Steno (Vanzina Stefano)
Roma, 19 gennaio 1915 – Roma, 13 marzo 1988
Quando con Monicelli abbiamo fatto Totò cerca casa abbiamo trovato la stessa troupe che aveva lavorato ne L'imperatore di Capri di Comencini, entrambi i film erano prodotti da Ponti. Clemente Fracassi, che era il direttore di produzione, ci ha fatto trovare la stessa troupe, e ci ha detto: "A Totò gli dà la spinta, gli dà la carica se dopo ogni inquadratura c'è l'applauso della troupe che ride". Era ancora legato al fatto teatrale. Erano un po' i primi film di Totò che si facevano, ci siamo trovati di fronte al problema di adattare il mezzo cineematografico a Totò, alla sua comicità. È lì che è nato questo tipo di regia che abbiamo fatto con Monicelli; le facevano già Bragaglia e Mattoli, e poi l'hanno fatta anche altri, più o meno. Quelli che hanno lavorato di più con Totò sapevano che ci si doveva adattare a Totò, si doveva valorizzare Totò, i film eran fatti per Totò.
Siamo stati un po' i primi, con Mattoli e Bragaglia, ad adattare il mezzo cinematografico a Totò. "Totò cerca casa" è nato dai fumetti disegnati da Attalo un noto disegnatore umoristico a cui si è ispirato anche Fellini: "La famiglia Sfollatini" era una famiglia che cercava sempre casa e non riusciva a trovarla. Scrivemmo il soggetto con Vittorio Metz, collaborai anche alla sceneggiatura. "Totò cerca casa" nacque così da un problema di attualità, ma anche da queste vignette di Attalo. Totò era molto istintivo, conosceva bene il suo personaggio ma forse ignorava la sua forza drammatica. Quando gli facemmo leggere la sceneggiatura di "Guardie e ladri" ci disse: "È bellissima, ma io cosa c'entro, io non posso farlo, questo è un film per Fabrizi". Gli dicemmo: "Ma guarda che puoi fare una cosa formidabile". "Guardie e ladri" è stato un po' diverso dagLI altri film, è stata una delle prime volte che Totò ha lavorato con un altro attore importante, e anche la regia è stata più attenta, più presente.
Adattare il mezzo cinematografico a Totò non era sempre facilissimo, anche perché lui stesso non sapeva quali erano le sue possibilità cinematografiche Eravamo all'inizio. Dopo si è capito, lo ha capito meglio anche lui, ma all'inizio era una scoperta. Totò diceva sempre che alla mattina non si può far ridere per contratto alla mattina non lavorava. Così non riuscivamo a fare gli esterni. Il pezzo dell'inseguimento di "Guardie e ladri" ci abbiamo messo quindici giorni a farlo, non arrivavano mai né lui né Fabrizi. Alla fine ha capito che doveva venire alla mattina e doveva correre, anche se di solito non correva mai. Era mezzo assonnato, ma è venuto alla mattina e si è messo a correre.
Steno
Figlio di Alberto Vanzina, giornalista del Corriere della Sera emigrato in Argentina in gioventù e di Giulia Boggio, a tre anni rimase orfano del padre con la famiglia che versava in gravi difficoltà economiche. Completò gli studi liceali e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza non terminando gli studi universitari. Diplomatosi scenografo all’Accademia di Belle Arti, entrò al Centro Sperimentale di Cinematografìa e iniziò a disegnare caricature, vignette e articoli umoristici adottando lo pseudonimo di Steno (che utilizzerà anche al cinema tranne in due occasioni nelle quali si firmò col suo vero nome) in omaggio ai romanzi di Flavia Steno, dapprima alla Tribuna Illustrata, quindi entrando nella redazione del celebre giornale umoristico Marc'Aurelio, vera fucina di nomi in seguito importanti come Marcello Marchesi e Federico Fellini dove rimase per cinque anni, scrivendo nel medesimo tempo anche copioni radiofonici e testi per il teatro di avanspettacolo.
Da lì le porte del cinema si aprirono grazie a Mario Mattòli, che lo vuole come sceneggiatore, gagman e spesso aiuto regista in molti suoi film, scrivendo copioni anche per Simonelli, Bragaglia, Freda e Borghesio, oltre ad apparire come attore in due film. Nel 1949, con Al diavolo la celebrità fece il suo esordio alla regìa dirigendo otto film in collaborazione con Mario Monicelli, già suo fedele compagno di sceneggiature sin dall'immediato dopoguerra. A partire dal 1952, con Totò a colori firmò da solo le sue pellicole.
Nei trenta anni seguenti, specializzatosi nel prediletto cinema comico, diresse un grande numero di film che ottennero spesso strepitosi successi con tutti gli attori cari al grande pubblico, tra i quali quelli più grandi, Totò e Alberto Sordi, ma anche Aldo Fabrizi, Renato Rascel, le coppie Tognazzi-Vianello e Franchi-Ingrassia, Johnny Dorelli, Lando Buzzanca, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Paolo Villaggio e Diego Abatantuono, nonché attrici celebri del calibro di Marisa Allasio, Sylva Koscina, Edwige Fenech, Ornella Muti e tante altre. I titoli dei film da lui diretti hanno giustamente segnato un'epoca. Regista ironico e, a volte, dissacrante, subì nel 1954 anche una clamorosa disavventura censoria con la commedia "galante" Le avventure di Giacomo Casanova, ritirata dagli schermi e rimessa in circolazione dopo numerosi tagli. Una versione restaurata di questa pellicola è stata presentata in una sezione collaterale della 62° Mostra del Cinema di Venezia.
