Taranto Nino (Antonio Eduardo)

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Antonio Eduardo Taranto (Napoli, 28 agosto 1907 – Napoli, 23 febbraio 1986), è stato un attore, comico e cantante italiano.


Amico mio questo non è un monologo, ma un perché sono certo che mi senti e mi rispondi. La tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l'hai onorata. Perché non l'hai dimenticata mai, perché sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l'avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l'allegria di un'ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui. Ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l'ultimo "esaurito" della sua carriera e tu, tu maestro del buonumore, questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Totò, addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori e non ti scorderà mai. Addio amico mio, addio Totò. 

Nino Taranto, l'orazione funebre al funerale di Totò


Biografia

Il teatro

Esordì tredicenne al Teatro Centrale di Napoli, interpretando quelle che sarebbero diventate le sue specialità: la "canzone in giacca" drammatica e quella da "dicitore" in abito da sera, rivelando le straordinarie doti di caratterista che l'avrebbero reso, per oltre mezzo secolo, uno degli interpreti più amati dal pubblico italiano.
Nel 1927 entrò nella compagnia di sceneggiate Cafiero-Fumo e nel 1928 si avvicinò con successo alla sceneggiatura; invitato in tournée negli Stati Uniti, ne tornò con "una pianola a nastro e mille dollari" impiegati per finanziare la sua prima compagnia di varietà, che durò solo quindici giorni e finì nel disastro totale.
Nel 1933 venne scoperto da Anna Fougez, che lo fece debuttare nella grande rivista, alla quale si sarebbe dedicato fino al secondo dopoguerra, accanto a Wanda Osiris e poi a Titina De Filippo, dando vita a straordinarie macchiette, tra le quali l'indimenticabile Ciccio Formaggio, ritagliato perfettamente su di lui dal duo Cioffi e Pisano: un ometto iellato, tradito e bistrattato dalla fidanzata, la quale per ennesimo gratuito dispetto gli sforbicia la tesa del cappello.
Proprio quella paglietta tagliuzzata divenne uno dei simboli della sua comicità ed ispirò alcuni fortunati spettacoli di rivista come Mazza, Pezza e Pizzo e Quagliarulo se ne va, oltre al popolare film Il barone Carlo Mazza di Guido Brignone (1948).
Si dedicò anche alla prosa costituendo una propria compagnia solo nel 1955 e mettendo in scena, oltre a farse e commedie leggere, i testi dell'amico e maestro Raffaele Viviani, di cui propose fra l'altro L'ultimo scugnizzo (1956) e Don Giacinto (1961), che valorizzarono al meglio la sua intensa espressività. Negli ultimi anni sarebbe tornato con successo al teatro dialettale, soprattutto al fianco di Luisa Conte.


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

1940 10 03 Tempo Nino Taranto intro

Ho conosciuto in privato Nino Taranto, a tavola, dopo lo spettacolo. Eravamo nella casa di un amico. Non conosco una persona più normale di lui: tutti i suoi colleghi hanno qualche tic, Taranto sta quieto e composto, anche nel parlare, educato come il giorno della prima comunione. Sembra timido credo sia arrivato nel nostro secolo appena appena in tempo. Infatti egli satireggia personaggi degli anni di Dorando Pietri e dello scultore Cifariello. Non solo, riconosce ai concorrenti i meriti e cammina con il pudore della propria popolarità.

Era destino che s'incontrasse con Titina De Filippo. entrambi appartengono alla Napoli familiare, con il Vesuvio. L’ingresso di Titina De Filippo nel varietà è casuale e transitorio, speriamo, anche se brillantissimo: a meno che il varietà vada, com'è augurabile, fuori da tutti gli schemi, e allora lo vedremo inghiottire un sempre maggior numero di attori veri e propri. Za-Bum fu uno straordinario esempio dal quale non si trassero rigorose deduzioni, oggi avremmo un tipo di spettacolo originale e italiano, una rivista congegnata con la collaborazione dei commediografi.

Dicevo che Taranto privato è incantevole, quasi anonimo, discreto per quanto protesta sul palcoscenico. I suoi Carlo Mazza e Nicola Quagliarulo sono vissuti sino ai trent’anni senza scosse, erano individui con i quali molto volentieri Taranto avrebbe scambiato innocui discorsi in tram. « E’ dal 1938 che non si riscontra una giornata tanto fredda». E con un profondo godimento, un affetto sostanziale. Ma un bel mattino, colpiti nell'onore, Mazza e Quagliarulo diventano dei fissati, li vediamo parlare da soli lungo la strada, borbottare il nome di Agata, di adultere che porrebbero avere le stesse qualità della Velia o della signora Bovary. Il cornuto Carlo Mazza lascia intravvedere l’amore serio, donne piuttosto delle e perfide. Uno spettatore — anzi molti spettatori — poche sere fa in Galleria avevano negli occhi certi lampi: ridevano con apparente innocenza, ma pensavano rapidissimamente: «Spero che il buon Dio mi faccia incontrare Rosa Pezza o la moglie di Nicola Quagliarulo».

Nino Taranto canzonettista (c’è quell'altro attore, meno appuntito e tuttavia grazioso) ha un’ingenuità imbattibile. Senza paradosso, egli si comporta come la maggior parte degli uomini che frequentano i tram. Alla sua fidanzata dice: «Se mi vulisse bene overamente non mi faresti sfruculiare a gente». Dopo aver enumerato le cattiverie della donna amata, che gli strappa i peli dalle orecchie, gli ficca le dita negli occhi, gli attacca il pesce di carta dietro la giacca, si capisce che non ha ancora l'illusione di non essere contraccambato. Gli basta un «ti sbagli, credimi» per tornare a credere nella vita.

Il suo è un discorso semplice, confidenziale. che si riallaccia al ricordo di Maldacea, vitalissimo anche in un periodo dove trionfa l'assurdo a detrimento dell’osservazione.

Cesare Zavattini, «Tempo», anno IV, n.71, 3 ottobre 1940


1951 10 28 L Europeo Nino Taranto intro

Polidor, il vecchio interprete delle prime farse del cinema muto, è il solo personaggio vivente tra i molti che vengono rievocati in Cavalcata di mezzo incoio, nuova rivista di Nelli Mangini. Cavalcata di Nelli e Mangini. Cavalcata, messa insieme per Nino Taranto, fu rappresentata in anteprima al Politeama di Napoli, e due giorni dopo portata al Sistina di Roma. Era il primo grande spettacolo della nuova stagione e il pubblico lo ha accolto con molto favore. Polidor vi appare all'inizio dopo una fugace apparizione della sua immagine di un tempo proiettata sullo schermo. Il suo aspetto non è molto cambiato, il suo corpo è agile, la sua voce è la voce dei clowns. Una tonalità di testa, un poco bianca, ingenua come quella dei bambini. Soltanto alla fine del «numero», quando Polidor saluta il pubblico si vede che il suo ciuffo è cucito alla calotta del cappello. Tolta la bombetta rimane una lucida calvizie, regalo del mezzo secolo passato: e non nasconderla, da parte di Polidor, è segnoo di dignità.

Questo episodio basterebbe da solo a conferire alta rivinta un’ aria malinconica, almeno patetica. Cavalcata di mezzo secolo assomiglia, nella sua concezione, a un album di famiglia o alle raccolte di fotografie uscite in occasione del cinquantennio. Senonché le fotografie conservano una loro verità documentaria, mentre la rievocazione affidata ad attori di rivista porta in primo piano una Duse che non è la Duse, un D’Annunzio che del poeta abruzzese ha conservato soltanto il pizzo, un Marinetti, un Da Verona e un Pirandello di cui non è nemmeno facile ritrovare i caratteri esteriori. Quando poi si affida ad un giovane la parte di Petrolini, attore inimitabile, chi lo conobbe ha l’impressione di guardare il sole attraverso un vetro affumicato.

Cose analoghe valgono per gli uomini politici. Di Giolitti restano la palandrana e il largo cappello, di Marcora i favoriti, di Filippo Turati la barba nera e la cravatta a fiocco. Nelli e Mangini non hanno cercato di ravvivarli con la parola o ponendoli al centro di un qualunque episodio. Si contentano di proiettarli come immagini ferine figurine a colori. E si può dire che hanno seguito lo stesso metodo anche nella scelta e nella ricostruzione dei fatti.

Un eccesso di prudenza? Non v’è dubbio che almeno in parte sia così. La rivista ha rinunziato da tempo al suo carattere satirico, non cerca grane, non vuol mordere nessuno. Se le accade di dare un pizzicotto a destra corre ai ripari con un pizzicotto a sinistra. E' un equilibrio necessario alla tranquillità di tutti e a far tutti contenti.

In mezzo secolo dì storia e di costume, quanto drammatici l'una e l’altro, c’era materia per scontentare tutti Meglio perciò stare alla superficie, attenersi agii episodi generici e ignorare quelli che, impressi nella mente di ognuno, gli spettatori della rivista vogliono illudersi di aver lasciati a casa. A tappare i buchi pensano le coreografie di Beatrice Appleyard, una inglese che può avere idee non molto chiare sugli ultimi cinquant'anni di vita italiana, ma alla quale bastano il balletto Mayfair e la prestanza di Augusto Gamucci per ideare quadri gradevoli e di effetto sicuro. Ogni altra considerazione a parte, il mezzo secolo promesso dalla nuova rivista forse è pallido anche perché concepito in funzione di sfondo. Lo spettacolo è soprattutto la cavalcata di un cinquantenne, Nino Taranto, nato all’albore del Novecento e battezzato col nome di Fortunato.

Taranto ha il merito di essere rimasto fedele alla propria vocazione di attore napoletano. Ch’egli sappia cantare gradevolmente, sia buon mimo e buon ballerino, si tratta di qualità eccellenti oggi tutte valide per la rivista ma che una volta appartenevano al corredo tradizionale degli attori ai quali lo riallacciano le sue capacità e il suo temperamento.

Con quell’ accento sempre un poco risentito e quegli atteggiamenti pronti allo scatto egli è un attore esperto, di rara misura. Nelle riviste scelte da Taranto manca quasi sempre la soubrette, ma al suo posto si trova una attrice; una volta Titina De Filippo, poi Dolores Palumbo, adesso Vera Nandi alla quale non fanno difetto né il calore né la prontezza napoletana. E, in luogo dei quadri fastosi ogni volta si trovano quadri recitati, veri e propri atti unici, piccole commedie che danno corposità allo spettacolo e ne costituiscono il pregio.

Ascoltandoli vien fatto di domandarsi per quale ragione Nino Taranto non si dedichi alla commedia. In Cavalcata di mezzo secolo gli atti unici sono una mezza dozzina. Alla fine d’uno di essi (« Scoccano i cinquanta »), isolato in un mondo che non riconosce, tra giovani che nemmeno lo ascoltano. Taranto riesce a spremere qualche lagrima dai suoi spettatori. Entrati in teatro con la volontà di ridere mettono mano al fazzoletto.

Raoul Radice, «L'Europeo», anno VII, n.44, 26 ottobre 1951


1952 10 15 Film d Oggi Nino Taranto intro

«Viva Lauro!» gridò uno spettatore sdegnato mentre Nino Taranto, nelle vesti dell'armatore Achille Lauro interpretava una macchietta di dubbio gusto intitolata lo, il Sindaco, nella quale, tra l'altro, viene ridicolizzato il Re in esilio parafrasando la famosa canzono partenopea Mari Mari nel seguente finalino: Umbertì, Umbertì, quanta sorde aggio perzo pe' te. Subito questa macchietta ha dato origine ad ua* specie di scandaletto « montato di spalla» in prima pagina dal quotidiano partenopeo della sera che « rivelava» come, poche ore prima del nuovo spettacolo, un assessore comunale avesse costretto gli autori della rivista a modificare il testo della suddetta macchietta già approvata dalla censura. In realtà, non ci era stata « costrizione» alcuna, poiché si era trattato invece di una cortesissima esortazione rivolta a Nino Taranto affinchè non insistesse su un motivo della trascorsa lotta elettorale che offendeva Napoli e i napoletani. Inoltre nello stesso giornale della sera si leggeva che Taranto si metteva paura di recare in visita dal Sindaco che lo avrebbe invitato, Taranto aveva paura? Impossibile. Lo dimostra la seguente lettera pubblicata poi dal quotidiano Roma:

« Al primo cittadino di Napoli, Comandante Achille Lauro - Nino Taranto si onora invitare la S. V. Ill.ma alla prima rappresentazione della sua rivista al Comunale Teatro Mercadante. Nel contempo chiede di poter ottenere, nel giorno e nell’ora che più aggrada alla S. V. Ill.ma, l'alto onore di poter di persona venire a porgere il suo saluto ed i sensi della sua più alta stima al Sindaco di Napoli. Sicuro del vostro benevolo consenso vivamente ringrazia i». F.to: Nino Taranto.

Comunque il successo non è mancato a Sciò Sciò. E' un titolo originale, di effetto. «Sciò sciò», fanno le massaie nei pollai; ma di pollicoltura nemmeno l'ombra in questa rivista che trae lo spunto dell'invocazione Sciò sciò, ciucciuvettole (via via, civetta del malagurio!) che i popolani partenopei adottano contro il malocchio. La rivista inizia fellcemente nella cucina dello spettacolo. In tre pentoloni al fuoco sono state messe a bollire l'operetta, la prosa e la lirica. Con la fusione di questi tre ingredienti spettacolari, alcuni eccezionali cuochi preparano un'appetitosa cena — la rivista — dal menu davvero singolare: « Macchiette alle vongole, comici alla napoletana, balletto alla Bismark, soubrette confiture ed american candies». Ma c'é da accontentare un cliente difficile: il pubblico. E‘ come un fanciullo bizzoso: non gli piace niente, non vuole più sambe nè satira politica. Il pubblico, diventa sempre più esigente. Occorrerebbe farlo tornare docile come una volta. Come? Magari con gli scongiuri: ci penserà uno di quei caratteristici tipi che vanno, in giro per Napoli in bombetta nera, con gli occhiali e con un barattolo colmo d'incenso da gettare a destra e a manca per scaramanzia. Sciò scio, coucciuvé è il ritornello ma che, assieme a un pugno di incenso, allontana i guai. Così ripetendo Nino Taranto, come sempre brillantissimo, sempre frizzante e spassoso, viene accolto calorosamente dal pubblico felice di farsi «incenziare» contro il malocchio da un simpaticone come lui, vero animatore della rivista, ottimamente coadiuvato da Dolores Palumbo, che inonda il palcoscenico con le sue inconfondibili risate argentine, Dolores è stata senz'altro la migliore in campo; o, meglio: in palcoscenico.

Dopo i primi tre quadri non si parla più di Sciò sciò: ormai il malocchio è stato cacciato dallo spettacolo; ma è questa una buona ragione per dimenticare completamente ridea iniziale della quale gli autori non hanno più usufruito nemmeno come sfilo conduttore, di cui la rivista è priva, Sciò sciò, cicciuvè. questo orecchiabile ritornello del maestro Festa sarà ripetuto soltanto nel due finali. Quindi, si spegne subito la buona idea iniziale che invece, adeguatamente sviluppata, avrebbe potuto rinsanguar e un po’ l’anemico copione reso ancora (più povero con l’esclusione di un divertente sketch — quello sul « Centro di assistenza per gli stanchi della vita», — esclusione decisa all’ultimo momento dagli autori per non « interrompere» il ritmo serrato della rivista all’americana.

L’anno scorso, con «Cavalcata di mezzo secolo» gli sketch e le gustose rievocazioni di Nelli e Mangìni trassero ben poco beneficio dalla poco appropriata coreografia, dovuta alla Appleyard. Il copione, insomma, era buono in confronto alla mediocre coreografia. Quest’anno, invece, si verificato il contrario: la coreografia ha sopraffatto il copione. A cominciare dallo arioso balletto « Passerotto e passeretta oggi sposi» il pubblico ha capito subito di trovarsi di fronte alle composizioni di una esperta coreografo: Gisa Geert. Tuttavia ella avrebbe potuto utilizzare meglio la passerella, poco sfruttata nel corso dello spettacolo arricchito da ben duecentoquaranta modelli di costumi creati dall’ottimo Veccia, autore pure degli stilizzati bozzetti delle scene realizzate con razionale eleganza, come nella « Fantasia olimpionica». Qui può sembrare che Gisa Geert tenti quasi di emulare Leni Riefenstahl.

Inoltre, nella prima parte della rivista, si rivede - senza avvertirne la necessità - « Una vecchia Canaglia», il dott. Hauser, con relativa « frullata di frutta» ballata a girandola. E si rivedono l’inutilizzata, cantante Maria Valli e la prestigiosa coppia Gedrlg-Weissmuller, danzatori davvero magnifici, molto espressivi, sincronizzati alla perfezione. Poi è la volta dei simpaticissimo Frianco Scandurra, che fa mollo Zavattini ne « La quindicesima ora di Umberto Acca».

Il primo tempo si conclude con uno spettacolare crescendo — voilà les napolitains! — composto da tre documentari: un vivace sketch (Elezioni a Napoli); una rassegna, buffa come un fotomontaggio umoristico, di maschere grottesche applicate sui volti di sette ballerine che fanno così piroettare i « grandi napoletani nel mondo: De Nicola, Totò, i tre De Filippo, lo stesso Taranto e la Palumbo; ed infine — attraverso sequenze quasi cinematografiche — « I napoletani a New York»; ovvero la giornata di due sposini partenopei semismarriti tra i gangsters di Brooklyn, i gagà di Brodway e i negri di Harlem. In queste sequenze certi lampioni spenti con funzioni marginali — senza luce — diventano elementi delle quinte anziché della scena.

Durante la triplice passerella del primo finale, fra applausi non troppo scroscianti, vengono trascinati alla ribalta anche gli autori, la coreografo e perfino il capo-macchinista. La seconda parte inizia con un balletto patetico il cui protagonista è Pinocchio, privato (chissà poi perchè) del celebre naso — e i cui generici sono papà Collodi e le girls come rappresentanti dei fanciulli di ogni razza. Quindi la parodia di « Rasciomon» — giocata dal terzetto di punta Taranto-Palumbo-Scandurra — suscita molta ilarità. Viceversa si svolgono tra la massima indifferenza i siparietti nei quali vengono caricaturati i tre programmi radiofonici o i festival di Venezia, di San Remo e della canzone napoletana. :

Ormai si avvicina il finalissimo e si presentano alla ribalta alcune facce nuove per queste scene»: Naguib, Mossadeq, Nilla Pizzi ed il Padrone del Vapore, ovverosia il comandante Lauro. Ed ecco il finalissimo all'inchiostro stilografico, vale a dire « tutto blu» con la sfilata degli azzurri personaggi delle favole e della realtà: il principe azzurro, la Serenata Celeste, l’Angelo azzurro, lo scettico blu e tanti altri; ed infine il « Paradiso azzurro», cioè la prima donna Nuccia D’Alma, una mezza-soubrette che fa del suo meglio per somigliare ad Elena Giusti. Molto più di lei sono piaciute senz’altro la gustosa Enza Soldi, la deliziosa Luciana Cervi, la garbata Rosetta Pedrani e l'agile Vera Venier. Anche la Vallèe, la Deys, la Hamlyn, la Sampieri, la Niver, la Pole, la Moreno sono apparse assai in gamba. A posto, infine, Carletto Taranto, caratterista di prim'ordine, e tutti i suoi compagni. Festosa... l'orchestra Festa. Accurata la regia di Mangini. Notata l’assenza di Enzo Turco e soprattutto l’assenza di una vera soubrette.

Sergio Lori, « Film d'oggi», 15 ottobre 1952


1953 Epoca Nino Taranto intro

«Epoca», 1953



Il cinema

Esordì al cinema nel 1938 con Nonna Felicita di Mattoli ma fu stabilmente attivo dal dopoguerra interpretando un centinaio di pellicole, a cominciare da I pompieri di Viggiù sempre di Mattoli (1949), strepitosa carrellata del teatro di rivista.

Interprete versatile, ugualmente a suo agio con la paglietta tagliuzzata del macchiettista, con gli abiti dimessi dello sfortunato professore di Anni facili di Luigi Zampa (1953), per cui si aggiudicò un Nastro d'Argento, con i ruoli brillanti di Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli (1954), con la commedia di costume di Mariti in città di Luigi Comencini (1957) e con le calibrate prove drammatiche di Italia piccola di Mario Soldati (1957). Egli riuscì però ad esprimere appieno la propria vis comica solo al fianco del grande Totò, di cui fu spalla affidabile e devota: dalla complicità di Tototruffa 62 di Camillo Mastrocinque (1961) alla parodia di Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio, fino al travolgente Il monaco di Monza di Sergio Corbucci (1963).
Dalla metà degli anni sessanta fino al 1971 (anno in cui girò il suo ultimo film), Taranto prese parte, come caratterista d'eccezione, a ben diciannove musicarelli, al fianco di nomi importanti della musica leggera, come Gianni Morandi e Albano Carrisi.

La radio

Nino Taranto fu anche uno dei comici in assoluto più presenti alla radio, dove accentuò, più che l'eleganza che lo contraddistingueva sul palcoscenico, la voce duttile e la gioiosa caratterizzazione napoletana. Negli anni cinquanta partecipò a molti dei più popolari varietà radiofonici del momento (Rosso e nero, 1951; Chicchirichì, 1953; L'occhio magico, 1954; Fermo posta, 1956) e condusse Il fiore all'occhiello (1958).
Interpretò inoltre numerose riviste imperniate sulle gag del "napoletano a New York", come La ninotarantella di Nelli e Mangini (1954, regia di Meloni), Biancaneve e i sette Nini di Verde (1955, diretta da Mantoni) e Chi sarà sarà ancora di Verde (1958, regia di Jurgens); oltre che riviste di tema vario, tra cui Caviale e lenticchie di Scarnicci e Tarabusi (1957), Tarantella di fuoco di Compagnone e Zefferi (1958) e la "fantascientifica" La bellissima époque di Dino Verde (1960), autore tra i più congeniali all'artista.
Fu protagonista anche di varie commedie, fra cui Mettiamo le carte in tavola di Giuffré e Ghirelli (1956, regia di Mantoni), Bello di papà di Marotta e Randone (1960, allestita da Giandomenico Giagni) e L'imbroglione onesto del prediletto Viviani (1961, regia di Vittorio Viviani).
Graditissimi al pubblico radiofonico, inoltre, i vari "one man show" che presentavano i suoi maggiori successi, da Mostra personale (1958, regia di Giagni) ad Il mio spettacolo: Nino Taranto di Francesco Luzi (1961, regia di Marco Lami), a Paglietta a tre punte (1963).
Anche gli anni settanta lo videro impegnato in un'intensa attività radiofonica: ospite fisso di molte edizioni del celebre programma Gran varietà, nel 1976 interpretò, per il ciclo Una commedia in trenta minuti, le pièce Piccolo caffè di Bernard, Il signor di Pourceaugnac di Molière e Socrate immaginario di Ferdinando Galiani, tutte dirette da Gennaro Magliulo.
Nel 1977 fu tra i conduttori di Un altro giorno e presentò la rassegna di poeti e musicisti partenopei Pagine napoletane, mentre nel 1980 partecipò a La bella bionda di Imbriani (regia di Carlo Di Stefano) e nell'81 tornò ai microfoni per presentare Lezione di farsa, itinerario radiofonico sulla fortuna e sfortuna della comicità plebea diretto da Magliulo.

La televisione

Negli anni sessanta accrebbe la sua popolarità con numerose partecipazioni televisive, come il varietà Lui, lei e gli altri (1956), firmato da Marchesi e Metz, e l'edizione 1964-65 di Canzonissima dal titolo Napoli contro tutti, ma senza abbandonare la radio.
Nel 1962 condusse Il cronotrotter, mentre nel 1968 fu l'interprete della rubrica di canzoni e poesie napoletane Cinque rose per Nanninella. Grande successo ebbe la sua partecipazione al varietà televisivo Io, Agata e tu (1970), diretto da Romolo Siena, in cui affiancava con incontenibile verve il cantante Nino Ferrer e la giovanissima Raffaella Carrà; in questo programma ebbe modo di riportare al successo una canzone del suo repertorio macchiettistico, Agata.
Nel 1974 fu ospite di una puntata del celebre varietà Milleluci, per la regia di Antonello Falqui, dove ripropose, insieme a Mina e Raffaella Carrà, le sue più famose macchiette.
Nel giugno 1983, la Rai trasmise al sabato sera un ciclo di tre commedie dirette da Gaetano Di Maio, rappresentate al Teatro Sannazzaro di Napoli, delle quali fu cointerprete insieme a Luisa Conte: Morte di Carnevale, Nu bambeniello e tre San Giuseppe, Arezzo 29. Negli anni successivi le repliche televisive sono state riproposte sia dalla stessa Rai, sia da emittenti private napoletane.
Tra la fine del 1984 e l' inizio del 1985 la RAI trasmise Taranto Story, monografia in quattro puntate dedicata al celebre attore partenopeo, e nel 1993 la radio italiana gli dedicò il tributo La più bella paglietta di Napoli, che ne ripercorreva gli indimenticabili successi.
Nino Taranto morì nella sua Napoli nel 1986, all'età di settantotto anni, lasciando un grande rimpianto nel suo affezionatissimo pubblico che lo amava con grande affetto e rispetto.


Gli inizi al varietà

Ho iniziato a fare teatro a tredici anni nel 1920, in un teatro alla periferia di Napoli, si chiamava Centrale, teatro a spettacoli a rotazione. Ho incominciato col varietà, ero bambino. Già avevo fatto alcune famose soirées napoletane; battesimi, sposalizi che si facevano fra famiglie, amici; e siccome i miei zii materni avevano formato una piccola orchestrina io avevo già la vocazione per cantare, mi portavano con loro, finché arrivato all’età di undici anni ho cominciato a studiare musica e canto, e a tredici anni ho debuttato. Nella famiglia di mio padre erano tutti militari, ci sono stati due generali, gli zii di mio padre; la famiglia di mia madre era una famiglia borghese, aveva una sartoria da uomo. Dopo questo primo debutto ho continuato il varietà fino a venti anni, ma la mia aspirazione era quella di fare il teatro, teatro di prosa, tanto che da giovani avevamo formato una compagnia di filodrammatici e ci esibivamo nei vari circoli che esistevano a Napoli. A ventidue anni entrai a far parte in una compagnia di sceneggiate, la compagnia Cafiero-Fumo, una compagnia molto grossa.

Col varietà ho girato l’Italia per quasi dieci anni, mi chiamavano il piccolo re dei comici. Ebbi anche la fortuna di militare assieme ai grandi del varietà, Petrolini, Viviani, Molinari, Gino Franzi: e fu proprio il Franzi a farmi avere un contratto per l’Apollo di Milano e per il Maffei di Torino. Dopo tornai a Napoli perché mi dovevo presentare militare; ebbi la fortuna di essere riformato e cosi mi sposai.

Il lavoro in queste compagnie era abbastanza semplice, ognuno faceva un genere e io facevo un genere misto, il genere di Pasquariello, la canzone drammatica, la canzone detta da dicitore e la canzone comica, intervallavo il numero con questi tre tipi di interpretazione. Allora non ballavo, ho cominciato a ballare quando ho fatto la rivista, l’ho fatta dopo due anni di sceneggiate. Sono stato due anni con i Cafiero-Fumo principalmente per scuola (allora non c’erano le accademie) e per me è stata una grossa scuola, perché si recitava, e le sceneggiate non erano come quelle di oggi, erano molto diverse. Erano compagnie a spettacoli completi, uno spettacolo al giorno, oggi se ne fanno tre, poi non esistevano coltelli, né sfregi, né guapperie... si pensi che in compagnia eravamo quarantacinque persone. Naturalmente anche le storie, le trame erano diverse, non esistevano queste canzoni di mafia. Mentre stavo in questa compagnia il secondo anno{ ebbi tre offerte, una da Nella Regini, compagnia di operette, un’altra da Vincenzo Scarpetta, il figlio di Eduardo, e la terza per l’America. Andai dal direttore della mia compagnia e gli feci presente queste tre offerte; lui non mi voleva lasciare perché teneva molto a me e mi disse che se mi lasciava era per farmi tentare la fortuna e che non sarei andato né con la Nella Regini, né con Scarpetta ma in America. Cosi andai in America e sono stato la prima volta per sei mesi, e la seconda volta diciotto mesi, in America del Nord.

La prima volta facemmo compagnia con Ria Rosa, una cantante in voga allora. La seconda volta facemmo compagnia io, Bruno e Clement. Un tenore, e un attore che era stato con Viviani. Dopo i diciotto mesi in America, tornato in Italia feci compagnia da solo. In America avevamo fatto sceneggiata e varietà, i testi erano scritti da Clement, basandoci sulle canzoni in voga, sceglieva quella che più sentiva di fare e ne faceva tre atti. Io ricoprivo sempre il ruolo del comico, del brillante (che poi queste sceneggiate erano una specie di operetta, di commedie musicali, e si chiamavano comunque sceneggiate, ma molto diverse da quelle fatte in Italia dagli stessi Cafiero-Fumo); poi a seconda delle canzoni che si sceneggiavano si variava: abbiamo fatto pure una sceneggiata comica che si chiamava Abbracciata col mio cuscino di Oscar Di Maio. In America avevo visto queste compagnie con ballerine e spettacolo, mi decisi e feci una compagnia di rivista, una piccola compagnia di rivista che durò poco, perché non fummo fortunati. Dopodiché formai di nuovo compagnia con Bruno e Clement e tornammo in America, siamo stati tre anni fra l’America e l’Italia. A Napoli stavamo all’Apollo, ora è un albergo. Cosi con la compagnia Bruno-Clement-Taranto facevamo queste commedie musicali. Mentre eravamo in attività con la compagnia il mio pensiero fisso era l’alta Italia: Roma, Roma, Roma! Infatti fui portato a Roma con una troupe di varietà e debuttammo all’Arena Esedra.

Nino Taranto


Toto e Nino Taranto

Videoclip estratti dalle serie televisive prodotte dalla RAI e curate da Giancarlo Governi; "Il Pianeta Totò", ideata e condotta da Giancarlo Governi, trasmessa in tre edizioni diverse - riviste e corrette - a partire dal 1988 e "Totò un altro pianeta" speciale in 15 puntate trasmesso nel 1993 su Rai Uno.

Nino Taranto, gli inizi

Nino Taranto 50 LAllo strapotere della compagnia Cafiero-Fumo, va anche detto, non cercano di opporsi soltanto Girard, Mimì Maggio, Ciccillo Rondinella. Agisce, rispettata, anche la compagnia Bruno-Clement alla quale è associato, intorno al 1930, in riconoscimento della bravura dimostrata in varietà, il giovane Nino Taranto. Il figlio di “don Raimondo ’o cusetore”, nel cui albero genealogico c’erano fedeli servitori dei Borbone nei ranghi dell’esercito e dell’amministrazione finanziaria, aveva maturato l’esperienza sufficiente per aspirare alla promozione di comico a tutti gli effetti.

Dopo il debutto in una “periodica” all’età di otto anni, nella macchietta “Fifì Rino”, con addosso il fracchetiello cucitogli dal padre, Nino è stato messo in carriera da un maestro severo, Salvatore Capaldo, insegnante di musica, canto e autore di canzoni. Buon amico di impresari di teatri, il maestro è in ottimi rapporti soprattutto con don Antonio Adamo, “l’allimmatore”.

«Ti racconto come arrivai alla sceneggiata», esordì Nino nello studio della sua bella casa al Parco Grifeo, affacciata sul golfo, «perché quel periodo della sceneggiata è stato fondamentale per la mia carriera. Partirei da don Antonio “l’allimmatore”, cosi soprannominato per l’abilità con la quale limava al massimo le paghe agli scritturati al Teatro Centrale e all'Eldorado a Santa Lucia, i locali che gestiva.

Il maestro Capaldo mi accompagnò dall’allimmatore e mi presentò come una specie di fenomeno. Fatelo cantare al Centrale e non ve ne pentirete, disse, come per sfidare l’impresario abituato a trattare con grandi artisti68. Pensa che dall’Eldorado passavano proprio i migliori, nessuno escluso: Viviani, Villani, Maldacea. la Donnarumma, Pa-squariello, Petrolini, la giovanissima Fougez, Lydia Johnson, la mamma di Lucy D’Albert. Tutti scritturati “dall’allimmatore” e per lunghi periodi in cartellone nel locale estivo dell’Eldorado. Superati gli esami al Centrale, fui preso in consegna da Eduardo D’Acierno, che aveva messo su una sua nuova scuderia artistica e, di volta in volta, piazzava, a seconda delle richieste, cantanti, attori, duettisti, ballerine, orchestrali.

Tramite D’Acierno conobbi Mimi Maggio, il re dell’Orfeo, e fui preso in simpatia, tanto da figurare in almeno quattro o cinque suoi spettacoli, a parte le presenze con il varietà organizzato e piazzato direttamente dal D'Acierno. Attratto anche io, come molti artisti della mia stessa età, dalla sceneggiata, ebbi la fortuna di essere chiamato a sostituire Sportelli, secondo comico della Cafiero-Fumo, quando Ciccillo andò soldato. Maggio mi incoraggiò. Aveva molta stima per quella formazione di sceneggiata soprattutto perché apprezzava Salvatore Cafiero, suo amico da sempre.

A Fumo non piaceva molto il mio repertorio, diceva che cantavo soltanto canzoni scollacciate, piene di doppi sensi. Mi suggerì di allargare il repertorio, cosa che feci regolarmente. Lavorai a lungo con la Cafiero-Fumo. Al debutto, nella sceneggiata Io songo ’o paté, facevo un’apparizione nel secondo atto, quindi cantavo in duetto con Nennella Sportelli. Bruno e Clement vennero a cercarmi per offrirmi di entrare nella loro formazione, contattata per una tournée di sei mesi negli Stati Uniti.

Anche in quell’occasione andai a consiglio da Maggio prima di accettare. Partimmo, così, per l’America. Era il 1931. Esordimmo con la sceneggiata Nanninella d”a Riviera., scritta, come quasi tutte quelle in repertorio, da Clement. La protagonista femminile era Ria Rosa, popolarissima tra gli emigrati. Quando arrivammo a New York c’era una forte tensione nella zona degli italiani perché, due o tre giorni prima, era stato ucciso in un regolamento di conti un temuto capoclan della mafia, tale Fanuzzo.

La mia prima esperienza americana durò sei mesi; al ritorno a Napoli pensavo di mettermi nella rivista ma non c’erano proposte interessanti. Il tempo di rifare le valigie e mi imbarcai di nuovo, stessa destinazione. La compagnia era stata ingaggiata da un certo Tony Miccio che Aldo Bruno, Clement e io conoscevamo come un uomo di rispetto e non soltanto nella zona di Brooklyn, per questo non ci eravamo preoccupati di farci preparare un regolare contratto. Ritenevamo, infatti, di non poter offendere con una richiesta del genere una persona autorevole, che attraversava Mulberry Street tra gli ossequi devoti della gente.

New York, Boston, Chicago, di nuovo New York, Filadelfia: teatri sempre pieni, ma soldi zero. E meno male che avevamo i prepagati per gli alberghi, i ristoranti e i trasferimenti! Una sera chiesi al Miccio: e i dollari, compare? Qui non si vede un dollaro nemmeno da lontano. Mi rispose dandomi un buffetto: pensa a recitare, i vostri soldi sono al sicuro, li avrete prima della partenza.

La risposta non mi convinse, fu allora che decisi di raccontare tutto a don Vito Genovese, che era un ammiratore della compagnia e ci aveva spesso detto di essere a nostra disposizione per qualsiasi problema. Chiesi udienza, l’ottenni, e dissi in che situazione ci trovavamo. Don Vito mi congedò sorridendo: si mette tutto a posto, dillo anche agli altri della compagnia. Effettivamente le cose si misero a posto, perché tutti gli spettacoli che facemmo, prima di rientrare in Italia, si trasformarono in serate d’onore e l’incasso lo prendemmo noi. Fummo così ripagati con gli interessi.

Tornai a Napoli con mille dollari e una pianola elettrica che mi regalai poche ore prima dell’imbarco. Quei mille dollari li investii per fare una compagnia di varietà che nacque e morì a Molfetta, vicino Bari. Dopo il debutto, un temporale si portò via l’arena, comprese le scene, i costumi e gli strumenti dell’orchestra. Fu la mia prima esperienza di capocomico, era il 1932. Ma avevo, intanto, deciso di lasciare la sceneggiata per sempre e cominciai a cercarmi una buona scrittura nella rivista».

[...] L’impianto base della Cafiero-Fumo, invece, resiste fino a tutto il 1938, sei anni prima della morte di Eugenio Fumo. La compagnia può permettersi di compiere, oltre a trasferte nelle Americhe, più giri di mezza Italia e di sfondare, nella patria napoletana, anche al Nuovo, consacrata sala delle più grandi riviste e traguardo per i migliori attori di prosa, in testa i tre De Filippo.

Nino Taranto 1963 LBisogna qui ricordare che non soltanto gli attori di lingua napoletana, nessuno escluso, avevano il massimo rispetto per il Nuovo dove, con l’avvento alla direzione dell’intraprendente Eugenio Aulicino, le stagioni estive erano contrassegnate dalla presenza di compagnie e di generi teatrali insoliti per questo monumento settecentesco amato dall’alta nobiltà.

Il teatro finirà in cenere la sera del 12 gennaio del 1935, per un incendio provocato da un corto circuito in una stufa lasciata accesa nel camerino da una bella figliola del balletto Schumann. L’ultimo spettacolo prima del rogo nell’antico tempio dell’opera buffa, la rivista Milleluci.

La Cafiero-Fumo sarà invitata a lunghe serie di rappresentazioni estive, dando il cambio alla compagnia Molinari, la stabile del Nuovo, intanto impegnata in tournée a Roma e in Sicilia, nel rifatto teatro. E dal San Ferdinando, come la Cafiero-Fumo, si spostano al Nuovo anche Federico Stella, Vittorio Farinati, Giuseppe de Martino, per rendere ricco il cartellone straordinario delle sere d’estate. È proprio nel “teatro ’ncoppe ’e Quartiere” che Fumo compie le ultime recito della sua vita. Piove a dirotto il 22 ottobre del ’44 quando la bara dell’attore, portata a spalle da Franco Sportelli, Aldo Bruno, Nino Taranto e Rino Genovese, quattro tra i suoi attori più bravi e più fedeli, esce dal portone contrassegnato dal numero civico 33 di via Postica alla Maddalena per raggiungere la vicina chiesa Confuso in un mare di folla c’è Raffaele Viviani che, più tardi, commenterà: «Nemmeno con la pioggia Napoli ha lasciato solo il valoroso Eugenio Fumo».

Non ha più lacrime l’anziano comico Cafiero (morto ottantunenne nel 1965); il dolore per la scomparsa del compagno di tante recite ha fatto sparire la maschera dell’antico buffo che Salvatore aveva cominciato a “indossare” sedicenne quando, abbandonato l’apprendistato in una bottega di maestri intagliatori in via Corsea, da “ragazzo scherzoso”, sempre pronto a una “cacciata” per far ridere gli amici, era stato scritturato da tal Ruggiero.

Quattro soldi a sera per mezz’ora di macchiette alla Gemma del Mare, una baracca sulla spiaggia di san Giovanni a Teduccio. Da quella gavetta passerà al duo con la futura moglie, Caterina Lovezzo, e Les Cafiero potranno contare sulle macchiette e i duetti scritti appositamente da Giovanni Capurro, il celebrato autore di ’O sole mio, nonché da Michele Galdieri e Mimi Albin. Les Cafiero diventano tanto popolari nel giro dell’arte povera da attirare l’attenzione curiosa, prima, poi accompagnata da lodi, del “re della risata”, Eduardo Scarpetta. È proprio Scarpetta che convince Salvatore Cafiero a mettersi in prosa e il comico acconsente, ma la compagnia Cafiero ha una vita tribolatamente breve e la proposta di Fumo, nel 1919, diventa autentico salvagente per il comico e per sua moglie. È l’inizio di un lungo, leggendario sodalizio nella proposizione di un genere, la sceneggiata, che caratterizza tanto teatro popolare a Napoli nel Novecento.

Nino Masiello


Nino, il cornuto Carlo Mazza, sono io!, urlò il gerarca.

1941 L Eco del Cinema Nino Taranto LNon sapremmo più dire quale dei nostri colleghi abbia affermato con spiritoso paradosso che il comico napoletano è quello che s’arrabbia. In realtà sono molte le risate che i «buffi» partenopei riescono a strappare, o con le loro collere impotenti o con l’esplodere improvviso della loro ira. Fateci caso: generalmente il comico napoletano esce di scena fingendo di litigare con la «spalla» e lanciando invettive alla soubrette nonché a una lunga serie di antenati suoi, oppure morsicandosi le mani e scaraventando il cappello fra le quinte per la stizza di non poter rispondere come si conviene a una sfuriata della «spalla» o della soubrette.

Ebbene, anche Nino Taranto si arrabbia. Con tutti: «spalle», soubrettes, ballerine ; persino con l’orchestra, a volte ; persino con lo stesso pubblico. Questa — ci pare — è la differenza più notevole che distingue lui dai suoi parimenti illustri colleghi Macario e Totò. Essi — in linea di massima — sono succubi. Nino reagisce. Magari, inutilmente, ma reagisce. «Ciccio Formaggio» è forse il suo solo personaggio rassegnato, che «non tiene ’o coraggio - nemmeno ’e parlà», e perciò non sa ribellarsi ai veramente sadici trattamenti inflittigli dalla perfida innamorata. Ma, in fondo, anche quello del misero «Ciccio» è uno sfogo ; l’agnello che approfitta dell’assenza del lupo per narrare le proprie sventure; la colomba che, alle spalle dello sparviero, depreca la sua ferocia. Qualora la bella crudele si materializzasse, ignoriamo se il mite «Ciccio» oserebbe ancora dichiararle che è «n’infama» e che «se n’abusa»; ma c’è da scommettere di no.

Taranto — a guardarlo bene — non ha esattamente il phisyque du ròle del comico tradizionale. Ha un volto serio; i tratti fortemente marcati, la bocca un poco sdegnosa, il naso autoritario, gli occhi incisivi. Lo si immagina facilmente cesellare l’amara malinconia di un Brìnneso, esprimere la furia passionale di Scetateve, guaglione ’e mmalavita!, sospirare la nostalgia di Santa Lucia luntana. Ne avrebbe la precisione d’accenti e la voce garbata. Un emulo del grande Papaccio o del grandissimo Pasquariello. E invece Taranto — che pure si è senza dubbio cimentato, agli inizi, nella drammaticità delle melodie popolari della sua città — ha preferito perfezionarsi nell’umorismo. Attore pieno di notazioni comiche, di mille e una sfumatura esilaranti, ha trovato un suo modo particolare di interpretare il monologo musicale, un modo sottile ed aspro, rapido ed insinuante, che sa liberarsi quando vuole dai ceppi ritmici per porger loro ancora i polsi quando più gli aggrada; un modo, insomma, che ha creato uno stile inconfondibile ed assai difficilmente uguagliarle. Abbiamo già detto di «Ciccio Formaggio»; ma c’è il formidabile «Nicola Quagliando», il grandioso ’A capa me pesa, l’epico «Carlo Mazza», e non esageriamo nell’af-fermare che sono per Nino Taranto ciò che Saul, Edipo e Otello erano per Tommaso Salvini.

A proposito, anzi, dell’illustre «Carlo Mazza», Taranto racconta un aneddoto spassoso. Si era in tempo fascista e un notissimo gerarca — noto per la sua albagia e ancor più per le galanti irrequietezze della sua bella moglie — professava urbi et orbi la propria incondizionata ammirazione per il .nostro amenissimo comico. Una sera — al Colle Oppio, se non andiamo errati — il gerarca assisteva smanacciando dalla primissima fila, a uno spettacolo di Taranto. Venne l’avan-finale del secondo tempo e l’attore iniziò la consueta serie delle sue macchiette: dopo la prima, il pubblico — come suole — prese a chiedergli a gran voce questa o quella interpretazione. Allora il gerarca, per dimostrare agli spettatori quanto fosse il suo entusiasmo ma anche per affermare pubblicamente la propria potente autorità, si alzò a mezzo dalla poltrona e con voce tonante esclamò perentoriamente rivolto all’attore:

— Nino, il cornuto Carlo Mazza, sono io!

Il vocione aveva dominato il fracasso e la frase giunse agli orecchi di tutti, carica dell’involontario ma da tutti afferrato doppio senso. Ci fu un improvviso sconcertato silenzio. Finalmente Taranto, dopo aver risposto col più deferente dei suoi sorrisi all’intimazione del pezzo grosso, si volse al direttore d’orchestra (e implicitamente al pubblico) accennando al gerarca e disse, col tono di chi non ammetta obiezioni:

— Se lo dice lui...

Una risata omerica, seguita da un applauso cataclismico, accolse la mimica e il commento del grande comico. E l’orchestra attaccò l’introduzione di Carlo Mazza, mentre il pezzo grosso si risedeva tronfio e soddisfatto, convinto che Taranto gli avesse usato particolare deferenza.

Nino è forse il più «attore» dei comici di Rivista. Il magnifico triangolo defilippiano sarebbe forse diventato con lui un perfetto quadrato. Taranto ha sfatato la leggenda del comico eternamente tonto, ultima incarnazione, forse, del classico «servo sciocco», e riesce a far ridere ora con la malizia, ora con la tracotanza, ora con la parodia romantica, ora con la caricatura sociale. Il suo «Onorevole Porzio» è un piccolo capolavoro e lo sketch dei due ortolani rivali in amore e avversari politici tocca i vertici dell’alta commedia; ancora un passo e si arriva alle Baruffe chiozzotte. Non è assurdo pensare che Taranto potrebbe essere un interessantissimo interprete di certe farse plautine: Pirgopolinice, il protagonista del Miles Gloriosus, troverebbe probabilmente in lui un magnifico protagonista. Ma Taranto ci piace anche per la sua modestia. La sua presenza in scena non è mai invadente, nè aggressiva. Non recita come se la sua parte fosse scritta in caratteri più grossi di quella degli altri; nelle apoteosi finali egli sembra quasi scusarsi di entrare nel quadro e nelle sue prime apparizioni ostenta la discrezione educata del signore che arrivi in un salotto lievemente in ritardo, quando tutti gli ospiti sono già seduti. Se in Totò c’è il travolgente surrealismo del burattino impazzito, se in Macario c’è il lirismo della scemenza e la sublimazione del non senso, in Taranto c’è qualcosa di più semplice ma ugualmente poetico: l’umanità.

Dino Falconi e Angelo Frattini


Nino Taranto: il personaggio

Caratteristiche fisiche e psicologiche

Nino Taranto 03 1956 LDi mezz’età, capelli neri, ricciuti e impomatati, occhi cerchiati, naso aquilino, indossa paglietta che alterna al cappello, doppiopetto (Principe di Galles, giacche a quadrettini, vestiti scuri) con fazzoletto nel taschino e con aggiunta di canna da passeggio. Cammina con il sedere un po’ sporgente, indice di una "cafonaggine" da provinciale campano inurbato. Ad un perbenismo impiegatizio alterna una malcelata aspirazione alla "guapparia gagliarda”. Predilige le donne prosperose (il suo ideale va da Sofia Loren ad Angela Luce). Furbo e piuttosto intelligente, è di carattere un po’ litigioso e si lamenta spesso: ma è anche la vittima della donna, del capufficio, della famiglia cui è molto legato (fratelli e cognati vivono con lui). Ha un’immagine un po' convenzionale della sua città che adora e che vede come la sede naturale del Sentimento: tutti i napoletani sono suoi fratelli. E’ molto orgoglioso e fiero di avere un napoletano come presidente della Repubblica.
Condizione sociale

Avvocaticchio o impiegato comunale dispone di un mensile piuttosto ridotto che cerca di far bastare, arrangiandosi, per ostentare ai vicini di casa e ai colleghi d’ufficio un tenore di vita decoroso. "Cafone” inurbato da qualche Daese della Campania ha ottenuto l’impiego per raccomandazione di uno zio monsignore o di un onorevole maneggione legato alla Naooli di Lauro. Non potendo più votare monarchico, ri-oieqa sulla DC. Sempre col timore delle corna, si è sposato dopo un lunghissimo fidanzamento: la moglie fedele e la paglietta sono i suoi status symbol. La sua vecchia casa, troppo piccola per una famiglia troppo numerosa, si è arricchita di recente di alcuni sospirati accessori: il Bagno Piastrellato, che è il suo orgoglio, e gli elettrodomestici che acquista - conquista (uno ad uno, ogni anno) e ostenta a simbolo di un ormai raggiunto benessere "quasi milanese". Religioso e folklorico, fa convivere, accanto alla tela cerata che copre il tavolo di cucina e agli "aromi” coltivati sul terrazzino, sanqennari e madonne col lumino acceso anche di notte, rosari e tamburelli, piccoli arazzi, corni, ferri di cavallo, savonarole.

Cultura

Il suo luogo di cultura fondamentale è Napoli che cambierebbe soltanto, se costretto e strappato a forza, con la Roma dei ministeri. Ricorda con commozione Titina De Filippo, adora Eduardo e Peppino di cui non ha perso uno spettacolo. Segue molto la canzone napoletana: Piedigrotta è la sua Spoleto. Dei programmi televisivi vede Carosello, i festival, tutte le manifestazioni canore, un po’ di prosa, tutti i romanzi sceneggiati. Telefona alla RAI esasperato per protestare contro i programmi sperimentali di Italo Moscati e i cartoni animati cecoslovacchi e ungheresi. Va al cinema per vedere tutti i film di De Sica con la Loren e rimpiange i film musicali di Rondinella ed Èva Nova che gli ricordano la sua giovinezza: per "Carosello napoletano” invece ha provato un po’ di delusione. Tra i film recenti non si è lasciato sfuggire "I guappi”: è rimasto molto scandalizzato dal "Decameron” di Pasolini e non molto entusiasta di qualche film sexy che ha visto di nascosto, da solo, senza la moglie. La lirica lo appassiona come i tenori un po’ passati che cantano anche le vecchie canzoni napoletane che ascolta nelle tranquille domeniche passate in casa, in pigiama. Gioca al lotto, alla Sisal, al Totip, a carte. Superstizioso, va dalla chiromante almeno una volta all’anno: una specie di check-up psicologico che gli serve anche per scongiurare le molteplici malattie, immaginarie, che lo affliggono. Le sue letture sono "Roma”, “Sorrisi e canzoni TV”, "Tuttosport”, "La Domenica del Corriere”, mentre la moglie legge "Grand Hotel” e fotoromanzi. Al bar discute con gli amici le partite del Napoli per cui fa il tifo, insieme ad una grande squadra del nord, la Juventus, incarnazione del suo mito (latente e mai del tutto confessato) del Nord, complementare all’orgoglio per la sua Napoli. Per la "figura” che si faceva al nord, si è molto vergognato per lo scandalo delle cozze.

Osservazioni

Nino Taranto 1962 2 LAlle spalle dell’attore Taranto c’è la grande tradizione del teatro "minore" napoletano che ha come componenti fondamentali il café-chan-tant da una parte e la "sceneggiata" dall’altra. Tra i grandi comici della rivista Taranto è quello che ha ripreso in maniera più completa e intelligente l’eredità della figura canonica del café-chantant: il cantante macchiettista (le sue interpretazioni delle canzonette comiche di Pisano e Cioffi - “Ciccio Formaggio, Agata”, ecc.-sono dei piccoli classici). In queste macchiette emerge anche una autentica vocazione d’attore sulla linea gloriosa del teatro dialettale partenopeo.

Taranto è l’unico comico del varietà che sia approdato con plausibile naturalezza alla prosa. I suoi sketches avevano un’impronta più recitata di quelli degli altri comici, avevano bisogno di attori che completassero il suo personaggio e non fossero puri portatori di battute (Enzo Turco, più "compare” che spalla, Dolores Palumbo, ecc.) e si dilatavano spesso per poter costruire una situazione scenica di una certa consistenza. Almeno tendenzialmente, quindi, la sua autentica misura espressiva sembra essere o quella della macchietta di pochi minuti, breve lampo grottesco in sé concluso, o quella della commedia. Le sue riviste del periodo 1945-55 presentavano invece un forzato inserimento di elementi tutto sommato a lui estranei. Anche quando ballerine, soubrettes, coreografie, costumi, ecc. erano di primordine, il pubblico della rivista sembrava avvertire questa incompatibilità.

Di tutti i comici, Taranto è il meno “epico”. Sconta le sue caratteristiche più "nobili”, da attore di prosa, con la difficoltà di prendere le distanze dal proprio personaggio. Dei luoghi comuni sul napoletano-tipo Taranto sembra essere I’"incarnazione” più che lo “scongiuro".


Filmografia

Nonna Felicita, regia di Mario Mattoli (1938)
L'ha fatto una signora, regia di Mario Mattoli (1938)
Eravamo sette vedove, regia di Mario Mattoli (1939)
La canzone rubata, regia di Max Neufeld (1940)
Tutta la città canta, regia di Riccardo Freda (1943)
Lo sciopero dei milioni, regia di Raffaello Matarazzo (1947)
Dove sta Zazà?, regia di Giorgio Simonelli (1947)
Il barone Carlo Mazza, regia di Guido Brignone (1948)
Accidenti alla guerra!..., regia di Giorgio Simonelli (1948)
Se fossi deputato, regia di Giorgio Simonelli (1949)
La cintura di castità, regia di Camillo Mastrocinque (1949)
I pompieri di Viggiù, regia di Mario Mattoli (1949)
Botta e risposta, regia di Mario Soldati (1949)
Libera uscita, regia di Duilio Coletti (1950)
Tizio, Caio, Sempronio, regia di Marcello Marchesi, Vittorio Metz e Alberto Pozzetti (1951)
Licenza premio, regia di Max Neufeld (1951)
Fiorenzo il terzo uomo, regia di Stefano Canzio (1951)
Un ladro in paradiso, regia di Domenico Paolella (1951)
È arrivato l'accordatore, regia di Duilio Coletti (1952)
Café Chantant, regia di Camillo Mastrocinque (1954)
Anni facili, regia di Luigi Zampa (1953)
Milanesi a Napoli, regia di Enzo Di Gianni (1954)
Accadde al commissariato, regia di Giorgio Simonelli (1954)
Assi alla ribalta, regia di Ferdinando Baldi e Giorgio Cristallini (1954)
La moglie è uguale per tutti, regia di Giorgio Simonelli (1955)
Moglie e buoi, regia di Leonardo De Mitri (1956)
A sud niente di nuovo, regia di Giorgio Simonelli (1956)
Mariti in città, regia di Luigi Comencini (1957)
Italia piccola, regia di Mario Soldati (1957)
Arrivano i dollari!, regia di Mario Costa (1957)
Il terribile Teodoro, regia di Roberto Bianchi Montero (1958)
Don Vesuvio, regia di Siro Marcellini (1958)
I prepotenti, regia di Mario Amendola (1958)
Mogli pericolose, regia di Luigi Comencini (1958)
Avventura a Capri, regia di Giuseppe Lupartiti (1958)
Prepotenti più di prima, regia di Mario Mattoli (1959)
Ferdinando I, re di Napoli, regia di Gianni Franciolini (1959)
Caravan petrol, regia di Mario Amendola (1960)
Tototruffa 62, regia di Camillo Mastrocinque (1961)
Pesci d'oro e bikini d'argento, regia di Carlo Veo (1961)
Che femmina... e che dollari!, regia di Giorgio Simonelli (1961)
Lo smemorato di Collegno, regia di Sergio Corbucci (1962)
Totò contro Maciste, regia di Fernando Cerchio (1962)
I quattro monaci, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1962)
Il giorno più corto, regia di Sergio Corbucci (1962)
Il segugio, regia di Bernard-Roland (1962)
Le massaggiatrici, regia di Lucio Fulci (1962)
I due colonnelli, regia di Steno (1962)
Totò contro i 4, regia di Steno (1963)
I quattro moschettieri, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1963)
Il monaco di Monza, regia di Sergio Corbucci (1963)
Uno strano tipo, regia di Lucio Fulci (1963)
Napoleone a Firenze, regia di Piero Perotti (1963)
Una lacrima sul viso, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1964)
In ginocchio da te, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1964)
Se non avessi più te, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1965)
Non son degno di te, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1965)
Rita la zanzara, regia di Lina Wertmüller (1966)
Perdono, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1966)
Nessuno mi può giudicare, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1966)
Mi vedrai tornare, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1966)
Dio, come ti amo!, regia di Miguel Iglesias (1966)
Te lo leggo negli occhi, regia di Camillo Mastrocinque (1966)
Stasera mi butto, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1967)
Il ragazzo che sapeva amare, regia di Enzo Dell'Aquila (1967)
Franco, Ciccio e le vedove allegre, regia di Marino Girolami (1967)
Nel sole, regia di Aldo Grimaldi (1967)
Operazione ricchezza, regia di Vittorio Musy Glori (1967)
Chimera, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1968)
L'oro del mondo, regia di Aldo Grimaldi (1968)
Il ragazzo che sorride, regia di Aldo Grimaldi (1968)
Totò story, regia di AA. VV. (1968)
Il suo nome è Donna Rosa, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1969)
Pensando a te, regia di Aldo Grimaldi (1969)
Mezzanotte d'amore, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1970)
Ninì Tirabusciò la donna che inventò la mossa, regia di Marcello Fondato (1970)
Venga a fare il soldato da noi, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1971)

Programmi radio

RAI

Il fiore all'occhiello, varietà del venerdì sera con Nino Taranto, regia di Riccardo Mantoni, secondo programma (1958)

Programmi televisivi

RAI

Lui e Lei, presentano Nino Taranto e Delia Scala, con Nino Besozzi, Gianni Agus, Ferruccio Amendola, Aldo Giuffrè, Carla Macelloni, Sandra Mondaini, Nuto Navarrini, Isa Pola, Esperia Sperani, regia Vito Molinari, martedì 19 giugno 1956, ore 21,30
Io, Agata e tu, programma di varietà condotto insieme a Nino Ferrer.

Prosa televisiva

RAI

La fucilazione di Pulcinella, con Giacomo Furia, Gennarino Palumbo, Gennaro Di Napoli, Isa Danieli, Nino Taranto, Carlo Taranto, Anna Maria Ackermann, regia di Gennaro Magliulo, trasmessa il 7 agosto 1973.


Nino Taranto nacque a Napoli il 28 agosto del 1907, a Forcella in vico Scassacocchi. Fin da bambino, nella sartoria di famiglia, fu evidente la sua forte passione per la canzone napoletana e le sue prime esibizioni, come lo stesso Taranto dichiarò in un’intervista per “Il Mattino Illustrato” del 14 febbraio 1981, avvennero in matrimoni e feste private:

“Nella sartoria cantavano tutti, anche mia madre e mio nonno. Il concertino della sartoria era diventato molto popolare, ero invitato alle soirée, ai battesimi, agli sposalizi, alle feste di laurea, ai compleanni. C’erano anche alcuni cantanti che venivano al laboratorio del nonno a provare le canzoni di maggior successo in quegli anni. Mio nonno era anche lui pazzo per il canto, ma era pazzo soprattutto per me, per questo nipote che lo divertiva tanto, e chissà che destino di successi già sognava per me. Mi cucì allora un piccolo frac che mi faceva indossare mettendomi poi in piedi sul bancone dove venivano preparati gli abiti dei clienti. Qui, tra il divertimento generale, cantavo felice come un fringuello qualsiasi canzone avessi ascoltato. Avevo una vocina intonata ed una figurina magra e slanciata, piccolino, grandi occhi neri, cantavo sorridendo”.

Quindi, crebbe tra musica e canzoni e quando arrivò il momento di andare a scuola, il piccolo Taranto non amava trascorrere il suo tempo tra un libro di storia o di geografia e così all’età di dieci anni smise di andarci. Gli stessi professori scontenti, erano convinti che fosse stato meglio lasciar perdere gli studi e intraprendere la carriera dello spettacolo e del canto. Il suo unico maestro fu un certo Salvatore Capaldo, il quale curò la sua educazione musicale, dalle lezioni di canto allo studio della musica. Il 23 ottobre del 1921, con una raccomandazione del suo precettore ad un impresario d’un piccolo teatro napoletano (Teatro Centrale), fece il suo primo debutto teatrale. Nel 1929, a soli 22 anni, entrò a far parte della compagnia “Cafiero-Fumo”, dove venne a contatto con l’arte della “Sceneggiata. Ma il suo grande successo arrivò soltanto quando si avvicinò al varietà e alla rivista, mettendo in scena le tipiche canzonette ironiche e burlesche napoletane, ovvero le “macchiette” (delle quali fu il massimo interprete). I suoi fornitori prolifici furono soprattutto Pisano e Cioffi, i quali scrissero e musicarono per lui personaggi che segnarono decisamente la sua carriera, tra i quali il celeberrimo “Ciccio Formaggio”. Nonostante avesse già debuttato sul grande schermo nel 1922 con “Vedi Napoli e poi muori” per la regia di Eugenio Perego, la sua lunga e voluminosa carriera cinematografica iniziò nel 1938 con il film “Nonna Felicita” di Mario Mattoli. In questo immenso percorso ebbe modo di attestare la sua invincibile vis comica e di dimostrare anche un suo aspetto poco conosciuto, ovvero quello drammatico e malinconico (in certi aspetti quasi clownesco), come fu in grado di personificare lo sfortunato ladro Vincenzo De Pretore, tratto dall’omonima commedia di Eduardo De Filippo, nel film “Un ladro in paradiso” (1952) di Domenico Paolella. Nota fu la sua collaborazione con l’amico e collega Totò, con il quale realizzò ben 6 film, nati a causa d’un tragico incidente che l’attore e commediografo Corrado Taranto (nipote di Nino) racconta nel suo libro biografico e autobiografico “Noi…I Taranto”:

“Grazie ai soldi guadagnati con le partecipazioni televisive, i film e un’ulteriore tournee in America, dove con mio padre (Carlo Taranto) e con Miranda Martino si esibì in uno dei templi dello spettacolo, il Carnegie Hall di New York, Nino decise di acquistare un teatro tutto suo, investendo gran parte di quei soldi. Fu così che nei primi anni ’60 comprò il teatro Politeama a Napoli. I tempi per l’inaugurazione erano strettissimi e bisognava fare tante cose…l’assicurazione sul teatro in effetti poteva pure aspettare. Il teatro era pronto, per il debutto Taranto ospitò una grande soubrette, non volle badare a spese.

Nell’ambiente si diceva che quella soubrette portasse male…Nino non volle stare a sentire le chiacchiere. Il debutto si fece, il teatro era bellissimo e fu una serata magica. La notte, però, a causa di un corto circuito, il teatro andò a fuoco e fu completamente distrutto. Taranto da un giorno all’altro, per aver rinviato l’assicurazione, si ritrovò sul lastrico. E’ a questo punto della storia che entra in scena un personaggio importante nella vita dei Taranto, un suo amico, più che un semplice collega…il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Totò, appena seppe della sciagura che si era abbattuta su Taranto, volle aiutarlo. Fece scritturare Nino per sei film”.

Ma il vero e grande amore di Taranto fu solo il teatro, in particolar modo quello di prosa. Nel 1955 formò una propria compagnia teatrale, con la quale debuttò al Teatro Alfieri di Torino e per l’ennesima volta ebbe l’opportunità di mettere in scena le proprie doti attoriali, dando corpo e voce a memorabili personaggi. Il suo autore, punto di riferimento, fu Raffaele Viviani e grazie al suo interesse, fece riscoprire e rivalutare il repertorio dell’autore partenopeo (dimenticato dalla critica e dal pubblico).

Proprio con Viviani, decise di concludere la sua carriera, portando in scena per la seconda volta “’A morte di Carnevale” al Teatro Sannazaro di Napoli, con l’amica e collega Luisa Conte e l’eccezionale fratello Carlo Taranto (commedia che diventò memorabile soprattutto per la sua interpretazione superba, quasi conseguita con il metodo Stanislavskij). Nino Taranto morì a Napoli all’età di 78 anni dopo una lunga malattia.

Domenico Livigni


Riferimenti e bibliografie:

  • Sito ufficiale, su ninotaranto.altervista.org (archiviato dall'url originale il 10 febbraio 2012)
  • (EN) Nino Taranto, su AllMusic, All Media Network
  • (EN) Nino Taranto, su MusicBrainz, MetaBrainz Foundation
  • Nino Taranto, su CineDataBase, Rivista del cinematografo
  • (EN) Nino Taranto, su Internet Movie Database, IMDb.com
  • (EN) Nino Taranto, su AllMovie, All Media Network
  • Andrea Jelardi, Nino Taranto. Vita straordinaria di un grande protagonista dello spettacolo italiano del Novecento, Kairòs, Napoli 2012
  • Le Teche Rai
  • Salvatore Tolino, Mostra storica permanente della Poesia, del Teatro e della Canzone Napoletana, Istituto Grafico Editoriale Italiano, 1999
  • Gli attori, Gremese editore Roma 2003
  • Il Radiocorriere,
  • "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975
  • "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
  • Nino Taranto in "Scena", n.1, 1978
  • Immagini di proprietà di Domenico Livigni
  • Cesare Zavattini, «Tempo», anno IV, n.71, 3 ottobre 1940
  • Raoul Radice, «L'Europeo», anno VII, n.44, 26 ottobre 1951
  • Sergio Lori, « Film d'oggi», 15 ottobre 1952