Metz Vittorio

Vittorio_Metz

(Roma, 18 luglio 1904 – Roma, 1º marzo 1984) è stato uno scrittore, umorista e sceneggiatore italiano, autore di programmi televisivi e regista cinematografico.

Biografia

La sua lunga carriera, iniziata nel teatro per ragazzi, lo portò alle più svariate collaborazioni in campo giornalistico, cinematografico e televisivo, dove trovarono espressione la sua inventiva e la sua vena satirica. Dopo aver collaborato al Corriere dei Piccoli e al Candido di Giorgio Pisanò.[1]

Il Bertoldo

Fu tra i fondatori del Bertoldo nel 1939.

In coppia con Marchesi

A partire dagli anni cinquanta del XX secolo lavorò in televisione come autore di commedie musicali e spettacoli di varietà; il suo nome è spesso legato a quello di Marcello Marchesi, con cui firmò una serie di programmi di successo (Ti conosco mascherina, 1955; La piazzetta, 1956; il serial per ragazzi Giovanna, la nonna del Corsaro Nero,1961). Sempre con Marchesi collaborò alla sceneggiatura ed alla regia di alcuni film di Erminio Macario (Imputato, alzatevi!, 1939), di Totò (Totò cerca moglie, 1950; Totò sceicco, 1950) e altri successi della commedia all'italiana; non altrettanto fortunate furono le loro prove come registi (Milano miliardaria, 1951). Pubblicò anche raccolte di massime e proverbi e libri umoristici (Mia moglie a 45 giri, Roma in cocci).

Filmografia

Regia, sceneggiatura e soggetto

Era lui... sì! sì!, coregia con Marcello Marchesi (1951)
Milano miliardaria, coregia con Marcello Marchesi (1951)

Regia e sceneggiatura

Sette ore di guai, coregia con Marcello Marchesi (1951)
Il mago per forza, coregia con Marino Girolami e Marcello Marchesi (1951)
Tizio, Caio, Sempronio, coregia con Marcello Marchesi e Alberto Pozzetti (1951)
Noi due soli, coregia con Marcello Marchesi e Marino Girolami (1952)


Macario e l'idiozia intelligente

Macario è malato di umorismo. E, quel che è peggio, non di umorismo inglese, né russo, né di spirito francese. Bensì, di umorismo italiano. Quest’umorismo italiano, che non ha che pochissimi anni di vita, che è cresciuto a poco a poco, si è sviluppato sui giornali umoristici settimanali e bisettimanali e ne ha fatto, in un certo qual modo, la fortuna, ha creato una nuova maniera di parlare, ha dilagato in tutta la penisola propagandato dagli studenti che lo sentivano più di tutti, è entrato nel teatro, nella letteratura e nella radio, e finalmente, con Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei?! ha fatto il suo trionfale ingresso anche nel cinema. Quest’umorismo italiano che fa imbestialire i vecchi signori che non lo comprendono, che fa urlare di rabbia i critici che non riescono a definirlo e fa campare abbastanza bene quelli che lo hanno inventato.

Macario è appunto la personificazione teatrale di questo umorismo, che alcuni definiscono “intelligente”, che altri definiscono “idiota” e che forse non è altro che un’idiozia intelligente.

Si è detto che Macario è un clown, come si è detto che Macario è una maschera. Si sono scomodate le grandi ombre di Petrolini e di Ferravilla, si è parlato di “fenomeno Macario”, si è portato questo comico alle stelle, lo si è voluto demolire, centinaia di critici hanno tentato di definire la sua arte o la sua mancanza d’arte. Ora, io penso che Macario non si possa definire; si può, tutt’al più, discuterne. Macario, per alcuni è un Gianduia, foderato di Charlot e imbottito di fratelli Marx. Ora, se è difficile definire Gianduia, che ha secoli e secoli di teatro dell’arte dietro le spalle, se su Charlot sono stati scritti ponderosissimi volumi, se i fratelli Marx sono difficilissimi a comprendere, figuriamoci questi tre diversi esempi di comicità fusi insieme.

Per me, per esempio, ma solo in alcuni casi, Macario è un pupazzetto. Un pupazzetto di vignetta. È infatti l’unico comico che possa dire sulla scena le stesse cose che sono scritte in due righe sotto i disegni dei giornali umoristici.

L’associazione d’idee è la sua arma più formidabile. Dire, cioè, una cosa lontanissima come significato da quella che veramente vorrebbe dire. Per esempio: Macario, disperato, vuol andare a gettarsi nel fiume; ma siccome ha paura, lo dice a un suo amico, sperando che lo trattenga dal compiere l’insano proposito. Ma l’amico, l’immancabile Rizzo, non lo trattiene. Macario si avvia verso il fiume, ma, ad un certo punto, si volta.

“Non mi trattieni?”

“No...”

“Proprio per niente? Proprio per niente?”

“Ma no, ti dico!” risponde Rizzo, il cui compito principale consiste appunto nel dire, durante tutta la sera, “Ma no!”, “Ma, come?”, “Ma che dici!”, “Ma che ti salta in testa?”, per dar agio a Macario di dire la battuta. Una bella fatica! “Proprio no?”

“Ti dico di no...”

Macario fa un passetto, poi si volta. “Manica, manica?”

“Ma che dici?” ruggisce Rizzo.

”Si, non mi trattieni nemmeno per la manica?”