Negli anni settanta e ottanta ottenne ancora consensi con il notevole La polizia ringrazia, capostipite della serie definita "poliziottesca", e dirigendo Bud Spencer nei quattro film della serie di "Piedone" e nei sei film per la televisione della serieBig Man lasciati incompiuti a causa della sua improvvisa scomparsa. Il suo ultimo lavoro per il grande schermo fu lo sfortunato Animali metropolitani, impietoso pamphlet sulle brutture della edonistica società italiana della fine degli anni '80, uscito tre mesi dopo la sua morte e prontamente ritirato dalle sale per assenza di pubblico.
Sposato con Maria Teresa Nati, ebbe da lei due figli entrati con successo nel mondo del cinema: Enrico come sceneggiatore, Carlo come regista e produttore.
Nel 2008, vent'anni dopo la sua scomparsa, viene presentato alla Festa del Cinema di Roma il documentario a lui dedicato Steno, genio gentile.
Totò aveva una personalità talmente strana e talmente personale che qualsiasi regista doveva per forza subirne i limiti nel senso che era un grande attore: allora se tu avevi in mente un'inquadratura particolare e se lui non capiva quel movimento, non lo sentiva, quella inquadratura non la potevi fare... Bisognava lasciarlo fare, insomma. Una volta mentre stavamo girando Letto a tre piazze, si mise più o meno, con Peppino De Filippo che gli faceva da spalla e lo seguiva perfettamente, a recitare a soggetto ignorando le battute che erano nel copione. Cominciò a muoversi, scendere dal letto dove si trovava, tornare su, calpestare Peppino, inventando tutto o quasi: la scena riuscì perfetta e fu proprio un esempio di teatro napoletano dell'arte trasportato nel cinema... Non era il caso di stare a fare della regia: era come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico. Faceva mettere sui contratti che lui sarebbe arrivato sul set del film alle due del pomeriggio. "La mattina non si può far ridere," diceva. I copioni dei film che faceva non lo interessavano molto, leggeva più l'almanacco della nobiltà che i copioni dei film che interpretava. Era amico dei produttori che lo facevano lavorare. "Il produttore deve guadagnare," diceva, "se non guadagna fallisce, e se fallisce io non lavoro più."
"Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
La rassegna stampa
Un film in cui rispunta spesso De Amicis
Il Varietà è stato talmente saccheggiato, ormai quasi da un secolo, dalla pittura, dalla poesia, dalla letteratura e, per ultimo, dal cinema, che ben poco in questo campo resta da dire che non sia già stato detto. Scoperto dal decadentismo europeo in cerca di una nuova poetica, esso ha fatto presto a diventare convenzione cartacea o figurativa, un po’ come la mitologia greco-romana per la letteratura e la pittura classiche. Per tenerci al solo cinema, quanti film di questo genere abbiamo visto a partire dal lontano Variété con Lia de Putti e Emil Jannings. Bisogna, tuttavia, notare che il varietà cosi monotonamente eguale a se stesso in tutti i tempi e in tutti i luoghi, sembra avere riserve insospettate di vitalitf che ne giustificano sempre nuove interpretazioni, alcune delle quali, ogni tanto, anche nuove e felici. In realtà esso è vecchio quanto il mondo e le squisite figurine di danzatrici e mimi e suonatori dei vasi greci sono i lontani antenati delle nostre soubrettes in tutù, dei nostri caratteristi e dei nostri virtuosi di sassofono.
Steno e Monicelli con il loro film "Vita da cani" hanno voluto presentarci una nuova interpretazione di questo mondo dell'arte cosidetta varia, insieme prestigioso e logoro. Questi due registi e sceneggiatori, come è noto, provengono dalle file dei redattori di giornali umoristici che, durante i vent’anni del fascismo, ebbero grande fortuna. In quegli anni la formula dell’umorismo nostrano si rinnovò completamente riuscendo quasi a uscire dal vieto campo della freddura e a sfiorare la critica di costume. Fu un momento breve in cui la piccola borghesia italiana, dimenticando per poco le sue eterne angustie economiche, parve inclinare ad una maggiore conoscenza di sè, dei propri limiti e delle proprie deficienze. Dell’umorismo giornalistico, i nostri due registi hanno conservato sopratutto la disposizione a risolvere in una «battuta» le situazioni e le psicologie. Quale differenza passa tra la «battuta» e il «gag» cinematografico? Diremo che la «battuta» non ha che una dimensione, rivelandosi, appunto di essenza giornalistica, mentre il gag, con tutto il suo automatismo, sembra esser più ricco di sostanza teatrale. Abbiamo, con questa osservazione, già indicato uno dei limiti del film.
La storia del quale è molto semplice. Una modestissima compagnia di arte vana viaggia, come è l’uso, per le più sperdute e rustiche città dell’Italia provinciale. Il capocomico, Martoni, è un brav’uomo clamoroso ma cuor d’oro; al misero carro di Tespi sono aggregate o si aggregano numerose, Delle ragazze ansiose di «sfondare». Dopo molte vicende, effettivamente, almeno tre delle ragazze «sfondano». La prima diventa una celebre «soubrette» del varietà; la seconda si sposa con un bravo giovane che le vuol bene; la terza, dopo un fidanzamento povero e un matrimonio ricco, si suicida gettandosi dalla finestra. La compagnia comica Martoni che, all'inizio del film, abbiamo visto viaggiare in terza classe per l'Italia, riprende alla fine le sue peregrinazioni nella stessa classe di treno e con la stessa miseria.
