma, di Petrolini, Pasquariello, Riccioli, Cuttica, dei Faraboni, degli Ausonia... I tempi che al Varietà non negarono il loro contributo di parole e di suoni gente come Di Giacomo, Mario Costa, Ernesto Murolo, Carlo Veneziani, E. A. Mario, Ugo Ricci... I tempi che videro sulle tavole del Varietà il «ponte» di Giovanni Raicevitch, i calcoli del Prof. Inaudi («Che giorno era il 19 aprile 1782?... Sabato, Signore!...») il cinquantenario di Mistinguett, il settuagenario ai Yvette Guilbert, il centenario ai Polin...
Furono queste difatti, le prime «vedette» estere ai grande importanza, a valicar le Alpi. Quando si pensa alle quattro, alle cinquecento lire italiane che si davano, come un favoloso cachet a queste stellissime d'anteguerra e si riflette alle otto, alle nove, alle diecimila giornaliere (viaggi aller-retour in prima, non se ne parla..!) che bisogna umilmente offerire, al giorno d'oggi, alle grandi celebrità internazionali del Varieté, per il gusto d'averle sull'affiche, c'è di che mortificarsi davvero... E, d’altra parte, come formare un programma senza ricorrere alle grandi agenzie di Berlino e di Parigi. Essendo in casa nostra assolutamente sprovvisti di «generi di lusso», due sono i casi che, in questi recentissimi tempi s'erano affacciati all'orizzonte dei Direttori di Varietà:
1) Il grande programma, cioè la celebre «vedette» forestiera», al centro di ottimi numeri (Risultato: passività garantita al cento per cento).
2) li programma qualsiasi, cioè la «vedette» per modo di dire, con contorno racimolato ad un famoso Bar di Piazza Duomo (Risultato, passività al mille per mille).
Come si vede, speculazione di primissimo ordine. Uno che si e occupato, per un paio d'anni, di presentare alcuni grandi programmi in un teatro milanese, fatto e costruito appositamente allo scopo, mi ha narrato adesso vita morte e miracoli del perfetto teatro di varietà. Mi ha messo amabilmente al corrente in questi giorni di «chiusura per fine stagione» di tutte le fasi che hanno preceduto la passione e morte del Nostro.
— Probabilmente tu sai — così ha cominciato il mio uomo, — che al mondo, oltre ai proprietari di terreni auriferi, alle odalische del Sultano ed ai piedi-cure, c’è una quarta categoria di privilegiati dalla sorte, per i quali non esistono incertezze del domani, sorprese del Destino, avversità di Natura. Questa quarta categoria di gente che ha risolto, senza colpo ferire, il problema della vita, è costituita dagli agenti di varietà. Back: ti parlo del grande agente, di quello che ha il suo lussuosa bureau sull'Avcnue des Champs-Elysées, o nella Kurfurstcrdamme, o nella Karnestrasse, o nello Strand... Gente come si conviene, dove si fa un'ora d'anticamera, dove vedi entrare o uscire come niente fosse, Raqucl Mellcr, Maurice Chevalier, Jack Hylton. Kuhdick, Rastelli, Chaliapine, Padilla, le Dolly Sistcrs. Dove senti ridere in inglese, sacramentare in tedesco, telefonare in russo, parlare in americano... Dove infine ti par di essere, che so, in una pagina di Guido da Verona, rendo l'idea?...
— Rendi benissimo. Mi dicevi, questi agenti...
— Ti dicevo: questi agenti di varietà, cioè di tutto, (quattro o cinque molto grossi a Parigi; due, anche più grossi a Berlino; uno, fantasticamente grosso a Londra) sono quelli ai quali ogni direttore europeo di Varietà, si reca in pellegrinaggio, un paio di volte ogni stagione...
— A scritturarvi i «numeri»...
— Bravo
— Che poi arrivano...
— Ecco: qui comincia l'avventura. Tu vai dal grande agente, scegli il numero disponibile per la tua stagione, fissi il compenso, firmi il contratto. E cosi firma l'artista, o, nella maggioranza dei casi, l'agente per lui o per lei, o per loro. E te ne torni al tuo paese. Lì te ne stai tranquillo come un papa, ma un poco meno, e aspetti, a suo tempo, che il telegramma ti annunzi l’arrivo. Come infatti, a suo tempo, il telegramma c’è.
— Il «numero» che arriva.
— No: sta sicuro, che quando c’è un telegramma, vuol dire che non c'è più il «numero». Leggi infatti: «Pas possible Darwin sisters stop vous offre jongleur espagnol tout premier ordre...»
— Come, come?
— Già. Tu hai fatto assegnamento sulle indiscutibili grazie di due vezzose fanciulle americane (russe, beninteso, ma non importa) e ti vedi offrire in loro vece, un Perez qualsiasi, di quelli che si fanno rotolare il cilindro sulle braccia... Sbalordito, indignato, telegrafi: «Pas possible jongleur stop vous prie engager jolies femmes telegraphiez urgence amitiés...,». Risposta: «Formidable attraction douze chiens sur piste tout premier ordre deux mille dollars semaine voyages bagage votre charge lettre suit..». Che devi fare? Vuoi «tentare» questi dodici cani, forse la novità... Rispondi: «Entcndu envoyez chiens...».
— I cani però arrivano.
— Come infatti un giorno mi arrivarono. Mi arrivò anche la pista. Un affare mostruoso, inverosimile, assurdo. Di proporzioni tali che si c no sarebbe stato sufficiente il palco c sottopalco della Scala. Bisognò rimediare, ridurre, amputare. Fu necessario l’intervento di un esperto, sopraggiunto da Dusseldorf (voyage notre charge...). Si perdettero tre giorni. Come Dio volle, una specie di tapis roulant entrò in funzione. Ma dei dodici' cani, quattro si rifiutarono nettamente di partecipare alle gare: uno si ammalò: tre erano di riserva... In sostanza, quattro soli si rivelarono autentici cani da corsa. Gli altri costituivano un pittoresco contorno decorativo, profumatamente compensato in dollari settimanali...
— Scusa, ma l'agente di Kurfursterdamme o di Champs Elysées?...
— Egli percepì puntualmente il suo dieci per cento, ogni cinque giorni, come è consuetudine...
— Il dieci per cento?
— E’ inteso. Cucite sempre, l'agente è un mediatore non corre alcun rischio, nemmeno quando non corrano i levrieri. Appartiene, te l'ho già detto, a quella famosa quarta categoria. In quato agli artisti internazionali di varietà, che tu ti accaparri a suon di dollari, di sterline, di marchi oro, essi mantengono i loro impegni firmati, solamente quando non hanno mente di meglio altrove. É così in tutto il mondo...
— Ma allora?
— Allora tu hai, spiritualmente, il diritto di intentar loro un processo. Cosa semplicissima, come capisci, con gente che schizza da Madrid a Bucnos-Ayrcs, da Alessandria d'Egitto a Stoccolma. Uno scherzo. Esiste una International Logc, un’Associazione Internazionale del Varietà, a Berlino, ma una volta che io dovetti ricorrerci, la faccenda mi costò sì inenarrabili somme di dispiaceri, che sarebbe umiliante raccontare i particolari di quella romanzesca realtà.
— Quanto costa un grande programma di Varietà?
— Dalle dieci alle quindicimila lire serali. Perché oggi, cioè ieri, al pubblico non basta più come ai bei tempi, un solo grande «numero» a modesto contorno. Quel contorno, che era, poi, il maggior divertimento della serata. Ah no! Oggi si pretende tutto un seguito ininterrotto di delizie. E il seguito ininterrotto costa da un minimo di trecento lire al minuto, ad un massimo che mette il capogiro... Né è sempre detto che, quello che tu hai constatato, de visu, come una delizia indiscutibile per il pubblico di Vienna o di Amburgo, o di Londra, lo sia altrettanto per il pubblico di Milano, o di Roma, o di Torino... Ma che! Dispiaceri in materia, sono all'ordine del giorno. Conosci Robins?
— No, grazie.
— Beh, io ho visto il pubblico londinese ridere come malto. Quando fu portato in Italia quel famoso comico musicale, appena appena «l'hanno guardato in faccia», come suol dirsi. Hal Shermann, la prima volta ch'è stato in Italia, dovette sudare venti minuti prima di farsi applaudire. Ed il celeberrimo Uomo-Mulo, il beniamino di tutta Europa, passò presso che inosservato... Dopo di che, io ti domando se c'è sugo a profondere ancora il nostro danaro in questo gioco del lotto internazionale che è il Varieté. Cento volte meglio chiudere bottega.
— Come infatti mi pare che si sia chiuso da per tutto.
— O quasi. Certo, i «centri» più reputati del genere, in tutta Italia, sono, da molti mesi, o chiusi o destinati ad altri spettacoli. La maggior parte di essi ospita il Cinema, inasprito da piccolo Varietà. Qualche altro si è dato alla Prosa. Uno, fra tutti, ha fatto una fine curiosissima : sarà occupato da una Banca. E sarà forse la prima volta che vedrà un po' di soldi...
Luciano Ramo, «Il Dramma», 1931
L'idolatrìa che adesso la giovinezza, e anche un po', come sempre, la gente matura, praticano per le dive dello schermo, era espressa quarant'anni fa — poco più, poco meno — per le stelle del «Varietà». L'Olimpo di queste deità femminili era popolato di una demografia celeste in cui l’elemento esotico aveva una netta prevalenza di dominio su quello nostrano, salvo scane eccezioni. Per ragioni di cavalleria che è stata e sari per sempre una caratteristica distinta del nostro temperamento, se non abbiamo fatto allora in questo campo una questione assolutistica di preferenza della merce nazionale, giuriamo di non volerla fare nemmeno adesso. La grazia muliebre ha una patria universale e godrà sempre del privilegio intangibile di usare un passaporto valido per tutte le frontiere.
Per questo non è a discutere se ci sia di meglio e di sufficiente in casa : accettiamo volentieri di pagare il tributo di ammirazione per qualunque esemplare ci venga inviato d'oltre Alpe o d'oltremare, unti che le platinate o le bionde, sgambettanti nei plotoni nomadi di girli d'ogni paese, trovano tuttora e sempre le più soddisfacenti accoglienze sul nostro suolo.
Quando la vita dei grandi centri era più semplice e accolta, l'attenzione della generalità si concentrava più facilmente su certi astri di prima grandezza che brillavano nel firmamento femminino. Gli imballamenti collettivi che si generavano allora per la bella Otero, la Tortajada, la Fougère, si determinano, a buon conto, anche oggi, con relativismi di distanza, che vanno a tutto discapito del realismo, per le elette creature di Hollywood. Guardarsi quindi dal dare la baia ai nostri non molto antichi padri, che accusavano delle vertigini per Emilia Persico o Pepita Rachel. Questi giramenti di testa, anche mutando le forme, se non la sostanza, sono di tutti i tempi e guai a non averli: è segno di cattiva salute.
Nel rileggere il capitolo che interessa la storia del «Varieté», non lo faremo, quindi, con quello sprezzo di chi ha riscattato nei confronti dei pastori della meraviglia, una indifferenza robusta e aliena. Quando si tratta d'esser sudditi di quel supplementare reame gentile in cui impera una donna, voi tutti, o mortali in pantaloni, vi opporreste a non farvi considerare sempre agli ordini.
Posti su questo piano d'indulgenza. la corte e il corteggio del declinato Caffi - Concerto, possono essere rievocati senza menomazione, anche negli aspetti più ameni e buffi, che. in venti erano i più salienti.
Cominciarono a discendere intorno al '900 dalle maggiori Capitali d'Europa e principalmente da Parigi e Berlino alcune delle maggiori rappresentanti dei Music Hall stranieri. Piombarono come pietre nelle acque d'un lago tranquillo, determinando ampie onde eccentriche.
Alle Kircbner e alle Fouguére, si accompagnarono con tutto il fascinoso fasto di pittoreschi costumi le più selezionate bellezze dell'Andalusia. Non c’era ancora quella frequenza e sviluppo di comunicazioni che ha reso normali queste visite esotiche, nè s'era stabilita una autonomia creativa di abbigliamenti femminili, che oggi non fa invidiare le risorse dei couturiers della Gallia. Il pubblico rimase allora elettrizzato.
intorno a queste donne di gran classe si polarizzò fino alla manìa l'interesse delle platee. Il Varetè, sfolgorante vetrina, donde si mostrava tanto splendore di raffinate bellezze e di lussuosa dovizia, divenne il centro d'attrazione più ricercato e più elegante. Naturalmente alle correnti agiate che affluivano verso tali mete seducenti, si accodò tutta una falange impari di certo marginale, che reclamava il tuo posto d'osservazione e di... partecipazione, nonchè di speculatori che si accinse a trarre partito da questa tendenza di moda e si creò in ul modo l’«ambiente», il mondo del Caffè Concerto con tutte le tue gaiezze e tristezze e competizioni. Il miraggio era prevaricante. Accanto a quelli che si facevano aria in questa ressa a furia di banconote, vennero ad affiancarti coloro che, in mancanza di passaporto aureo, affermavano il diritto di equivalenza per congenito «fatalismo».
E il Varietà, proporzionato ai tempi era uno spasso impagabile. Lo spirito d'imitazione divenne epidemico. Ogni servetta si ritenne designata ad uguagliare la bella Otero e si dibattette per essere iniziata all’arte. Si inventarono così i «primi numeri», le battute d'aspetto, cioè, i preamboli ricreativi, che dovevano guadagnar tempo per preparare lui gretto e il trionfo finale della grande gommeuse o chanteuse. Intorno a queste colombelle inesperte, buttate nell'arena per «trattenere» il pubblico, raccogliendone le frecciate ironiche, a queste stridule o affamate canterine che gestivano come pupe movibili, fiorivano altre numerose e meno degne competizioni: e sorse fra le nostre, qualche rivelato talento artistico, che, oltre alla freschezza procace dei vent'anni, aveva delle qualità meno diffuse, che la beltà primaverile. Lina Cavalieri, Carmen Marini, Ersilia Campieri, Emilia Persico riuscirono a spodestare poi le dominanti straniere, senza nemmeno abbacinare lo sguardo degli spettatori con quei carichi sbalorditivi di gioie di favoloso valore, che ammantavano i loro stupendi abbigliamenti scenici e sarebbero bastati a rendere incomparabile la motto del più dovizioso negoziante.
Eugenie Fougère soleva esibirti col preziosissimo pondo di brillanti, perle e ori, apprezzati ad oltre trecentomila lire, somma astronomica in quei tempi. Uno dei successi più clamorosi di quel tempo fu raccolto dalla Tortajada, una andalusa che potè confermare l'asserto secondo cui la bellezza più seducente non risiede nella assoluta perfezione di lineamenti, ma in un insieme di qualità esteriori e di temperamento, donde scaturisce quello che con un luogo comune attualistico si definisce l’«appello del sesso».
Danzatrice affascinante, dicitrice garbata, di originale e signorile gusto, possedeva un senso istintivo di misura nelle movenze, nell'incedere, nelle intonazioni, nell’abbigliarsi, che denunziavano lo stile distinto della sua arte portando l'entusiasmo del pubblico al parossismo. Ella sconvolse l'ambiente del Varietè, attribuendosi allori che non erano stati mai prima raccolti da altre competitrici e imponendo agli impresari paghe altissime.
Il successo della Tortajada assunse in Italia l'aspetto di una ubriacatura fanatica. Vari prodotti del commercio locale furono allora battezzati col suo nome: il gelato alla Tortajada, il cappello, il battone, il pasticcio di fegato e perfino i vermicelli, furono allora di preferenza, quando erano qualificati cucce alla maniera della Tortajada.
Ma questa donna, verso cui ti appuntavano gli sguardi ammirati e appassionati delle moltitudini, viveva due vite: una artistica, ch’era fatta de splendori mondani e una domestica, ch'era fatta di semplicità, modestia e religione. Una enorme, quasi inconciliabile sproporzione era fra i due aspetti delle sua esistenza. Chi avesse scorta nella intimità familiare Consuelo Tortajada, intenta alle più borghesi cure della cucina casareccia, dei lavori donneschi, in vesti tutt’altro che smaglianti, non ai sarebbe facilmente raccapezzato a riconoscere in quella ottima e tranquilla signora, la celeberrima étoile, che in girandole di luci, in fastosi ornamenti di toilettes e con toni cosi vibranti di portamenti. con raffinatezze cosi maliziosamente intelligenti di grazia, trascinava il pubblico al visibilio.
Consuelo, non più che venticinquenne at suo debutto in Italia, aveva un marito quarantenne, don Pedro, che era spaventosamente geloso della sua magnifica consorte. Ma egli affrontava una superflua fatica di custodia, perchè a Consuelo, orgogliosissimo temperamento femminile, non sarebbe saltata mai l’idea di abdicare alla fede coniugale. Ella soleva dire agli assidui «pretendenti» che una donna deve fare del suo fascino o un largo spreco utilitario, o non spenderne un millesimo: in entrambi i casi ci guadagna. Ed ella tirava pel secondo sistema, che era consone ai suoi principii religiosi. Don Pedro però, ad ogni buon fine, stava all’erta. — Perchè — domandavano alcuni — il signor Tortajada si affannato, se non c’è pericolo? — Lasciatelo fare — obbiettava Consuelo — è la sua distrazione!
Distrazione non invidiabile, ma.... La Tortajada trasse tesori dai suoi successi. Molte di queste fortune favolose che conquistarono le celebrate vedette di un tempo sfumarono poi con altrettanta faciltà. La grande Eugenie Fougère è finita affittacamere a Parigi.
Andremo a vedere dove sono e come vivono, se vivono tuttora, queste donne famose di quarantanni fa. Alle volte l’aurora ha il colore del tramonto, altre volte no: vedremo.