Nessuno pensa che Macario, dicendo “Manica, manica”, possa voler significare: “Sì, non mi trattieni nemmeno per la manica?” Può pensare, tutt’al più, allo stretto che divide la Francia dall’Inghilterra e nel quale oggigiorno non è consigliabile navigare. Oppure, non sa dove voglia andare a parare. Non si tratta di una battuta. Si tratta di una sorpresa. Sorpresa che agisce come un solletico mentale e fa ridere il pubblico, magari suo malgrado. Ed è questo che molta gente, come quelli a cui è stato fatto il solletico, dopo aver riso di ciò che dice Macario, per tutta una sera, esce dal teatro arrabbiatissima e magari indignata contro se stessa per aver riso. (...) È facile comprendere perché il pubblico rida quando Macario deforma le parole introducendovi delle enne dove non vanno, cioè dicendo “rimpetinzione”, invece di “ripetizione” e “anfonrisma”, invece di “aforisma”. Ride per la stessa ragione per cui si ride al balbettio dei bambini o alle impuntature dei balbuzienti. Come, quando, invece di “sempre scapolo, sempre scapolo?”, dice “sempre scampolo, sempre scampolo?”, la ragione dell'ilarità va ricercata nel fatto che la sostituzione meccanica di una parola di un dato significato con un’altra parola dello stesso suono ma di significato diverso è stata sempre ragione di riso. Pulcinella, invece di dire “Me ne entro quatto quatto, carponi, carponi”, dice: “Me ne entro quattro quattro, scarponi scarponi”, e tutti si contorcono sulle loro poltrone. Più difficile riuscire a comprendere perché il vezzo che ha Macario di ripetere due volte la stessa parola scateni l’allegria. Se lo stesso Pulcinella dicesse “Lume, lume”, non farebbe ridere nessuno. Se si scrivesse “lume, lume”, sotto una vignetta, ciò non desterebbe il buon umore nemmeno dell’uomo più ben disposto di questo mondo. Se Achille Campanile scrivesse “lume, lume” in uno dei suoi libri, i suoi lettori esclamerebbero: “Achille Campanile è finito!” Uno dei canoni dell’umorismo è che la ripetizione faccia ridere: questa forma di umorismo ha anzi un nome tecnico — si chiama “tormentone” — ma si tratta della ripetizione di un’intera frase che si riferisce ad un personaggio, come ad esempio: “Inutilmente, o astuto barone, eccetera, eccetera”, fatta a distanza e non di seguito. Se voi incontrate un amico e gli dite: “Bisogna che ti cambi il cappello”, lui la prima volta non riderà, se glielo ripeterete in occasione di un secondo incontro, lui, se non è un tipo permaloso, non dirà nulla; la terza volta, sapendo che state per dirglielo, rimarrà in attesa di quella vostra frase e, quando vi sarete deciso a pronunciarla, riderà prima ancora che l’abbiate finita per la soddisfazione di aver indovinato che gliel’avreste detta. Ma perché si ride quando Macario dice “lume, lume?”, o “Stai male, stai male?”. Può darsi che rida per la ragione suesposta, cioè perché se l’aspettava. Ma, allora, la prima volta, perché ha riso? Inquantoché la prima volta deve aver riso, altrimenti Macario non l’avrebbe ripetuta. Indubbiamente anche questo fa parte di quel solletico mentale di cui abbiamo parlato in precedenza, altrimenti sarebbe inesplicabile.

A voler essere sinceri, anche la faccenda del pupazzetto da giornale umoristico e il solletico mentale, i miei riferimenti a Pulcinella e alla commedia dell’arte sono tutte balle. E che Macario dica “lume, lume?” o “rimpentinzione”, a me non me ne importa proprio un fico secco.

Insomma, l’importante è che Macario continui a tener allegra la gente e a far pieni i teatri. Come ci riesca, sono affari suoi.

Vittorio Metz


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

Nelle rubriche che lo hanno reso popolare egli condanna sua moglie a esprimersi con frasi stranamente tronche

Roma, luglio

Il ritratto della signora Metz appartiene ai classici dell’umorismo conetmporaneo. Lo ha narrato il marito trentanni fa: e ne rinverdisce sfondo e primi piani tuttora, nel timore che le tinte possano sbiadire e l’assunto polemico possa indebolirsi. Da allora, il profilo polemico della signora Metz non corre rischio di oblio, nella memoria dei innumeri lettori italiani.

Nessuna somiglianza

La signora Metz reale, evidente, fisicamente ignota al gran pubblico, non somiglia molto alla terribile donna sistemata da chi ben sappiamo nella letteratura contemporanea: sempre in gara col tempo: ognor presa dal dire in fretta il proprio pensiero, per parole mozze, frasi spezzate, tronche invettive, telegrafiche ordinanze. La signora Metz del ritratto dovuto alla fervida immaginazione di Vittorio Metz è profondamente dissimile dalla signora Metz che ha allevato molti figli, che dirige da ottima ed abbastanza sottomessa moglie una casa in città ed una in campagna. La violenza verbale attribuitale sembra tagliata più sulla minuta e piccante statura di Teresa Mosca, (consorte di Giovanni Mosca), che non sulle ragguardevoli e placate proporzioni della signora Metz.

Da trent’anni a questa parte, Metz ci presenta il suo personaggio come il terrore dei mariti distratti, ma estremamente volonterosi di riscattarsi da siffatta, pessima qualità. E', il suo, un modo come un altro per dirci che la paura va combattuta col non negare di avvertirla. Ma, in effetto, la signora Metz incute timore al marito non tanto per la propria per spicacia quanto per la personale decisissima dolcezza. Chi conosce direttamente questa signore Metz apprensiva e tranquilla, per la quale lo stato di allarme costituisce la situazione normale della vita di relazione, è ben in grado di ribattere le affermazioni di Vittorio Metz a carico della moglie. In verità, questo scrittore,"per amore di giustizia dovrebbe essere sottoposto ad uno di quei sin troppo lunghi processi che costituiscono il numero di centro della rubrica TV «Lui e Lei».