Steno e Monicelli, avvertendo senza dubbio il carattere ormai oleografico dell’argomento, hanno avuto la buona idea, soprattutto nella prima parte, di puntare sulla descrizione di un ambiente meno noto; quello dei paesini visitati, appunto, soltanto dalle compagnie di terzo e quarto ordine. Abbiamo anche noi viaggiato in provincia e così abbiamo ritrovato con piacere le sale squallide e gelate, di solito adibite a cinema, con le sgangherate poltrone popolate di sbalorditi contadini; i minuscoli palcoscenici e le orchestre di tromboni; le locande rustiche avvezze a ospitare sensali di bestiame e viaggiatori di commercio; i caffeucci affollati ai giorni di mercato. La compagnia Martoni, con il suo capocomico miserabile e abituato a non pagare i conti e il suo stuolo di belle fanciulle affamate e affettuose, in quei paesini, su quei palco-scenici, ci sta benissimo; e, infatti, tutta la prima parte del film è non soltanto divertente ma anche veritiera. Peccato che i due registi non abbiano insistito su quegli ambienti cosi genuini e relativamente nuovi.
Nella seconda parte, invece, il film passa dalla provincia inedita e povera alla città ricca e troppo nota, dalla descrizione d'ambiente all’intreccio e subito decade nella ricetta e nel luogo comune. La storia della ragazza ambiziosa che sposa il milionario e poi, rosa dal rimorso, si uccide, sembra venuta fuori da un romanzo di Ohnet; la fortuna di quella che diventa soubrette non è meno abborracciata; il matrimonio della terza sa di apologhetto morale. Come al solito, appena si esce dalla miseria e dal dialetto e si passa negli ambienti ricchi e civili, ci si imbatte nella volgarità e nell’approssimazione. Quel milionario che riceve in casa sua, in vestaglia, la ballerina, è un personaggio stonato e improbabile. E anche il n odo con il quale il buon Martoni si libera delia sua soubrette per non intralciarle la camera, appartiene ad una tradizione deamicisiana ormai definitivamente scontata. Il film, oltre che sulla arguta e precisa descrizione d’ambiente della prima parte, regge sulla recitazione di Fabrizi, bravissimo davvero e più misurato e sapido del solito. Gina Lollobrigida ha dei buoni momenti e, per una volta, la sua timidezza di attrice si intona col personaggio interpretato. La regia di Steno e Monicelli, senza granai voli ma pulita e cordiale, è perfettamente adatta al genere del film, appunto, comico-sentimentale.
Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VI, n.42, 15 ottobre 1950
Felice di rivederti, Steno. Quanti anni sono passati dalla prima volta che c'incontrammo su Film? Non contiamoli: non ci conviene. Ricordo solo che a quell'epoca ero smilzo come un levriere e le ragazzine impuberi, in autobus, non si alzavano per cedermi il posto. Queste maledette ragazzine impuberi del dopoguerra, che ignorano il fascino sottile e conturbante delle tempie brizzolate! Roba da prenderle a schiaffi! Si alzano e cedono il posto! Che alzarsi e cedere il posto! Turbarsi, dovrebbero, ed abbassare il volto di virginal rossor soffuso. E invece si alzano e cedono il posto. Razza di maleducate! E poi dicono che uno ti diviene nostalgico e va ad Arcinazzo dal Maresciallo Graziani, Per forza! Fra brizzolati ci si comprende.
Ma torniamo a Steno. Scusami, Steno, la divagazione ma sai, quando ci vuole ci vuole. Dicevo che sono passali molti anni da quei giorni felici in cui tu varavi, insieme a Metz, il tuo primo film, ed io le mie prime critiche. Io, quando penso al passato mi commuovo sempre: è più forte di me. L'altra sera, per esempio, alla prima di Totò e i re di Roma, ripensando al passato, piangevo. Si, piangevo. Tu forse non mi crederai eppure piangevo. Un signore che sedeva vicino a me, nel vedermi piangere, mi urtò col gomito.
— Scommetto — disse — che lei sta pensando alle trecentocinquanta lire, che ha speso per il biglietto?
— No — risposi.
— Io, invece si.
E cominciò a piangere anche lui. Tentai di confortarlo, magnificandogli i vantaggi dell'inflazione che ha fatto di trecentocinquanta lire una cifra insignificante.
— Insignificante un corno! — mi rispose il signore — Io sono pensionato e per rimediare queste trecentocinquanta lire ho dovuto fare la cessione del quinto. Ha capito?! Del quinto!
Per cui lo abbandonai al suo destino e ritornai fra i fantasmi del passato. Rividi De Bollis e il Marc'Aurelio. Ti ricordi, Steno, quando eravamo insieme al Marc'Aurelio? Bel tempi! A quell’epoca eri piccolissimo. Mi ricordo che De Bellis appena arrivava in redazione cominciava a cercarti.
— Avete intravisto Steno? — chiedeva. (Data la sua statura piccolissima, nessuno era mai riuscito a vederlo completamente: il massimo che si poteva ottenere, aguzzando la vista, era di intravederlo).
— Mah, dovrebbe esserci —: rispondeva qualcuno — le orme cl sono.
— Cercatelo — ordinava De Bellis.