Giannetto Lo Rotondo, «Il Mattino Illustrato», anno XIV, n.47, 29 novembre 1937
Continuazione e seguito. Vedi capitolo precedente, intitolato: «Tanti anni or sono. Una sera al Varietà».
Si tratta di fare un gran passo indietro, per lo meno di sei o sette lustri, con l'immaginazione, beninteso, non essendo possibile annullare l'azione del tempo, e figurarsi d'essere nella sala sfolgorante di uno di quei celebrati «Caffè-Concerti», dove, per dirla con una parola molto in uso nei soffietti d'allora, furoreggiata qualche «stella» di prima grandezza in un firmamento di luci minori e di nebulose.
Diamo già per sfilate le stridule staffette, le impacciate debuttanti, i languidi e belanti tenòrini, gli acrobati, i giocolieri e tutte le altre più o meno seducenti «attrazioni», che costituivano il programma ordinario del trattenimento serotino in voga e preparavano la sortiti della grande vedetta.
Dieci minuti d'intervallo.
Finora s'è scherzato. I «numeri» del divertimento son passati tra la distratta attenzione del pubblico, o l'intermittente chiacchierio sui fare del giorno. Adesso il gran momento dello spettacolo sta per venire alla ribatta la «diva», carica di gemme, che splendono dal vortice fastoso delle magnifiche vesti, brillano dal diadema che le aureola il fatale sorriso. Il murmure confuso delle ciarle digrada, s'avvampa il cerchio intenso delle luci, l'orchestra intona un esaltante preambolo musicale: tutti gli sguardi, dai binocoli, dagli occhialini, sono rivolti verso la pedana saettata dai raggi abbacinanti dei riflettori, sulla quale apparirà la fata ostentante i tesori dei suoi scrigni.
Poiché il segno più saliente della «grandezza» attribuita alle dominanti il palcoscenico del Varietà era la constatazione pratica della loro fortuna materiale. Chi poteva contestare che mezzo milione di gioielli bastasse a significare eloquentemente il valore della proprietaria ? Precisamente anche il valore artistico. Non per niente «l'arte nel suo mistero ecc.».
Abbiamo promesso la scorsa volta di narrare le parabole di alcune di queste celebri vedette, in maggioranza divoratrici di colossali fortune se si vuol compararle queste fortune al corso aureo dell'epoca. Donne che hanno passeggiato indifferentemente su strade tappezzate di banconote, che hanno fatto naufragare nella spuma di preziosi nettari, considerevoli patrimoni, e che per la maggior parte sono di scese e rinite nella più desolata povertà. Non tutte: v'è un granello di saggezza in ogni bislaccheria.
Rievochiamo per curiosità alcune di queste interessanti figure femminili. il cui solo nome accendeva emozioni entusiastiche nelle folle.
Diamo la parola ad una di quelle che ebbero nell'età di cui si parla più d'un quarto d'ora di celebrità: Ersilia Sampieri, colei che sbarrò il passo alla supremazia assoluta delle dive straniere e guadagnò anche alle italiane un primato in questo campo. Le faremo poi la biografia. Intanto lasciamo che parli un po' lei delle sue competitrici. nelle brevi note che ella ha vergato di tua mano.
Sentite che dice della famosa Eugenie Martella.
«La chiamavano la regina dei brillanti. Era la più elegante donna di quel periodo e le sue numerose parure di smeraldi, rubini, zaffiri e perle nere erano degne d'una regina. Cantava con sentimento le canzoni di Provenza. Era una creatura sognante: appariva spesso assorta nelle sue chimere. Passò per l'Italia (1908) come una luminosa meteora e scomparve. Quando non pensavamo più a lei, dopo qualche anno, in un teatro di Roma ci apparve una misera donna, che presentava al pubblico un «numero» di cani ammaestrati. La strana somiglianza che quella poveretta aveva con la celebre Martene, ci spinse ad avvicinarla alla fine dello spettacolo. Era proprio lei, colata a picco con tutti i tesori in breve tempo. La solita storia dell'innamoramento e la lusinga del matrimonio. Strano che, dai fastigi della dovizia e del successo, si finisca sempre col guardare ad una modesta meta : quella di sposarsi. Ciò prova che, malgrado tutto, non s'è invenuto nulla di meglio che il matrimonio.
La Martelli aveva lasciato, come Napoleone, in Russia le piume della sua gloria. A Pietroburgo si era invaghita di un uomo, che le aveva promesso di sposarla; ma una sera a Mosca, mentre ella era andata al teatro, l'uomo le portò via la valigette con tutti i gioielli.
L'angoscia di quella duplice decisione la fece uscire di senno. Rinchiusa in un manicomio, ne sortì povera e malata. Ramingando e lemosinando, aveva raggranellalo un po' di denaro per comprare i cani ammaestrati, coi quali riprendeva, ahilei, in tono minore le fatiche del teatro.
Volete sentire di altri tragici effetti dell'amore ? Ecco allora la storia di un'altra famosa diva: Lucy Nanon. Bella, giovanissima, bionda e rosea, come una piccola olandese: era invece parigina autentica; raffinatamente elegante, briosa, spumeggiante, quanto lo champagne che assorbiva a rivoli non discontinui. Per vincere il timor panico che la paralizzava al momento di presentarsi al pubblico, vuotava svariati calici. Si meritò cosi il nomignolo di «donna di coppe». Anche lei si lasciò illudere dal miraggio di farsi sposare da un gentiluomo napoletano. Abbandonata, tornò a Parigi, non seppe e non volle più cantare.
— Non riesco più a bere champagne — ella diceva — Come farei a cantare? A bocca asciutta, sfiori e vani»
Grazie, signorina Sampieri. Ella ci narrerà magari altre storie delle sue compagne d'arte. Ma, intanto, ci parli un po' di sè stessa e di quella sua meravigliosa collana in brillanti, la quale, messa a confronto con l'altra di Cleo de Merode e e che era il dono di un Re, risultò superiore... Valeva oltre trecentomila lire... di quell'epoca. Un'altra tua collana, celeberrima, dettò la curiosità morbosa di una patrizia veneziana, una dogessa, che una sera al «Malibran» le inviò in palcoscenico un'ambasciatore per domandarle se consentisse di mostrare da vicino le rarissime pietre per cui era torta una ditpuu fra alcune signore. Ella annui, gentile. e la bella discendente dei Dogi non volle essere seconda in cortesia e le fece pervenire un invito a pranzo pel giorno successivo net meraviglioso palazzo del Canal Grande, che aveva spesso ospitato Guglielmo li.
In quella circostanza, con l'immancabile (ce lo consenta) perfidia femminile, che presuppone sempre il possibile tiro d'un'altra donna, un po' contrariata di mostrarti unto incuriosita. la Sampieri ti recò al banchetto in una semplice toletta nera coperta da un lungo mantello d'ermellino. Di gioiello nemmeno uno.
Da allora, ad ogni ritorno a Venezia. la Sampieri riceveva puntualmente l'ambito omaggio di un cestino d'orchidee e un invito della Contessa. unto altera, quanto bella.
Voce sinuosamente dolce, grazia misurata e soave, erano le caratteristiche della tua arte canon. Poche dive del varietà di allora potevano vantare la signorilità squisita del suo stile. Nè si preoccupa adesso se anche i suoi tesori sono colati a picco. Ella li ha ripescati e perduti varie volte i superbi gioielli della sua valigetta di marrocchino. Vivaddio, se le venisse fstto di portarli su ancora dal fondo, siamo certi che tuttora sarebbe disposta a smarrirli...
Intanto, giorni fa, presso la riviera partenopea ci è apparsa una di quelle belle signore grige, che serbano negli anni maturi il sorridente e vegeto aspetto dell'età migliore. Le stavano accanto due graziose fanciulle.
Un seducente quadro familiare: una simpatica mamma con le sue deliziose figliuole. Era la scena d'un film italiano che si stava girando con la regia di Amleto Palermi. L’illusione risultava perfetta. La vecchia signora faceva la mamma proprio da brava. A saperlo che era Ersilia Sampieri nella sua ultima maniera, nel suo più recente ruolo, ci saremmo assicurata per i curiosi l'istantanea.
Ma la rivedremo sullo schermo. Tiriamo su, ora, a caso, dall'album di ritratti di un'antica sartoria teatrale, quella dell'Amodio, alcune foto sbiadite, che ci riportano le immagini di tante altre, più vicine o più ' lontane nel ricordo e che assursero a diffusa rinomanza nel periodo di voga del varietà: la De Fleuriel, Giulia Monti, la Frine, Gina Vandea.
Per quelle che sopravvivono, si hanno a registrare parecchi naufragi. Un ritmo celere avalla i trofei di queste donne che pigliano luce da un riflesso fugace quanto la giovinezza. Pare che ognuno abbia nella via una determinata razione di fortuna da consumare: o la guata un po' alla volta, o ne fa un sol banchetto. Invariabilmente queste dive, dopo il lauto simposio del trionfo, restano a bocca asciutta.
Una di esse vide tranquillamente dileguarsi in fila indiana gli sfolgori dei suoi brillanti, sparti tanto a piene mani dalla bendata dispensiere di fortuna, che la prediletta smarrì perfino il ricordo di tanta dovizia abbandonata un po' dovunque nel fondo dei bauli. Quando quelli più in vista cominciarono ad andarsene, la diva visse ritrovando ogni tanto un granulo prezioso in qualche valigia.
Finalmente anche quota ricerca riuscì vana. Solo allora la diva ricordò di avere in bocca il resto del tesoro distrutto e si tolse dai dentini in cui erano inseriti, a renderle più luminoso il sorriso, alcune pietrine, che si trasformarono in estrema riserva per appagare la brama spietata di quella vorace creditrice dello stomaco, che è la fame.
Giannello la Rotonda, «Il Mattino Illustrato», anno XIV, n.48, 2 dicembre 1937
Il mese scorso l’autorità di P. S. di Roma ha vietato il numero d’avanspettacolo che si dava in un popolare cinematografo perchè il buffo teneva, sul palcoscenico, un contegno offensivo della morale. Il severo provvedimento è stato universalmente approvato e riescirà utile anche dal punto di vista artistico: il cosi detto varietà è, infatti, una forma d’arte sia pure in tono minore ed è bene elevarne il tono e salvarla dalla scurrilità.
Arte in tono minore, nessuno lo nega, ma può contare delle glorie di prima grandezza! Ruggero Leoncavallo, l’autore dei Pagliacci aveva circa 22 anni quando andò in Francia, dove, per vivere, si mise a fare il maestro accompagnatore nei Caffè-Concerto. Lavorò a Parigi, in locali di terz’ordine, poi fu scritturato in un locale dell’industriosa cittadina di Creil, con 8 lire per sera.
Chi fu la Tortajada
Vi ebbe tanto successo che tutte le piccole agenzie dei Varietà facevano richiesta del piccolo maestro italiano tanto abile nell’accompagnamento. La sua reputazione pervenne presto al grande teatro Eldorado e allora il maestro ebbe commissione di scrivere delle romanze per le maggiori stelle. Ne aveva in pagamento la somma favolosa di 20. anche 30 franchi per canzone, più le gratificazioni che salivano a 60 od 80 centesimi per sera. Il maestro a ricordale quei tempi sospirava:
— Non ero ricco, ma avevo 22 anni. E gli anni sono il rovescio dei denari: meno se ne ha, meglio si sta.
In quell’epoca, ossia verso il 1880, il Varietà in Francia aveva già preso un grande sviluppo, mentre invece, in Italia, cominciò a fiorire parecchi anni dopo. Nel 1901 a Roma comparve per la prima volta nelle vie di Roma l’uomo-manifesto, detto anche uomo-sandwich e questo avvenne proprio per un artista da Caffè-Concerto. Furoreggiava allora la diva spagnuola Tortajada, la quale compì un giro artistico a Napoli e nella Capitale.
A Roma fu organizzata per lei una propaganda che parve spettacolosa. Un bel giorno, nell’ora del passeggio, si vide una squadra di camerieri in frac rossi e cilindri enormi girare per le vie urlando a squarciagola: - Al Savoia, questa sera, la Tortajada! Nessuno deve mancare!
Tornando alle glorie del Varietà anche il povero e grande Angelo Musco non cominciò forse sui più umili palcoscenici fra una divetta e un acrobata? Aveva 20 anni, era unito con una compagnia di arte che ne aveva 22 ed era molto più alta di lui.
Facevano i «duetti eccentrici». Il loro debutto avvenne in Sicilia, a Monterosso e riuscì non solamente eccentrico ma addirittura drammatico.
Duettisti eccentrici
Il pubblico del teatrino esternava la propria ammirazione con molti complimenti salaci diretti alla donna. Musco ne fremeva Gelosia? Più che vera gelosia era rabbia, furore come per un’offesa fatta a lui Al secondo duetto cominciò a rimbeccire qualche insulto. Al terzo perdette la pazienza individuò uno degli spettatori più scalmanati e d un tratto saltò giù in platea e gli si avventò contro, con un ruggito da belva.
Successe un tumulto indescrivibile. A stento il proprietario del locale riuscì a strappare Musco dalle mani degli avversari.. Il grande artista, ricordando dopo tanto tempo il bur-rascoso episodio ne rideva di cuore e commentava:
— Ah, quella volta me la vidi brutta... come quando mi guardo nello specchio e vedo la mia faccia!
E Petrolini? A 15 anni riesce a farsi scritturare da certo Angelo Tabanelli, detto il Panzone, e si produce colla sua truppa di artisti a Campagnano, presso Roma. Il teatro era un vecchio granalo municipale e il piccolo Ettore debuttò con una macchietta Il bell'Arturo. Ma al ritornello mise un piede nell’estremità di una tavola dell’improvvisato palcoscenico, fatto con assi posate su due cavalletti; il suo peso fece sollevare una tavola e capitombolò giù, lussandosi un piede. Il pubblico applaudiva e lui piangeva!
Poteva parere un avvertimento del destino, ma Petrolini perseverò. Poco tempo dopo si trovava a Civitavecchia con altri artisti affamatissimi e dovette poi partirsene a piedi, senza un soldo. A Santa Marinella trovò un carrettiere che lo condusse fino a Roma. Ettore in compenso gli recitò tutto il suo repertorio, e quando ebbe finito il carrettiere gli osservò, scuotendo il capo:
- Ma dimmi un poco, tu ci campi a dire tutte queste sciocchezze alla gente? Io ti dico la verità, non sarei buono. Me ne vergognerei.
V. Panizzi, «Tribuna Illustrata», 28 febbraio 1938
Roma, gennaio
Il Cantante Pazzo (era il titolo di uno dei primi film parlati, interpretato da Al Jolson) uccise le "stelle” del muto. I loro nomi sparirono dai cartelloni che per diversi anni avevano richiamato un pubblico più attento ma meno esigente; vennero licenziate le orchestrine che suonavano nascoste dietro lo schermo o in una buca ai piedi del palcoscenico e le attrici come la Bertin:, la Gys, Hesperia, la Lepanto, la Menichelli, appassirono e cedettero il passo a bellezze meno vistose.
LA “DIVINA” FRANCESCA
Francesca Bertini può considerarsi la decana di queste donne che turbarono le platee col loro espressivo silenzio. La ''divina Francesca”, ov-verossia la napoletana Elena Vitiello, restò al centro delle cronache cinematografiche dal 1911 al 1920. Per i suoi tempi fu una donna moderna. Diventò quasi un personaggio da film parlato, nella cornice del cinema muto. Si muoveva con morbidezza, senza gli scatti caricati e i esti meccanici che erano comuni a uona parte delle attrici della sua epoca; cosa eccezionale, poi, sapeva fare a meno di tendaggi e finestre, allorché doveva dimostrare con languidi e repentini movimenti di braccia la sua passione e la sua ira.
Già famosa, sposò il conte Cartier, col quale si trasferì a Parigi. Dopo la parentesi francese, durata diversi anni, tornò allo schermo con Odette. Il soggiorno in Francia a-veva trasformato il suo linguaggio. Parlava un misto di italiano, di napoletano e di francese "petit negre”.
Snob di carattere, la Bertini era una strana solitaria, capace di restar chiusa nella propria camera d’albergo per delle giornate intere. Fra le "stelle del muto" fu l’unica che ebbe una buona amicizia con la Magnani. Anna apparteneva all’altra epoca, a quella creata dal Cantante Pazzo. Gli scontri fra queste due donne, una romana e l’altra napoletana, dotate entrambe di un temperamento eccezionale, erano quasi sempre uno spettacolo. Sia la Bertini che la Magnani non si lesinavano le critiche, manifestate sempre con battute di spirito incalzanti e sottili.
Francesca fu senza dubbio una delle donne più corteggiate. Lo diceva lei stessa con quell’aria di superiorità romantica che era forse la sola tinta appassita nell’insieme dei suoi colori che resistevano al tempo. Oltre ad essere bella, la Bertini era anche spiritosa. Un giorno, nel "grill" dell’Ambasciatori, le si avvicinò, con mille moine, un giovane attore del cinema. Il ragazzo parlava in fretta, quasi senza prendere fiato, e ogni tanto esclamava: «Oh, la divina Francesca!». Lei lo lasciò dire, poi, accompagnandolo con uno sguardo pieno di noia, esclamò: «Le pauvre!».
Fra gli amici romani contava soprattutto i Visconti. A uno di essi, cugino del regista Luchino, regalò una foto con una dedica che si avvicinava molto alle didascalie dei suoi film : "Francesca per tutti, Elena per te”.
Lasciò l’Italia nel 1942 e se ne andò in Spagna dove tornò a fare anche del cinematografo. Oggi con molto coraggio e con considerevole successo, recita nei teatri spagnoli e interpreta un personaggio che non sembra del tutto intonato al suo carattere: la "signora dalle camelie".
Le altre attrici sono rimaste quasi tutte a Roma e, in buona parte, sono sposate o vedove.
Lyda Borelli, moglie di Cini e madre del futuro marito di Merle Oberon, è a Venezia. Ha conservato, sebbene con qualche modifica, le acconciature di un tempo e non è raro vederla ancora vestita di veli a salice piangente, con un sottile e lungo bocchino fra le labbra. Carmen Boni vive invece sulla riviera francese, dove trascina giornate noiose e pesanti per le cure cui la sottopongono i medici. Pina Meni-cheìli, ritiratasi del tutto dal cinema, si è rinchiusa nel mondo dei suoi ricordi c quando, di tanto in tanto, aria dei successi di allora, si ha impressione che il suo pensiero si abbandoni a gradite fughe nel tempo. Maria Jacobini, dopo aver vissuto gli ultimi anni all’Albergo Quirinale, ossess:onata dalla solitudine e dall’abbandono, è morta.
LA PIU' CELEBRE MESSALINA
Rina De Liguoro abita ai Parioli, in una casa che rassomiglia un po’ alle abitazioni dei "divi” di Hollywood. Veste di nero per un lutto recente; da cinque mesi ha perduto la figlia Regana, interprete del film Santa Caterina da Siena. In quella pellicola, anche la De Liguoro volle tornar e al cinematografo e lo fece con molta disinvoltura. Restò un po’ perplessa davanti ai riflettori, ma fu cosa da poco. Il suo viso non è gran che cambiato. Ha sempre gli occhi espressivi e fondi e un’aria assorta, estatica. Il salotto dove riceve è una specie di museo. Sui mobili ci sono fotografie della figlia; di suo conserva un "olio” di Gastone Lavrielle, che la ritrae in un abito da sera verde. Nel ritratto porta i capelli gonfi e crespi c in mano, con gesto prezioso, tiene un ventaglio di piume di struzzo.
Prima di essere attrice, Rina De Liguoro (figlia di un ufficiale dei bersaglieri) fu musicista. Si diplomò in pianoforte al conservatorio di Napoli e a Napoli, appunto, andava ad ammirare i film della Bertini, che venivano proiettati al Salone Margherita. La "divina” trionfava in Odette, Assunta Spina e Fedora.
Rina divenne "stella” per caso; era già moglie del regista della Bertini, quando seppe che Guazzoni cercava un’interprete per la sua colossale Messalina. Molte aspiranti erano state bocciate. La De Liguoro, dopo aver assistito ad alcune scene del film alla "Caesar”, decise di tentare. Il dott. Barattolo l’accompagnò in automobile agli "studi”, col costume indosso; è facile immaginare lo stupore dei tecnici allorché videro scendere dalla macchina una donna acconciata in maniera così insolita. I resti della famosa acconciatura, che le ricordano un personaggio dal quale non può piu staccarsi, sono ancora in mostra su alcune consolles del salotto.
In quella casa il cinema era diventato una malattia; alcuni giornali, infatti, parlando dei De Li-guoro, li chiamarono ”Ia famiglia Barrymore italiana”. Nel 1929 Rina andò in America chiamata da Cedi de Mille. Arrivò, però, con sei mesi di ritardo; il "parlato” aveva già dato il colpo di grazia al "muto”. Nonostante questo contrattempo, trovò modo di lavorare c di interpretare alcune parti per la Fox accanto ai due comici Stan Laurei e Oliver Hardy. In America provò anche alcune emozioni, tipiche di quel paese; venne, infatti, assalita dai gangsters che volevano a tutti i costi duecentomila dollari, e un’altra volta fuggì a un’imboscata per puro miracolo.
La perdita della figlia ha trasformato la sua vita in volontaria clausura. Esce solo per recarsi al cimitero. In casa legge molto, specialmente le vite dei santi e romanzi che non la costringano a pensare. Dopo aver meditato di uccidersi, questa donna che sembra vivere nel vuoto, ha deciso di rinchiudersi in un convento, ma fino ad oggi non ha ricevuto alcuna risposta dalla madre supererà alla quale si è rivolta. Racconta tutto ciò lasciando cadere indietro ogni tanto la testa e battendo gli occhi indolenti con le ciglia lunghe e bruscamente voltate all’insù. Poi si alza e accostandosi nuovamente alla consolle sulla quale sono collocati i resti del suo costume, esclama con aria rattristata: «Quando anch’io morirò, vorrò che mi vestano come all’epoca de! mio più grande successo: da Messalina».
Soava Gallone, moglie del noto regista, fa tutt’altra vita. Rimasta nel mondo del cinematografo, al seguito del marito, che è in piena attività, riceve nel salone del Grand Hotel, dove abita. Nata in Polonia, venne in Italia per un viaggio di piacere. Sposò Carmine Gallone a Sorrento; insieme si trasferirono poi a Roma e presero in affitto un modesto appartamentino ammobiliato, in Piazza di Spagna. Entrò nel cinema, spinta da attori e produttori. A differenza delle altre attrici non conserva né ritagli di giornale, né fotografie. È certa che il lavoro di allora era assai più diffìcile di quello di oggi. La mancanza della voce richiedeva particolari doti interpretative e un’emotività che le ”stars” di oggi possono anche non avere. Il "muto” non conosceva il trucco della controfigura; interpretare un personaggio poteva essere quindi un’impresa non sempre facile c spesso rischiosa. Con un sorriso un po’ tiepido e con un accento leggermente straniero,' Soava Gallone racconta di come girò una scena di
zattera, frustata dalla pioggia e dalle onde. Un’altra volta, sulle montagne d’Abruzzo, dovette camminare per ore e ore, in mezzo alla neve, con le scarpe logore e le vesti stracciate. A un certo punto, per non morire di freddo e per poter continuare il lavoro, fu costretta a legarsi alla vita due bottiglie di acqua calda. Oggi è molto amica di Marta Eggerth che sta interpretando alcuni film musicali, diretti da Gallone.
IL PITONE DI HESPERIA
Lontana dai quartieri del centro, nella stessa strada dove abita Anna Magnani, in via Amba Aradam, c’è un’altra "diva” del muto; la contessa Negroni, conosciuta in arte col nome di Hesperia. Per questa attrice i ricordi sono un po’ più sbiaditi e lontani. Perduto l’aspetto di donna fatale, divenuti color della nebbia con delle stilature gialle, i suoi capelli, Hesperia, un po’ angustiata dal mal di cuore, lancia ogni tanto delle occhiate tiepide ai vari ritratti che ha appesi alle pareti. Ha le mani un po’ ruvide e il passo pesante; conserva però una espressione morbida che il piccolo naso all’insù rende ancor giovanile. Vive modestamente, in un appartamentino arredato senza pretese ed esce di casa solo quando c’è il sole.
Legge parecchio, soprattutto romanzi di Luciana Peverelli. Si dedicò al cinematografo prima del matrimonio ma fin da bambina mostrò inclinazione per l’arte. Passò dalla filodrammatica di Forlì allo schermo in un balzo solo e vide subito la sua immagine, circondata da aureole di stelle, sulle prime pagine delle riviste del cinema. In concorrenza con la Bertini, fece La signora dalle camelie in soli diciotto giorni di pose. Fu un film girato di nascosto e che uscì di sorpresa. Il successo fu enorme; perfino Rug-geri, che non la conosceva, le mandò una lettera di congratulazioni. Il primo lavoro a lungo metraggio, 1400 metri circa, fu Fra uomini e belve, girato per la "Cines” nel porto di Anzio, in collaborazione con una casa inglese. Il nome d’arte se lo trovò da sola; glielo suggerì la lettura del libro II giardino delle Esperidi, ma per renderlo più esotico vi aggiunse un’acca aspirata. Anche Hesperia, parlando dell’arte di ieri, dice pressappoco quello che sostiene la Gallone. Ai suoi tempi bisognava vivere il personaggio con un’intensità spesso dolorosa. Era indispensabile anzitutto esser belle, attraenti ed eleganti. Secondo questa "stella del muto” il verismo di oggi è semplicemente una burla. Già allora essa non usava trucco e non voleva riflettori. I rischi erano enormi e di rado gli spettatori si rendevano conto che al termine di quelle pellicole che mettevano il brivido, l’interprete era spesso costretta a starsene a letto o per una polmonite o per la slogatura di una gamba o di un braccio. In occasione della ripresa di Fra uomini e belve, Hesperia ricorda, ad esempio, di aver lavorato con un pitone di trenta chili, preso in affìtto al giardino zoologico. Il serpente, abituato alla libertà, quando venne riportato non volle saperne della gabbia e scappò mettendo a soqquadro tutta Roma.
Ruggero Gilardi, «Oggi», 10 febbraio 1949
Il «Varietà» italiano esiste, essendo sempre esistito: e questa apparirà affermazione alquanto arbitraria a tutti coloro che, ripensando ogni forma di teatro di varietà riconosciuta nelle classifiche normali (il café chantant parigino, il music-hall inglese, il kabarett tedesco, il show o il burlesque americano) non riusciranno a scoprirne una di marca ufficialmente indigena. Gli è che il nostro «varietà» ha sempre vissuto alla beduina, sparsamente, anarchicamente, senza un ordine nè uno stato, sperperando le sue forze da vero gran signore, che avendo una ricchezza senza limiti non si è curato di costituire un patrimonio. Non dunque per amore di paradosso, ma per semplice rispetto di verità, s'ha da dire e da credere che il varietà italiano non è riuscito a vivere civilmente altro che per effetto di propria vitalità naturale. Esso ha un poi avuto la sorte, nel mondo del a fantasismo » comico, degli tzigani nel mondo musicale.
Nel numero scorso ho scritto : Il varietà italiano per tanti suoi aspetti provinciale e pigrissimo... Non era un momento di cattivo umore. A tutti gli impresari si può dire furiosamente che la loro immaginazione puzza di cadavere; scritturato il mattatore, il resto non conta. Alcune decine di chili di carne bianca e liscia giustificheranno i manifesti: grande rivista. Nessun sospetto del teatro è nelle vene indurite degli impresari. In vent’anni non un lampo di genio coreografico ha illuminato le loro grasse notti. Vent’anni, 7000 giorni trascorsi senza un colpo di pennello o di martello inusitati. Il deserto. Siamo ancora allo sfarzo dei costumi, alla formula ingrandita dell’avanspettacolo rionale. E il gusto del pubblico fa la muffa, e i cosiddetti direttori artistici delle compagnie toccano il diapason della loro fatica con il quadro finale, scalinata e penne di struzzo. Ecco perchè basta una sciocchezzuola, come diceva Petrolini, sul genere del bar con l’orrido opache nel numero di George Campo per avvertirci da quali musei noi ricaviamo invece le nostre messe in scena.
Il varietà italiano vivo e originale negli elementi individuali — e via via in questa rubrica li segnaleremo senza lesinare gli aggettivi più rigogliosi — per il resto appartiene al secolo scorso: l’ignavia si sposa all’avidità di denaro, l’ignoranza soprattutto impedisce i confronti con le innovazioni che la regìa ha portato nel teatro.
Non è questione di quattrini: i bilanci del varietà sono invidiabili. Ripeto, manca totalmente il senso del teatro e l’ambizione.
Dicono che la EIAR stia preparando una rivista da presentarsi in tutta Italia. Sarebbe l’occasione per creare cosa degna del grande Ente Radiofonico. O si deve continuare a credere che i Fratelli Schwarz erano il non plus ultra della finezza e della fantasia? Disgraziati, stavamo diventando colonia di quei sultani del calcestruzzo operettistico. Ma, per la verità, noi abbiamo fatto e facciamo assai peggio di loro.
Approfitto dell’occasione per indicare un’altra faccenda poco sopportabile: lo stupido confidenziale ridere — extra copione — delle subrette e delle girls. Ridono con il maestro, con il capocomico, con il clarino, con i compagni di scena con uno del pubblico e perfino con persone immaginarie. Esse hanno il diritto di ridere solo quando lo esige la parte, (il sorriso è un’altra cosa). Esse hanno l’obbligo di essere dei personaggi, di tener duro tutta la sera davanti al pubblico. Questa confidenza, questo rompere l’incanto ad libitum mi sembra di una volgarità incalcolabile e di scarso rispetto per il proprio mestiere. Il difetto è antico e generale. Anche gli uomini spesso conversano tra di loro e si muovono arbitrariamente, eludono il rigore del testo. Io multerei ferocemente anche N. N. che portandomi un messaggio facesse tre passi invece di quattro. Proibirei di tossire perfino ai malati di petto.
Cesare Zavattini, «Tempo», 18 maggio 1940
Torno a parlare del varietà, è la sua stagione. Con maggior imbarazzo di una volta da quando Bontempelli nei suoi colloqui ha toccato la questione del «divertimento», dell’uomo superiore, ma con lo stesso interesse. Com'è difficile essere sempre morali: io conosco degli artisti privi di qualunque freno che tuttavia in alcuni momenti mi comunicano un’emozione estetica, come si suol dire.
Un secondo problema serio sta nell’esprimere la verità: il proprio giudizio diventa «qualche cosa» anche nel campo dei turaccioli solamente nel caso di un’assoluta schiettezza. Per esempio, non posso tacere che Vera Wort mi è antipatica: a Roma parlavano molto di lei. Alta magra bionda bella straniera. L'antipatia nasce dal contrasto tra Vera Worth ferma e quella mobile: si sente l’inganno.
La Maresca giovane, bellissima, è soltanto bellissima; con gli anni canterà forse, io la credo muta. Ma quale candido coraggio della propria mediocrità. Invece questa americana che non ha le gambe della Mary Field nè la voce e il tempo della Reis, si presenta con la convinzione fredda crudele di essere un numero importante. Nessuno le perdonerà il modo di incoraggiare i deboli applausi quando esce dalle quinte a ringraziare. L’avevo vista quest’inverno in una casetta a bassa voce Lombrello, credo, dentro una rivista di Galdieri: se la cavò con successo, ma era tenuta nei "suoi limiti. Nessuno l’aveva mai autorizzata a diventare centro di uno spettacolo. Sarebbe una di quelle donne chiamate eteree, silfidi, salamandre.
La notizia più importante della settimana: Aldo Fabrizi metterà su compagnia, repertorio teatrale. Avremo un attore che potrà competere con i dialettali maggiori. Gi vuole un anno o due per trovave il tono giusto: Fabrizi non ha vent’anni di carriera. Ma mi pare facile dire che nel romanesco, se vi trasporta di peso Fabrizi e i dialoghi con la platea — quale comunicativa — e i suoi ci avète fatto caso, e un po’ di musica egli continuerà una grande tradizione. Fabrizi ha bisogno di tre atti nel senso di Petrolini Viviani Musco: resterà sempre attaccato al varietà con il cordone ombelicale ma attraverso la commedia, e un bel giorno chiuderà regolarmente la serata con «alla fine Fabrizi nelle sue antiche interpretazioni».
La macchietta lo stringe troppo, lo obbliga a parlare più in fretta di quanto non voglia. Gli piace descrivere, le pause lo inebriano, inventa delle pansé e muove gli occhi, tutta la faccia, con un profondo violento impegno che richiede vere e proprie situazioni; non le rime di una canzonetta.
Insomma si fermerà a un certo punto a chiacchierare con il pubblico e il pubblico sarà sempre più preso dal personaggio Fabrizi. Egli lo sa benissimo. L’altra sera diceva: «Sì, ho avuto successo, è vero, ma non mi buttavano fiori, donne...» Vedete che ha già i difetti degli ottimi attori; e anche le qualità.
Cesare Zavattini, «Tempo», 21 settembre 1940
Vorrei dire qualcosa sul varietà, quello che per tanto tempo s’e chiamato da noi, il «varieté». Ma subito mi viene un dubbio: è ciò ancora possibile, dopo le cose acutissime che ne lia scritte Ramon e quelle brillanti che ne ha vergate Marinetti, e dopo, sopratutto, l'indimenticabile pellicola di Jainnings? Perchè no: basterà farlo con modesitia, con molta modestia.
Innanzitutto: che cosa non c’è voluto, di tenacia e di tempo, per passare dal gallico «varieté» all’itlaliano e quasi identico «varietà»! Sembrava un problema linguistico arduo, simile (e anche più difficile) di quello di «ouverture», intorno al quale s’è infoiata da dogo la 'seconda ripresa dell’incontro letterario Bertoni-Monelli. (Chi vincerà? Bertoni ha forse più allenamento, più classe; ma Monelli è più agile e nervoso. Io ciedo in un pareggio, dignitoso per tutti e due; dopo di che sarà il popolo parlante, e non uno o un. altro detto o pratico della parola a fare la lingua: come prima, e ne meglio nè peggio di prima).
Il che non significa, naturalmente, negare il valore della polemica, la quale vale anzi a mettere un po’ di moto nella nostra palude letteraria, infestata com’è dalla zanzara ermetica e dal tarlo neorealista.
Dunque: varietà. Eppure, chi sa che in qualche città di provincia, in questo momento perduta nella nebbia pungente del settentrione oppure carezzata dal sole blando ma non troppo dèli'inverno meridionale, chi sa che i giovani i quali sognano a occhi aperti di vivere anche essi, per lo spazio di una settimana, le follie del secolo, non aspettino ancora ansiosamente l’arrivo alla loro stazione di qualche malinconica compagnia girovaga di «varieté»...
Il fatto è che il Varietà — per non confondere il varietà con la varietà superando la mia antipatia per le maiuscole, lo scriverò così, imitando per una volta Silvio D’Amico, secondo il quale il teatro (di prosa, s’intende) non è già il teatro, ma il Teatro — che il Varietà, dunque, si copre, agli occhi della massa meno avveduta e meno scaltra, di una vernice internazionale a buon mercato, sintetizzata appunto, come in un'etichetta, in quella facile paroletta francese: «varieté»... Le disposizioni del Ministero della Cultura Popolare sono venute opportunamente a bandire gli Harrison Brothers, come pure le 12 American Girls 12, nonché Patricia and her partenaire, sui quali, del resto, s’era già esercitata la facile ironia demolitrice dei giornali umoristici che avevano insinuato Patricia chiamarsi in realtà Serafina Vitiello e le 12 Girls non essere mai andate più in là di Zara...
Ma la sostanza psicologica dell’interesse del pubblico per il teatro di Varietà è rimasta la stessa di prima: esso gli chiede un succo, un concentrato musicale del Mondo. Il Mondo!
E il Varietà lo accontenta, anche se una certa ingenuità e approssimazione; ed ecco, in due ore, legati da un tenue filo, i canti nostalgici della pampa platense, quelli ora malinconici ora estrosi della pusta ungherese; le danze più note di Spagna e i ritmi vagamente viennesi! che cantarono le nostre madri. Tuttavia solo un ingenuo, naturalmente, potrebbe credere che quelle canzoni e quelle danze abbiano una rassomiglianza poco più che esterna con le «vere» canzoni e le «vere» danze di Spagna e di Ungheria, di Vienna e d’Argentina. Se è vero che il successo di cassetta del Varietà riposa Sulla saggezza di Maometto, il quale, vedendo che la montagna non andava da lui; andò lui dalla montagna, in quanto il Varietà reca alle folle necessariamente sedentarie un qualche alito del mondo: se è vero tutto questo, non è meno necessario, per capirò qualcosa dei suo più intimo congegno, guardarlo con «altri» occhi, e molto più a fondo. Ma con una certa delicatezza, vi prego, che il giocattolo non sì spezzi nelle vostre mani.
In primo luogo, non prendete mal posto, al Varietà, in una poltrona appartenente a una fila di numero più basso della decima.
Le «poltronissime» (ahi Eccellenza Bertoni, e voi maggior collega Monelli, come faremo, in una superiore concordia, a espungere dalla nostra bella lingua questo atroce accrescitivo, se poi un qualunque ragionier Pinco Pallino, la sera del 27 del mese, andrà lo stesso al botteghino del teatro di varietà a chiedere, con tutta naturalezza, una poltronissima?), le «poltronissime», dunque, dovrebbero essere logicamente quelle delle file più arretrate, se certi importanti e perversi Commendatori, quelli giustamente vituperati da Mosca, noi: capovolgessero, con la potenza del loro oro. il naturale ordine economico dei valori. Essi vogliono solo vedere da vicino la carne nuda e rosa delle ballerine; non hanno alcun altro spirituale interesse. Bah, non tutto il male viene per nuocere, al Varietà: vi sarà più facile, e anche più «leggero», trovare un posto in decima, o meglio se di undecima, dodicesima ecc., fila.
Così soltanto non vi accorgerete che le gambe delle danzatrici non sono poi sempre così ben levigate, i loro seni così freschi; che sul volto del quasi giovane, brillante presentatore c’è un reticolo pietoso di rughe a stento coperte dal cerone color «quarto-di-bue» ; che il comico ha, alle tempie, moltissimi capelli grigi i quali vogliono dire non solo anni ma dolori, angoscia, delusioni, anche per lui come tutti gli altri uomini di questo mondo, per lui che forse ha dei biglietti da visita su cui è stampato, sotto al nome, in corsivo: «Comico», come chi dicesse avvocato o grossista in paglie di Firenze.
Naturalmente se avete un binocolo lasciatelo a casa. Annoiereste la vostra saggia scelta di una poltrona non troppo avanzata, e fors’anche peggiorereste la situazione. Infine, non commettete l’imperdonabile errore di accettare un posto in un palco laterale di prim’ordine, troppo vicino al proscenio, poiché vi dareste da voi, stessi la zappa sui piedi, [...] vedere gii attori a troppo breve distanza, di scorgere di sbieco lo quinte e sorprenderli nell’istante in cui, sottratti alla vista del pubblico della platea, smettono il «sorriso di scena» e riprendono un'aria di privati cittadini, con un «passaggio» che è una vera doccia gelata per chi voglia un po' inebriarsi di quel vino composito e artefatto fin che volete, eppur inimitabile che è il Varietà.
Il Varietà, dunque, vale poco o nulla come vivente atlante del mondo, dei paesi stranieri che desidereremmo di conoscere. Meglio allora mettere da parte qualche lira ogni giorno e, a un certo momento, andare a vedere coi propri occhi come un’autentica Carmen muova i fianchi ballando la «jota» o ad ascoltare come un autentico arabo traduca in musica, sotto la volta favolosamente stellata d’una notte africana; la sua disperata poesia del deserto.
Tanto meno vale, il Varietà, come spettacolo, vero e proprio come «genere» a sè. I suoi personaggi sono più che altro delle maschere, senza il sale e pepe e il brio di quelle della Commedila dell’Arte. I suoi intrecci sono di una tenuità, di una convenzionalità, di una gratuità da far sorridere un seminarista che abbia letto Goldoni. Ma sarebbe vano cercare una logica là dove non ce ne può essere, come gettare lo sguardo in fondo a un caleodoscopio per scoprirvi la rigorosa armonia tonale d’un quadro d'un Morandi, o d’un Carrà.
Ora, il Varietà è appunto un caleidoscopio, e come tale va inteso e guardato. Caleidoscopio beninteso, non certo della vita d’altri paesi o d'altre latitudini o d’altri tempi, nei quali assunti esso si rivela sempre falso e talvolta anche sgradevole, ma proprio di quanto avviene, si fa, si dice, si pensa si mormora, si spera, si teme, si ama, si odiia, si «sente». infine. nel tempo e nel luogo dove lo spettacolo nasce ed è dato. Infatti il Varietà ha una sua prodigiosa facoltà di assimilazione, per cui assorbe lo assorbibile dalla strada e dal giornale, dal cinema e dalla radio, dal dialetto e dalla lingua, e sopratutto dalla cronaca, grande e minuta, e tutto mescola, rimesta, impasta, trasforma, e, infine, esprime, in quella sua forma forse non nobilissima nè raff.iaiata, ma certo singolare e In qualche modo seducente.
A saperlo guardare, nel Varietà si può scorgere qualcosa di più di alcuni corpi rosati di donne dal passo musicale di un po’ di stracci dai bel colori. A saperlo ascoltare, ce he può venire, come da una magica conchiglia, un’eco inebriante. L’eco di che voi certo avete già capito: della vita, amici miei, della vita.
Roberto Ranieri, «La Voce di Mantova», 11 maggio 1942
Tempo fa constatammo insieme il continuo aumento dei divi dello schermo che, ritenendosi maturi per la regìa, passavano dietro la macchina da presa. Oggi voglio esaminare un altro singolare fenomeno che ha caratterizzato l’attività filmica italiana e clic non accenna a scomparire : l'esodo, cioè, dal varietà di moltissimi attori ed attrici della piccola scena e la loro immigrazione nel mondo della celluloide.
Ma diamo, prima, un’occhiata retrospettiva alla cronaca, più che alla storia, del nostro schermo.
Quando il cinema ebbe acquistato la parola e si iniziò nel nostro Paese la cosiddetta Rinascita, i produttori, e per essi i registi, chiamarono per i loro film gli attori, i più noti e maggiormente cari alla massa del pubblico, che il mercato teatrale forniva in quel momento. Si pensava : questi sono usi all’eloquio teatrale; innanzi al microfono se la caveranno assai meglio che non i professionisti del «muto», molti dei quali non posseggono una voce fonogenica. Ed i conti tornarono perchè, nonostante le polemiche che si accesero e che continuano, periodicamente, tuttora — tra coloro che chiedevano e'chiedono attori cinematografici per il Cinema, e quelli che, invece, ritenevano e ritengono che l’attore di teatro meglio di qualunque altro possa assolvere il suo compito innanzi alla «camera» — uomini abituati al palcoscenico, come un Falconi, un Cervi, un Carlo Ninchi, un De Sica, ecc., si dimostrarono superiori a molti colleghi, genuini figli dello schermo.
Inoltre l’inclusione, nell’elenco degli interpreti, dei nomi di attori già largamente conosciuti, costituì un eccellente affare per i produttori, irt quanto molti spettatori del Cinema, impossibilitati a recarsi a teatro o per ragioni di carattere finanziario (anche un posto di galleria in un locale cinematografico non costa mai quanto un terzo di quel che costi urta poltrona a teatro) o per ragioni derivanti dall’orario di questo genere di spettacoli, appagarono la loro curiosità che li spingeva a conoscere da vicino uomini e donne di teatro, di cui avevano solamente inteso parlare o letto sui giornali.
Ma da qualche tempo a questa parte — eccoci arrivati all’esame del fenomeno di cui vi parlavo — mentre si nota un ritorno degli» emigrati» al loro «paese» d’origine o addirittura la fuga, verso quello, dal mondo della celluloide, di attori cinematografici, si deve anche constatare che la sfera d’azione dei procacciatori di divi s’è spostata nel varietà.
Ecco infatti i vari Riento, Macario, Totò, De Rege, fino a Rascel e Fabrizi, intercalare le loro fatiche della ribalta con quelle dello schermo. E’ di ieri, infatti, il successo di pubblico ottenuto dal popolare macchiettista romano, successo che si è tradotto in pienoni e «tutto esaurito» nei locali in cui «Avanti c’è posto» è stato visionato.
Orbene : siamo lietissimi che il Cinema, definito da taluni «somma di tutte le arti», allarghi il suo campo di azione ed assimili, dopo averlo fatto suo, quanto c’è di meglio in ogni campo. Ma non vorremmo che, ad un certo momento, si esagerasse in questo senso.
Già s’è dato, infatti, il caso di attori di varietà che, dopo aver partecipato per qualche tempo alla lavorazione di film sostenendo piccoli ruoli fortemente caratterizzati, ruoli scelti secondo le singole possibilità e per dar loro modo di esibirsi nei numeri più divertenti del rispettivo repertorio, si sono montati la testa fino al punto di riuscire a convincere qualche produttore facilone ad impiegare il capitale su film che avevano per protagonisti i suddetti attori del varietà (e qui non parlo per Fabrizi, che ha brillantemente superato la prova). Risultato : film aborti e scontento evidente da parte del pubblico.
Perciò se da un canto vediamo con piacere che la schiera dei divi dello schermo venga rinsanguata da nuovi elementi provenienti dal varietà, dall’altro chiediamo che un severo controllo venga esercitato affinchè solo i meritevoli compiano il salto dal varietà al Cinema, e, una volta compiuto questo salto, vengano utilizzati solamente a seconda delle loro possibilità. Questo sempre: ma oggi più che mai, dato che per la penuria di pellicola, non sono ammessi esperimenti di nessun genere.
Gaetano Carancini, «Si gira», gennaio 1943
In via del Babuino 107, in Roma, ha sede l'Associazione Nazionale per il Buon Costume. Presidente, il settantenne professore Cario Costantini, già docente di educazione fisica nel pubblici istituti. Da qualche anno a questa parte, non v’è attività rappresentativa, couplet teatrale, canzonetta trasmessa per via radio, che non subiscano la critica serrata del predetto Presidente. Sua la ,moralissima lotta contro il turpiloquio.
Sua la santa baltaglia contro i costumi da bagno succinti. Sua la crociata contro il malvezzo di indirizzare alle donne per istrada, frasi traboccanti d'amore. Il professore ha superato la barriera del provincialesco quietismo e si è lanciato nel turbine della casistica nazionale, t'n vero e proprio ufficio stampa gli segnala le pubblicazioni da ritenersi scandalose. Ed in terribili guai incorsero Guasta e la redazione del « Travaso » allorché, due numeri eccezionali del periodico (il « Coniugai Travasissimo » e lo « Studentorum Travasissimus ») parvero troppo piccanti al professore che presentò denuncia alla Pretura di Roma contro il responsabile del « Travaso » per oltraggio al pudore, offesa alla morate e tante altre voci di rubrica. La Pretura si dichiarò incompetente e la causa passò al Tribunale.
Ma la polemica trascinò nella propria scia il moralista n. 2, il Prefetto di Brescia, città cattolicissima oltre ogni dire. Il qual Prefetto un numero del « Travaso » sequestrò, incorrendo nei tormentoni dei nostri amici vignettisti. Il prof. Costantini la cui vita celibataria, appena ravvivata dalla presenza di una cameriera cattolica praticante, lo induce a perfezionare sempre più i propri sistemi di lotta contro gli offensori della morale pubblica, è rimasto, dopo quella prova, sulla breccia.
Uno spettacolo alquanto scollacciato sta per essere lanciato sui palcoscenici romani? Ecco il prof. Carlo Costantini assistere alle prove per giudicare della sua possibile immissione sul mercato. L’aria del Presidente è assorta. Le ballerine, intimidite, sfilano sotto il suo sguardo distaccato dalle tentazioni della carne. Ma, nell’ombra, un fotografo della « Video » è appostato. Tre scatti di obbiettivo. Il prof. Costantini passa alla storia.
Jerome, «Tribuna Illustrata», 22 agosto 1948
L'ultimo cuore infranto registrato dalla cronaca è stato quello di un vitello. E con esso è scomparso anche il glorioso teatro di varietà vero e proprio. "Sunt lacrimae verum".
Due ballerine di un teatro di varietà di Broadway si sono recentemente battute a duello... per i begli occhi del proprietario del locale deve esse lavoravano: ambedue «pazze d'amore», sfidavano in tal modo i rigori della legge americana di recente inaspritasi per ogni sorta di duelli, perchè «al cuore non si comanda». La stessa frase venne usata, diversi anni fa, da un «figlio di papà» che si era eretto a paladino delle qualità di Maria Campi, a suo parere troppo maltrattate dal giudizio di un critico.
Ah, quel cuore !
Delle due ballerine americane una ne è sortita con uno sfregio permanente al petto, ciò che ha significato per lei l’addio alla carriera: il duello tra il difensore di Maria Campi e il critico, s’era invece risolto con una lieve ferita al braccio del critico. Veniamo ad altro rilievo: nel 1902 Roma tutta venne allarmata da una epidemia di suicidi, inguanto nell'annata se ne contarono 29; esperite le opportune indagini si constatò infine che ben 16 dei 29 erano stati originati dalle «arti sottili» di canzonettiste o ballerine del varietà.
Ma poi la «moda» passò e l'ultimo «cuore infranto» che le ribalte del teatro leggero hanno portato in cronaca, fu tale... da suscitare un largo successo di ilarità.
Quindici anni or sono, ad Ancona: indivisibile compagna di Guido Riccioli era Nanda Primavera, allora nel pieno fulgore della sua bellezza. Naturale che avesse tanti corteggiatori, naturale che Nanda lasciasse cadere le troppo focose proposte.
Comunque, 15 anni fa ad Ancona un corteggiatore si mostrava particolarmente assillante e non tardò a giungere all’ultimatum: «O dite sì o mi ammazzo». La bellissima Nanda sorrise; lo stesso dilemma se l’era già sentito proporrò cento volte e non era mai successo nulla. Due sere dopo, neil’imminenza dello spettacolo, presentano all’attrice un grazioso involtino; incuriosita Nanda slega il pacchetto... ed un attimo dopo è in deliquio. Non ha tutti i torti: ancor caldo vi è un cuore trafitto da un pugnaletto d’argènto. La Primavera minacciò uno choc nervoso, evitato solo quando si potè scoprire che quel cuore... era si un cuore, ma di vitello, simile per caratteristiche e grossezza a quello umano. Il corteggiatore, fin troppo burlone, aveva voluto prendersi una rivincita di dubbio gusto.
Inalterabile Mistmguett
Stabilito che l’ultimo cuore infranto del teatro di varietà è stato un cuore di vitello, dobbiamo soltanto constatare che in un certo senso è pure scomparso il varietà, assorbito un po’ dalla rivista, un altro po’ dall’avanspettacolo. Un bel corpo, giovane, bastava una volta per conquistare il pubblico. Non è più cosi, e Parigi insegna.
Mistinguett tiene tuttora banco in «Parigi si diverte», facendo da «matador » col suoi 74 anni.
Per Mistinguett si contano due «cuori infranti» divenuti poi celebri: Maurice Chèvalier e Jean Gabin, ambedue da lei lanciati. Forse... per riconoscenza essi volevano poi sposarla e avuta In risposta una risata, furono lì lì (l’han confessato loro) per togliersi la vita. Ma ci ripensarono a tempo. Specie Chèvalier ne fu cotto allorché, debuttante appena Mistinguett lo avvicinò e gli disse: «Tu riuscirai perchè hai una bocca troppo bella.. »
Fatti di ieri: oggi... non più giovani ma veterane, non più figli di papà disposti a dissanguarsi per le ballerine. Al contrarlo, ecco ballerine pronte a tentare qualcosa di simile in omaggio a « papà » Industriali o grossi commercianti.
S’è detto, sopra, delle due ballerine di Broadway: aggiungeremo allora la ballerina ungherese Zelda Poldi che a Bruxelles, qualche mese fa, sorbi del sublimato quando venne a sapere che un industriale belga che la taceva da tempo oggetto di cure precise. era già sposo e padre di due figli. Venne salvata a tempo. Un particolare; Zelda Poldl ha 19 anni, l’industriale ne conta 52.
Oppure i loro drammetti d’amore la gente del teatro leggero se li sbrigano tra loro: al conosciuto caso di Nella Colombo e del comico Maddalena, ecco l’altro avutosi a Milano un anno fa con una ballerina che si recise le vene perchè non corrisposta dal primo ballerino della sua stessa Compagnia.
Da fatali che erano le graziose artistine del Varietà stanno diventando sentimentali a tipo spinto. Finiranno con l'essere le madri delle ballerine a presentarsi ai parenti dei figli di papà perchè «il giovane non insista con le sue sottili arti a rovinare l’avvenire della sensibilissima figlia»!
V. Baggioli, «Tribuna Illustrata», 2 ottobre 1949
Di venustà (ma non troppo) in pagliaccetto; di efebi capelluti e trasteverini ; di piaghe e insufficienze che accentuano la decadenza della rivista italiana
In un precidente articolo ci fermammo alla voce «ballerine e ballerini», esaminando i maggiori riponenti in questo campo del Varietà, ma tralasciando di nominare i veri e propri corpi di ballo, girl e boys, che, in un certo senso, costituiscono il nucleo delle riviste. Ecco perciò
I corpi di ballo
I corpi di ballo italiani non hanno le sigle che in America determinano una curiosità e un interesse del pubblico; le girla provengono dalla scuola di danze di..., oppure «Le Goldwin Girle in...», nè in America c'é un Zigfield che si prenda la briga di addestrare le belle figliole che trova dovunque, in modo da presentare al pubblico non statue semimovibili ma ballerine vere e proprie.
In Italia i corpi di ballo vengono formati con un reclutamento di più o meno belle ragazze dai tavoli di tabarins, dalle delusioni provinciali, dalle disgrazie cittadine, dalle più disparate e accidentali coincidenze e si richiede da loro solo un corpo denudabile e una certa facilità a fare «uno e due». Quasi tutte soffrono di un bovarismo incipiente e di una svogliatezza veramente scandalosa. Altre, per mettersi in luce o per imitare astri di maggiore splendore, sono ridicole. La passerella è una grande livellatrice, lo rammentino.
In una compagnia solo a quattro o cinque delle ballerine si richiede un minimo di scuola di danza; sono le soubrettine di prima fila, coloro che si alzano sulle punte e che coprono la desolazione restante. Troppo spesso quelle in seconda fila, non sono neanche belle o semplicemente carine e allora lo spettacolo di quella brutta carne denudata diventa penoso. Nel campo maschile, dando a Lidya Johnson il primato di aver adoperato per prima i boys e a Wanda Osiris quello di averli diffusi e di averti portati in primo piano, dovremo di nuovo cantare il trionfo della vanità e di certo gusto volgarmente gagareggiante che fa di loro uno spettacolo a parte a cui si potrebbe dedicare tutto un articolo. Campionario di gioventù dagli orizzonti strapazzati, campionario di un compiacimento a certi gusti deteriori che non ci stancheremo di combattere, questi sono gli Adoni del nostro Varietà. Se fossero reclutati, come le ballerine, dalle scuole di danza, il discorso si indirizzerebbe allora sulla loro maggiore o minore bravura o sulla discutibilità delle loro scuole, ma generalmente essi provengono dai successi di sale da ballo rionali e periferiche, da successi mondani che il censore non permette di dire, e trionfano per il ridicolo che portano appeso ai loro ricciolini, alle loro brillantine, alle loro labbra dipinte. Indecorosi, essi fanno del tutto per confermare nel pubblico che il ballerino è sinonimo di pederastia.
E certi capocomici sembrano indulgere appunto in questo «terzo sesso» che tanti affiliati ha tra i figli d'Adamo. Beninteso, ognuno è libero di averi i propri gusti e le proprie tendenze, anche sessuali. Fino a quando non colpiscono il codice, ma tale sbandieramento é di un cosi sfacciato pessimo gusto che merita tutta la riprovazione. Sono quasi tutti di poca cultura, hanno nei tratti le stimmate della volgarità, non sanno portare un frack, nessuno di loro ha nei piedi quel minimo di bagaglio danztstico e la Fiera della Vanità continua a narrare deplorevoli storie.
A loro nulla si può rimproverare: responsabili sono i capocomici ed i coreografi che li scelgono, responsabili ancora maggiormente sono le deficenze italiane in questo campo, giacche l'assoluta mancanza di scuole di ballo qualificate rende la scelta presso che impossibile, poiché nessun diplomato da una scuola classica, quale potrebbe essere quella dell'Opera, accetta di fare il boys. Primo ballerino o niente. Sa fare le spaccate e un doppio salto mortale; ecco le sue garanzie artistiche che la facilità dei capocomici coltiva creando una vera e propria classe sindacale di presuntuosi vagheggini che hanno in cima alle loro aspirazioni il desiderio di interpretare «Ballo Excelsior» et simiIia.
Ci sembra che non sarebbe un'idea niente affatto anticommerciale e disdicevole che un Remigio Paone, per esempio, che tanto vanta le sue benemerenze verso il Teatro Italiano, aprisse una scuola di ballo moderno, affidandola naturalmente a qualche insegnante straniero, perchè Dio ci salvi dai nostri maestri di ballo! Potrebbe sfruttare i suoi allievi negli spettacoli che organizza ed oltre a guadagnare. imprimerebbe un migliore stile negli stessi spettacoli.
Coreografi
Pochissimi nomi degni di nota: Dino Solari, la Giuliano e Ghisa Gheert. L'ultima di quelli é la sola ad avere uno stile menzionabile, ma nessuno di loro è meritevole di disistima. Il fatto è che ci lasciano indifferenti. Essi sono su un livello di decoro, di abilità e di mestiere, ma nessuno crea lo «shocking», il clamoroso e tanto peggio, l'artistico.
Loro cura particolare è quella di rubacchiare dai molti film musicali americani. Ultimamente, nello spettacolo di Nino Taranto dato al Valle, il quadro cinese era integralmente copiato da un film ancora non proiettato a Roma nei cinema normali, ma alla Quirinetta: «Zigfield Follie»». Copiato nel soggetto, nelle scene, nel costumi, nelle coreografie.
In una rivista della Wanda Osiris, la scena della Bella Otero ricevuta nella corte di Russia, era anche essa integralmente copiata da un altro film americano di cui ci sfugge il nome, e cosi via, altre centinaia di casi. Quando poi le loro coreografie sono originali, allora mille sono gli appunti alle quali possono venir mossi. Perché, per esempio, far agire tutto il corpo di ballo contemporaneamente e con le stesse movenze? I film americani insegnano che le coreografie vanno divise in gruppi e che questi gruppi vengano poi e fondersi e a divenire omogenei appunto nella diversità delle movenze. Ma dividere il corpo di ballo in gruppi implica troppa fatica.
Perchè per esempio ripetono per la centesima volta quell'ormai usatissima tecnica delle battute dei piedi, quando esse non sono funzionali? Perchè, per esempio, quando devono affrontare balli caratteristici come una danza spagnola, come una danza cinese, o una orientale non studiano tutto quel materiale che le varie biblioteche italiane possono offrire, o, principalmente, non s’affidano alle mani di uno specialista che saprà fare una danza spagnola o una cinese e non certe scandalose marcette a suon di nacchere e certi deplorevoli passettini che vorrebbero sembrare cinesi?
Tutti sanno che Katherine Dunham è laureata in antropologia. Sa, cioè, quello che fa. Ecco perchè nei suoi spettacoli c'è atmosfera, suggestione, sensazione del vero. Ed ancora, perchè i nostri coreografi non obbligano i ballerini a saper danzare e i corpi di ballo a ballare e non ad andare su e giù per i palcoscenici ostentando un'indifferenza assoluta per il pubblico. Un’altra proposta per un Remigio Paone: affiancare alla scuola di ballo moderno un corso severo ed oculato di coreografia, allindandolo ancora ad insegnanti stranieri, giacchè in Italia non esiste uno specialista di danza e tanto meno chi possa insegnare coreografia.
Teatri di varietà di second'ordine
Offrono sensazioni deplorevoli, addirittura penose. Chi vuole imitare le grandi riviste, chi vuole fare lo spettacolo modesto accentuando la modedestia ed affermando di non avere le possibilità di fare di più, chi si disinteressa del tutto, cercando di attirare gente con i più volgari richiami e sollecitandola con un cumulo di banalità, di retoricità e via di seguito.
Beniamino Maggio, recentemente al «Quattro Fontane», presentò uno spettacolo che può essere preso a campione di questa categoria. Accanto a lui era Geo Dorlis, un comico francese di indubbie qualità, ma soffocato dalle mediocrità che lo circondavano, il testo era di Polacci, la cui incapacità risultava evidente, e non vi staremo a dire quello che era dato da vedere in detto spettacolo. Basterà ricordare il finale del primo tempo; la scena rappresentava un presunto cimitero marino da cui si stagliavano le prore di nostre navi affondate e la più disdicevole retorica trovava la sua esaltazione. Tutto questo è disonesto: la rivista non deve appellarsi ai sentimenti patriottici del pubblico per strappare applausi non meritati. Ed è ora di finirla con questi patriottismi da caffè-concerto: per vent'anni abbiamo sopportato le camicie nere e i loro miasmi patriottardi, per quasi cent’anni abbiamo battuto le mani ai bersaglieri, alle loro piume e ai loro pennacchi. Non è decoroso battere le mani a chi ricorda morti per la nostra libertà, non è decoroso battere le mani se qualche comico viene a piangere sulla sorte di Trieste o delle nostre Colonie: è addirittura spregevole che si battano le mani a qualche stupidello ciondolante che afferma «si stava meglio prima».
Ma ormai questo cattivo vezzo è entralo nei nostri palcoscenici minori e giacché gli italiani vanno in brode di giuggiole davanti ai bersaglieri, davanti a Trieste, davanti a tutto quello che permette uno sfogo al loro sentimentalismo provinciale, dovremo continuare a cibarci certe rievocazioni, certe nostalgie, certe apologie, certe allettanti richiami che non possono essere non definiti da donnicciole.
Salsa di pomodori, spaghetti, canzoni napoletane, il destino continua, chi ci libererà? Nessuno, crediamo, perché nessun autore di rivista, nessun attore sa sfuggire all'incanto di un applauso sicuro, nessuno di loro ha tanta misura e tanto buon gusto da poter volere libererarli da certe schiavitù commerciali che baste saper affermare per un paio di volte e poi diverranno usuali
Gli avanspettacoli
All’insegna del brutto, dell'indecoroso, del guittismo, della mediocrità assoluta, del l’incapacità dichiarata. Ed essi protestano, ed essi chiedono che lo Stato li aiuti, ed essi si dichiarano «lavoratori dello Spettacolo». Ma lo Stato non può e non deve rendersi complice e nè agevolare le loro malefatte; se l'avanspettacolo é destinato a morire, muoia, perchè la colpa è di coloro che fanno gli avanspettacoli e di nessun altro.
Nel mondo del Varietà ricorre spesso la frase che «se avessi i mezzi farei un spettacolo esplosivo, mai visto! Ho certe idee!...». Bugia. L'Arte e specialmente questa arte minore, non ha come base essenziale i mezzi finanziari. La fantasia, l'estro, l'intelligenza, il buon gusto, tutti questi elementi fanno il buon spettacolo. Beniamino Maggio, con tutto quel denaro che ha speso per fare la sua brutta rivista, avrebbe poruto spendere la meta e fare uno spettacolo cento volte migliore, se gli elementi sopraddetti fossero stati suoi.
Così con le decine di milioni che Totò, Macario, la Osiris, Taranto e Dapporto spendono per le loro spettacolari riviste i risultati dovrebbero essere superiori almeno per quanti zeri nella cifra impiegata. Ma nel mondo del Varietà si disprezza la cultura, si fanno le parodie a Luchino Visconti e ci si dedica solo alla vanità personale e alla futilità. Nessuno si prende la briga di non vedere i film americani e di studiare la letteratura, di leggere i libri e di vedere se prima di loro qualcuno ha fatto meglio di loro. Essi esigono per sè stessi l’autorità assoluta, la onniscenza dittatoriale e l'esclusività del gusto.
Lo Rivista, per tutte queste ragioni, decade e muore. Come già affermammo nel primo articolo sull'argomento, la Rivista decade per mancanza di materiale. Mentre aumentano i prezzi dei biglietti, diminuisce la qualità, anche se aumenta la sfarzosità. Ed il pubblico non vuole vedere oro colato ma un buon spettacolo. La Rivista italiana decade per mancanza di soubrettes dotate, di musicisti originali, di scrittori veramente tali, di coreografi di valore a di cure.
La Rivista italiana decade per la sciatteria che domina i suoi palcoscenici e per la faciloneria con cui si dice: «io so quello che vuole il pubblico !» Scendano in platea i molto rispettabili artisti del Varietà ed ascoltino i commenti della gente; un quadro viene spesso applaudito perchè le gambe di una ragazza sono veramente conturbanti, ma ciò non significa che quelle gambe sappiano muoversi; un quadro viene spesso applaudito perché il pubblico è ben disposto o per rispetto all’impiego di tanto sfarzo e di conseguenti tanti milioni.
Si aggiornino, i molto rispettabili artisti del Varietà, siano meno presuntuosi e meno mattatori, la strada che stanno percorrendo li conduce ad un baratro. Se seguiteranno a percorrerla non avremo difficoltà ad aiutare a dare l'ultima spinta per farli cadere. E che il Varietà muoia, se deve limitarsi al trionfo del cattivo gusto e della incapacità laureata.
Mino Roà, «La Voce Repubblicana», 28 febbraio 1950
«Momento Sera», 19 agosto 1961
«Due film una lira»: questo slogan pubblicitario inaugurava la nuova gestione della «Sala Umberto», quella dei fratelli Cenci. Si era nell’anno 1933, imperava il fascismo. E questa era un'altra tappa della vita di questo locale umbertino, già famoso alla fine dell'800 passato nel corso della sua storia da cafè chantant a cinema di terza categoria.
Dopo un’ennesima parentesi «teatrale», a ridosso della guerra, con Totò e Anna Magnani indiscussi mattatori, c’è stata una lunga stagione di sala cinematografica con proiezione di pellicole, fino allo scorso anno quando è chiusa per una crisi finanziaria. Adesso la «Sala Umberto» riapre i battenti. si riveste a festa, e apparire di nuovo come teatro, per ospitare un repertorio intenso e drammatico, cosi come si confà alla sua rinnovata struttura.
Dopo molti mesi di restauri si possono riammirare gli stucchi, le ringhiere di metallo che contornano la balconata, le maschere di legno dipinte. Tutt'intorno ai seicento posti, alle seicento comode poltroncine — in origine erano seicentottanta — le colonne di marmo rosato che fanno da contrappunto ai graffiti. In alto il soffitto, impreziosito da rombi colorati e dalle lampadine al tungsteno.
E’ stata ricreata cosi una atmosfera intima, un po’ decò proprio quella che piaceva al grande Pelrolini, che preferiva la «Sala Umberto» agli altri teatri della città. Un’atmosfera particolarmente adatta ad accogliere delle pièces concentrate, intense che, tuttavia, non escludono per questo una fruizione di massa.
Forse fra la folla anche qualche nostalgico dell’antica Sala Umberto, il 14 gennaio prossimo sarà in via della Mercede per l’inaugurazione. Perché oltre ad essere un avvenimento cultural mondano, sarà un’occasione per rivivere l’atmosfera della città di clnquant’anni fa. Lo spettacolo di partenza sarà una commedia di Luigi Antonelli. «L’uomo che incontrò se stesso», che ricorda, molto da lontano i temi pirandelliani, per risolverli in chiave del tutto leggera. Vi lavorano Domenico Modugno e suo figlio Marcello, Alida Valli, Lisa Gastoni e Raffaele Curi. Ma in seguito, anticipa Luigi Longobardi, direttore commerciale dell’iniziativa di rilancio del teatro, si potrà pensare ad un repertorio più impegnato.
Il cartellone del nuovo teatro prevede per ora una novità per la «piazza» romana: un collage di numeri e canzoni di Paolo Poli.
«L'Unità», 29 novembre 1980
Il regime fascista annoverò fra le sue massime pretese quella di incidere nel costume». E forse gli riuscì di incidere, ma solo superficialmente: mai di penetrarlo e condizionarlo realmente, quel pur misero e fragile costume italiano. I giovani, in genere, venivano sollecitati da ispirazioni assai lontane dalle fonti di cultura fascista e più vicine, piuttosto, a quelle che sorgevano dall'ombra delle sale di cinema e di varietà.
Com’era stato impossibile costringerli a preferire le divise di Starace alle giacche di Clark Cable, così non cera verso di far loro accettare parole d'ordine littorie, alle quali preferivano gli apoftegmi di Totò e i suoi neologismi, quelli che poi trasportavano nel loro eloquio quotidiano. A taluno può ancora sembrare poco serio che si rivestano di serietà eventi per loro natura del tutto fatui, ma la storia è tuttavia costellata di buffonerie, poi rivelatesi assai più sagge della tragicità che si sono trovate a contrastare. Non è impossibile capire il significato della predilezione dei giovani, negli ultimi anni del «ventennio» — quelli cupi della preparazione della guerra, e della guerra — per i travolgenti strambotti di Totò. Si può dunque affermare che Totò concorresse a mantenere alla larga il costume fascista? Certo in Germania Totò non c’era: sarebbe difficile immaginare i giovani tedeschi, in quegli anni mostruosi, dediti a ripetere, con esattezza di timbro, frasi corrispondenti a «mi scompiscio» e «alla faccia del bicarbonato di sodio»!
Totò, fra l'altro, proponeva dalla ribalta una complessa gestualità che comportava caparbia applicazione da parte del giovanotto che voleva impadronirsene. Dal proverbiale flettersi ad arco, quasi a sfiorare il piancito con il mento, allo spostamento dell’asse del collo in un macabro, meccanico dondolio, a quel gesto discorsivo, infine incomprensibilmente allusivo, che consisteva nel concludere una frase con un moto a semicerchio della mano socchiusa, come per svitare a metà una lampadina e che veniva compiuto unitamente ad una strizzata d’occhio. Era, quel gesto, una sorta di parodia dell'allusione ironica e la si accompagnava sconvenientemente anche a detti imponenti, attribuendo ad essi una demenziale malizia. «Italia proletaria e fascista, in piedi!*: dopo aver pronunciato questa frase si compiva quel gesto, che. tradotto in battuta, poteva essere inteso così: non sfugga l’occulto significato di queste parole.
Se non questi «scimmiottamenti», che cosa faceva il cinema di quel periodo, invece di filmare fedelmente lo sketch del convegno amoroso fra Totò famelico gagà e Anna Magnani scalcagnata peripatetica? L'aura indecorosa e fiera che ammantava le due striminzite figure; gli spennacchietti di lei e il suo misero disdegno; i capelli di lui, dritti impeciati sulla nuca come una cresta di ferro, e la sua avvilita vanagloria; il comodino da notte in funzione di mobile-bar, il gioco del dialogo. comico, intenso e disperato, che ogni sera edificava se stesso divenendo man mano una cattedrale dell’arte scenica: tutto questo, per chi ha avuto la fortuna di assistere a quell’evento, costituisce un ricordo che è premio costante, saldo perennemente in attivo di fronte a ogni possibile passivo dell’arte teatrale passata, presente e futura. Forse anche a fronte di certe imprese megaregistiche che asciugano i bilanci degli enti promotori mentre dilagano fuori del boccascena e fuori del teatro.
Il pubblico giovanile di quegli anni era consapevole che la comicità di Totò conteneva una inafferrabile carica di preconcetta opposizione verso tutto e tutti? Probabilmente no, così come era generalmente all’oscuro di modi più propri (e rischiosi) di «opporsi». Il ribellismo di Totò del resto rimase sconosciuto allo stesso Totò egli era tanto contrario alle regole che ignorava totalmente anche le proprie. Ed era un radicale anarchismo quello che, muovendo dalla frantumazione della tradizione scenica, trascinava in volo gli spiriti oppressi dal conformismo e dall’ignoranza verso imprecise libertà del tutto inutilizzabili.
Quanti giovani che avrebbero voluto essere uomini anziché caporali, che ritenevano di poter esorcizzare il credere, l’obbedire e il combattere con l’allegro patetico culto dcll’«a prescindere», sono poi morti di là dai monti, di là dai mari? Si riuscì a prescindere dal costume fascista, ma certo non fu, né poteva essere, impresa sufficiente.
Furio Scarpelli, «L'Unità», 29 gennaio 1983
C’è chi dice che è stato solo teatro leggero, leggerissimo. C’è chi non si stanca di definirlo volgare. C’è chi giura sulla sua grandezza e sulla sua importanza storica. C’è chi gli imputa di aver generato rappresentazioni inutili e incolte. Può essere. Ma oggi il teatro del varietà (quello che ha attraversato trionfalmente la prima metà del nostro secolo) va rivisto completamente e, possibilmente, riletto con il cosiddetto «maggior distacco critico». Lo impongono, tra l’altro, anche alcune coincidenze non del tutto casuali: uno Spettacolo del gruppo Attori & Tecnici dedicato proprio al varietà che sta facendo il giro delle piazze italiane; la clamorosa riscoperta di Petrolini; il lento ma continuo ritorno a Viviani; l’interesse quotidiano che, nel bene e nel male, la televisione di Stato dedica ai mondo della rivista (vale ricordare, solo per fare l’ultimo esempio, che Rodolfo Di Giammarco per la Terza Rete TV sta preparando una serie di servizi sulla tradizione del fine dicitore). Cerchiamo, allora, di analizzare più da vicino questo fenomeno così complesso.
FAVOREVOLI — Il varietà rappresenta l’unica espressione puramente d'avanguardia del nostro Novecento teatrale. Non solo per i rapporti che artisti come Petrolini, Viviani o Fregoli ebbero con i futuristi nei primi decenni del secolo, ma soprattutto per ragioni interne al lavoro che quegli attori — e altri ancora, più tardi — svolsero prima parallelamente, poi all’interno delta tradizione. Si tratta innanzitutto di ricerca d’avanguardia sul linguaggio («Stambul è un paesul/fatto di sei tukul/per trastul dei fanciul./Si trovano gli Abdul/ci si va su d’un mul/e si entra nel tukul!» recitava Petrolini nel senso di una radicale riforma del linguaggio scenico e della sua capacità mimetica e simbolica. Si cercava di rendere più popolari delle metafore «colte» e nello stesso tempo di ironizzare su abitudini falsamente popolari. Ma si tratta anche di avanguardia tecnica: di lavoro meticoloso sulle espressioni, sui gesti, sul bagaglio complessivo dell’attore. Le mosse o i costumi di Petrolini e Viviani, (ma poi anche e soprattutto di Totò o di Tognazzi attore di rivista), per esempio, hanno generalo non pochi doppioni nella comicità più recente; perfino la commedia all'italiana ha trascritto per il cinema molte vecchie — buone — abitudini del varietà. Eppoi, in fin dei conti, il teatro dell'assurdo (che resta ancora oggi la massima espressione complessiva di ricerca dei teatro novecentesco) ha raccolto non pochi spunti tematici ed espressivi di quel nostri spettacoli: la consuetudine del «non senso»; il gusto dell'esagerazione grottesca, la capacità critica o addirittura «seriosa» di un lavoro «comico»...
CONTRARI — A parte emozioni forse anche numerose, il varietà in molti casi si è sviluppato in basso: le macchiette trovavano sempre imitatori volgari. Inoltre, quando la sua migliore tradizione si è trasferita in luoghi più o meno tradizionali hanno preso a proliferare quelle che potremmo definire le «cantine» dell'avanspettacolo (o del cabaret), certamente meno interessanti ed efficaci delle omonime cantine dell'avanguardia teatrale degli anni Sessanta. Infine il lavoro sul linguaggio fatto da grandi attori nel primi decenni del secolo, in alcuni casi ha condotto a vere e proprie mistificazioni o, nel migliore dei casi, a ripetizioni inutili, noiose. Ha condotto, in un certo senso, il teatro di varietà terso il cabarettismo pseudo politico.
ASTENUTI — Il varietà e la rivista sono i padri putativi dell'intrattenimento televisivo; dei vari Formichieri, Studi 1 e Canzonissime o Fantastici. E ciò, in fondo, non è un bene né un male: solo un fatto, incontestabile per di più. Ma è una realtà che nel tempo è andata scadendo sempre più rapidamente per motivi propri, per assenze effettive di nuove idee televisive. O per mancanza di sviluppo di uno specifico linguaggio spettacolare per la tv. Ma su questa strada si andrebbe a finire troppo lontano: il varietà (per quanto si possa dire) è morto da tempo. Ma oggi qualcuno lo rimpiange. E allora cerchiamo di capire perché.
Nicola Fano, «L'Unità», 29 gennaio 1983
Sono stato uno dei primi attori di prosa a tentare la rivista, complice la guerra e il coprifuoco che rendevano praticamente impossibile fare teatro. Michele Galdieri mi chiamò per recitare accanto a Totò e Anna Magnani, due grandi stelle. Eppure mi rimproverarono in molti: non si capiva come un giovane promettente — che stava in compagnia con il grande Ruggeri — potesse passare alla rivista. Ma oggi posso dire che quell'esperienza è stata per me una palestra meravigliosa, che consiglierei a qualsiasi giovane attore. Lì ho potuto imparare cose difficilissime: la meccanica dei tempi comici; la disponibilità a fare di tutto in sketch brevissimi, di cinque sei minuti; il farsi accettare dal pubblico, divertendolo, superando la quarta parete che in prosa è determinante e che nel varietà, al contrario, va abbattuta guardando Io spettatore bene in faccia, offrendosi, pur mantenendo una linea di pulizia e di rigore. Perché per divertire il pubblico io non ho mai detto battute volgari, non sono mal apparso in mulande. Ma la tecnica più difficile in assoluto che ho imparato sul palcoscenico della rivista è quella del riso. Tutti sanno che è più difficile far divertire che far piangere, come è più difficile dare un senso a un silenzio che a una frase: le pause di Macario, per esempio, erano più importanti delle sue battute.
Un'altra cosa fondamentale che ho imparalo in rivista — che chissà perché ci si è ostinati a chiamare teatro leggero, mentre e pesantissima da fare — è la disponibilità; e con la disponibilità il gusto di una recitazione direi quasi epica. I primi a fare teatro epico in Italia — ne sono convinto — sono stati gli attori di rivista. Forse è proprio in relazione a questa mia esperienza che Strehler - il magnifico - mi ha chiamato per interpretare Tiger Brown nell'ultima edizione dell'Opera da tre soldi di Brecht. E forse è anche in relazione a quella epicita che oggi come oggi tornerei a fare teatro di rivisla, se fosse possibile. E del resto con Giancarlo Sepe, il regista del Così è se vi pare di Pirandello che attualmente sto recitando, ho dei progetti in questa direzione. Ai tempi in cui facevo rivista, la cosa che mi colpiva di più era il clima di solidarietà, di profondo rispetto che legava tutta la compagnia e che permetteva a moltissime persone di lavorare insieme. E poi era entusiasmante il rapporto con il pubblico che li, in quel teatro, veniva per sognare. Mi ricordo le «prime» di Wanda Osiris, con la quale ho fatto compagnia. A Milano la Wanda era più importante della Scala: le «damazze» milanesi si facevano delle toilettes strepitose per i suoi debutti. C'era anche un detto: Milano, la Madonnina, il panettone e la Wanda. Un giorno la rivista è morta. Aveva incominciato a morire un poco con l'avvento della commedia musicale di imitazione americana. Finchè è stato impossibile fare teatro di rivista: i costi erano proibitivi (oggi addirittura è difficile mettere insieme soltanto quattro attori); le grandi soubrettes come la Wanda, la Giusti, la Maresca si sono ritirate; la televisione produceva con minori costi. Sono mancati anche gli autori, ma soprattutto e venuta meno la caratteristica fondamentale delta rivista: la satira politica. Oggi su chi possiamo costruire la satira: su Fanfani? Ma sono trent'anni che la facciamo, non fa piu ridere nessuno, fa solo piangere.
Gianni Agus, «L'Unità», 29 gennaio 1983
Nei primi decenni del secolo l'artista del varietà che si esibiva nei «café chantant»,in quei locali pieni di fumo e di voci eccitate, in genere non aveva il sostegno di un testo letterario, più o meno culturalmente consacrato, da recitare; non poteva contare sul solidale appoggio di altri attori, come nelle compagnie di prosa, nè si sentiva sorretto da un regista e da un direttore artistico. Ma, ciò che era ancor più drammatico, egli non recitava davanti ad un pubblico rispettoso delle regole del gioco e delle convenzioni della vita teatrale: era solo indifeso. I frequentatori del varietà erano signori i goderecci attratti dalla prospettivo dì trascorrere due o tre ore di sfrenato divertimento. Era gente che gioiva alla vista dei turgidi e ondeggianti seni delle sciantose, dei loro fianchi opimi e delle belle gambe inguainate dalle piccanti calzamaglie rosa, in trepida attesa del magico e culminante momento della «mossa».
Il varietà era regolato da un preciso rituale e da una matematica successione di eventi. Mentre il pubblico cominciava, lentamente, ad affluire, tra il disinteresse generale veniva il turno dell’oscura divetta. Il «numero» successivo toccava al fine dicitore, che declamava poesie di Gozzano o di D’Annunzio, tra sberleffi e atroci appellativi del pubblico. Ecco poi il «duo» di canto e danza, generalmente coniugi o conviventi di non più verde età. Era quindi la volta di una divetta alle prime armi, la quale, però, avendo un protettore in sala — di solito un temuto guappo del quartiere — imponeva, da parte degli spettatori, un atteggiamento meno negativo. Ma la sala continuava a restare semivuota, perchè il pubblico di qualità arrivavo soltanto all’ultimo momento per ascoltare ed applaudire la diva o il divo di grande richiamo internazionale.
Nel secondo tempo si esibivano dei «numeri» meno squallidi, trattandosi generalmente di attori o attrici o cantanti che aspiravano ad affermarsi e «sapevano» di potercela fare avendo già passato la trafila del debutto senza gran danni. Raffaele Viviani, uno dei grandi protagonisti di quell’epoca, così narra il suo debutto nel varietà: «Il Teatro Petrella, culla di grandi artisti, era in quell’epoca («verso la fine del secolo scorso», ndr) in grande decadenza, attraversava il periodo più oscuro, era frequentato unicamente da scaricatori del porto, marinai di veliero, soldati di dogana, popolino del rione e prostitute minime... Al Petrella io trovai il mio genere, interpretando per la prima volta "Lo scugnizzo", scritto dal compianto Giovanni Capurro e musicato da Francesco Buongiovnnni».
La carica di verità che Viviani conferiva ai vari «tipi» che popolavano le sue «macchiette» lo differenziava da tutti gli altri comici per il fatto che essi, in genere, «studiavano» la realtà, mentre Viviani vi era dentro, ne comprendeva umanamente le speranze e i dolori.
Dal lontano debutto nel teatro di «Donna Peppa», Viviani si caratterizzò per quel suo dialetto che non ha nulla a che vedere né con il dialetto letterario e musicalmente decadente di Salvatore Di Giacomo, né col dialetto crudelmente documentario e quasi scientifico di Ferdinando Russo. Le sue composizioni come la poesia «'O mariunciello», «’O muorto 'e famma», «L’acquaiolo», ed altre composizioni che, «in nuce», costituiranno la popolazione fantastica vivianesca, presentano già i caratteri di un ambiente sociale e storico di cui Gorkij è il modello. A guardare retrospettivamente questo momento della produzione vivianesca colpisce la sua somiglianza con la produzione letteraria e teatrale che caratterizzò il genere del «cabaret» nella Germania di Weimar. Fino al 1917, Viviani percorse una via in parallela con Petrolini, e come il comico romano passò dai modi che potremmo chiamare pre-dadaisti, del non-sense ad un impegno che esprime la maturità di un artista che si rende conto del dramma esistenziale di una generazione sconfitta e delusa del dopoguerra, di cui esemplare è Gastone.
Viviani, fin dal 1903, con la macchietta «Fifirino» — divenuta popolarissima, cantata per oltre due decenni, in virtù del carattere dissacrante e fortemente critico del motivo dominante, ispirato alla borghesia cittadina imbevuta di snobismo o di astrattezza, tra l’eleganza (fasulla) dannunziana e il maschilismo comico dei giovani Dada — diceva: «lo mi chiamo Fifì Rino, / Sono un tipo molto fino /... / Son un de' membri grandi / Dell’aristocrazia / Ovunque vo’ ho amanti / Che dicono cosi: / Perché non mi tasteggi? consolami un pochin / Oh Rino di qua! / Oh Rino di là! / ...». Nelle altre composizioni di quel periodo, le canzoncine comiche si basano su un gioco di «mottozzi», di ritmi ammiccanti sul piano pulcinellesco dall'impasto assurdo, e, sul piano verbale,con la sfrontata naturalezza del Dada.
«Quando io facevo il varietà — racconta il grande attore — mi definirono futurista perché facevo una commedia da solo: da solo rappresentavo una folla senza truccarmi, con i soli atteggiamenti e le diverse inflessioni della voce...». Nel maggio del 1914 i giornali italiani pubblicavano questo notizia: «Urto di idee alla domenica futurista» oppure «Uno scontro fra l’arte futurista del futurista Cangiullo e quella di Raffaele Viviani», e poi: «Il futurismo si saprà orizzontare verso il caffè concerto» o, per concludere: «L’emozionante confronto Cangiullo-Viviani».
Il confronto difatti avvenne nella Galleria d’Arte Napoletana gestita da Sprovieri, durante l’esposizione di opere di Boccioni, Balla, Carrà, Severini, Russolo, nel corso di un incontro animato e chiassoso, alla presenza di Marinetti e di Cangiullo. Raffaele Viviani fu immediatamente riconosciuto dagli artisti e dalla folla degli invitati. Cangiullo ricorda cosi quell’episodio: «Eravamo giovanotti accentuati, dinamici e simultanei: Viviani con "Montevergine" ed io con "Piedigrotta"! Lo spettatore più autorevole di quel pomeriggio piedigrottesco fu Raffaele Viviani che, individuato di colpo dai futuristi e dal pubblico, fu invitato e costretto in alcune di quelle costruzioni e ricreazioni così tipiche e pregne di succo caratteristico, in cui si sdoppiano e si amalgamano l’attore e l'autore».
Nel 1914, poi, quando Viviani approdò all’Eden Teatro, egli, nonostante il trionfo riscosso come divo del Cafè Chantant, manifestò progetti più ambiziosi. Infatti, attraverso la confessione di un personaggio della sua commedia, «Eden Teatro», appunto, fa dire a Tatangelo — una figura che è l'autoritratto dell’autore — questa battuta: «Voglio creare un teatro mio, onde esplicare una forma d’arte più sana, più concreta, sebbene anche nel varietà mi preoccupi di fare dell'arte, e quando per renderla consona all'ambiente devo far serpeggiare nel mio "numero" la nota frivola, cerco di trattarla con garbo: perché pungendo non ferisca, solleticando non ecciti...».
Paolo Ricci, «L'Unità», 29 gennaio 1983
Da lunedì prossimo su Raitre «Stasera che sera» un’antologia del miglior intrattenimento televisivo. Da Billi e Riva a Chiari e Campanini una girandola di gag e scenette con un unico scopo: far ridere.
Varietà. Qualche intellettuale prolisso vi dirà che il varietà aveva origini classiche nei fescennini e le atellane. È vero, in un certo senso. Perchè, cosi come accadeva nei riti greci e romani, al varietà premeva saldare con il riso i rapporti tra attori e spettatori. Infatti, anche il varietà privilegiava sempre la comicità a scapito di tutto il resto. La trama, il «messaggio», la spettacolarità, l'eroismo, la poesia: ogni altro richiamo linguistico o tematico passava in secondo plano. Il varietà doveva divertire, sorprendere, affascinare, appassionare. Cosi come lo ricordiamo oggi, comunque, questo genere ù nato alla fine del secolo scorso nei teatri francesi, propagandosi subito in Italia e in Germania. Il nome, «varietà», deriva dal fatto che in ogni singola serata avevano vita varie forme di spettacolo: canzoni, balletti, sketch comici, proiezioni cinematografiche, giochi di prestigio, acrobazie. Il detto «tutto fa spettacolo» nasce da lì. Come sempre a teatro, in cima alla piramide c'era l'attore con la sua capacità di calamitare l'attenzione della platea. E di grandi attori per il varietà ne sono passati a migliaia. Qualche nome? Fregoli, Petrolini, Viviani, i fratelli De Rege, Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, Pietro De Vico, Macario, Nino Taranto, Tino Scotti, Beniamino Maggio, Aldo Fabrizi e tutti quelli che vi vengono alla mente,.. In origine, il varietà era prodotto tipico del teatro borghese, se non aristocratico, poi, via via, ha guardato più in basso, alle esigenze dei pubblico popolare (l'unico disposto a ridere di sè stesso) e s’è trasformato in «avanspettacolo»; la nuova borghesia del dopoguerra, invece, dal varietà è partita per inventare la "rivista". I testi del varietà erano per lo più geniali: si trattava di ironizzare di tutto quanto apparisse intoccabile alla platea. Nel suo repertorio ci sono le più straordinarie parodie che la storia teatrale ricordi: dai vezzi intellettuali (tipo Ubu roi di Jarry che allude a Macbeth di Shakespeare) a quelli popolareschi («Tanto gentile e tant'onesta pare / la donna mia mentr'altrui saluta / ch'al vederla cosi bene vestuta / quindici lire le si posson dare»: da La canzone delle cose morte di Ettore Petrolini ).
Il varietà televisivo. Non è Fantastico. Perchè Fantastico e simili fanno parte di un altro genere: il «Sabatoseratv», un miscuglio di richiami teatrali ricomposto a orecchio per il bene delle famiglie italiane dagli anni di piombo in poi. Il varietà televisivo era la semplice prosecuzione di quello teatrale, direttamente ripreso dalle sale con una telecamera singola, attori, ballerine, soubrette, autori sono gli stessi. A vederlo nel teleschermo, mancava la magia del contatto diretto platea-palcoscenico. ma per sopperire a questa carenza strutturale, i responsabili della Rai mettevano vero pubblico in sala, cosi da garantire - almeno - risate e applausi veri. Senza la vera risata e senza il vero applauso (o, se volete, senza la vera assenza dell'uno e dell'altra), il varietà non è mai esistito. Teatrale o tv che fosse. Ed ecco un'invalicabile differenza tra il varietà televisivo e il «sabatoseratv» che le risate e gli applausi li addomestica a comando.
Le coppie. Alla base del varietà c'era la coppia due attori comici che si sostengono e si stuzzicano a vicenda. La memorica storica ci rimanda immediatamente, ai progenitori. alla coppia per antonomasia: Giorgio e Guido De Rege, il comico e la spalla. I rapporti fra comico e spalla erano dettati dalla carica aggressiva del secondo nei confronti del primo: la spalla inchioda il comico. lo mette alle corde, lo confonde: e il comico risponde svicolando, inventando trucchi, giocando con le parole, facendo lo scemo. Facendo ridere, appunto. Il pubblico doveva sempre parteggiare per il comico e per ciò stesso, il ruolo della spalla è più ingrato e difficile. Di coppie celebri, il varietà televisivo ne ha conosciute a decine, e parecchie sono riproposte da Stasera che sera Billi e Riva, Chiari e Campanini, Tognazzi e Vianello, Manfredi e Bonagura. Eppure sono tutte coppie che si rifanno al modello De Rege (unica eccezione: Totò e Poppino De Filippo, ma qui il discorso ci porterebbe lontano). La coppia, in realtà, rispondeva anche a una necessità sonora i nomi in coppia si ricordano meglio, cosicché alla fine non solo gli attori, ma anche gli autori viaggiavano in due: Cioffi e Pisano, Merz e Marchesi, Terzoli e Vaime, è un problema di musicalità. Eppoi il gioco dì coppia garantiva libertà assoluta agli attori, permettendo loro di accordarsi sulle improvvisazioni e le varianti al copione ufficiale e originale. In questo gioco, Totò era addirittura laocoontico. Prima di mettersi davanti alla telecamera chiamava la sua spalla (Castellani o Pavese) in camerino: «Questo copione non va e noi lo cambiamo». I due si accordavano sulle nuove battute e si avviavano alla ripresa. Al momento della diretta, poi, Totò cambiava ancora una volta, senza avvertire la spalla, dicendo battute diverse tanto rispetto al copione quanto rispetto all'accordo siglato un attimo prima in camerino. Spesso, la sorpresa della spalla generava ulteriori effetti comici; quando poi la spalla non si metteva direttamente a ridere! Fateci caso: spesso nelle coppie c'é qualcuno che ride improvvisamente e, all'apparenza, insensatamente: vuol dire che il comico sta improvvisando sovvertendo tutti gli accordi.
La censura. Fino ad anni recentissimi, la censura ha dominato lo spettacolo italiano, che lo si voglia o no. Dopo la guerra. i copioni dovevano avere il visto di un apposita commissione, mentre durante il fascismo era necessario il visto delle autorità di polizia. Ma i comici non si sono mai fermati di fronte ad alcun ostacolo, sicché in tempi amari per la libertà, le compagnie presentavano ai questori copioni addomesticati, magari che raccontavano storie assolutamente diverse rispetto a quelle che poi sarebbero state recitate. Anche perché, come detto, i veri comici recitavano a braccio, improvvisando. Non potete immaginare lo spasso quando. durante i controlli in teatro, gli attori dovevano cercare di ricordare e rispettare le trame inviate ai censori... Quei copioni. oggi, sono l'unico filo di congiunzione con le invenzioni drammaturgiche del varietà ma, purtroppo, é un filo debole e fallace: la censura di allora ci nega totalmente la memoria dell'ironia. In tv, tutto era più facile e più difficile allo stesso tempo. Più facile perché le trasmissioni andavano in onda in diretta e quindi si aveva un certo margine di libertà (chi si sarebbe sognato di interrompere una trasmissione in diretta?) Più difficile perché chi superava i limiti veniva immediatamente cancellato dalla programmazione, senza prova d’appello. Due esempi ce li fornisce Stasera che sera, durante la terza puntala del varietà La piazzetta del 1956, condotto da Mario Riva, la ballerina Alba Amova comparve vestita d'una calzamaglia d'un rosa-carne così azzeccato da farla apparire nuda. La quarta puntata di quel varietà non fu mai realizzata né trasmessa. Il quiz Duecento al secondo di Garinei e Giovannini, condotto ancora da Mario Riva, prevedeva che i concorrenti che davano risposte sbagliate fossero costretti a fare delle penitenze. Cose da poco, intendiamoci, ma alla quindicesima puntata un dotto professore caduto in errore fu costretto ad abbaiare come un cane. Il professore s'arrabbiò e Garinei e Giovannini persero il lavoro. La cosa più bella è che la Rai stessa provvide a cancellare i corpi del reato: i nastri delle puntate contenenti le suddette sconcezze furono subito distrutti.
Gli archivi. Consultare la memoria del varietà non è facile. Dei testi degli anni Trenta e Quaranta s'è detto: la Siae, oggi tenuta a conservare qualunque originale, allora aveva archivi molto labili, quindi i copioni di quell'epoca oggi sono rintracciabili solo presso l'Archivio di Stato. Ma sono testi purgati, privi di mordente. La Rai, che poteva conservare anche i volti, i corpi, le musiche, non é stata da meno. Il patrimonio Rai fino a tutti gli anni Sessanta é andato quasi completamente perso. Le trasmissioni che ci propone Stasera die sera rappresentano i sopravvissuti di una politica conservativa dissennata. I nastri delle registrazioni, quando non venivano distrutti, erano semplicemente riutilizzati per ulteriori registrazioni. È cosi che all'inizio degli anni Settanta la Rai chiese a Eduardo De Filippo di rifare per la tv alcune sue commedie: le vecchie, preziosissime edizioni erano state perse. E' così, per esempio, che di uno dei capolavori della televisione italiana, La nonna del corsaro nero con Pietro De Vico, Anna Campori e Gulio Marchetti non resta traccia. Chi la vide, s'accontenti dei propri ricordi. Del resto, è destino del teatro vivere solo nella memoria. «L'attore scrive sulla sabbia», si dice, perciò é meglio fare tesoro delle «formine» che Raitre ci regala quest’estate.
Nicola Fano, «L'Unità», 16 luglio 1992
GENOVA.
Era uno dei salotti della città. Era una perla nella collana, ora sbriciolata, di una Genova che, attorno agli Anni 30, forse la fame non riusciva a levarsela del tutto, ma che era più serena e più felice, nonostante non mancassero certi soprusi di marca nera. Era il «Margherita» - che ora i picconi fanno pezzi - nelle cui poltroncine era bello tirar tardi, anche alle 2 di notte. Per esempio l'ora in cui Totò, Macario, Dapporto e le loro bellissime facevano l'ultima passerella. Ora la società è frettolosa, spesso in vivibile.
La vecchia «Bay» ha portato via gli ultimi sprazzi di una goliardia spensierata, che era anche una febee scelta di vita. Serata al «Margherita», compagnia Ricci-Adani, va in scena una commedia di Berstein. Silvio Giovaninetti, critico teatrale e commediografo, dedica quasi interamente il suo articolo ad un gatto che salta il palcoscenico, passando dall'uno all'altro dei palchetti di proscenio. La sera gli attori del «Margherita» si ritrovavano al «Giornale di Genova», e la serata finiva quasi sempre all'alba con le fagiolate di Alfredo, dove è ora la Banca Passadore. Marcello Giorda e Bruno Ziravello levavano le cravatte a tutti e si fingevano venditori, a volte capitava anche il conte Ludovico da Parma, nessuna nobilita e abbonamento al fiasco, capo della claque del «Carlo Felice». Scherzi anche brutali: la moglie di uno noto cronista teatrale fu avvisata per telefono che il marito era al cinema «Augustus» con l'amica. Un putiferio. E così avvenne per un giornalista: era al mare con una bella bruna, arrivò la moglie, appositamente convocata, lui rimase fino a sera inoltrata aggrappato ad una boa davanti alla spiaggia di Prà.
I cosiddetti «viveur» finivano la notte al «Tabarin», sotto la vecchia posta. Capitò una sera al «Giornale di Genova», dopo aver visto lo spettacolo al «Margherita», Arnaldo Mussolini. Al «Giornale di Genova» c'era un portiere, Pompilio, disturbato da un tic che gli faceva fare spallucce. Chiese Arnaldo: «Devo vedere il direttore». Risposta di Pompilio: «Lei, come si chiama?». «Mussolini». «E dove abita?». «Di solito a Milano». «E da Milano, viene proprio a prendermi per il sedere fin qui?». Petrolini capitò al «Giornale di Genova» una notte alle 2, irritato per una critica non benevola ad una sua recita al «Margherita». Aveva un abito scuro, borsalino a cupoletta in testa, una massiccia catena di argento che gli traversava il panciotto. Declamò in redazione: «Ho recitato davanti ai grandi di Russia, mi hanno applaudito negli Stati Uniti e a Londra. Ed ora mi trovo criticato da un giornalista di provincia». Voleva sfidare a duello l'autore dell'articolo, fu dissuaso a stento, finì tutto con un fritto misto di pesce da «Perelli», allora il ristorante più importante di Genova, 30 lire a coperto.
Guido Coppini, «La Stampa», 7 novembre 1993
Totò fu scritturato da don Peppe Jovinelli al posto di Gustavo De Marco, ritenuto ormai troppo esoso. Totò accettò di esibirsi la prima volta gratuitamente: solo se il pubblico avesse gradito lo spettacolo, avrebbe ottenuto il contratto. Come andò è immaginabile.
Si chiamava Anna Fougez. Nell'Esquilino dei primi del Novecento, frequentato dal bel mondo capitolino, era nota come la stella del teatro Ambra Jovinelli. Si esibiva fasciata da un abito bianco, avvolta da una nuvola di piume. Sogno proibito per gli spettatori seduti in platea. La sua immagine. rinchiusa per anni nel buio di uno scatolone, torna a vivere nella mostra «I primi cento anni del Teatro Jovinelli», a cura di Nicola Fano, in mezzo a quella di tanti altri che hanno fatto la storia della sala tornata da pochi mesi a ospitare spettacoli. L’esposizione s’inaugura domani alle 19.30 nel foyer del teatro di via Guglielmo Pepe. Raccoglie non solo istantanee sbiadite dal tempo, ma anche oggetti di scena, scritti, costumi. Alcuni dei pezzi in mostra sono stati fortunosamente recuperati nei posti più impensati del teatro. Vanno ad aggiungersi a quelli catalogati e ordinati negli anni. Per l’apertura, alle 21 il grande Nicola Arigliano proporrà un concerto-omaggio a Totò.
Dell’epoca d’oro, quella del varietà, in cui si mescolavano comici, ballerine, contorsionisti e saltimbanchi. in mostra le molteplici, clownesche facce di Raffaele Viviani. «Il mio successo da Jovinelli raggiunse grandi proporzioni - scriveva allora Viviani -. La mia paga da mille lire mensili salì a lire tremila». Ecco il severo profilo giovanile di Totò, i capelli impomatati. Arrivò allo Jovinelli - si legge - nell'interessante e gustosa prefazione di Nicola Fano al catalogo dell'esposizione, dal titolo «Ridendo e scherzando è passato un secolo» - in sostituzione di Gustavo De Marco, l'inventore dello stile marionettistico che ispirò il principe De Curtis. De Marco era divenuto troppo esoso per don Peppe. l'impresario che nel 1909 trasformò in un teatro l'iniziale baraccone delle meraviglie allestito a
via Pepe. Fu. ovviamente, un successo. Ecco Ettore Petrolini. la marsina nera e la bocca serrata in una smorfia, immagine dello sberleffo, e le famiglie d’arte, come i Maggio. I comici facevano molti figli, allora, per formare compagnie autosufficienti.
Ecco anche le soubrette gambe al vento. «Morto il varietà - spiega Fano - sia la rivista che l'avanspettacolo proponevano i consueti numeri, ma nella rivista i balletti ostentavano esotismo e ricchezze. mentre l’avanspettacolo si limitava ad affidare all'efficacia dei comici e alle cosce nude delle ballerine le proprie speranze di successo». Spesso l’avanspettacolo precedeva la proiezione di un film. Di quella fase sono in mostra le immagini di Alberto Sorrentino, che balla il tango con un rosa in bocca, del mago Leandris. nella vita impiegato, in scena comico prestigiatore, del comico Mario De Vico, che sorridendo scopre il dente d’oro. Lo esibiva come segno di ricchezza. Pia Velsi fu tra le prime donne incaricate di far ridere.
Poi i tempi cambiarono. La tv, il cinema, i locali e i ristoranti sottrassero spettatori al teatro, mentre piazza Vittorio stava svilendosi, non era più meta del passeggio dei romani. Le varie Cora Caravelle, Bella Balalayka, Emanuelle, spogliarelliste dai seni e dai sederi prorompenti, pronte a accontentare una platea vogliosa e volgare, presero il posto dei grandi del passato. Fra le quinte, anche le pese dei campioni di boxe. Finchè sul teatro di Don Peppe calò definitivamente il sipario.
Laura Martellini, «Corriere della Sera», 1 aprile 2001
Le locandine raccontano un pezzo di storia di comicità popolare.
Da Viviani allo spogliarello
Una storia centenaria: quella dell’Ambra Jovinelli.il popolare teatro romano che ha visto passare sulle tavole del suo palco-scenico buona parte della storia dell'avanspettacolo e del teatro comico italiano. Una storia rinnovata: riaperta da pochi mesi con l'inaugurazione del ricostruito edificio, dopo anni di degrado e di abbandono. Una storia ricordata: da una mostra dal titolo «I primi cento anni del Teatro Jovinelli» che s’inaugura stasera, alle 19.30 nel foyer del teatro. La mostra, curata da Nicola Fano, passa in rassegna, buona parte della storia di questo teatro, fondato da Peppe Jovinelli, un impresario di Caiazzo, vicino Caserta, arrivato a Roma ai primi del secolo scorso. Quello che in origine era una specie di scatolone di legno, diventò un elegan-
te teatro, pieno di stucchi, mascheroni e colonnine liberty di ghisa. Nella mostra ci saranno foto, oggetti di scena, costumi e memorie perdute della comicitàpopolare. Il pubblico potrà ripercorrere le meraviglie di Petrolini e Totò, di Viviani e dei fratelli Maggio; ma ci saranno anche le immagini dei comici e delle soubrette degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli più autenticamente legati allo spirito popolare del teatro: ma anche la memoria erotica e piccante delle spogliarelliste, ultime protagoniste del vecchio Ambra Jovinelli.
Come Dio volle, anche la «ferma» ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel eatro che, ancora ragazzo, nn aveva ffisanato. La mia famiglia, intanto, si Ta trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza. Il Salone Elena era, in realtà, una modesta baracca di legno dove si recitavano soprattutto «La cieca di Sorrento» e «La sepolta viva», «L’ombra del disonore» e «Il capo della camorra». Ma io sapevo che da pochi giorni era stata scritturata la «Compagnia comica diretta da Umberto Capece», che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. E fu Capece che mi consentì finalmente di passare «dall’altra parte». Non era più lo spettatore Antonio De Curtis, ma Totò attore comico. Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed io ero fradicio da capo a piedi. «Signor Capece», gli dissi, «mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno». «Andate un po’ a far del bene alla gente!», brontolò Capece. E mi indicò la porta.
Prendendo il coraggio a due mani, anche per non dover ascoltare mia madre che invariabilmente mi rimproverava di non essere diventato ufficiale di marina, decisi allora di presentarmi a don Jeppe Jovinelli che era uno degli impresari più esigenti e più temuti di quel tempo. Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi: una specie di gigante che, arrivato a Roma da un paese del napoletano, si era fermato in piazza Guglielmo Pepe ripulendola dalla giungla dei «bulli» e costruendovi cinquant’anni fa, un teatro cui diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori come Armando Gil, Alfredo Bambi, Pasquariello e Gustavo De Marco.
Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io conscevo a memoria: soprattutto «Il bel Ciccillo» e «Il Paraguay». Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più propizio perché don Peppe aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastabza cordiale, molto più di quanto potessi sperare. «Ah, siete napoletano?»), chiese Jovinelli. «A me piacciono i napoletani. E, ditemi, siete bravo?». «Mah, dicono». «Dicono, dicono e chissà poi se è vero. Comunque vi aspetto domani per le prove». Il giorno dell’esordio, mentre il pubblico batteva ancora le mani, don Peppe si presentò in palcoscenico contrariamente alle sue abitudini. «Giovanotto, siete stato veramente bravo», mi disse stampandomi sulla schiena una pesante manata. La settimana dopo, Jovinelli mi «riconfermava» (come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo metro. Sapete che effetto! Mi sembrava di sognare. Interpretando alla mia maniera le parodie vecchie e nuove, con una buffa disarticolata recitazione (più tardi mi presentarono, sui manifesti, come «l’uomo di gomma»), riuscii ad affermarmi in poco tempo. E, con l’avallo di Jovinelli, non ebbi difficoltà - allo scadere del contratto - a fermi scritturare prima all’Orfeo e quindi al Salone Margherita di Napoli, dove il successo prese proporzioni ancora maggiori.
Tuttavia restava ancora un baluardo da espugnare, il più difficile, quel Teatro Sala Umberto di Roma, che era appannaggio soltanto degli attori arrivatissimi. Gli impresari non badavano a spese pur di assicurarsi i nomi più in vista. «Dovrò fame di anticamera prima di arrivarci», pensavo passando e ripassando davanti a quel teatro. Ma, per merito di un barbiere, la conquista fu assai più rapida del previsto. Il barbiere si chiamava Pasqualino ed era una specie di istituzione dell’ambiente teatrale. Chiunque si presentasse a lui qualificandosi «artista», otteneva la massima considerazione, da uno sconto specialissimo sulle tariffe a un congruo numero di applausi a teatro. Perché Pasqualino non si contentava di servire i suoi clienti di barba e capelli, ma finiva addirittura con l’assumerne la protezione, spellandosi le mani per applaudirli e sfiatandosi per sostenerli in discussioni che si protraevano per ore ed ore.
Il «salone» di Pasqualino si trovava in via Frattina: a due passi, quindi, dal Teatro Sala Umberto che Cataldi e Cavaniglia gestivano in via della Mercede. Fu, appunto, in un afoso pomeriggio di luglio che il cantante Gennarino De pasquale mi portò da Pasqualino. «Artista?», chiese il barbiere, «Riconfermato da Jovinelli», rispose l’altro. Quel «ri-confermato», detto con tono di sussiego da Gennarino, valeva più di qualsiasi altro argomento. Se Jovinelli mi aveva rinnovato la scrittura, dovevo essere certamente un artista con la A maiuscola. L’autorevole presentazione di Gennarino ebbe su Pasqualino un effetto insperato: fu l’apriti Sesamo, che dico?, il talismano miracoloso per mezzo del quale il Teatro Sala Umberto non fu più un’aspirazione ma una realtà immediata. Pasqualino lavorò con abilissima diplomazia, strappando una mezza promessa a Cataldi e correndo subito dopo da Cavaniglia come se il contratto fosse già stato firmato. Così ero appena stato liquidato da Jovinelli quando mi trovai da un giorno all’altro a debuttare al Teatro Sala Umberto. Fu un successo strepitoso: praticamente, il lasciapassare per tutti ì grandi teatri».
Totò scrisse, questo articolo nei 1960 per la «Settimana Incom Illustrata»
«L'Unità», 2 aprile 2001
Senza il teatro non avremmo mai avuto il Totò più conosciuto Ha attraversato generi partendo dal varietà ed era davvero moderno.
Totò non sarebbe Totò senza il teatro, senza la flessibilità di interpretazione che il rapporto col pubblico sa dare. Il teatro di Totò è un teatro moderno, liberato dalla soggezione ottocentesca al testo, che invece deforma, piega alle proprie intenzioni, contamina. L'avanguardia degli anni Sessanta lo aveva riconosciuto. Leo De Berardinis gli ha sempre reso omaggio, fino a portare in scena Totò, principe di Danimarca. Totò era per lui il maestro - Charlie Parker partenopeo - delle sue improvvisazioni jazz.
Totò ha attraversato i generi teatrali, partendo dalle forme più elementari, l'avanspettacolo, il varietà, la rivista... Raffaele Viviani ha fissato il canone di questo percorso di formazione in due testi, la Bohème dei comici ed Eden teatro, la dimora ai tavoli della galleria in attesa di scrittura, poi la guerra teatr ale senza esclusione di claque dei protagonisti dei numeri che compongono una serata. Enumerare le riviste di Totò non ci restituisce forse il loro significato. Se fossi un Don Giovanni (1938); L'ultimo Tarzan (1938); Belle o brutte mi piacciono tutte (1942)... Questo si rivela, almeno parzialmente, quando si sappia che il celebre sketch dei manichini, quello in cui Totò si finge manichino per sfuggire a un marito geloso, è stato recitato la prima volta in Se fossi Don Giovanni; che l'esilarante sketch del dentista (Totò, per un errore dell'agenzia, si presenta come aspirante marito in casa di una donna che invece cerca cameriere, e che è sposata con un dentista gelosissimo) proviene da Belle o brutte... E soprattutto che C'era una volta il mondo (Michele Gallieri, 1946) è l'origine della celebre scena del wagon lits. L'avventura di Totò con l'onorevole Cosimo Trombetta (Renato Castellani) e la «signora in fuga» (Isa Barzizza) è infatti diventata simbolica di una perplessità verso i privilegi della politica che non è finita con gli anni Cinquanta («Chi siete voi?» «L'onorevole» «Ma chi?» «Io!» «Ma mi faccia il piacere!!!»)...
Totò attore di cinema è la prosecuzione dell'attore di teatro con altri mezzi; soprattutto l'attore di avanspettacolo, del teatro che piaceva a Marinetti (che amava Napoli mentre avrebbe ucciso il «chiaro di luna» veneziano) e ai futuristi. Totò, ovviamente, non era così radicale; al contrario, apprezzava le altre forme di teatro - come Petrolini, ima cui commedia è all'origine di 47 molto che parla - o come Scarpetta (la trilogia cinematografica di Mattoli: Miseria e nobiltà; Il medico dei pazzi; Il turco napoletano). Ma la sua anima - lo ha capito il Pasolini dell'episodio Dove sono le nuvole - è nella forma più semplice di teatro, il teatro delle marionette, dove l'assenza di psicologia, il movimento agile ma a scatti, la docilità meccanica dell'esecutore, risalgono fino a Kleist e Hoffmann, cioè alle origini del teatro moderno.
Renato Nicolini, «L'Unità», 11 aprile 2007
L'ultimo varietà
Il ciclo del Varietà si avvia alla sua fatale e inevitabile conclusione. Per quindici anni il vegliardo illustre ha combattuto contro la morte, ora è ridotto agli estremi. La Rivista, servendosi dei più validi e prestigiosi elementi del moribondo, è nel suo pieno fulgore. Per di più ima nuova forma di spettacolo comincia a prender voga: l’avanspettacolo. Le più grandi sale cinematografiche fanno precedere ai films, anche di prima visione, spettacoli di arte varia della durata di circa un’ora e mezza.
Agli inizi è lo stesso Varietà che alimenta questa moda, la quale richiama nei locali enormi masse di pubblico. Ma, in seguito, nascono spettacoli veri e propri, organicamente costruiti, con titoli nel manifesto, scene, costumi e copioni scritti. Finanche la prosa, specie quella dialettale, si riduce a fare l’avanspettacolo con copioni di opere note e popolari, divenuti sintetici per l’occasione, e così anche l’Operetta.
Che cosa mai può fare il vecchio Varietà?
Eppure ha il suo canto del cigno. Il più autorevole di questi ultimissimi divi è Nino Taranto. Proveniente dagli strati popolari più schietti e pittoreschi dei quartieri della periferia di Napoli, ha cominciato come Totò, ma in età ancora più giovane, ad esibirsi nei locali delle strade adiacenti alla Ferrovia. E’ un successo immediato e sicuro. Bel ragazzo bruno, occhi parlanti, espressione viva e intelligente, autodidatta prodigioso, sensibile ed emotivo, canta dei ritornelli vivaci e maliziosi con un gusto e una misura, degni dei maestri del genere.
Contrariamente al destino dei ragazzi-prodigio, mano a mano che avanza negli anni diventa sempre più bravo. Si completa e si perfeziona nel genere della macchietta tradizionale, ma con una carica viva di umanità e di spirito moderno e attuale.
Riduce la macchietta all’essenziale, senza fronzoli retorici e istrionici, senza sbavature di mestiere, senza volgarità e pornografia. E, come accade in simili casi quando un artista presenta una certa originalità di espressione, gli autori si accorgono di lui e cominciano a creare per lui.
Gigi Pisano, poeta e attore egli stesso, scrive per Nino veri bozzetti tipici e arguti, coloriti e pepati, che, musicati dal maestro Cioffì si rivelano tanti piccoli capolavori del genere. Cioffì non si limita a commentare i versi di Pisano, così come facevano gli autori della musica delle vecchie macchiette tradizionali. Compone, invece, sui testi poetici, gioielli di melodia grottesca e caricaturale, e, nello stesso tempo, tenera e cantabile.
Taranto, con la sua piccola voce gradevole e intonata, esegue e interpreta questi pezzi con un sentimento, uno spirito e una grazia da lasciare sbalorditi. Questo di Pisano, Ciofìì e Taranto è un trio prezioso, che ha lasciato nell’ultimo Varietà un’orma profonda e incancellabile.
Il giovane artista furoreggia su tutti i palcoscenici d’Italia, e, come era da prevedersi, entra a vele spiegate prima nel regno delle sceneggiate e poi in quello delle grandi riviste e della prosa.
Sulla via così tracciata da lui lo seguono con baldanza e sicurezza alcuni suoi giovani concittadini e colleghi, che si chiamano Franco Sportelli, i fratelli Maggio, Ugo D’Alessio, destinati anch’essi, dopo la morte del Varietà e delle sceneggiate, ai successi delle riviste e del teatro di prosa.
Accanto a Taranto, nel decennio che va dal ’30 al ’40, si fanno notare e si affermano come gli ultimi epigoni del Varietà, Mario Mari, Pasqualillo, Salvatore Papaccio, Vittorio Parisi, Ada Bruges, Zara I, Rubino, Carlo Buti. Lo stesso Pasquariello, già vecchio, ma ancora indomito combattente, dà, a tratti, a questo Varietà boccheggiante gli ultimi bagliori della sua indimenticabile personalità. E, quando la « Bottega dei 4 », ultima Casa Editrice dell’ultimo Varietà, nella quale si erano aflasciati in un sodalizio illustre, Libero Bovio, Gaetano Lama, Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente (un poeta e tre musicisti fra i superstiti usignuoli del Golfo) lancia « Signorinella », Pasquariello è lì pronto a ghermire il piccolo capolavoro e a fame l’ultimo vessillo di una manifestazione teatrale che si concludeva in bellezza.
Fra i giovani che presero parte a questa ultima battaglia fece spicco Milly, dicitrice e cantatrice d’eccezione, che veniva da una famiglia borghese di Alessandria di nome Monti. E’ una deliziosa donnina, che ha un suo stile e una sua classe e che porta sul palcoscenico, alquanto ibrido del tempo, la documentazione estetica di un costume signorile e di una civile educazione.
Insieme alla sorella Mity e al fratello Toto forma un trio brillante di canto e danza, che raggiunge presto una cifra di alto livello e si impone ad un pubblico difficile a capire e molto più difficile a soddisfare.
Ma ora siamo giunti proprio alla fine. Le ultime fiammate si sono estinte. Quasi come a sottolineare la definitiva scomparsa di un genere teatrale che aveva rispecchiato tutto un civile costume di società libera e liberale, si avvicina l’apocaUttico rogo di una guerra tragica e disumana.
Le manifestazioni spettacolistiche del genere, che seguiranno a diluvio placato, prenderanno il nome di music-hall, show, short, cabaret e simili, ma tutte affonderanno le loro radici nello spirito e nella tecnica dello scomparso Varietà.
Ma il Varietà non è una cosa morta, poiché se il vero e autentico teatro moderno è l’impasto di tutti gli elementi della prosa, della musica, della danza e del mimaggio, tutto, innegabilmente, scaturisce da quella sconvolgente rivoluzione estetica che fu attuata dal grande Varietà in quel magico tempo lontano.
Alle sue ineffabili immagini ognuno di noi ha il dovere di offrire un fiore.
Mario Mangini
«Chi è Totò?» si chiedeva nel ’28, salutandone l’abbandono del varietà, un cronista del «Il Piccolo» di Roma:
Quali sono i mezzi di cui questo singolare artista si serve per suscitare il riso? Semplici in apparenza, ma complicati nelle origini e portati a quel punto di grande naturalezza come è dato al pubblico di ammirare, solo attraverso uno studio paziente e tenace. Allorché egli si presenta in scena con quel suo passo elastico, con quelle movenze marionettistiche e grottesche, un’ondata di buonumore si diffonde per la platea e gli animi si apparecchiano alla più spensierata giocondità. [...] È innegabile che in Totò è insito il senso del grottesco e della parodia: nelle sue interpretazioni ci si può magari scorgere l’imitazione, ma ampliata, deformata, resa grottesca nell’espresso gioco scenico, in cui la smorfia, lo strizzare d’un occhio, il dimenare del capo esulano dal lazzo pagliaccesco per assumere una loro propria fisionomia artistica. [...] Egli non è più l’interprete ma il collaboratore prezioso degli autori: Totò non è pago di dire quel che gli fan dire, ma vuole e sa creare qualcosa anche lui. Sono silenzi sapienti, e il dimenare grottesco della persona, e un braccio alzato, un curvare di ginocchi... tutti gesti più eloquenti di venti battute di spirito ... Gli spettatori plaudono al comico simpatico ed originale che sa, con la sua arte, fugare, sia pure per breve tempo, pensieri tristi, umori oscuri, e con l’ausilio della sua arte nuovissima e potentemente comunicativa.
U.M.B., "Il Piccolo", 1 febbraio 1928
Riferimenti e bibliografie:
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
- "Il Cafè-Chantant", (Mario Mangini), Ed. Ludovico Greco, Napoli 1967
- "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista", Nicola Fano, Liberal Libri, Firenze 1999
- "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
- "Storia del varietà", di Vincenzo Rovi, «Tempo», 5 numeri da febbraio a marzo 1951
- Ettore Petrolini in "Modestia a parte...", Cappelli, Bologna, 1932 - "Memorie", Edizioni del Ruzante, Venezia, 1977
- Raffaele Viviani in "Dare vita alle scene", Cappelli, Bologna 1928 (Guida, Napoli, 1971)
- Anna Foguez in "Il mondo parla ed io passo", Princiana, Roma, 1931
- Lina Cavalieri in in "Le mie verità", Società Poligrafica Italiana, Roma, 1936
- Luciano Ramo in "Comoedia" n.7, 1931
- Vito Pandolfi in "Copioni da quattro soldi", Luciano Landi, Firenze, 1958
- Marco Ramperti, «Tempo», anno III, n.3, 15 giugno 1939
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- U.M.B., "Il Piccolo", 1 febbraio 1928
- «Cafè Chantant», maggio 1928
- Luciano Ramo, «Il Dramma», 1931
- Giannetto Lo Rotondo, «Il Mattino Illustrato», anno XIV, n.47, 29 novembre 1937
- Giannello la Rotonda, «Il Mattino Illustrato», anno XIV, n.48, 2 dicembre 1937
- V. Panizzi, «Tribuna Illustrata», 28 febbraio 1938
- Ruggero Gilardi, «Oggi», 10 febbraio 1949
- Cesare Zavattini, «Tempo», 18 maggio 1940 - 21 settembre 1940
- Roberto Ranieri, «La Voce di Mantova», 11 maggio 1942
- Gaetano Carancini, «Si gira», gennaio 1943
- Jerome, «Tribuna Illustrata», 22 agosto 1948
- V. Baggioli, «Tribuna Illustrata», 2 ottobre 1949
- Mino Roà, «La Voce Repubblicana», 28 febbraio 1950
- «Momento Sera», 19 agosto 1961
- «L'Unità», 29 novembre 1980
- Furio Scarpelli, «L'Unità», 29 gennaio 1983
- Nicola Fano, «L'Unità», 29 gennaio 1983
- Gianni Agus, «L'Unità», 29 gennaio 1983
- Paolo Ricci, «L'Unità», 29 gennaio 1983
- Nicola Fano, «L'Unità», 16 luglio 1992
- Guido Coppini, «La Stampa», 7 novembre 1993
- Laura Martellini, «Corriere della Sera», 1 aprile 2001
- «L'Unità», 2 aprile 2001
- Renato Nicolini, «L'Unità», 11 aprile 2007