Ma tant’è! Vittorio Metz evade al placido quotidiano descrivendosi vittima della sorte famigliare, succubo della volontà muliebre. Sente il bisogno di essere commiserato. Non crede minimamente di essere proprio lui il colpevole, o fa finta dì volerlo credere. Si descrive arrotato dall’esistenza. Deve farci convinti della precarietà di ogni tentativo di svincolarsi dalla violenza di continuo esercitata contro le sue fondamentali libertà civili. All’avamspet-tacolo dell'improvvisazione, propone quale prologo la realtà del proprio dramma.

Da un’indagine approfondita che noi da anni stiamo conducendo sulla famiglia Metz, risulta che il violento è proprio il marito. Costui fa recitare a soggetto anche la moglie, dopo averla sottoposta a crudeli trattamenti di autoconvinzione. Lo umorismo di Vittorio Metz senza reale fondamento di verità descrive la sposa come l’archetipo della belva che, ai giorni nostri, rende insicuri i riposi meridiani di tutti i lavoratori dalle mezze maniche e dalle magre buste mensili. Secondo la lezione del nostro, la signora Metz, riuscito incrocio tra una indipendente virago dei cicli nordici ed un ferreo colonnello di Federico il Grande, mai a -vrebbe pronunciato intiero un sol vocabolo, preoccupata di accomunarne numerosissimi nei discorsi da far diluviare sullo smorto silenzio dell'avvilito consorte. Secondo quella lezione, il paradosso costituirebbe l’arma palese della signora Metz: la ingiunzione sarebbe la tattica normale di colei: la marcia famigliare in perenne ordine chiuso la sua specialità strategica. Invece, nella famiglia Metz, tutto procede a ruota libera, e ragionatamente. Ogni strada è mantenuta aperta ai barbari adolescenti che la compongono. E la signora Metz è sempre lì, a sospirare sulla soglia dei traguardi dispersi o all’ombra di divelte pietre miliari.

Tutta la verità

Cara signora Metz, così dissimile dalla malvagia deformazione che ne ha fatto la prosa maritale! Io no tenuto a cresima un suo figliolo e posso narrare l’ansia e le cure che essa prodiga alla famiglia in ogni giornata non certo fatta per restituire a normali condizioni di • nervi un qualsiasi «iper» od ; «ipo» teso. Comunque, dato che , abbiamo principiato ad istruirlo formalmente il processo a ; carico di un marito che ha cambiato le carte in tavola pur : di dimostrare da qual parte sia, : nel matrimonio in genere ed in quello che particolarmente è, lo riguarda in ispecie, la violenza, continuiamo a dirla intiera la verità su Vittorio Metz ! .

Perchè egli vittima si dice di esteriosi antipatie quando, in epoca lontana ma consegnata a lunga serie dì rivelatori taccuini, egli terrorizzò intieri paesi, attraversandone in divisa da rossodiavolo piazze e strade, a primalba, dopo aver abbandonato gli accampamenti di zingareschi Carri di Tespi dei quali a quel sol fine si dilettava far parte?

Perchè egli vittima si proclama della cronaca e della critica quando, in anni remoti ma non dimenticati e sempre documentabili, senza conoscere una sola nota, si dette ad orchestrare ed a dirigere intiere partiture di musica leggera napoletana. togliendo fama e scritture ai massimi specialisti del genere?

Perchè Vittorio Metz si confessa a piena discrezione di qualsiasi individuo destro nel difendere le proprie azioni o nell'ingannare l’inclita, quando, per mesi intieri, alla presenza di Leo Longanesi, epoca tra il 1945 ed il 1946, costituì il terrore dei posteggiatori che fregavano tutta Roma al gioco delle tre tavolette e che sempre furono regolarmente battuti da Vittorio Metz tra Piazza Navona, l’Isola di Francia e Trinità dei Monti?

Con simili precedenti, intimi ed estrinseci, di popolaresca autosufficienza, possiamo proprio considerare Vittorio Metz in balìa della fragile sposa? No, Signori della Corte ! Pollice verso per questo inegeneroso umorista del Secolo XX?

Yvon De Begnac, «Il Piccolo di Trieste», 4 luglio 1956


Troppo distratto per il fare il banchiere. Esordio avventuroso come autore e impresario al "Teatro delle Fiabe". Scambiato per il... diavolo in Calabria. Irruenza di Petrolini nella redazione del «Marc'Aurelio». Dai giornali umoristici a Cinelandia

Roma, dicembre.

L'inizio della carriera dell'umorista Vittorio Mete sembra inventato da un umorista. Terminato 11 liceo classico, egli aveva, trovato un posto In una piccola banca a Roma. Un giorno il principale gli affidò due mansioni: portare alla stanza di Compensazione un plico contenente centomila lire e spedire un dossier di documenti. Distratto, egli, telante ma distratto congenito, imbuco la busta delle centomila lire e si presentò alla Stanza di Compensazione con il dossier, dei documenti. «Tu sei un poeta: vattene» gli gridò il principale.