E tutta la redazione allora si metteva alla ricerca di Steno, seguendo le orme lasciate sul pavimento e sul tavoli, lavoro difficilissimo dato che spesso queste orme. Invece che condurci a Steno, ci conducevano alla zuccheriera ove cl accoglieva una indignatissima mosca. E poi a quell'epoca Steno era dispettosissimo: si nascondeva, per fare arrabbiare De Bellis, nei posti più impensati. Una volta arrivò sino a nascondersi nel calamaio, per cui quando ne usci sembrava un negro con il lutto stretto. E per farlo tornare del colore normale dovemmo usare tanta di quella scolorina che il giorno dopo il nostro editore Giorgio De Fonseca scrisse una lettera ufficiale a De Bellis per chiedergli se aveva intenzione di farlo fallire.
— Beh — gli osservò De Bellis che aveva l’animo buono — non potevamo mica lasciarlo nero! E poi a me il nero fa melanconia.
— Potevate usare la gomma per inchiostro — replicò De Fonseca — E magari il raschietto.
Dopodiché Steno rinunzlò a nascondersi nel calamai, limitandosi per i suol dispetti, ai cassetti delle scrivanie e alle chicchere. Infine un giorno decise di lasciarsi crescere i baffi, un magnifico e appariscente palo di baffi neri. Da quel giorno, però, ha dovuto smettere dì fare dispetti: dovunque si nascondesse, i baffi lo tradivano sempre. Oggi quando Mario Monicelli entra in stabilimento per girare una scena -chiede subito:
— Ci sono i baffi di Steno?
— Si — risponde l'ispettore di produzione.
— Bene — dichiara Monicelli che è un logico e un ragionatore — se ci sono i baffi, deve esserci pure: lui.
E infatti c’è, per cui Monicelli dopo essersi congratulato con se stesso per l acutezza del suo senso logico e conseguenziale (i baffi ci sono? Si? E allora c'è anche lui». Ragionamento profondo e dinanzi al quale non v'è che da arrendersi) comincia a girare. E quel che è peggio comincia a girare Totò e i re di Roma. E quel che è peggio ancora, lo finisce. Cecov nella gua tomba si agita e minacciosamente mormora: «Ai da veni!».
Osvaldo Scaccia, «Film d'Oggi», 29 ottobre 1952
Ridere non vuol dire nascondere la realtà
A colloquio con Steno e Monicelli. Umoristi e registi cinematografici - La nuova via del film comico aperta da «Guardie e ladri» La censura si accanisce contro «Totò e i sette re di Roma» - Comicità e tragedia nelle «Infedeli»
Roma, 28 novembre
Steno e Monicelli costituiscono in Italia un binomio molto popolare, perché legato ad una serie numerosa di film comici, alcuni del quali notevolmente significativi, come Guardie e ladri e il recente Totò e i re di Roma. In questi due film, e particolarmente nel primo di essi, si notano alcune caratteristiche che li differenziano dalla media della produzione comica italiana; l'umorismo di Guardie e ladri e di Totò e i re di Roma non é, infatti, gratuito e campato in aria, ma si riferisce ad aspetti reali della vita italiana d'oggi. In entrambi i film il protagonista, Totò, oltre a farci ridere, riesce, a tratti, a commuovere con la amara e dolorosa umanità del suoi personaggi.
Carriera «dalla gavetta»
Steno e Monicelli sono arrivati entrambi alla regia, diciamo cosi «dalla gavetta». Monicelli cominciò, quindici e forse più anni or sono, facendo «l'uomo del ciak» in un film di Gustav Machatg, Ballerine. A quell'epoca. Machetiy, che aveva sbalordito e scandalizzato il pubblico del Festival di Venezia con famoso quanto mediocre Estasi (in cui Hedy Kieslerova, oggi Hedy Lamar, compariva nuda), era considerato un grande maestro del cinema, soprattutto da certi giovani imbevuti di estetismo. Monicelli era anche lui convinto di vivere una fondamentale esperienza artistica, ma quando vide il film proiettato ci rimase assai male, tanto esso gli apparve scadente. Poi Monicelli fece, via via, l’«aiuto» del più importanti registi italiani, il soggettista e successivamente lo sceneggiatore. Dopo avere scritto assieme alcune sceneggiature, Monicelli cominciò a dirigere film in collaborazione con Steno. Quanto alla carriera cinematografia di quest’u'timo, essa ebbe inizio con il film Imputato alzatevi. In quell'occasione, Steno, che lavorava nel giornale umoristico Marc'Aurelio, venne chiamato a scrivere alcune trovate comiche per il film. Poi realizzò soggetti, sceneggiature e, finalmente, cominciò a lavorare con Monicelli.
— Quando si hanno piò o meno gli stessi gusti, la collaborazione è molto vantaggiosa — dicono i due registi: — oltre a rendere più spedito il lavoro, si ha modo di esercitare una reciproca critica su quello che si fa. Del resto, il cinema é soprattutto un’arte di collaborazione.
Nel corso di un lungo e interessante colloquio con i due registi, abbiamo, fra l'altro, chiesto loro informazioni sulle traversìe subite a causa della censura dal film Totò e i re di Roma. Abbiamo chiesto, in particolare, se fosse vero che nel film erano state soppresse molte scene.
— Effettivamente — rispondono Steno e Monicelli — mancano nell'edizione definitiva del film alcune scene molto importanti; per esempio, alla fine, il povero impiegato che aveva cercato la morte per poter andare nell'aldllà (la censura, fra parentesi, ha voluto che alla parola «aldilà» fosse sostituita la parola «Olimpo») a prendere i numeri del lotto e darli in sogno alla moglie, si sfogava con iI Padreterno e gli diceva press'a poco: tu che ti preoccupi tanto di me, dei miei peccatucci, della mia vita piena di miserie e di sacrifici, guarda, guarda un po’ la terra e vedrai come le cose vadano male; c’è la miseria, c’è la guerra, c’é la bomba atomica e un sacco di altri guai. Non faresti meglio ad occuparti un po’ di quello che succede laggiù? Questo finale, che avrebbe dato al film una carica satirica e drammatica molto più forte di quella che esso ha, è stato tolto di mezzo dalla censura.
