Maggio Pupella (Giustina)
Nome d'arte di Giustina Maggio (Napoli, 24 aprile 1910 – Roma, 8 dicembre 1999), è stata un'attrice teatrale e attrice cinematografica italiana.
Non son colta, so’ ignorante,
ignorante con la penna,
ma in compenso ho il cervello:
chesto sì, ’o pozzo di’.
Occhi stanchi, malinconici,
dolci, teneri, piangenti,
espressivi, un po’ pungenti:
è ’o mestiere ca t”e ddà.
Vocca amara, ’nzuccarata,
fatta a risa, avvelenata:
chesto vo’ l’umanità
che io servo con umiltà;
cuore aperto, coraggioso,
sempre pronto a ogni battaglia,
forte comme a ’na tenaglia:
quanno strigne ’o po’ spezza’.
Mani piccole, aggrinzite,
ca nun sanno maie di’ no a chi cerca.
Ma, si sa, che ogni tanto
’na ’ntuppata, bene o male l’ia piglia’...
Non parliamo poi del corpo:
senza forme, senza carne,
sulo pelle, sulo ossa,
ma capelli in quantità.
Sono brutta, nun so’ bella,
chesta so’: ’na cartuscella,
’na palomma cu ’na scella.
E me chiammano: Pupella.
A due anni mi portarono in scena dentro uno scatolone legata proprio come una bambola perché non scivolassi fuori. E così il mio destino fu segnato. Da "Pupatella" attraverso la poupée francese, divenni per tutti "Pupella" nel teatro e nella vita.
(Pupella Maggio, Poca luce in tanto spazio)
Biografia
Nacque figlia d'arte, e come i suoi genitori intraprese la strada del teatro. Insieme a lei anche altri fratelli calcarono le scene; tra questi Enzo, il primogenito, Beniamino, Dante e Icadio e le sorelle Rosalia e Margherita.
Il padre è stato uno dei più grandi capocomici e fine dicitore della storia del teatro partenopeo: Domenico Maggio detto Mimì e la madre Antonietta Gravante, erede della famosa famiglia Gravante gestori del rinomato circo equestre "Carro di Tespi".
La madre ebbe le doglie proprio durante le prove di uno spettacolo al Teatro Orfeo in via Carriera Grande (siamo nei pressi della stazione di Napoli), e pertanto la piccola Giustina vide la luce nel camerino dello stesso.
Se c’è qualche lettore particolarmente versato in calcolo astronomico, ci dica, per piacere, quanti sono i componenti la famiglia Maggio che distribuiscono ogni sera un po’ di buon umore al pubblico italiano. Salvo errori od omissioni, noi, fin’ora, siamo riusciti a contarne cinque: Rosalia, Pupella, Beniamino, Dante ed Enzo. Tutti e cinque bravi, tutti e cinque dotati di quell’estro comico, fatto di spontaneità e al tempo stesso di caricatura, che è tipico dei buoni attori napoletani. Dante, Beniamino e Rosalia sono i primi in lista, l’una col leggiadro visetto che è una pila elettrica d’arguzia, l’altro con quella sua faccia a punto interrogativo che riesce a dar sapore lepido anche alla risposta più banale, il terzo coi lineamenti marcati e un tantino spavaldi del « guappo » e con la malizia d’uno « scugnizzo ». Riuniti insieme tutti e cinque potrebbero costituire l’architrave solidissimo di un intero spettacolo di rivista. Invece sono disseminati uno qua, uno là. È strano: si direbbe che in arte l’unione anziché la forza, faccia la debolezza.
Dino Falconi e Angelo Frattini
Teatro Scarpettiano
Il battesimo artistico lo ricevette all'età di circa due anni, quando con la compagnia teatrale del padre rivestì il ruolo della bambola di pezza nello spettacolo di Eduardo Scarpetta La Pupa Movibile. Fu questa partecipazione e il vezzeggiativo datole dal padre Mimì a far sì che piccola Giustina venisse chiamata affettuosamente Pupella. Lasciò la scuola ai primi anni delle elementari e sin da piccina prendeva parte agli spettacoli diretti dal padre, che in quegli anni riscontrava successo con la famosa sceneggiata napoletana. Seguiva la compagnia per tutte le tournée, ma non le mancarono esperienze lontano dalla famiglia come per la rivista La Rinie n°1.