Fiabe fantastiche e vissute

Trovatosi libero, non si perdette affatto d'animo. Dalla mamma «romana de Roma» egli ha derivato un bonario e ottimistico modo di considerare la vita; dal padre nativo di Strasburgo ha tratto non solo lo strano nome, ma anche un coraggioso spirito di iniziativa. Aveva simpatia per la letteratura infantile; la vita di palcoscenico, l'attraeva; fondendo le due predilezioni, creò il Teatro della Fiaba destinato ai bambini, diventandone l'impresario. Non aveva neanche un becco di un quattrino, a credito ottenne teatro, scene, costumi. Ma invano tentò di procurarsi «a respiro» anche il repertorio. Decise: «I copioni me li scriverò da me». I due primi suoi lavori furono «Orchetto e stellina» e «Jl Diavolo Zoppo. Appunto con il Diavolo egli portò la sua compagnia in tournée in Calabria. Era un buon complesso; fra le bimbe che recitavano alcune fecero poi fortuna in arte, come Marisa Merlini, Lilli Grarado soubrette di Macario e Silvana Musitelli che, diventando grande, rimpicciolì il proprio nome in Lilia Silva. Fu un avventuroso giro d'arte. Per esempio a CorigUa.no Calabro giunsero subito dopo che un'altra compagnia era partita di soppiatto senza pagare nessuno; trovarono l'ambiente teso: né l'albergatore, né le famiglie, del posto misero a disposizione camere; Metz e i suoi fecero di necessità virtù e si sistemarono a dormire nello stesso teatro. I letti di fortuna non erano una delizia, ma a peggiorare le cose' sopraggiunsero le zanzare del posto, enormi, davvero insetti da... fiaba; per difendersi gli sventurati, prima di mettersi a dormire, indossarono i vestiti di scena.

1959 12 02 03 La Stampa Vittorio Metz f1

Candori di Giulietta Masina

«A me — rievoca Metz — toccò il costume del Diavolo Zoppo. Verso mezzanotte, mi svegliai arso da un'indescrivibile sete e, semiaddormentato, uscii a bere alla fontana, vestito com'ero. Una vecchietta, chissà perché in giro a quell'ora, vedendo nella penombra avvicinarsi il... diavolo in persona, prese a strillare; accorse gente e le grida si fecero più alte; quando vidi sopraggiungere contadini armati di forconi, cercai d'urgenza rifugio in teatro». Il prossimo capitolo detta vita di Metz si svolse nella redazione del settimanale umoristico Marc'Aurelio diretto da Vito de Belli». In quella roccaforte dell'umorismo italiano diventò amico di Mosca, Barbaro, Attalo, e, in circostanze stranissime, anche di Petrolini. Già famoso, ma sempre acutamente suscettibile alle critiche, il grande attore, infuriatosi un giorno per una presa in giro pubblicata dal giornale, irruppe in redazione: alzò la voce rovesciò sedie, fece volare carte. Pochi giorni dopo, tornò recando in dono a Vito de Bellis una statuetta equestre di Marc'Aurelio e fraternizzò con gli umoristi, tra i quali figurava un giornalista alle prime armi, poco più che adolescente: Federico Fellini. Curava una rubrica nella quale si narravano le avventure di Chicco e Pallina, personaggi immaginari soltanto a metà. Infatti Fellini in Chicco ritraeva un po' se stesso: e le ingenuità di Pallina erano spesso ispirate dalle trovate della giovanissima fidanzata, Giulietta Masina. Redattore del Marc'Aurelio, collaboratore di periodici per i fanciulli, Metz affrontava già brillantemente gli arretrati». Dall'altra parte del filo una voce cortese insistette: «Qui parla Arnoldo Mondadori. Gradirei averla mio ospite a colazione». Metz ebbe l'impressione di piombare in una scena del suo stesso Teatro della Fiaba: a telefonare era dunque non l'agenzia libraria, ma il personaggio n. 1 dell'editoria italiana, Mondadori in persona, non ancora dottore in lettere honoris causa, ma già Cavaliere del Lavoro. L'umorista giunse in anticipo all'appuntamento, nella Trattoria della Chiesa Nuova;' Arnoldo Mondadori' vi comparve accompagnato da Trilussa; durante la colazione; nel corso di una conversazione folta di gradevoli sorprese, spiegò il motivo dell'incontro: «Vorrei affidarle la direzione di una .rivista per ragazzi, di prossima pubblicazione. Il suo nome ' mi è stato fatto da Trilussa». Metz disse subito di si e si trasferì a Milano, ove, appena giunto, conobbe Cesare Zavattini, da poco balzato ai primi piani della ribalta letteraria con il, libro «Parlate molto di me». Metz si disse felice dell'incontro ed espresse la sua ammirazione per l'opera così concisa e nutrita di lieviti umoristici; poi commentò: «Il titolo mi piacerebbe ancora di più se ritoccato in «Parate molto di Metz».