— La censura — ci spiegano i nostri interlocutori — specialmente quella non ufficiale, quella cosiddetta «preventiva», è un grave ostacolo al nostro lavoro. Certi temi non si possono nemmeno toccare. Noi vorremmo che si avesse un po’ più di fiducia in noi e che ci si permettesse di realizzare film in pace, fidando nel nostra senso di responsabilità.
Il discorso cade ora sull’influenza che il cinema italiano del dopoguerra può aver esercitato specificamente sul nostro film comico.
Una parentesi tragica
Secondo Steno e Monlcelli, il cinema realista del dopoguerra ha educato il pubblico in modo tale che esso non apprezza più i film comici che non abbiano una precisa caratteristica nazionale, che non si svolgano In ambienti Italiani e che non rispecchino in un modo o nell’altro la vita dei Paese.
— Naturalmente — dice a questo punto Steno, mentre Monicelli annuisce — noi vogliamo essenzialmente far ridere, far ridere di cuore iI nostro pubblico, evitando però di cedere alle seduzioni dell'umorismo meccanico e senza senso.
Ma nel lavoro di questi due registi — finora dedicato esclusivamente al genere comico — c’è un'eccezione: La infedeli. Questo film, che sta per essere ultimato proprio in questi giorni, è infatti un film drammatico, e, ad un certo punto, addirittura tragico, Le Infedeli si svolge negli ambienti della borghesia, o meglio, di quella parte della borghesia, che è costituita dai nuovi ricchi. Esso vuole svelare la miseria morale di questi ambienti. L'episodio tragico del film (una cameriera, accusata ingiustamente di aver rubato un oggetto in casa dei padroni, si brucia viva) ricorderà un fatto di cronaca nera che commosse profondamente qualche anno fa l’opinione pubblica italiana.
Alla fine della interessante conversazione, Steno e Monicelli hanno espresso il loro amore e la loro fiducia nel nostro cinema, che costituisce, a parer loro, la forza culturale più popolare, più importante e più viva che esista oggi in Italia.
Siamo anche noi convinti, insomma, che esistano comunque le premesse di un film comico profondamente nazionale e popolare; e che, come hanno detto Steno e Monicelli, la strada da seguire sia quella maestra del realismo.
Franco Giraldi, «L'Unità», 29 novembre 1952
«Radiocorriere TV», 17 luglio 1967 - Steno
Michele Anselmi, «L'Unità», 24 gennaio 1985
Quando papà "girava" con Totò
di Enrico Vanzina
Oggi tutti parlano di Totò. Sposso a sproposito. Vorrei fare un po’ di chiarezza con informazioni di prima mano. Quelle di mio padre, il regista Steno, che tracciò questi appunti sul suo attore preferito in un bellissimo articolo di tanti anni fa. Papà ebbe la fortuna di girare molti film insieme al grande Totò. Ricordo, tra i tanti. ««Guardie e Ladri», «Totò a colori», «Totò e le donne», «Totò Diabolicus», «Totò cerca casa». Un vero e proprio sodalizio che duro dagli anni Quaranta fino alla morte del celebre attore. Raccontava mio padre che Toto era un uomo molto serio.
Il suo titolo effettivo ed incontestabile di Principe (Comneno Focas di Bisanzio) lo mostrava scritto sull’almanacco del Gotha, con il particolare che la data di nascita era resa illeggibile da un foro fatto col fuoco di una sigaretta.
Toto era un pauroso praticante, temeva più una corrente d’aria che un fiasco cinematografico. Non sali mai su un aereo. Una volta, girando un film di papà agli studi Ponti-De Laurentiis, siti in riva al Tevere, ma in uno sterrato al disotto del greto del fiume, Totò piazzò sulla riva una sentinella personale che gli desse tempestivamente l'allarme in caso d'inondazione. Era schizzinoso, timido e come tutti i comici che si rispettano schifava le racchie. Aveva, invece un debole per la bellezza callipigia. Ma sia nella vita. che in scena. Totò non era mai sboccato.
Al contrario di quanto scritto negli ultimi anni, Toto improvvisava pochissimo. Ogni suo lazzo, ogni sua battuta, era tenacemente provata «prima», in camerino. Non lavorava al mattino. Questo era previsto nei suoi contratti. Al mattino non si può far ridere, diceva. Fare gli spiritosi appena alzati è arduo, del resto ce lo hanno insegnato i romanzi d’appendice: l’alba è tragica. Mi risulta che della stessa opinione erano Stan Laurel e Oliver Hardy. Stanlio e Ollio, due che di comicità se ne intendevano.
Raramente, durante la lavorazione di un film, esprimeva il desiderio di vedere qualche scena girata. Si fidava di se stesso e dei suoi collaboratori. Ma ogni tanto, dopo l’ultimo ciak della giornata, si struccava ed elegantissimo (blazer e foulard) si sedeva in proiezione. E vedendosi sullo schermo si sbracava letteralmente dalle risate. Infatti il Principe de Curtis era ammiratore sperticato di Totò. Proprio così, a Totò piacevano solo i film di Totò.
E i film di Totò piacciono ancora. Ma a quei tempi, lo ricordo benissimo anch’io, fare il regista di Totò non faceva chic. Totò era snobbato dalla Critica e dagli Autori. Nessuno fece a tempo a spiegare al malinconico Principe de Curtis che la Tv, dieci anni dopo, lo avrebbe vendicato. Comunque, un premio lo ebbe anche lui. Era già semicieco e glielo conferì la città di Napoli, consegnandoglielo al Teatro Mediterraneo in una triste serata di pioggia di circa trent'anni fa. Triste serata perché pioveva, ma più che altro perché del mondo dello spettacolo italiano, a festeggiarlo c'era solo mio padre. Quella sera a Napoli, raccontava papà, Totò pianse. Poi, morì. Fu riabilitato, sfruttato e santificato. Oggi è eterno. Come Pulcinella.
Enrico Vanzina, «Corriere della Sera», 2 novembre 1996
Alberto Crespi, «L'Unità», 14 marzo 1988
ROMA — Il regista Steno (nome d'arte di Stefano Vanzina) è morto ieri mattina colpito da ictus cerebrale. Steno, che aveva 71 anni, era stato ricoverato sabato pomeriggio nella clinica «Mater Dei», per un malore improvviso. Nella sua lunga carriera di regista e sceneggiatore aveva lavorato ad oltre 70 film ed era considerato uno dei padri della commedia all'italiana.
Lamberto Antonelll, «La Stampa», 14 marzo 1988
Steno copiava i vizi nazionali
[...] Inventando situazioni narrative molto semplici e condendole con l'anarchia farsesca della tradizione, Steno realizzò un cinema-contenitore, capace tuttavia di trovare e valorizzare i personaggi, secondo i momenti propizi. Non fu Steno che riconquistò il nome proprio (Stefano Vanzina) al principio dei Settanta per rispondere agli umori della gente col primo film del filone poliziottesco? Così l'album di Steno è l'album dei suoi personaggi, e basta sfogliarlo per ritrovarsi. Totò viene per primo non solo perché è il più grande, ma perché è il più adatto a spiegare la riscossa, sia attraverso lo sberleffo (Totò cerca casa, allora è come adesso), sia attraverso la debolezza del patetico e del vogliamoci bene (Guardie e ladri). C'era quella scena, in Totò cerca casa, di Totò che dorme accarezzando il mappamondo, voluttuosamente e la moglie gli grida: «Svergognato». (E' anche un anticipo dell'Italia arboriana: mancano le case, ma abbondano le curve). E Sordi, nel momento della più ridicola e programmatica esterofilia? In Un americano a Roma l'attore decide di punire un piatto di spaghetti, troppo casalinghi, addentandoli avidamente e severamente. (Quanti dopo di lui). E anche gli altri personaggi sono colti nel momento di maggior rappresentatività. Metti Chiari, Rascel, la Valeri, una volta ci fu anche Orson Welles [...]
Stefano Reggiani, «La Stampa», 15 marzo 1988
Con Steno l'Italia ritornò a ridere
Stroncato da un ictus a 71 anni a Roma Stefano Vanzina, il regista "di fiducia" di Totò. Realizzò oltre 70 pellicole rompendo le barriere del neorealismo con commedie in cui si misurarono i comici migliori: Sordi, Chiari, Tognazzi, Vianello, Rascel, Pozzetto, la Melato, la Vitti, Dorelli, Villaggio e Abatantuono - Firmò il nostro primo film a colori e il primo poliziesco all’italiana
ROMA — Il regista Stefano Vanzina, in arte Steno, è morto ieri mattina a Roma per ictus cerebrale. Era stato ricoverato in clinica sabato pomeriggio per un malore improvviso, e aveva 71 anni. Il regista, che sembrava godere di ottima salute, stava preparando un serial per la Tv con Bud Spencer. I suoi due figli, Carlo ed Enrico, sono un regista e uno sceneggiatore di successo.
[...] Convinto che le regole della commedia sono sempre le stesse perché è un terreno in cui non. esiste l'avanguardia, ma pronto a notare le differenze tra la vecchia generazione dell’avanspettacolo e della rivista e quella del cabaret, Steno può vantare nella sua carriera 13 film con Totò più un episodio, l’ultimo girato dall’attore, rapatore di cappelloni in «Capriccio all'italiana» («Come Mattoli e Bragaglia anch’io mi mettevo al suo servizio, macchina fissa e via a seguire i suoi gag»), dirigendolo con Orson Welles nel pirandelliano «L’uomo, la bestia e la virtù» e facendolo debuttare nel primo colore Ferrania nel famoso «Totò a colori», ’52. [...]
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 15 marzo 1988
Filmografia
Al diavolo la celebrità (1949) (co-regìa Mario Monicelli, anche soggetto e sceneggiatura)
Totò cerca casa (1949) (co-regìa Mario Monicelli, anche soggetto e sceneggiatura)
Vita da cani (1950) (co-regìa Mario Monicelli, anche soggetto e sceneggiatura)
È arrivato il cavaliere (1950) (co-regìa Mario Monicelli, anche sceneggiatura)
Guardie e ladri (1951) (co-regìa Mario Monicelli, anche sceneggiatura)
Totò e i re di Roma (1951) (co-regìa Mario Monicelli, anche soggetto e sceneggiatura)
Totò e le donne (1952) (co-regìa Mario Monicelli, anche sceneggiatura; in realtà diretto da solo)
Le infedeli (1952) (co-regìa Mario Monicelli, anche sceneggiatura; in realtà diretto soltanto da Monicelli)
Totò a colori (1952) (anche soggetto e sceneggiatura)
L'uomo, la bestia e la virtù (1953) (anche sceneggiatura)
Cinema d'altri tempi (1953) (anche soggetto, sceneggiatura e attore)
Un giorno in pretura (1953) (anche sceneggiatura)
Un americano a Roma (1954) (anche soggetto e sceneggiatura)
Le avventure di Giacomo Casanova (1954) (anche soggetto e sceneggiatura)
Piccola posta (1955) (anche soggetto e sceneggiatura)
Mio figlio Nerone (1956) (anche sceneggiatura)
Femmine tre volte (1957) (anche attore)
Susanna tutta panna (1957)
Mia nonna poliziotto (1958) (anche sceneggiatura)
Guardia, ladro e cameriera (1958) (anche soggetto e sceneggiatura)
Totò nella luna (1958) (anche soggetto e sceneggiatura)
Totò, Eva e il pennello proibito (1959)
I tartassati (1959) (anche sceneggiatura)
Tempi duri per i vampiri (1959)
Un militare e mezzo (1960) (anche sceneggiatura)
Letto a tre piazze (1960) (anche sceneggiatura)
A noi piace freddo...! (1960) (anche soggetto e sceneggiatura)
Psycosissimo (1960) (anche soggetto e sceneggiatura)
I moschettieri del mare (1961) (anche soggetto)
La ragazza di mille mesi (1961) (anche sceneggiatura)
I due colonnelli (1962)
Totò diabolicus (1962) (anche attore)
Copacabana Palace (1962) (girato in Brasile)
Totò contro i quattro (1963)
Gli eroi del West (1963) (anche soggetto e sceneggiatura)
Letti sbagliati (1964)
I gemelli del Texas (1964)
Un mostro e mezzo (1964) (anche sceneggiatura)
Amore all'italiana (1965) (anche soggetto e sceneggiatura)
Rose rosse per Angelica (1965) (anche sceneggiatura)
La feldmarescialla (1966)
Arriva Dorellik (1967)
Capriccio all'italiana (1968) (episodio Il mostro della domenica, anche soggetto e sceneggiatura)
Il trapianto (1969) (anche sceneggiatura)
Cose di Cosa Nostra (1970) (anche soggetto e sceneggiatura)
Il vichingo venuto dal sud (1971) (anche soggetto e sceneggiatura)
La polizia ringrazia (1971) (anche soggetto e sceneggiatura, firmato col suo vero nome)
Il terrore con gli occhi storti (1972) (anche sceneggiatura)
L'uccello migratore (1972)
Anastasia mio fratello ovvero il presunto capo dell'Anonima Assassini (1973) (firmato col suo vero nome)
Piedone lo sbirro (1973)
La poliziotta (1974)
Piedone a Hong Kong (1974) (anche sceneggiatura)
Il padrone e l'operaio (1975)
Febbre da cavallo (1976) (anche sceneggiatura)
L'Italia s'è rotta (1976) (anche soggetto e sceneggiatura)
Tre tigri contro tre tigri (1977) (co-regìa Sergio Corbucci)
Doppio delitto (1977)
Piedone l'africano (1978)
Amori miei (1978)
Dottor Jekyll e gentile signora (1979) (anche sceneggiatura)
La patata bollente (1979) (anche sceneggiatura)
Piedone d'Egitto (1980) (anche sceneggiatura)
Fico d'India (1980) (anche soggetto)
Quando la coppia scoppia (1981) (anche sceneggiatura)
Il tango della gelosia (1981) (anche sceneggiatura)
Dio li fa e poi li accoppia (1982)
Banana Joe (1982) (anche sceneggiatura)
Sballato, gasato, completamente fuso (1982) (anche sceneggiatura)
Bonnie e Clyde all'italiana (1982)
Mani di fata (1983) (anche sceneggiatura)
Mi faccia causa (1984) (anche sceneggiatura)
L'ombra nera del vesuvio (1987, miniserie TV) (anche soggetto e sceneggiatura)
Animali metropolitani (1988) (anche soggetto e sceneggiatura)
Big Man (1988, miniserie TV) (anche soggetto e sceneggiatura solo 5 episodi)
Collaborazioni
Eravamo sette vedove (1938), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Imputato, alzatevi! (1939), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Lo vedi come sei... lo vedi come sei? (1939), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura e aiuto regista)
Mille chilometri al minuto (1940), regìa di Mario Mattòli (aiuto regista)
Abbandono (1940), regìa di Mario Mattòli (soggetto, sceneggiatura e aiuto regista)
Il pirata sono io! (1940), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura, dialoghi e aiuto regista)
Non me lo dire! (1940), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Luce nelle tenebre (1941), regìa di Mario Mattòli (aiuto regista)
La scuola dei timidi (1941), regìa di Carlo Ludovico Bragaglia (sceneggiatura e aiuto regista)
C'è un fantasma nel castello (1941), regìa di Giorgio Simonelli (sceneggiatura)
La donna è mobile (1942), regìa di Mario Mattòli (soggetto)
Labbra serrate (1942), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Soltanto un bacio (1942), regìa di Giorgio Simonelli (attore)
Violette nei capelli (1942), regìa di Carlo Ludovico Bragaglia (aiuto regista e attore)
Quarta pagina (1942), regia di Nicola Manzari (sceneggiatura)
L'avventura di Annabella (1943), regìa di Leo Menardi (soggetto e sceneggiatura)
Due cuori fra le belve (1943), regìa di Giorgio Simonelli (sceneggiatura)
Non canto più (1943), regìa di Riccardo Freda (soggetto e sceneggiatura)
Romanzo a passo di danza (1943), regìa di Giancarlo Cappelli (soggetto e sceneggiatura)
Il viaggio del signor Perrichon (1943) , regìa di Paolo Moffa (sceneggiatura)
Quartieri alti (1944), regìa di Mario Soldati (sceneggiatura)
Tutta la città canta (1944), regìa di Riccardo Freda (soggetto e sceneggiatura)
Dieci minuti di vita (1944), regìa di Leo Longanesi (sceneggiatura, completato da Nino Giannini col titolo Vivere ancora)
La vita ricomincia (1945), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura e aiuto regista)
Aquila nera (1946), regìa di Riccardo Freda (sceneggiatura)
L'angelo e il diavolo (1946), regìa di Mario Camerini (sceneggiatura)
Come persi la guerra (1947), regìa di Carlo Borghesio (sceneggiatura)
Il corriere del re (1947), regìa di Gennaro Righelli (sceneggiatura)
I due orfanelli (1947), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
La figlia del capitano (1947), regìa di Mario Camerini (sceneggiatura)
I miserabili (1947), regìa di Riccardo Freda (sceneggiatura)
Lo sciopero dei milioni (1947), regìa di Raffaello Matarazzo (sceneggiatura)
Follie per l'opera (1947), regìa di Mario Costa (soggetto e sceneggiatura)
Il cavaliere misterioso (1948), regìa di Riccardo Freda (soggetto e sceneggiatura)
L'eroe della strada (1948), regìa di Carlo Borghesio (soggetto e sceneggiatura)
Fifa e arena (1948), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Totò al giro d'Italia (1948), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Vespro siciliano (1949), regìa di Giorgio Pàstina (sceneggiatura)
Botta e risposta (1949), regìa di Mario Soldati (soggetto e sceneggiatura)
Come scopersi l'America (1949), regìa di Carlo Borghesio (sceneggiatura)
Il conte Ugolino (1949), regìa di Riccardo Freda (sceneggiatura)
Il lupo della Sila (1949), regìa di Duilio Coletti (soggetto e sceneggiatura)
I pompieri di Viggiù (1949), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Quel bandito sono io! (1949), regìa di Mario Soldati (sceneggiatura)
Il brigante Musolino (1950), regìa di Mario Camerini (soggetto)
L'inafferrabile 12 (1950), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Accidenti alle tasse!! (1951), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Vendetta... sarda (1951), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Anema e core (1951), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Amo un assassino (1951), regìa di Baccio Bandini (soggetto e sceneggiatura)
Core 'ngrato (1951), regìa di Guido Brignone (soggetto)
È l'amor che mi rovina! (1951), regìa di Mario Soldati (soggetto e sceneggiatura)
Tizio, Caio e Sempronio (1951), regìa di Alberto Pozzetti (sceneggiatura)
Napoleone (1951), regìa di Carlo Borghesio (sceneggiatura)
O.K. Nerone (1951), regìa di Mario Soldati (soggetto e sceneggiatura)
Cinque poveri in automobile (1952), regìa di Mario Mattòli (sceneggiatura)
Don Lorenzo (1952), regìa di Carlo Ludovico Bragaglia (soggetto e sceneggiatura)
Ragazze da marito (1952), regìa di Eduardo De Filippo (soggetto e sceneggiatura)
Ci troviamo in galleria (1953), regìa di Mauro Bolognini (sceneggiatura)
Io sono la Primula Rossa (1954), regìa di Giorgio Simonelli (sceneggiatura)
Totò, Peppino e le fanatiche (1958), regìa di Mario Mattòli (soggetto e sceneggiatura)
Totò, Peppino e...la dolce vita (1961), regìa di Sergio Corbucci (soggetto)
Le bambole (1964), episodio Il trattato di eugenetica, regìa di Luigi Comencini (sceneggiatura)
Le belle famiglie (1964), regìa di Ugo Gregoretti (sceneggiatura)
Delitto quasi perfetto (1965), regìa di Mario Camerini (soggetto);
Le piacevoli notti (1966), regìa di Armando Crispino e Luciano Lucignani (sceneggiatura)
L'arcangelo (1969), regìa di Giorgio Capitani (sceneggiatura)
Germania sette donne a testa (1970), regìa di Stanislao Nievo e Paolo Cavallina (soggetto e sceneggiatura)
Armiamoci e partite! (1971), regìa di Nando Cicero (soggetto)
Speed Cross (1979), regìa di Stelvio Massi (soggetto e sceneggiatura)
Italian Fast Food (1986), regìa di Ludovico Gasparini (soggetto)
Riferimenti e bibliografie:
- Bruno Ventavoli, "Al diavolo la celebrità", Edizioni Lindau, Torino (1999)
- Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VI, n.42, 15 ottobre 1950
- Andrea Pergolari, Verso la commedia. Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile, Firenze Libri, Firenze, 2002
- Orio Caldiron, Totò a colori di Steno, Edizioni interculturali, Roma, 2003
- Massimo Giraldi, I film di Steno, Gremese, Roma, 2007.
- Foto © Archivio Famiglia Clemente
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VI, n.42, 15 ottobre 1950
- Osvaldo Scaccia, «Film d'Oggi», 29 ottobre 1952
- Franco Giraldi, «L'Unità», 29 novembre 1952
- «Radiocorriere TV», 17 luglio 1967
- Michele Anselmi, «L'Unità», 24 gennaio 1985
- Alberto Crespi, «L'Unità», 14 marzo 1988
- Lamberto Antonelll, «La Stampa», 14 marzo 1988
- Stefano Reggiani, «La Stampa», 15 marzo 1988
- Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 15 marzo 1988