Negli anni quaranta decise di abbandonare le scene, a seguito della morte della madre (1940) e del padre (1943).
Trasferitasi a Roma, intraprese il mestiere di modista, ma un'amicizia con alcuni ebrei che nascondeva in casa la costrinse ad andare altrove. Si diresse a Terni dove lavorò in un'acciaieria, per la quale curava le regie teatrali degli spettacoli del Dopolavoro. La notizia dell'amicizia scottante circolava, quindi dovette andare di nuovo altrove: Napoli, poi Stroncone, ancora Roma e infine Milano. Qui raggiunse sua sorella Rosalia e sempre qui lavorò in una compagnia di rivista al Teatro Nuovo, accanto a Remigio Paone, Carlo Croccolo, Dolores Palumbo e altri ancora.
Con Eduardo
La sua insofferenza migratoria la riportò a Napoli e da lì a qualche anno ebbe modo di conoscere il suo maestro Eduardo De Filippo.
Entrò nella Scarpettiana nel 1954, la compagnia diretta da Eduardo De Filippo, che metteva in scena i testi del padre Eduardo Scarpetta. Ma fu solo dopo la morte di Titina De Filippo che iniziò ad ottenere quel successo che meritava. Dovette, infatti sostituirla per il ruolo di Filumena Marturano, e ancora dopo la Concetta di Natale in casa Cupiello e altri testi ancora.
Nel 1959 la sua consacrazione quale primadonna l'ottenne grazie al ruolo di Rosa in Sabato, domenica e lunedì, personaggio scritto apposta per lei dal grande Eduardo e che le fece vincere tre grandi premi: la Maschera d'oro, il premio San Genesio e il premio Nettuno.
A seguito della prima di una lunga serie di incomprensioni, nel 1960 Pupella si allontanò da Eduardo per lasciarsi dirigere da Luchino Visconti nel testo de L'Arialda di Giovanni Testori.
Al cinema
Sempre nel 1960 inizia la sua vera e significativa esperienza cinematografica: tra i tanti registi ricordiamo Mario Amendola, Camillo Mastrocinque, Mauro Morassi in un primo luogo, per poi passare al grande Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Nanni Loy e lo statunitense John Huston nel film La Bibbia.
Ottenne il Nastro d'argento alla migliore attrice non protagonista nel 1969 per il ruolo de la prima paziente ne Il medico della mutua di Luigi Zampa, accanto ad Alberto Sordi.
Intanto svariate furono le volte in cui tornò sotto la direzione di Eduardo, ma non mancarono grandi registi come il napoletano Giuseppe Patroni Griffi in testi come Napoli notte e giorno, ispirato ai testi di Raffaele Viviani, in Persone naturali e strafottenti e nel testo scritto apposta per lei In memoria di una signora amica.
Il 1973 fu l'anno del famoso film Amarcord di Federico Fellini, vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero, al quale Pupella prese parte nel toccante ruolo della madre del protagonista, doppiata però da Ave Ninchi.
Nel 1976 divorziò da Luigi Dell'Isola, che aveva sposato nel 1962 e che rimase primo e unico marito.
Ancora in scena
Dal 1979 iniziarono gli anni in cui Pupella partecipò attivamente alle messinscena diretta da Tonino Calenda in diversi testi che le diedero modo di portare fuori un'interpretazione all'apice della sua maturità. Fu il momento di Brecht del quale Calenda curò la regia de La Madre, in una Pupella nei panni di Pelagia Vlassova, un personaggio che grazie all'interpretazione del tutto personale dell'attrice divenne madre napoletana e insieme universale.
Nel 1981 è accanto all'amico di sempre Pietro De Vico nello spettacolo Farsa, tratto dai testi di Antonio Petito (adattamento e riscrittura di Antonio Calenda ed Ettore Massarese) e nel 1983 si riunisce la parte superstite della famiglia Maggio: Pupella, Rosalia e Beniamino vanno in scena diretti sempre da Calenda col testo ...'Na sera ...'e Maggio. Fu l'ultima volta che i fratelli recitarono insieme, e grazie a questa pièce ottennero il Premio della critica italiana per la Stagione di Prosa 1982/1983 come miglior spettacolo dell'anno e per l'interpretazione particolarmente singolare. Un ictus cerebrale bloccò Beniamino nel camerino del Teatro Biondo di Palermo.
Fu la volta del testo di Shakespeare Amleto, da cui Calenda scrisse Questa sera... Amleto, con la collaborazione di Mario Prosperi. Successivamente sempre Calenda le pone uno dei testi più famosi del drammaturgo Samuel Beckett: Aspettando Godot.
Il 1º aprile del 1987 ebbe un incidente stradale che la costrinse a fermarsi per qualche tempo.
Todi: lontano da Napoli
Si trasferì a Todi, confrontandosi successivamente ancora col cinema. Fu la madre (da vecchia) del protagonista nel film da Oscar Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore del 1989.
Nel 1997 scrisse e pubblicò il suo primo e unico romanzo, l'autobiografico Poca luce in tanto spazio per "Carlo Grassetti Editore".
La morte
L'8 dicembre 1999 morì all'ospedale Sandro Pertini di Roma, per emorragia cerebrale lasciando un grande vuoto nel mondo dello spettacolo italiano. Qualche mese prima, durante un afoso mese d'agosto, aveva partecipato al film Fate come noi del giovane regista Francesco Apolloni, che rimane la sua ultima apparizione. Riposa al Cimitero di Prima Porta a Roma.
L'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi emise un comunicato che recitava così:
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha inviato alla famiglia Maggio un messaggio di profondo cordoglio per la scomparsa di Pupella Maggio. Figlia d'arte della straordinaria famiglia Maggio che ha dato così grande prestigio alla tradizione della commedia napoletana, recitò da protagonista nella compagnia scarpettiana. L'incontro artistico con Eduardo De Filippo segnò il clamoroso successo personale come sensibilissima interprete di gran parte dei lavori del maestro. Non è stata solo la più grande attrice napoletana del '900, ma una protagonista della storia teatrale italiana che resta legata anche al suo nome. Con questi sentimenti giunga a tutti i familiari, l'espressione del commosso rimpianto degli italiani che tanto l'hanno ammirata e ne conservano il ricordo.
(Carlo Azeglio Ciampi, 9 dicembre 1999)
La stampa dell'epoca
Pupella Maggio, anima di Napoli
Sapeva far convivere miseria e nobiltà. La grande attrice partenopea è morta ieri a Roma: aveva 89 anni ed era nata in palcoscenico - Passava dal teatro popolare a Gorki, Beckett e Campanile Trionfò con Eduardo in «Sabato, domenica e lunedì»
Masolino d'Amico, «La Stampa», 9 dicembre 1999
Silvia Francia, «La Stampa», 9 dicembre 1999
La mancata modista
«Vuoi scrivere di me, della mia vita? Questa specie di poesia la misi insieme, pensieri e non versi, quando ero ancora nel pieno della mia attività, dint' 'o meglio, come diciamo a Napoli. Se non hai afferrato qualche parola mentre te la dicevo, posso ripetertela».
Il racconto di Pupella, in versi disinvoltamente liberi, ha la misura giusta per il finale di una serata d’onore: «Sono brutta, nun so’ bella, chesta so’: ’na cartuscella, ’na palomma cu ’na scella. E me chiammano: Pupella»: sentite come incalza e vibra la rima che soltanto qui, nel “sagliente” del finale, è diventata obbligatissima? Provate a immaginarla, Pupella, su un palcoscenico nudo, con alle spalle il fondale di velluto blu, presa nel cono di luce di un “piazzato”, il faro che illumina dall’alto, e dei “tagli” che non vengono, come ancora si usa, dai fari sistemati tra le quinte ma ancora dall’alto. Il risultato è che i tre fasci di luce disegnano la sagoma dell’attrice, compresa quella del volto minuto; la sistemazione delle luci è pensata per evitare al massimo la personalizzazione dell’interprete, per quella è più che sufficiente la chiusa della poesia. Perché il finale, se accompagnato anche da un effetto, un qualsiasi effetto, immancabilmente diventerebbe pesante: “’na festa”, come dicono ancora gli scenotecnici napoletani.
Ma una poesia, per quanto intensa, non è sufficiente per raccontare Pupella. Pensiamo ai versi autobiografici, invece, come apertura di un racconto di scena, una specie di “cunto” a flashback che parte da molto lontano.
Antonietta fa da sola i pochi metri che separano il teatro Orfeo da “casa Maggio” per andare a sgravare Giustina nell’abitazione di via Carriera Grande, due stanze in tutto, cucina e bagno compresi, ma con una qualità eccezionale: è “azzeccata” al teatro, quasi incollata alla sala dove Mimi, la moglie e i “peccerille” Enzo, Beniamino e Dante trascorrono la gran parte della giornata. Il calendario segna 10 maggio del 1910.
Fino a due ore prima Antonietta ha regolarmente fatto la sua parte di attrice, anche se il marito, la mattina, le ha detto che poteva restarsene a casa, in attesa dei “dolori più forti”, quelli che annunziano l’imminenza del parto. Antonietta li conosceva bene quei dolori, le cui avvisaglie aveva provato durante la notte, senza fremere più di tanto, ché poteva considerarsi superalienata e da un po’ non ricorreva nemmeno più ai controlli della “mammana” che le aveva preso i primi tre figli e curata dopo tre aborti.
Anche per i “piccerille” era successa la stessa cosa. Aveva continuato a lavorare sino a quando non si era resa conto che doveva proprio andare a casa, sennò li avrebbe partoriti direttamente in palcoscenico, al cospetto del pubblico, figurarsi che “scuorno”, che vergogna...
Per nascondere la gravidanza, man mano che la pancia si allarga, indossa quelle specie di ampie tuniche che, acconciate da mani esperte e arricchite da collane, scialli e qualche pezza colorata appuntata al punto giusto, si trasformano in vestito da povera madonna. O da ricca signora, a seconda del personaggio.
La prima figlia femmina “vivente” dei Maggio non aspetta molto per meritarsi i primi applausi. A un anno dai primi vagiti, infatti, don Mimi mette in scena La pupa movibile, una farsa che Scarpetta aveva ricavato da un canovaccio francese, tanto per cambiare.
Nella farsa l’effetto centrale è costituito dalla “pupa” sistemata in una cesta; anziché ricorrere a una bambola di pezza (la napoletana “pupata”), don Mimi pensa di utilizzare per la scena-madre una bimba in carne e ossa: Giustina.
Dalla sera del debutto Giustina cambia nome e diventa “Pupella”, diminutivo di “pupa” che già suonava troppo grande per un corpicino da “cartuscella”. Come i fratelli Enzo. Beniamino e Dante, Pupella entra nell’albo dei figli d’arte, quelli che Sergio Tofano definisce in un identikit perfetto. «Figlio d’arte vero è quello che la madre, appena riprende il suo lavoro in teatro, cioè dopo una settimana al più, se lo porta in camerino, per dargli alle ore stabilite la sua porzione di latte, in una pausa della prova o in un intervallo tra atto e atto. Poi, crescendo, appena si regge in piedi, comincia a sgambettare per i corridoi dei camerini o a ficcare il naso tra le quinte durante la recita: così la nozione della finzione scenica diventa a poco a poco per lui una specie di assuefazione, quasi una seconda natura. E quando, alla prima occasione, lo porteranno sulla scena per la sua prima apparizione, egli comparirà davanti al pubblico senza meraviglia e senza paura, come se si trovasse a casa sua, rifacendo con la più semplice disinvoltura, per mimetismo ereditato, quanto gli hanno detto di fare. E quando avrà imparato a parlare», scrive ancora Tofano, «se avrà qualche battuta da dire, ha già talmente familiari nell'orecchio le intonazioni ascoltate sera per sera che non c’è da sorprendersi se le ripeterà spontaneamente, con quel tanto di falsa verità che hanno i bambini quando ripetono a pappagallo le battute che sono state loro imbeccate».
A otto anni Pupclla è già “divetta”: canta nel bozzetto drammatico sceneggiato Vita ’e notte, accompagnandosi, commovente straccioncella nei panni di uno scugnizzo, con il mandolino.
«Non era ancora la classica sceneggiata, ma poco ci mancava. Il lavoro era di quelli che per non piangere devi essere un bisonte». Conteneva tutti gli ingredienti giusti: la miseria, il freddo, l’infanzia abbandonata; la scena principale arrivava al finale quando la piazza della stazione di Napoli era attraversata da tutti i personaggi del lavoro: ricchi e poveri, nobili e diseredati, ignoranti e intellettuali. Io ero il figlio del peccato di una contessa. La nobildonna attraversa anch’essa la piazza e si imbatte in uno scugnizzo che suona il mandolino per intenerire i passanti e raccoglierne l’elemosina. La contessa si sofferma a dare un soldo allo scugnizzo ma, mentre sta passandogli la moneta, riconosce la medaglietta che il guaglione tiene appesa a un filo di spago.
Quella medaglietta lei l’aveva messa al collo del figlio del peccato prima di abbandonarlo al suo destino... Il bambino batte i denti per il gran freddo, la contessa si toglie la pelliccia e vi avvolge il ragazzino. Quella contessa di scena era Titina De Filippo. Ma non è soltanto per la presenza di Titina che ricordo quella sceneggiata. Il lavoro aveva una morale che ritengo importante: ’A vita è ’na guerra e s’adda purta’ ’a bandiera. Sulla scena e fuori».
In Vita ’e notte Pupella è già - come l’hanno mirabilmente definita - «un passerotto con scritto in fronte tutto il dolore del mondo», un corpicino e una “faccella” segnati. Come indelebilmente segnate sono le facce dei suoi fratelli, perfino quella così “fuori ordinanza” di Rosalia, il “girasole gaudioso” di famiglia: la faccia di Enzo che era il segno della sofferenza; o quella di Beniamino, del finto sciocco da Atellane; o quella di Dante, da spiritato. Ma, «impasto comune di quelle facce», era sempre la fame e Pupella, al trionfo di Montecelio di Guidonia, dove si era presentata in tulle e pantofole dorate, come al solito non si era affidata al trucco per cercare di nascondere il marchio di famiglia scolpito tra le rughe.
In un momento dello spettacolo, quando si trasforma in uno sciuscià triste che assiste senza fiatare ai pirotecnici duetti di Beniamino e Rosalia, la sua «fissità non è stupore», mascherata ironia o chissà che. È indifferenza da fame di una donna che «non è mai stata bambina e non ha mai passato una festa carina, sempre in giro a lavorare. Natale e San Silvestro, le feste classiche, le feste di tutti? Io le odio perché le considero una cosa da bambini o da vecchietti paralitici, dimenticati davanti al presepe.
I più brutti Capodanni li ho passati da piccola e li associo ancora alla fame e al fatto che cambiavamo sempre piazza. Con noi, allora, c’era un grande attore, figlio di Antonio Petito, che quando ci fermavamo per due giorni due in un teatro tirava fuori un centrino e lo metteva sulla mensola del camerino. Noi bambini lo guardavamo e ci dicevamo: stavolta ci fermiamo a lungo!... Dopo le recite non si andava in albergo, ci si attruppava in piccole camere in famiglia e per cena ci toccava pane e mortadella. Una fine d’anno, in una di queste camere affittate, avevamo talmente fame che uscimmo durante la notte a cercare di nascosto, nella cucina della padrona di casa, un poco di pane secco. Non mi ricordo se lo trovammo».
A quattordici anni, altro che “divetta”! La Maggio-Coruzzolo-Ciaramella è sbarcata da poco in Sicilia. Dopo una settimana di recite a Messina è a Catania, in cartellone al Ganci, come ogni anno, attesa da un programma che prevede il fior da fiore del repertorio, con particolare riguardo per le sceneggiate più drammatiche. Maggio si è attrezzato a dovere prima di partire. Tra una recita e l’altra all’Orfeo ha potuto provare anche un paio di novità che vuol lanciare proprio in Sicilia, dove la sua compagnia ha la strada spianata da una diffusa popolarità. Con papà, mammà e gli “zii” e le “zie” Coruzzolo e Ciaramella recitano, oltre a Pupella, i più collaudati Enzo e Beniamino, per fermarci alla grande famiglia, perché la formazione è di una ventina di attori, un organico soltanto leggermente inferiore a quello classico della Cafiero-Fumo. Ma con tutti i ruoli ben coperti anche grazie a qualche “raddoppio”.
Contemporaneamente alla Maggio-Coruzzolo-Ciaramella, che porta in giro l’operetta dei poveri, nel Teatro Pacini della città etnea agisce una compagnia molto nota soprattutto nel Sud, la Gondrano-Trucchi, che al Verdi, per un mese, ha in cartellone i titoli più belli dell’operetta dei ricchi.
Pura coincidenza, ma la competizione a distanza è inevitabile, alimentata dalla rivalità tra i gestori dei due teatri impegnati in una vecchia sfida “al migliore incasso” della stagione. Capocomici e attori delle due compagnie intrattengono buone relazioni; si conoscono da tempo perché si incontrano, da anni, praticamente nelle stesse piazze del Sud, nelle stesse trattorie e si scambiano gli indirizzi delle “camere in famiglia”. E ci scappa anche qualche veloce flirt tra i giovani dell’una e dell’altra “ditta”.
A Catania l’appuntamento fisso è nella trattoria di un accanito filodrammatico, nel centro storico, dove agli artisti è riservato un prezzo molto speciale, quasi simbolico.
È in trattoria che Gondrano una sera racconta a Maggio di essere in gravi difficoltà per il debutto, fissato per l’indomani, de Il paese dei campanelli, annunziato da una massiccia réclame e sostenuto da un’ottima prevendita: la primadonna, la popolare Cettina Bianchi, è a letto con la bronchite. Non c’è cataplasma che tenga e il medico è stato categorico: la signora deve rimanere a letto perché la polmonite è a un passo. Gondrano non ha possibilità di rimpiazzare Cettina e il gestore del teatro non vuole assolutamente saperne di rinviare il debutto dell’operetta. Don Mimi ha il cuore d’oro, il grave problema del collega è già diventato suo.
«Vuoi provare con Pupella? Conosce a memoria qualche pezzo dell’operetta perché lo canta nel fuori-programma insieme ai fratelli, anche se soltanto in forma di parodia...».
È l’unico salvagente che il generoso capocomico può offrire. Gondra.no lo accetta e si trova davanti una ragazzina: senza discutere qualità artistiche, che nemmeno conosce, vorrebbe dire che quella ragazzina non ha assolutamente il fisico per il ruolo della Bianchi («Non tenevo sedere e in petto al posto del seno tenevo ddoje nucelline»). Ma non ha alternativa.
Pupella, prestata all’operetta, se la cava egregiamente: una mattinata a provare con l’orchestra, il pomeriggio con la compagnia, in quinta si piazza un’attrice a suggerirle la parte. L’avventura temeraria va, il pubblico accetta la sostituzione con molta benevolenza e incoraggia la sostituta della diva malata: finge addirittura di non accorgersi che Gondrano. per abbracciarla nel finale, deve inginocchiarsi.
L’avventura dura quattro o cinque giorni e si conclude con i ringraziamenti in pubblico che la Bianchi, ristabilita, rivolge alla giovanissima collega che l’ha degnamente sostituita e con una gran tavolata notturna intorno alla quale si riuniscono festosamente gli attori delle compagnie che hanno realizzato, attraverso Pupella, un’operazione di mutuo soccorso in grande stile.
Di quella lontanissima esperienza Pupella conserva un ricordo ricco anche di dettagli, ma ha regolarmente finito per licenziare la storia come un fatto normale, accadutole quasi al tempo del “cippo di Forcella”, come anticamente il popolo napoletano definiva l’età lontana. Uno scampolo di vita dell’età in cui era ancora l’unica figlia femmina dei Maggio e non teneva molto alle gonne, preferiva portare i pantaloni, le davano più disinvoltura, la facevano sentire più libera.
Via Nemorense
La Pupella che incontrammo nell’aprile del 1990, quando si avvicinava il suo ottantesimo compleanno che cade il
10 di maggio, data in cui all’anagrafe di Napoli è registrata la sua nascita, si definiva, almeno telefonicamente, una “vecchia pensionata” appartenente proprio all’età del “cippo di Forcella”.
Si diceva stupita - recitava, di sicuro - dell’attenzione che le rivolgevamo con affetto sincero: «Addirittura vuoi venirmi a trovare? Vuoi venire fino a Roma?...».
Eccola, finalmente, l’ultima “zia Memè”. È una specie di castigo: perde la chiave, il sapone, i cerini e suo fratello “Peppino” deve regolarmente provvedere: «Che bella croce che è zia Memè...».
In didascalia Eduardo la costruì «donna che ha passato la sessantina, ma gli anni se li porta con disinvoltura e strafottenza. Uno spirito giovanile accompagna la sua esistenza e le conferisce l’aria di chi segue e pratica l’evoluzione dei tempi moderni». Si accultura attraverso la lettura dei libri che le arrivano in abbonamento. È dichiaratamente femminista («Il cellophan non è stato inventato per avvolgere le mogli e metterle sedute sui divani e sulle poltrone. Per fortuna l’epoca delle sovrastrutture convenzionali è finita»).
Dalle vesti di “zia Memè”, caratterista comica di Sabato, domenica e lunedì, però, Pupella è uscita, in punta di piedi, appena ha abbandonato per fine lavoro il set del film diretto da Lina Wertmuller che ha riportato sugli schermi, per la sua quarta esperienza in personaggi eduardiani, Sophia Loren, nel ruolo stavolta di Rosa, il personaggio che De Filippo scrisse, su misura, per la sua attrice più cara. Pupella, appunto.
Con tanto di dedica autografa che Pupella ci fa vedere, quasi saltellando tra i mille cimeli che ingombrano il saloncino della sua casa in affitto a via Nemorense 100. Qui si trasferì nel 1989 «dopo aver venduto l’attico con terrazza sulla via Appia, una casa troppo grande per una donna sola, che per tenerla sempre linda, come piace a me, mi creava tanti problemi con quel via vai di collaboratrici domestiche polacche e africane...».
«Mò sono Pupella, zia Memè non mi appartiene più, è andata in archivio, come tutti gli altri personaggi che ho interpretato. E così l’intero film. Mi tengo dentro il ricordo dolcissimo di Sophia, quello sì, perché lavorare con Sophia è stata una grande esperienza umana più che artistica, ho potuto scoprire che è veramente ’na granda femmena; sono sicura che mi telefonerà per il mio ottantesimo compleanno».
Zia Memè? E dalli, non vuole parlarne, dice che non le compete parlare del film nel quale ha ritrovato Lucariello, l’ex bambino, il figlio del Direttore... Lucariello non dimentica mai che quando era appena un bambino Pupella lo portò per mano in scena, «Bravo e buono, Lucariello. La sera in cui Eduardo gli passò le consegne, mi sentii veramente anziana. Fu un istante, non di più. Sapessi, dopo quell’istante di smarrimento, quanti sfizi mi sono presa!... Ho detto no a tante proposte e continuo a dire di no. Una che ha affrontato la fame per far sempre cose buone, può permettersi questi sfizi. E poi il teatro non l’ho mai amato, è stato sempre una necessità, vuoi che mi scoppi l’amore a ottant’anni?».
Fa roteare gli occhietti e li fissa sul televisore: «Vedi quel mostro lì? Sì, il mostro. Sta uccidendo il teatro. Senti come batte la pioggia? Ogni volta che sento il rumore della pioggia sui vetri mi viene di fare una considerazione: tanti anni fa, quando il tempo nel pomeriggio si metteva a nuvolo e annunziava acqua a catinelle, i teatranti si fregavano le mani dalla contentezza. Papà diceva che la pioggia era una benedizione per gli artisti perché, sicuramente, a sera la gente sarebbe accorsa in teatro. Da quando il mostro ha figliato un altro mostro, il videoregistratore, appena il tempo si mette a pioggia, tantissima gente attrezza la videocassetta con il film già registrato per passare la serata in casa».
Nino Masiello
L'Arialda proibita
L’avventura cominciata a Roma, dove L'Arialda realizza quarantuno repliche, sempre più al centro di fortissime polemiche e ormai “un caso nazionale” per la determinazione degli opposti schieramenti, dovrebbe continuare a Milano. Ma, proprio nella metropoli, crocevia d’Europa, si interrompe, in nome della legge, all’indomani del debutto. Il 23 febbraio del 1961, infatti, due ufficiali di polizia giudiziaria notificano a Paolo Stoppa un’ordinanza della Procura della Repubblica milanese sequestrando l’unica copia del testo dell'Arialda vistato dalla censura, quello che per legge deve accompagnare lo spettacolo.
L’ordinanza fa abbondanti riferimenti agli articoli 528, 337 e 392 del Codice penale, intimando l’immediata sospensione delle rappresentazioni. La motivazione della magistratura entra più di una volta “in contatto” proprio con il personaggio interpretato da Pupella: Gaetana, la “terrona”.
«Poiché complessivamente tale lavoro si qualifica soltanto per il suo sfondo ossessivo e immorale (sfondo nel quale l’oscenità si sviluppa con linguaggio inusitato da autentica suburra), con una successione di situazioni ambientali e personali torbide ed erotiche, nel corso delle quali nessun bene e nessun valore si salva (basta accennare che l’autore pone in conflitto la figlia, Rosangela, contro la madre, Gaetana: i figli contro il padre, Gino che tenta di possedere la donna; Mina, amata dal padre, Amilcare; i fratelli tra loro, Gino e Quatretti; l’Arialda contro la madre, Alfonsina; l’Arialda contro il fratello Eros); sino a giungere allo svolgimento dei patteggiamenti più ripugnanti e ai ricatti più sordidi. Per non dire dell’invettiva patologica deH’Arialda contro il fidanzato morto che assume, in uno alle frenesie di Eros, sconcertanti aspetti di autentico turpiloquio».
Pupella ha sempre fatto dipendere la fine dell'Arialda dalla volontà dell’allora cardinale di Milano, Giovambattista Montini, il futuro Papa. «Fu il cardinale che ci fece smontare lo spettacolo, era cardinale ma aveva già la potenza di un Papa. Che Dio lo perdoni per quella cattiva azione nei confronti dell’arte!».
Pubblicazioni
1997 Poca luce in tanto spazio, Todi, Carlo Grassetti Editore.
Filmografia
Sperduti nel buio, regia di Camillo Mastrocinque (1947)
Il Passatore, regia di Duilio Coletti (1947)
Il medico dei pazzi, regia di Mario Mattoli (1954)
Il terribile Teodoro, regia di Roberto Bianchi Montero (1958)
Serenatella sciuè sciuè, regia di Carlo Campogalliani (1958)
Mogli pericolose, regia di Luigi Comencini (1958)
Il terrore dell'Oklahoma, regia di Mario Amendola (1959)
Sogno di una notte di mezza sbornia, regia di Eduardo De Filippo (1959)
La duchessa di Santa Lucia, regia di Roberto Bianchi Montero (1959)
Caravan petrol, regia di Mario Amendola (1960)
A qualcuna piace calvo, regia di Mario Amendola (1960)
Anonima cocottes, regia di Camillo Mastrocinque (1960)
La ciociara, regia di Vittorio De Sica (1960)
Mariti in pericolo, regia di Mauro Morassi (1961)
Le quattro giornate di Napoli, regia di Nanni Loy (1962)
La Bibbia, regia di John Huston (1966)
Il medico della mutua, regia di Luigi Zampa (1968)
Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, regia di Luciano Salce (1969)
Joe Valachi - I segreti di Cosa Nostra, regia di Terence Young (1972)
Amarcord, regia di Federico Fellini (1973)
Lacrime napulitane, regia di Ciro Ippolito (1981)
I giorni del commissario Ambrosio, regia di Sergio Corbucci (1988)
Nuovo Cinema Paradiso, regia di Giuseppe Tornatore (1988)
Sabato, domenica e lunedì, regia di Lina Wertmüller (1990)
Fate come noi, regia di Francesco Apolloni (2002) (postumo)
Premi e riconoscimenti
David di Donatello
Miglior attrice non protagonista per Nuovo Cinema Paradiso Nomination
Nastri d'argento
Miglior attrice non protagonista per Il medico della mutua Vinto
Miglior attrice non protagonista per Amarcord Nomination
Prosa televisiva RAI
La fortuna con l'effe maiuscola, con Angela Pagano, Enzo Cannavale, Liana Trouchè, Clelia Matania, Pupella Maggio, Eduardo De Filippo, Pietro Carloni, Antonio Casagrande, regia di Eduardo, trasmessa il 17 aprile 1959, nel programma nazionale.
Il medico dei pazzi, con Clelia Matania, Antonio Casagrande, Angela Pagano, Enzo Petito, Eduardo De Filippo, Enzo Cannavale, Pietro Carloni, regia di Eduardo, trasmessa il 11 maggio 1959.
Il cilindro, con Eduardo De Filippo, Monica Vitti, Vincenzo Salemme, Ferruccio De Ceresa, Pupella Maggio, Luca De Filippo, Franco Angrisano, Marzio Honorato, regia di Eduardo De Filippo, trasmessa il 5 novembre 1978.
Riferimenti e bibliografie:
- "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
- "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
- Pupella Maggio portrait - Augusto De Luca photo
- «L'Unità», 18 dicembre 1983
- Masolino d'Amico, «La Stampa», 9 dicembre 1999
- Silvia Francia, «La Stampa», 9 dicembre 1999
- Aggeo Savioli e Lina Sastri, «L'Unità», 9 dicembre 1999