Drammatico tuffo

Alto scanzonato inventore di fiabe per grandi e piccini, Zavattini tenne un discorso tentatore. Disse in sostanza: t Perché vuoi dedicarti ai bimbi t Ci sono gli adulti in urgente necessità di aiuto: occorre confortarli con un po' di buon umore. A tale scopo è dedicato il settimanale che sto organizzando io e che uscirà prestissimo: il Bertoldo», sebbene con la coscienza tormentata dalla consapevolezza di peccare di ingratitudine verso Arnoldo Mondadori, Mete si lasciò incantare dalla voce di sirena del suo amico e, soprattutto dalle prospettive di un lavoro gli consentaneo al suo temperamento: uscito appena dalla roccaforte dell'umorismo romano, entrò in quella nuova di zecca creata a Milano, presidiata da frombolieri di ogni provenienza, da Giuseppe Marotta a Giovanni Guareschi, da Carletto Manzoni ad Angelo Frattini, da Dino Falconi a Marcello Marchesi. «In quest'ultimo — rievoca l'umorista — trovai un... complice ideale: assieme ci divertimmo nel realizzare spettacoli per la radio e riviste teatrali». La collaborazione fra Metz e Marchesi si rivelò fertile in campo teatrale anche grafie all'incontro con un giovanissimo comico ancora 'sconosciuto: Walter Chiari. «In certo modo — rammenta il mio interlocutore — siamo 'stati noi a tenerlo a battesimo c ad avviarlo lungo la strada del successo». Poi in due parole tratteggia il ritratto di questo divo: «E' turbolento e divertentissimo; inesauribili sono le sue trovate per divertire, gli amici. E' delizioso, specie se presa a piccole dosi». Poi nella vita di Vittorio Metz ci fu una nuova svolta: il cinema. Mario Mattali lo chiamò a Roma a sceneggiare un film comico che poi fu girato con Macario, ed egli ci andò di corsa. Da allora fece più di cento sceneggiature; 'alcune ebbero notevole successo di pubblico e di critica, come «Imputato, alzatevi», compiuta in collaborazione con Zavattini. Macario fu l'intelligente, scaltro interprete della vicenda; il film fu giudicato dai critici precorritore dei tempi. Il giorno in cui racconterà in un libro gli episodi divertenti o bizzarri accaduti durante la lavorazione di film comici, Metz potrà svelarci aspetti ignoti di molti divi. Meraviglioso d'entusiasmo, per esempio, si mostrò Rascel nell'interpretare «Pazzo d'amore», il suo primo lavoro cinematografico. Allora venticinquenne e molto sportivo, egli rifiutò l'impiego di controfigure, sia quando doveva interpretare una fuga sul cornicione di una casa in costruzione, inseguito dagli indiani; sia quando recitò il gesto disperato del romantico protagonista che tentava il suicidio, gettandosi in un canale a Livorno. Il drammatico, tuffo .fu cosi realistico, che il «piccoletto» si trovo sul punto di annegare. Un bagnino, che con preveggenza era stato convocato prima dell'infoio della scena, balzò al salvataggio, n tutto si svolse con ritmo cosi incalzante, da entusiasmare artisti, tecnici, spettatori. Tutti proruppero: «Bravi! Bis!». Il bagnino non volle rinunciare all'onore del bis: buttò in acqua l'intrepido (e nolente) Rascel e fra rinnovati applausi lo salvò, una seconda volta.

Estro del prìncipe De Curtis

Totò sul set è uno spettacolo. Metz, autore di più di venti sceneggiature di suoi film a cominciare da «Totò cerca casa», mi spiega come il Principe De Curtis abbia bisogno dell'applauso e della risata del pubblico per essere davvero se stesso. Così nei teatri di posa, quando lavora lui, si consente ad amici e a curiosi di assistere alle riprese: uditorio che si gode gratis le trovate del divo: «E' un grande artista; potrebbe interpretare Molière; ma non rinuncia al proprio repertorio di lazzi che sa di sicuro effetto. Bisogna lasciarlo improvvisare. Se lo si contraria, si deprime e recita con l'occhio spento».

Il cinema, befana munifica, ha donato a Metz una tenuta agricola nelle vicinanze di Rocca di Papa. Egli vi trascorre buona parte dell'estate. Là può dedicarsi a due tra i suoi hobbies: la caccia e la pesca. «Non prendo mai nulla — egli confessa — ma mi diverto lo stesso. Ho anche tentato la falconeria, ma dopo qualche mese il falco mi fu impallinato dai contadini, come ladro di galline. Rinunciai a questa pittoresca forma di caccia». Ed ecco, per finire, sue notizie utili a completare il ritratto di Metz. Ha la passione della storia dell'Urbe: una sua recente opera seria, appunto di contenuto storico, «Le pietre di Roma», idealmente dedicata a Ruskin, è stata lodata dai critici. E ha cinque figli: Fioretta, danze classiche; Delfina, radio-autrice; Massimiliano, architettura, pittura astrattista; Alessandro, assistente regista; Cristiano, quindicenne, autore e interprete di canzoni, chiedo: «Chi dei cinque rivela maggiormente indole umoristica.». Risposta: «Cristiano, specie se gli accade di premere l'acceleratore di un'auto altrui»

Furio Fasolo, «Stampa Sera», 2-3 dicembre 1959


ROMA — Vittorio Metz, uno dei più famosi umoristi italiani, è morto sabato notte in una clinica romana in seguito ad un male incurabile. Aveva 79 anni. Lascia la moglie Celestina e cinque figli.

Dopo Giovannino Mosca, he gli era dì quattro anni più giovane, e che era anche lui rornano, se n'è andato un altro moschettiere del «Marc'Aurelio» e del «Bertoldo», Vittorio Metz. I più giovani, forse, non ricordano di lui che certi show televisivi di successo, scritti in collaborazione con Marcello Marchesi, come «Lui e lei», o «La via del successo». Ma per chi ha superato la cinquantina Metz rimane l'irresistibile autore di una rubrica che appariva regolarmente sul «Bertoldo», e che si intitolava in origine «Mia moglie la pensa così», si proprio in questo modo sincopato e nevrotico, perché tutta la colonnina, sprizzante umorismo anticonvenzionale e surreale (com'era del resto costume della rivista, che riusciva, in tal modo, a gabbare la retorica fascista) era stesa in questo stile, come dire?, stenografico, che otteneva clamorosi risultati comici, e che era, a pensarci bene, una straordinaria invenzione linguistica.

Era come se, anticipando i tempi, Metz trascrivesse i discorsi di tutti i giorni, da un immaginario registratore, fatto girare ad una velocità superiore («C’avvei bisogn di un vestlt, di un cappottin...»). Walt Disney otteneva, con questo sistema, certi sfoghi verbali di Donald Duck, il sempre corrucciato Paperino. Metz annotava qualche decennio prima, da autentico scrittore, la nevrosi dell’uomo moderno.

Achille Campanile, un altro umorista, oggi considerato un precursore di Ionesco per le sue commedie fitte di giochi di parole, e per le sue fulminanti «tragedie in due battute», ebbe proprio dall allora critico del «Corriere della Sera». Pietro Pancrazi, la sua consacrazione letteraria in un articolo diventato famoso e pubblicato poi in volume da Laterza. Intitolato. con spregiudicata irriverenza, «Il riso scemo di Achille Campanile».

Metz non ebbe il suo Pancrazi; e credo che la sua scrittura sincopata, che resta la sua Invenzione più intelligente, non sla ancora stata oggetto di un saggio o di una tesi di laurea. Sarebbe giusto che, a distanza di quasi mezzo secolo, un qualche allievo di Eco o del Dams di Bologna si mettesse a sfogliare le vecchie annate del «Marc'Aurelio» e soprattutto del «Bertoldo», a caccia delle svitate, singolarissime colonnine con le quali Metz, raccontando fatterelli di famiglia, la diceva lunga sul modo di vivere dell'Italia del ventennio. Ma è soprattutto dal punto di vista filologico che la trovata dello scrittore dovrebbe essere studiata. Vi si troverebbero, «In nuce», chissà quali tesori, chissà quali anticipazioni dell'avanguardia del dopoguerra.

Metz era nato a Roma il 18 luglio del 1904. A ventitré anni aveva fondato il «Teatro del Fanciullo» e, successivamente, il «Teatro della fiaba», i primi palcoscenici ad ospitare testi suol che si chiamavano, ovviamente, con titoli che ricordano tanto il «Corriere del Piccoli» dell'epoca, «Orchetto», «Stellina», «La Principessa Cenerentola», «L'Ammazzasette», commedie per un pubblico infantile, le cui musiche erano spesso scritte dal padre dell'autore, Carlo, professore di violoncello. Con un simile esordio è chiaro che il citato «Corrieri-no», allora l’unico giornale della gioventù borghese, lo ebbe negli anni Trenta, fra i suoi collaboratori.

Nel 1933 Metz cominciò a scrivere per il «Marc'Aurello», di cui fu redattore fino al 1936, anno nel quale Giovanni Mosca. chiamato da Andrea Rizzoli a fondare, a Milano, un bisettimanale umoristico che facesse concorrenza, «con maggior finezza», al foglio romano, lo chiamò al suo fianco a Milano, coinvolgendolo neUa felice avventura del «Bertol-do», che contò tra le sue firme persino Saul Stelnberg. Quella del -Bertoldo» fu la sua stagione più felice, e procurò alla giovane redazione più di un guaio con i gerarchi fascisti per la spregiudicatezza deUa sua satira. Nel 1943 Metz fondò il «Pasquino» e nel ’45 l’«Orlando», due settimanali satirici che non ripeterono il successo del precedenti. E qui il discorso si farebbe lungo, perché si potrebbe dire che un autentico foglio satirico può forse nascere soltanto in situazioni in cui la libertà è maggiormente conculcata.

Il linguaggio moderno di Metz fu messo anche al servizio del cinema: non è un caso che fra gli sceneggiatori del primo film di Macario, «Imputato alzatevi!» del 1939, figuri proprio lo scrittore romano; che ripeterà il felice «exploit* con il comico piemontese, cui lo legava un certo «feeling-surrealista», in «Lo vedi come sei?», sempre del 1939, e «Il fanciullo del West», del 1942.

«E' facile comprendere — ha scritto Metz a proposito di Macario — perché il pubblico rida quando il comico deforma le parole, introducendovi delle "enne” dove non vanno, cioè dicendo "rimpetinzione” invece di "ripetizione" e "anfonrisma" invece di "aforisma". Ride per la stessa ragione per cui si ride al balbettio del bambini o alle impuntature del balbuzienti». E’ proprio questo gusto della deformazione del linguaggio che deve aver avvicinato lo scrittore a Macario. Metz è diventato famoso perché abbreviava le parole. Macario perché le allungava: slamo sempre, per dirla con un termine d’oggi, nel campo del nastro magnetico, della registrazione, del «montaggio» fonico, che creano, di per se stessi. un’occasione di umorismo; e la possibilità, non dimentichiamolo, di non prendere troppo sul serio l'aulica lingua italiana che, proprio in quegli anni, veniva ammantata di retorica.

Consapevoli o no, Metz, Mosca, Macario, facevano, nell’unico modo che era loro consentito, la fronda al regime. Ho del resto un ricordo molto vivo del clima dell’epoca. Alla fine degli anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta frequentavo a Milano la scuola elementare «Leonardo da Vinci», accanto alla Casa dello Studente e a poche decine di metri da piazza Carlo Erba 6, dove si faceva appunto il «Bertoldo». Durante certe cerimonie ufficiali in cortile, con noi vestiti da balilla o da figli della lupa, tutti, maestri e maestre, erano in divisa. Ad esclusione di Salvatore Principato, che orgogliosamente ostentava un liso vestito a doppiopetto blu con il nastrino della medaglia d'argento conquistata nella prima guerra mondiale (e che finirà trucidato dal fascisti nel 1944 a piazzale Loreto). Gli studenti universitari si affacciavano dall’alto d’una terrazza confinante e lanciavano urla e sberleffi; per esemplo al «Saluto al Duce!» rispondevano immancabilmente in coro con «Ci fa un baffo a tortiglione!», che era una tipica espressione nonsenso di Mosca. Gli schiamazzi creavano un po’ d’imbarazzo nel corpo insegnante fasciato di orbace, ma non succedeva mai niente. So di sicuro che nessun universitario fu minacciato o perseguitato: erano, le loro, considerate ragazzate, goliardate, grazie, forse, alla spregiudicatezza del «Bertoldo»...

Ma torniamo a Metz. Dal dopoguerra, pur ricordandosi del suo passato di giornalista (fu direttore, nel 1947, della «Tribuna Illustrata») si dedicò prevalentemente al cinema, quasi sempre in collaborazione con Marchesi: sceneggiò una serie di film anche del principe Antonio De Curtis, da «Totò al Giro d’Italia» a «Siamo uomini o caporali» e, sempre con Marchesi, passò pure alla regia con «Era lui... si!, si!», «Milano miliardaria», cui collaborò come regista anche Marino Girolami, e «Lo sai che i papaveri», ispirata alla famosa canzone di Sanremo.

Metz è stato pure un autore di riviste. Hanno recitato suoi copioni Vittorio De Sica e Umberto Melnati, Nino Besozzi e Walter Chiari, Enrico Viarisio e Isa Barzizza. Qualche suo sketch è stato raccolto nel volume antologico «Gli anni verdi del Bertoldo». Ma c’è ancora tanto da fare per ricordare degnamente Vittorio Metz scrittore. Perché non riordinare una serie del suoi più spassosi Interventi sul «Marc’Aurelio» e sul glorioso bisettimanale di piazza Carlo Erba? Ripeto. C’è da scommetterlo. Qualche semiologo farà scoperte importanti.

Alfredo Barberis, «Corriere della Sera», 5 marzo 1984


ROMA - «Quant'è forte la morte: ». Sono state le ultime parole di Vittorio Metz, rivolte alle figlie Delfina e Fioretta che, insieme con la moglie Celestina, gli sono rimaste accanto fino alla fine. Con un sorriso amato, Vittorio non è stato «tradito» dal suo «humour» e ha soggiunto: «Non ho argomenti sufficienti per controbatterla».

Vittorio Metz, uno dei più famosi umoristi italiani, è morto la notte di sabato in una clinica romana in seguito a un male incurabile. Aveva 80 anni, era nato a Roma il 18 luglio del 1904. Lascia la moglie Celestina e cinque figli: Fioretta, Delfina, Massimiliano, Alessandro e Cristina. L'inizio della sua carriera risale a 60 anni fa, quando ventenne fondò il «Teatro del fanciullo» e pochi anni dopo cominciò a collaborare al «Corriere dei piccoli».

Nel '30 fu tra le firme prestigiose del settimanale satirico «Marc'Aurello» diretto da Vito De Bellis, assieme a Giovanni Mosca, Cesare Zavattini, Federico Fellini (autore delle vignette) e a Marcello Marchesi, col quale, a cominciare dal '54 avrebbe creato un sodalizio proficuo e brillante quanto quello di Garinei e Giovannini. Uno del motivi di maggiore orgoglio per Metz era stato «Il Bertoldo», edito da Rizzoli, al quale egli diede vita col contributo prezioso di Mosca nel 1936. Una data importante, cosi come era solito ripetere, «per l'umorismo in Italia e per il linguaggio ad esso attribuito».

Nel 1947, nel clima di libertà instauratosi nel nostro Paese, Vittorio Mete fu nominato direttore della «Tribuna illustrata». Contemporaneamente diede un apporto, felice e caustico, al cinema che toccò le punte di diamante con film interpretati da Macario («Imputato alzatevi!», «Il fanciullo del West») e da Rascel («Pazzo d'amore»).

Una cinquantina di pellicole comico-brillanti, alla cui realizzazione Metz partecipò nel duplice ruolo di soggettista e di sceneggiatore, talvolta anche di regista, con protagonisti Totò, Walter Chiari, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Vittorio De Sica. Vittorio Metz, aveva una debebolezza: quella di scrittore. Alcuni titoli dei suoi libri: «Per voi signore»; «Mia moglie a 45 girl» in cui sorrideva sul modo, di esprimerti della tua affettuosa compagna.

«Stampa Sera», 5 marzo 1984


Regia e soggetto

Lo sai che i papaveri, coregia con Marcello Marchesi (1952)

Sceneggiatura e soggetto

Non me lo dire! regia di Mario Mattoli (1940)
Pazzo d'amore regia di Giacomo Gentilomo (1942)
C'è un fantasma nel castello, regia di Giorgio Simonelli (1942)
Il fanciullo del West, regia di Giorgio Ferroni (1942)
Arcobaleno, regia di Giorgio Ferroni (1943)
L'avventura di Annabella, regia di Leo Menardi (1943)
Macario contro Zagomar, regia di Giorgio Ferroni (1944)
Circo equestre Za-bum, regia di Mario Mattoli (1945)
Tutta la città canta, regia di Riccardo Freda (1945)
Partenza ore 7, regia di Mario Mattoli (1946)
11 uomini e un pallone, regia di Giorgio Simonelli (1948)
Totò al giro d'Italia, regia di Mario Mattoli (1948)
Accidenti alla guerra!..., regia di Giorgio Simonelli (1948)
Adamo ed Eva, regia di Mario Mattoli [1949)
Totò le Mokò, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1949)
Totò sceicco, regia di Mario Mattoli (1950)
Tototarzan, regia di Mario Mattoli (1950)
Figaro qua, Figaro là, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
I cadetti di Guascogna, regia di Mario Mattoli (1950)
Totò cerca moglie, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Bellezze in bicicletta, regia di Carlo Campogalliani (1951)
La paura fa 90, regia di Giorgio Simonelli (1951)
Arrivano i nostri, regia di Mario Mattoli (1951)
Il padrone del vapore, regia di Mario Mattoli (1951)
Era lei che lo voleva!, regia di Marino Girolami e Giorgio Simonelli (1953)
Io piaccio, regia di Giorgio Bianchi (1955)
La moglie è uguale per tutti, regia di Giorgio Simonelli (1955)
Totò lascia o raddoppia?, regia di Camillo Mastrocinque (1956)
Susanna tutta panna, regia di Steno (1957)
Femmine tre volte, regia di Steno (1957)
Totò, Vittorio e la dottoressa, regia di Camillo Mastrocinque (1957)
Buongiorno primo amore!, regia di Marino Girolami e Antonio Momplet (1957)
Totò a Parigi, regia di Camillo Mastrocinque (1958)
Mia nonna poliziotto, regia di Steno (1958)
Domenica è sempre domenica, regia di Camillo Mastrocinque (1958)
Totò, Eva e il pennello proibito, regia di Steno (1959)
I tartassati, regia di Steno (1959)
La cambiale, regia di Camillo Mastrocinque (1959)
Fantasmi e ladri, regia di Giorgio Simonelli (1959)
Le olimpiadi dei mariti, regia di Giorgio Bianchi (1960)
Femmine di lusso, regia di Giorgio Bianchi (1960)
Appuntamento a Ischia, regia di Mario Mattoli (1960)
A noi piace freddo...!, regia di Steno (1960)
Psycosissimo, regia di Steno (1961)
Sua Eccellenza si fermò a mangiare, regia di Mario Mattoli (1961)
Maciste contro Ercole nella valle dei guai, regia di Mario Mattoli (1961)
Totò diabolicus, regia di Steno (1962)
Appuntamento in Riviera, regia di Mario Mattoli (1962)
Uno strano tipo, regia di Lucio Fulci (1963)
Gli onorevoli, regia di Sergio Corbucci (1963)
002 agenti segretissimi, regia di Lucio Fulci (1964)
00-2 Operazione Luna, regia di Lucio Fulci (1965)
I due parà, regia di Lucio Fulci (1965)
Una ragazza tutta d'oro, regia di Mariano Laurenti (1967)
I ragazzi di Bandiera Gialla, regia di Mariano Laurenti (1967)
I tre che sconvolsero il West (Vado, vedo e sparo), regia di Enzo G. Castellari (1968)
I nipoti di Zorro, regia di Marcello Ciorciolini (1968)

Sceneggiatura

Lo vedi come sei... lo vedi come sei?, regia di Mario Mattoli (1939)
Imputato, alzatevi!, regia di Mario Mattoli (1939)
Il pirata sono io!, regia di Mario Mattoli (1940)
Cenerentola e il signor Bonaventura, regia di Sergio Tofano (1942)
Dove sta Zazà?, regia di Giorgio Simonelli (1947)
L'imperatore di Capri, regia di Luigi Comencini (1949)
Biancaneve e i sette ladri, regia di Giacomo Gentilomo (1949)
Il monello della strada, regia di Carlo Borghesio (1950)
La bisarca, regia di Giorgio Simonelli (1950)
47 morto che parla, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Totò terzo uomo, regia di Mario Mattoli (1950)
Una bruna indiavolata, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1951)
Io sono il Capataz, regia di Giorgio Simonelli (1951)
Era lei che lo voleva, regia di Marino Girolami e Giorgio Simonelli (1952)
Se vincessi cento milioni, regia di Carlo Campogalliani e Carlo Moscovini (1953)
Siamo uomini o caporali?, regia di Camillo Mastrocinque (1955)
Totò all'inferno, regia di Camillo Mastrocinque (1955)
Il campanile d'oro, regia di Giorgio Simonelli (1955)
Un militare e mezzo, regia di Steno (1959)
La duchessa di Santa Lucia, regia di Roberto Bianchi Montero (1959)
La ragazza di mille mesi, regia di Steno (1961)

Soggetto

Totò cerca casa, regia di Steno e Monicelli (1949)
È arrivato il cavaliere, regia di Steno e Monicelli (1950)
Totò, Peppino e i fuorilegge, regia di Camillo Mastrocinque (1956)
Pugni pupe e marinai, regia di Daniele D'Anza (1961)
I moschettieri del mare, regia di Steno (1961)
Yellow: le cugine, regia di Gianfranco Baldanello (1969)
Stanza 17-17 palazzo delle tasse, ufficio imposte, regia di Michele Lupo (1971)

Principali opere letterarie

La teoria sarebbe questa: romanzo umoristico, Milano, Rizzoli, 1935
Selciato di Roma, Milano, Rizzoli, 1942
Mia moglie a 45 giri, Milano, Rizzoli, 1963
Giovanna, la nonna del corsaro nero, Milano, Rizzoli, 1962
Mezzo secolo di risate ... a TuttoMetz: i più famosi scritti di Vittorio Metz caposcuola dell'umorismo italiano, dai mitici anni Trenta del Marc'Aurelio e del Bertoldo ai giorni nostri, prefazione di Oreste Del Buono, Milano, SugarCo, 1985

Note

  1. ^ Marcello Veneziani, Se a sinistra la stampa è più violenta, in Il Giornale del 29 agosto 2012

Riferimenti e bibliografie: