Tognazzi Ugo
(Cremona, 23 marzo 1922 – Roma, 27 ottobre 1990) è stato un attore, regista, sceneggiatore, cuoco e gastronomo italiano.
Con Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi, è considerato uno dei "mostri" della commedia all'italiana (secondo la celebre definizione del critico Gian Piero Brunetta[1], un quartetto al quale, dagli anni Sessanta, è generalmente accostato anche Marcello Mastroianni[1][2][3]).
Biografia
A causa della professione del padre Gildo, ispettore di una società di assicurazioni, vive gli anni dell'infanzia in varie città per tornare poi, nel 1936, nella natìa Cremona dove, quattordicenne, trova lavoro come ragioniere nel salumificio Negroni. Nel tempo libero recita in una filodrammatica del dopolavoro aziendale, ma l'esordio teatrale era già avvenuto al teatro Donizetti di Bergamo, a soli quattro anni. Durante la seconda guerra mondiale viene chiamato alle armi e si dedica con impegno a organizzare spettacoli di varietà per i commilitoni.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre ritorna a Cremona dove lavora come archivista e fa parte per un breve periodo delle Brigate Nere. Nel 1945 la passione per lo spettacolo lo induce ad abbandonare il lavoro e trasferirsi a Milano. Qui partecipa a una serata per dilettanti tenuta al Teatro Puccini a seguito della quale viene scritturato dalla compagnia teatrale di Wanda Osiris. Nel 1950 esordisce al cinema con un film diretto da Mario Mattoli, I cadetti di Guascogna, al fianco di Walter Chiari.
Ugo Tognazzi, una questione di stile
Ricordiamo una delle prime apparizioni di Ugo Tognazzi dinnanzi al gran pubblico della Rivista: si presentava in uno sketch dove imitava con molto spirito e con vivo successo Totò e Dapporto. Fu quello sketch a dare il via alla sua fortunata carriera e non si può, dunque, rimproverargli il fatto che nella sua comicità permanga ancora un’eco dello stile di quei due grossi comici. Ma Tognazzi è giovanissimo e ha tutto il tempo di trovare se stesso, mondo d’ogni altrui scoria. Ha due formidabili doti per un attore comico: la simpatia, una simpatia che va a colpo sicuro, per cui conquista il pubblico non appena compare alla ribalta, e un preciso, modernissimo senso dell’umorismo, che si avverte dal modo ineccepibile con cui racconta le storielle, arte che può sembrare elementare, ma che è invece quanto mai ardua. Un giorno — se la Casa Editrice « Academia » sarà d’accordo — compileremo una Guida alla Storiella nella quale evocheremo le origini, sintetizzeremo gli sviluppi, analizzeremo la importanza sociale e tracceremo un Panorama della Barzelletta. Dovremo allora riparlare a lungo di Ugo Tognazzi e di quella sua maniera di lanciare la battuta allegra a bazza in fuori e a occhi semichiusi, come fa il gallo col chicchirichì; e menzioneremo lo stile impeccabile con cui la bocca a taglio di salvadanaio del nostro Ugo aspira golosamente l’aria, fra una boutade e l’altra, quasi per assaporare da buongustaio il sale e il pepe della nuova storiella che gli viene in mente. Ma in ogni modo Tognazzi bisogna tenerlo d’occhio. Non passerà gran tempo e quel suo nome, che sa di provincia e di fuoco d’artificio, avrà conquistato definitivamente la più indiscussa delle rinomanze.
Dino Falconi e Angelo Frattini
Finito il militare, andai a Milano con un bagaglio di esperienze come attore negli spettacoli per le truppe e partecipai a un concorso per dilettanti dal quale uscii trionfatore, e a cui segui l’immediata proposta di diventare comico di varietà, di avanspettacolo. Da quel momento inizia il mio lavoro di attore, perché da quel momento diventa lavoro veramente, mi danno 150 lire al giorno, nel ’44 ci potevo campare. Durante quell’ultimo anno di guerra ho fatto l’avanspettacolo fra Milano e provincia, poi... la grande occasione. Vengono due impresari a vedermi, due autori, i famosi Bracchi e D’Anzi, più Wanda Osiris, allora la regina, il massimo veramente, e mi propongono di diventare il comico della Osiris. Da quel momento smetto di fare l’avanspettacolo e vengo ugualmente pagato in attesa del debutto con la Wanda.
Senonché finisce la guerra e chi mi dava i soldi sparisce il giorno stesso della liberazione, quindi sparisce l’impresario e con lui anche il sogno Wanda Osiris. Però ormai ero uno chiacchierato, se non altro, e cosi divento attore di rivista di un livello superiore, cioè passo subito allo spettacolo teatrale vero e proprio, anche perché nel dopoguerra vengono di moda tutti quegli spettacoli di rivista che avranno poi il loro apice nei lavori di Garinei e Giovannini. Dal '45, formandosi le compagnie di giro, cominciano delle cose tragiche per il lavoro dell’attore. Sarebbe bene rammentare che cosa significava per esempio viaggiare da Genova a Bari in vagone bestiame, perché non erano ancora state ripristinate le carrozze normali, per debuttare due giorni dopo, poi tre o quattro città delle Puglie, poi un salto a Palermo, altre tre o quattro città, duecento città e tre paesi toccati durante una stagione; quando a Milano o a Roma si facevano 15 giorni era già un bel successo.
Ugo Tognazzi
L'anno seguente conosce Raimondo Vianello con cui forma una coppia comica di grande successo che dal 1954 al 1960 lavora per la neonata RAI con il varietà Un due tre; la comicità più popolaresca e sanguigna di Ugo e quella più raffinata e "inglese" di Raimondo si compenetrano a vicenda con ottimi risultati comici. Dopo numerose farse cinematografiche e televisive Tognazzi negli anni sessanta passa alla commedia all'italiana, dando un apporto molto personale al genere: al suo interno infatti gioca magistralmente la carta delle sue radici equidistanti tra l'operosa Milano e la godereccia Bassa Padana tra Cremona, Piacenza e Modena, interpretando personaggi emiliani, e più specificamente parmigiani, in modo assolutamente convincente, agli ordini prima di Alberto Bevilacqua (La Califfa, 1971; Questa specie d'amore, 1972) e poi di Bernardo Bertolucci (La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, che vale a Tognazzi la Palma d'Oro al Festival di Cannes come miglior attore protagonista).
Attaccatissimo alla sua terra e alla sua città, pur essendo un appassionato tifoso del Milan, non era infrequente trovarlo allo stadio Zini a tifare per la Cremonese del suo amico e primo compagno di palcoscenico, il presidente Domenico Luzzara. Ugo ritaglia spesso per i suoi personaggi battute in dialetto cremonese. Leggendarie sono quelle, numerose, contenute nel film La marcia su Roma (1962) di Dino Risi. Nella pellicola che lo lancia nel cinema satirico, Il federale (1961) di Luciano Salce, il suo personaggio è di Azzanello, piccolo paese in provincia di Cremona.
Parallelamente a quelle esperienze di cinema d'autore, Tognazzi si impegna nelle trilogie di Amici miei (1975, 1982, 1985) e Il vizietto (1978, 1980, 1985), che rappresentano l'apice del suo successo di pubblico. Si autodirige in cinque film (Il mantenuto, 1961; Il fischio al naso, 1966; Sissignore, 1968; Cattivi pensieri, 1976; I viaggiatori della sera, 1979) e nella serie televisiva FBI - Francesco Bertolazzi investigatore (1970). Negli anni ottanta si dedica soprattutto al teatro, recitando in Sei personaggi in cerca d'autore a Parigi (1986), L'avaro (1988) e, con Arturo Brachetti, M. Butterfly (1989).
Esperto culinario e grande tombeur de femmes, ma anche amico di Vittorio Gassman, Paolo Villaggio, Luciano Salce e Mario Monicelli, negli ultimi anni della sua vita si ammala di depressione - il male oscuro che condivise personalmente con lo stesso Gassman - e muore improvvisamente, nel sonno, il 27 ottobre 1990 a Roma per un'emorragia cerebrale, lasciando incompleta la serie televisiva Una famiglia in giallo (ne furono ultimati e poi trasmessi in televisione l'anno successivo solo due episodi), rimasta pertanto il suo ultimo lavoro; è sepolto a Velletri. Vent'anni dopo, alla Festa del Cinema di Roma, la figlia Maria Sole presenta il documentario a lui intitolato, Ritratto di mio padre.
Vita privata
Oltre che la goliardia, di Ugo Tognazzi celebri sono state le passioni per le donne e per gli eleganti corteggiamenti, tipici del suo carattere. Nel 1954 s'innamora di una ballerina inglese d'origini irlandesi della sua rivista, Pat O'Hara dalla quale ebbe il figlio Ricky, divenuto a sua volta attore e regista. Con Pat non si sposa, e la storia dura fino a circa il 1961. Nel 1961 conosce Margarete Robsahm, attrice norvegese con cui lavora ne Il mantenuto, che sposa nel 1963, e l'anno seguente nasce Thomas, che ora si divide tra produzione e regia. Con Margarete Ugo vive tre anni, di cui uno tra l'Italia e la Norvegia.
Dopo averla già conosciuta e corteggiata invano qualche anno prima, nel 1965 Ugo ritrova colei che alla fine diventerà la donna della sua vita, Franca Bettoja: è anche lei attrice, bella e raffinata. Ma è soprattutto donna intelligente e generosa, che non solo sa rimanergli accanto fino alla fine, ma sa anche tenere assieme una strana, allargata famiglia, rinunciando a inseguire il proprio successo professionale. Ugo sposa Franca nel 1972, a Velletri, dove i due misero su una bellissima e accogliente grande casa comune, oggi aperta al pubblico per iniziative culturali[4]. Dalla loro relazione nascono due figli: Gianmarco Tognazzi nel 1967, anche lui attore affermato, e Maria Sole Tognazzi nel 1971, regista. I figli precedenti sono sempre stati di casa, soprattutto Ricky, mentre Thomas, che continuava a vivere con la madre Margarete, ha fatto sempre la spola tra l'Italia a la Norvegia per unirsi a loro.
Era un acceso e appassionato tifoso del Milan. Della squadra rossonera disse in un'intervista del 1986:
« Sono milanista dalla nascita. Il Milan per me è stato prima la mamma, poi Ia fidanzata e poi la moglie. La moglie però si tradisce.[5] »
Goliardia e satira
Un due tre praticamente fu il primo esempio di satira televisiva, che non evitò di toccare Presidenti della Repubblica e del Consiglio. Per un'epoca nella quale la censura televisiva discendeva dalla stessa impostazione data alla rete unica della RAI, ciò si prestava inevitabilmente a qualche guaio censorio, che sarebbe evoluto verso la chiusura stessa del programma. Questa avvenne il 25 giugno del 1959 quando il duo Tognazzi-Vianello decise di mettere in burletta un incidente occorso la sera prima alla Scala e rigorosamente taciuto dai principali mezzi di stampa: il Capo dello Stato italiano (Giovanni Gronchi), a causa del tentativo di un gesto galante con una signora, cadde a terra per la sottrazione della sedia accanto al presidente della Repubblica Francese De Gaulle. Il duo ripeté la scena in televisione: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde a terra e Vianello gli gridò: "Chi ti credi di essere?". La sera stessa Ettore Bernabei cancellò la trasmissione dalla programmazione televisiva e il direttore della sede di Milano venne cacciato.[6][7]
Lo spirito goliardico di Ugo Tognazzi raggiunse il culmine vent'anni dopo quando, nel 1979, prese parte a uno dei più clamorosi scherzi mediatici della storia italiana: accettò di essere fotografato ammanettato da finti carabinieri. Si trattava di una burla predisposta dal settimanale satirico Il Male. Tre finte edizioni del Giorno, della Stampa, di Paese Sera[8] "uscirono" con titoli che annunciavano l'arresto dell'attore, in quanto capo ("grande vecchio") delle famigerate Brigate Rosse.
Giustificandosi della goliardata disse che, in un'epoca del genere, aveva solo rivendicato "il diritto alla cazzata". In realtà, lo scherzo cadeva all'indomani della retata del "caso 7 aprile", nella quale la stampa tambureggiava sui "capi occulti" delle BR che avevano simulato lo scioglimento di "Potere operaio" per proseguire sotto le insegne di "Autonomia Operaia" nell'attività di fiancheggiamento dell'eversione: ecco perché il titolo del Male, chiosando il vecchio scherzo satirico, aggiungeva: "ricercato Vianello, la coppia finse lo scioglimento dai tempi di Un due tre".
Durante un'intervista condotta da Pippo Baudo, iniziò polemicamente e ironicamente a discutere sulla liberalizzazione della marijuana, sullo scandalo Negri e sulla legalizzazione della prostituzione.
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
«Epoca», 1956 - Recensione della rivista con Tognazzi e Vianello Campione senza volere
«Corriere d'Informazione», 1 maggio 1959
Con un discutibile copione, ma una recitazione molto corretta, Ugo Tognazzi si è presentato per la prima volta al pubblico romano come attore di prosa
Risorse dei tempi. Se è possibile e lecito far diventare una volgare saponetta del fragrante olio d’oliva per la tavola dei più esigenti palati, perchè non dovrebbe essere lecito e possibile trasformare un qualsiasi racconto poliziesco in una gaia commedia a successo, sofisticata con volubili problemi psicologici e strampalate pensierosità, da offrire ad un pubblico che, in fondo, non chiede altro che di divertirsi anche quando s’annoia? Barare a teatro è un reato ancora consentito e non cade sotto le zampe del codice.
Cominciando magari dal titolo. Il quale, appropriandosi senza ragione alcuna le bibliche minacce di Gog e Magog, evoca conturbanti ricordi di profetiche catastrofi che non si sognano neanche lontanamente di passare nelle vicinanze del copione.
Ebbe inizio tosi. A firma di Roy Vickers, appare in Inghilterra uno dei soliti e tanti romanzi polizieschi. Entrano in scena i signori Roger MacDugall e Ted Allan. Lo rimpolpano quel che è necessario, lo articolano in tre atti e lo mandano alla ribalta come giallo psicologico. Successo. Qualcuno lo vede, lo acquista, lo porta in Francia e lo mette nelle mani di Gabriel Arout, scaltro manipolatore del teatro francese un po’ meno ignoto dei suoi due colleghi londinesi. Egli lo ridialoga da capo a fondo lo condisce in dosi acconce dei più sperimentati ingredienti del repertorio così detto boulevardier, punta decisamente sul risultato comico conferendogli una farsesca lepidezza spruzzata di quell’intellettualismo che fa tanto intelligente, lo dà ad interpretare a Francois Périer il quale ne fa, dicòno, una creazione spassosissima, e realizza uno dei maggiori successi parigini. Due anni di repliche continuate.
In coscienza, a questo punto, poteva non arrivare in Italia?
I nostri teatranti, si sa, se non vanno ad origliare nei teatri di Parigi almeno ogni paio di mesi si sentono mancare il terreno sotto i piedi. Si tratta di cercare un copione per l’esordio in prosa di Ugo Tognazzi e pensano di aver trovato il fatto loro. Tognazzi, tanto per non smentirsi, oltre ad essersi fatto abbandonare, alla vigilia del debutto, dal regista e dalla prim’attrice — tanto per la cronaca: Sandro Bolchi e Laura Solari — dal canto suo ci aggiunge e ci toglie qualche altra cosetta e gioca la sua carta. Non fa cappotto ma vince la partita ai punti.
Stringi stringi, di che si tratta? Della consueta rivolta dello schiavo, conseguita per mezzo del venerando espediente dei sosia con tutti gli equivoci che possono generarsi da una somiglianza perfetta. Sfido, i due sosia sono la stessa persona: Giuliano Fanshow, uomo timido e remissivo, marito innamorato e preoccupato, genero disprezzato e vilipeso, pittore fallito, musicista incompreso e, per giunta, nipote truffato da un sarcastico zio, incaricato, dal defunto genitore, di amministrargli il patrimonio ereditato ma non goduto. Nell’altro se stesso, egli realizza tutto ciò che non è: supera ed ipercompensa il proprio complesso di inferiorità, affascina e riconquista la moglie, agguanta il successo, seduce la suocera, mette nel sacco lo zio e, sospettato per un momento di essere stato lui, anzi di aver architettato tutto a quell’unico scopo, fa esplodere gli istinti omicidi sonnecchiante nell’ inconscio di un meschino impiegato che gli toglie dai piedi l'incomodità dello zio.
Ad un primo atto banale, lento e risaputo, ne seguono altri due, per fortuna, più vari, svelti e spiritosi con qualche modesta trovatina originale grazie ad innocui furtarel-li operati e danno di Freud e Piraijiello: subcosciente, frustrazioni, sdoppiamento della personalità; come sono e come mi vedono, realtà' e illusione, finzione e verità e via discorrendo.
A Milano gli intervalli sono evasivi e noncuranti, a Roma sono risentiti e feroci. Giudicando dai discorsi del pubblico del Quirino durante il primo intervallo, il meglio che uno si potesse aspettare in seguito era un’esecuzione capitale. Viceversa, copione e recitazione, nella seconda parte, le sorti della serata si sono risollevate e tutto è finito in gloria consentendo al cronista di poter aggettivare la parola successo col termine incontrastato, letteralmente ineccepibile.
Quando si dice il complesso della prosa! Chi si attendeva un Tognazzi estroso, improvvisatore, rivistaiolo, è stato deluso, o soddisfatto a seconda del punto di vista. Molto controllo, molta correttezza, molta eleganza, sufficiente stile, un’aria da bravo giovanotto di buona famiglia e un impeccabile completo color testa di moro. Un impegno serio. O, per meglio dire, una vittoria strappata in formazione di difesa. Gli altri: la Steni, la Giachetti, il Severini, il Cartoni, il Cun-dari? Bene. Ma sì, crepi l’avarizia!
Carlo Terron, «Tempo», anno XXII, n.45, 5 novembre 1960
Nel “Federale”, il nuovo film di Tognazzi diretto da Luciano Salce, vengono raccontate le vicende di due uomini profondamente diversi per idee e per sentimenti, che da una fiera inimicizia passano ad una umana e leale comprensione
PRIMO ARCOVAZZI, il giovane e fanatico graduato delle Brigate Nere impersonato da Ugo Tognazzi, viene convocato dal suo comandante, l’attore Gianni Agus, per una delicata missione; quella di catturare ad ogni costo il professor Erminio Bonafè, un eminente filosofo antifascista conosciuto e stimato in tutto il mondo.
I FASCISTI CONTANO MOLTO sull’ascendente dell’anziano professore. Sperano infatti di condurlo al Nord e di costringerlo a parlare alla radio per convincere le masse riluttanti ad accettare le leggi della Repubblica Sociale. Il brigatista Arcovazzi, da parte sua, spera, al termine della missione, di diventare un gerarca. Glielo ha promesso il comandante ed egli riesce a catturare il filosofo, l’attore Georges Wilson, e a portarlo verso Roma con una motocarrozzetta.
MILLE PERIPEZIE SEGNANO LA MARCIA forzata di Arcovazzi e del professore verso la capitale. I tedeschi, senza rispetto per il graduato delle Brigate Mere e per il suo prigioniero, requisiscono poco dopo la motocarrozzetta. I due sono costretti a proseguire con un "tandem”, passano un fiume a guado, scampano per miracolo alla fucilazione, rubano polli, si perdono e si ritrovano. E finalmente arrivano a piedi alle porte di Roma. Arcovazzi che assapora già la gioia di entrare nella città, agli ultimi chilometri si veste con l’orbace. Nel film, oltre ai protagonisti recitano Mireille Granelli, Stefania Sandrelli e Elsa Vazzoler.
A ROMA NESSUN TRIONFO accoglierà il "federale”. Gli alleati sono già entrati nella città, ma il fascista Arcovazzi li crede prigionieri. Ad un crocicchio. Però l’attende una dura lezione; civili e partigiani lo catturano, lo picchiano a sangue e lo portano davanti al plotone d’esecuzione. Messo al muro, egli perde la antica alterigia. Sarà il professore, che tutti conoscono e stimano, a salvarlo. Fra i due. in mezzo a tante traversie, è nato un sincero rapporto di amicizia.
«Tempo», anno XXIII, n.26, 1 luglio 1961
Il film “La voglia matta” di Luciano Salce racconta le avventure di un uomo maturo che non avverte il ridicolo cui si espone gettandosi in imprese amorose al fianco dei ventenni
Roma, febbraio
E’ l’ora dei comici convertiti. Lasciano a casa i gags e le "uscite” sicure, buttano in un angolo le smorfie e gli strabuzzamene d’occhi e si gettano sul "genere serio" con una voluttà che lascia capire con quanta tristezza nel cuore abbiano finora fatto ridere la gente. Sordi dopo una serie di leggere conversioni incappa nel personaggio del giornalista in "Una vita difficile ”, Manfredi si ricorda di aver cominciato con Shakespeare, Rascel pensa a Kafka, Chiari scappa a Broadway per non essere costretto a tingersi la faccia di nero, Tognazzi indugia con un piede al di qua e uno al di là del fosso, ma è chiaro che anche lui sogna il giorno in cui non gli chiederanno più la barzelletta e il travestimento bensì quali difficoltà si incontrano per interpretare Amleto.
Il fatto è che il genere comico da noi è rimasto ancorato (salvo rare eccezioni) all’avanspettacolo e alla farsa, cioè al lato più facile e meccanico. E gli attori, dopo un po’, si stufano, scalpitano e cercano di uscire dall’occhio di bue; diventano seri. O, almeno, tentano di saltare il fatidico fosso. Dispostissimi a rompersi una gamba, a rinunciare a tante comodità e anche a un po' di soldi.
L’operazione conversione di Ugo Tognazzi è iniziata lo scorso anno con "Il federale” diretto da Luciano Salce. Comico e patetico erano ancora miscelati. Ma le precauzioni si dimostrarono saggie: pubblico e critica, concordi, ammisero che F esperimento era riuscito e che sarebbe stato interessante vedere Tognazzi alle prese con un personaggio più spinto verso il genere serio. Così è nato "La voglia matta” che Luciano Salce sta terminando proprio in questi giorni.
«Tognazzi è ancora da scoprire — dice il regista — è un attore originale che ha un suo modo di essere vero e di non essere "attore”. Per questa ragione gli ho affidato il ruolo dell’ingegnere Antonio Berlingheri in questo film piuttosto amaro».
”La voglia matta” di cui parla il titolo è quella che assale novantanove volte su cento i quarantenni che non si sentono tali: la voglia di dimenticare l’anagrafe e lo stato civile e di rituffarsi nell’età remota e affascinante della gioventù. «E’ pericoloso fare i giovani solo perchè ci si sente tali», dice Salce. E questa è un po’ la morale della storia che ha raccontato con la sua macchina da presa.
Antonio Berlingheri, è un milanese con la testa sulle spalle. Ha alle sue dipendenze tremila operai, s’intende di laminati e di forni elettrolitici come pochi. Fa la spola fra la capitale lombarda e Roma per incrementare i suoi commerci con l’estero. E’ un arrivato. E ha appena trentanove anni. Marcia in ”spider”, ha un’amica a Roma, un figlio in collegio a Pisa e molti soldi da spendere per le sue non impegnative ''ricreazioni”. Una situazione normale nella sua eccezionalità. La sua avventura comincia un sabato. Sta ritornando a Milano, via Pisa, quando per una serie di coincidenze si trova in balia di una comitiva di ragazzi e ragazze che si preparano a trascorrere il week-end in un "cottage” sul mare.
Il ” matusalemme” non ha nessuna intenzione di cambiare i suoi piani di viaggio, calcolati con meneghina precisione («media settantacinque, pranzo al Girarrosto, sosta a Pisa di mezz’ora, alle diciannove e trenta imbocco corso Lodi e sono a casa»), ma gli avvenimenti lo tirano per i capelli. L’ingenua sfrontatezza di una sedicenne che si chiama Francesca, gli dà il colpo definitivo. Ed eccolo nel "tucul” in riva al mare, prigioniero di lusinghe che gli sembrano maliziose e non lo sono.
Antonio è conscio di tutto questo equivoco, ma continua a sperare nel miracolo. Sente di non aver nulla da spartire con quei giovani che sfuggono alle sue catalogazioni, ma il desiderio dell’avventura è più forte della ragione che ogni tanto si fa viva per suggerirgli di andarsene, di non perdere tempo, di non rischiare il ridicolo.
Come può lui, trentanovenne, giocare con i liceali a Mister Universo o agli indiani che ballano la macumba? Come può capire la leggerezza con cui ascoltano un discorso di Hitler alternato a un cha-cha-cha? E che cosa può rispondere a delle ragazze che ora dicono* di voler andare in Africa a curare i lebbrosi nell’ospedale di quel "tipo con i baffi” che poi sarebbe il celebre dottor Schweitzer, e un momento dopo gli chiedono di sposarlo e di andare in viaggio di nozze a Disneyland? Tutte le loro azioni rispondono alle regole di una assoluta gratuità: il confine morale fra bene e male, lecito e illecito, giusto e ingiusto, non esista ancora nel loro orizzonte. C’è la giovinezza e basta: una giovinezza che giustifica e lava tutto.
«Per carità — dice Salce — non creda che questo film sia una ennesima inchiesta sulla gioventù. Siamo pieni fino al collo di inchieste e di documenti. Il personaggio principale è lui, Antonio. Gli altri gli girano intorno con la loro realtà che è in contrasto con la sua. Lungi da me l’idea di fare un quadro, o come si dice oggi, un affresco sui giovani...
”La voglia matta” è la storia di un quarantenne. Questo naturalmente non esclude la verità dei ragazzi e delle ragazze che Antonio incontra. I giochi, le battute del dialogo, le situazioni sono assolutamente "veri”. Spesso sono stati gli stessi interpreti a suggerirmeli. E quando si trattava di ricostruirli davanti alla macchina da presa si sentivano a loro agio».
Gli interpreti che Salce ha scelto sono per lo più degli avventizi, cioè ragazzi della buona borghesia romana che si sono divertiti a giocare al cinema anche quando le regole del "piano di lavorazione” non erano piacevoli. Si sono alzati per molte settimane alle sei di mattina, hanno dovuto fare il bagno in novembre quando il mare non era certo ”un brodo”, si sono sottoposti al massacrante gioco delle ripetizioni di una scena. Ogni tanto qualcuno scappava dall’albergo Sabaudia dove era concentrata la troupe per non mancare a una festa o a un avvenimento mondano. Ma ritornavano in tempo per le scene del giorno dopo. A loro modo erano, dunque, disciplinati e pieni di buona volontà. A loro modo cercavano di collaborare alla buona riuscita del film.
Alcune delle situazioni più divertenti e delle battute più gustose le hanno proprio suggerite loro a quei "matusa” di Salce e di Tognazzi. La scena della lettura del libretto in cui una delle ragazze segna scrupolosamente: «Oggi baciato M», oppure «Oggi fatto X con Z», e tutti gli altri peccatucci veniali o no «se no me li dimentico e col confessore faccio una figura da cani», è difficile da inventare. Fa parte di una mentalità "vera” ma legata a una precisa età.
«Con voi non si ragiona!» esclama durante le ventiquattro ore che passa nel cottage l’ingegner Antonio. Ed è qui tutto il succo del discorso: con i ragazzi, con quei ragazzi, non si ragiona. L’istinto comanda una danza imprevedibile che richiede una elasticità mentale che a quarant'anni non si può più avere.
Antonio Berlingheri capirà questa verità alla fine del suo strano week-end quando si ritroverà solo sulla spiaggia, abbandonato da quella tribù di scalmanati. «Un’avventura sciocca» dirà a se stesso mentre la spider corre verso Pisa. Ma, per fortuna, innocua. Facendo la media dei settantacinque all’ora, fermandosi mezz’ora dal figlio e ripartendo, alle diciannove e trenta sarà all’imbocco di corso Lodi, a Milano. Con ventiquattro ore di ritardo, ma anche con una preziosa esperienza in più. Un ruolo particolarmente adatto a Tognazzi quello dello spavaldo che. non s’arrende sino a quando non batte con il naso contro la realtà. Lo abbiamo già visto, prima invincibile e poi distrutto, nella figura del federale, il film che ha dato a questo attore la possibilità di rivelare tutte le sue non poche risorse.
F. C., «Tempo», anno XXIV, n.9, 3 marzo 1962
«Noi donne», anno XXIII, 2 novembre 1968 - Ugo Tognazzi
«Radiocorriere TV», 1969 - Ugo Tognazzi
E’ noto, nel mondo dello spettacolo, per le sue avventure sentimentali e per la disinvoltura con cui affronta la vita. Ci voleva Bertolazzi, investigatore TV gravato di problemi quotidiani, per darcene un ritratto inedito
Roma, aprile
Ha ragione Alberto Sordi: la TV è come la prima sigaretta. Dà la nausea, il voltastomaco, i sudori freddi ma lascia nel sangue una lieve traccia di nicotina. Chi ha provato una volta, ritenta e dopo una settimana ha il vizio del fumo. L'importante, quindi, è non ''accendere”, girare alla larga dagli studi di via Teulada. Perchè, se solo ci metti piede sei obbligato a ritornare. E’ successo così a tutti, anche a Ugo Tognazzi che aveva resistito per dieci anni. Andò via tra urla, improperi c parolacce, sbattendo la porta dietro "Un due e tre”; ora è tornato, ma senza la grinta degli anni ruggenti, come se avesse abdicato alla sua consolidata fama di giovanotto di mezza età perennemente impegnato in strenui tornei galanti.
Anche il suo nuovo personaggio televisivo, Francesco Bertolazzi investigatore, sembrerebbe avvalorare, nella modestia dei suoi tratti essenziali, la metamorfosi dell’uomo che per anni seppe tener alto, in patria e all’estero, il vessillo della virilità nazionale. Sicché, nella realtà quotidiana come nella finzione del piccolo schermo domestico, le due figure del buon padre di famiglia quasi cinquantenne potrebbero sovrapporsi senza margini di incertezze. Ma queste sono soltanto le apparenze, perchè la verità pare un’altra e come al solito non viene da via Teulada ma da Luino, in provincia di Varese, dove Tognazzi ha appena finito di girare un film strano che si intitola "Venga a prendere un caffè da noi". E' la storia erotico-patetica di tre sgraziate zitelle, Tarsilia, Camilla e Fortunata che s’innamorano, contemporaneamente. dello stesso uomo, Tognazzi, il quale, è ovvio, riesce a consolarle tutt’e tre, a notti alterne, tranne la domenica, che dedica al riposo.
Ebbene, è stato proprio sul ”set” di Luino, se si deve dar credito a una delle tre protagoniste del film, che Tognazzi ha fornito un’ulteriore prova del suo bellicismo sentimentale. «La scena era un po’ delicata — ha detto la giovane attrice che solo per ragioni di copione appariva nelle sembianze di una nubile attempata — e Tognazzi doveva posarmi una mano sulla gamba. Be’, ci credereste?, non gli riusciva mai di trovare la posizione giusta».
Dunque, dietro l'immagine bonaria di Frank, goffo investigatore delle nostre domeniche televisive, si celerebbe il Tognazzi di sempre: uno stagionato rubacuori che ripartisce equamente le sue attenzioni fra gl’intingoli di casseruola e il gioco del pallone? L'attore — regista di "Frank Bertolazzi Investigation” — è troppo impegnato nella rifinitura delle sue storie gial-ro-rosa per fornire una risposta diretta al quesito sull’opportunismo della sua rentrée televisiva. «Ma come — esclama Tognazzi — io sono qui a sudare, a montare la storia di una famiglia italiana che parodisticamente esprime i pregi e le debolezze della gente comune, perennemente in guerra con se stessa e col prossimo per far quadrare il bilancio familiare, c qual è la ricompensa? Un'analisi comparata fra il mio comportamento di padre televisivo che coinvolge i figli nell’impresa d’investigazione a conduzione familiare c il mio atteggiamento di genitore naturale di tre bambini che vivono in differenti parti del mondo. E non basta. Si è cercato di scorgere nella figura di Ines, la moglie del detective alla buona, la presenza di una figura materna che avrebbe condizionato tutta la mia vita sentimentale. Ma possibile — conclude Tognazzi — che mi si debba giudicare sempre per le donne che ho conosciuto e mai per la qualità del lavoro prodotto?».
La domanda, al di là della sua logica apparenza, è semplicemente retorica. In un’attenta analisi delle cose di casa nostra, un acuto scrittore fece risalire alle matriarche nazionali i mali che affliggono il maschio italiano. In sostanza, egli disse, noi abbiamo i vizi che ci hanno via via lasciato le nostre mamme, le nostre sorelle. fidanzate e spose. Siamo così perchè esse ci hanno voluto così: piccoli prepotenti da bambini, conquistatori a buon mercato da giovanotti, mariti con scappatelle ma buoni padri di famiglia da coniugati e, nell’età avanzata, anziani sì ma col cuore dei vent’anni in petto.
Perchè meravigliarsi allora se l’attore — e quindi l’uomo di vetrina — che per anni ha simboleggiato il modello del comportamento dell'uomo italico, sia stato apprezzato più per le imprese sentimentali condotte a buon fine che per i notevoli risultati artistici raggiunti? «Un uomo, nella vita, può contare sull’amore di una sola donna: la mamma». Questa frase è stata attribuita a Tognazzi, nell'ottobre dello scorso anno. uno specialista in agiografie di personaggi dello spettacolo e, se la sua formulazione è esatta, ci offre una chiave d'interpretazione della complessa vita di un uomo che, in fondo, è rimasto legato al mondo dell'infanzia.
Tognazzi, in realtà, benché i biografi lo tacciano, compì un duro sforzo, nell’età della ragione, per sortire dal vitellonismo provinciale che lo teneva inchiodato per giornate intere nel solito caffè di Cremona, davanti alla tazzina vuota dell'espresso. a discorrere oziosamente di donne c di pallone. Non erano ricchi i Tognazzi e quando il papà andò in clinica, la mamma conLinuò a trattarlo con la longanime comprensione che hanno le donne per i maschi primogeniti. Ugo aveva poca voglia di studiare? Ebbene, ribatteva la signora a chi glielo facesse notare, si rifarà da grande, c’è tempo. Ugo era troppo libero? Certo, ma era così vivace. Così avvenne che Ugo studiò poco e male e a sedici anni prese la sua regolamentare "cotta” per una ragazza, Adele, che passava per la più bella di Cremona. Per lei. per sposarla al più presto, Ugo si trovò persino un lavoro. Ma fu questione di pochi giorni.
Quando ormai mamma e sorella, disperate, temevano che Ugo potesse commettere qualche sciocchezza, Tognazzi si innamorò di nuovo e la mamma ne fu orgogliosa: voleva dire che il peggio era passato. Sembra di assistere a un film già visto sulla provincia sonnolenta. Un giorno, il giovane, intelligente. vivace, ma senza una precisa collocazione sociale, abbandona la città natale e va verso la metropoli. Milano, dove lo attende una zia che lo prende in custodia e lo guida. Il primo concorso per dilettanti, i primi soldi, le prime donne che contano: siamo appena all’inizio di una lunga carriera sentimentale. I buoni consigli non mancano e quando Ugo incontra Lauretta Masiero, la zia esulta, felice: finalmente c’è un matrimonio in vista e lei è bella, assennata, innamorata. Cosa pretendere di più e di meglio? Ma Ugo è abituato alle sue libertà, è sempre stato libero, non vuole assumersi fardelli familiari. Così anche il capitolo Masiero è chiuso ma la storia è ancora lunga: c’entrano, fra le altre, l’annunciatrice televisiva Enza Soldi, Caprice Chantal, Annie Gorassini, Hélène Chanci, Pat O’Hara, Giovanna Ralli, Margaretha Robsam e Franca Bettoia.
«La mia carica sessuale — obietta Tognazzi davanti a simile parterre di cuori infranti — ha sempre condizionato i miei rapporti sentimentali. Quanto alla ragione per cui sono rimasto scapolo, e tale intendo restare, c’è il fatto che il matrimonio è un contratto vincolante che può sempre trasformarsi in un’arma nelle mani di una donna».
Già, ma i tre figli? Ricky, il maggiore, ora ha quasi 14 anni e vive con la mamma, Pat O’Hara, in Inghilterra. Thomas, di 5 anni, nato dalla Robsam, è in Norvegia con la sua nuova famiglia: mamma e patrigno. Giammarco, di due anni, figlio di Franca Bettoia (che convive con Tognazzi da quattro anni) è l’unico che abbia il padre accanto. Ma Ugo Tognazzi è un padre amorevole. Dice infatti: «I figli non sono come le donne che vanno amate una per volta; i figli si possono amare con eguale intensità e tutti insieme anche se materialmente non li hai sempre vicini».
Tuttavia, dopo la nuova esperienza televisiva, Tognazzi rifiuta di essere rinchiuso in definizioni che — sostiene — appartengono al passato. «I tempi sono cambiati — dice. — non frequento più i night di sera, spesso preferisco restare a casa». Anche la sua vena umoristica si sta lentamente evolvendo coi tempi. «Oggi non è più sufficiente far ridere. meglio far sorridere ma lasciar pensare. Oggi, la realtà è così complessa che la comicità deve lasciare il passo all'analisi di costume, certo divertente e non mu-sona ma con una sua morale, un suo impegno. Con questi intenti, Umberto Spadaro, io, Margot Truegel, Benjamin Lev e Claudia Butenuth ci siamo messi al lavoro. Così è nata la storia di Frank Bertolazzi. Un Nero Wolfe per poveri, che non si preoccupa di orchidee e di piatti raffinati, ma che tiene famiglia a carico e si ingegna per assicurarle i pasti quotidiani. Sei puntate, sci ore di spettacolo, vicende semplici, fatti di ogni giorno. E per questo il successo non ci manca».
Gianni Di Giovanni, «Tempo», 2 maggio 1970
Secondo film di Alberto Bevilacqua, Questa specie d'amore conferma le qualità e i difetti dell'autore il quale, scrittore e regista, ha la caratteristica di ispirarsi ai propri romanzi (l'altro fu La Califfa) non per trascriverli ma per riscriverli in linguaggio cinematografico. Egli travalica cioè i limiti dell’adattamento più o meno libero, che è fatto comune, per proporne una nuova stesura, nel tentativo di soddisfare le ambizioni del regista senza tradire quelle dello scrittore.
L’operazione non è senza rischi. Meglio che da La Califfa, emerge da Questa specie d'amore il dualismo di un Bevilacqua che vede cinematograficamente e pensa letterariamente. Alla resa dei conti, l’occhio ci convince più del pensiero - che frena, e talvolta raggela, la carica espressiva dell'immagine. Vi è come la paura di non dire abbastanza o di non dire bene, e ne risente anche il dialogo: levigato, rotondo, disseminato di battute sentenziose tipo « Lei è figlia del mio egoismo e moglie del tuo », « La miseria non te la togli mai di dosso ».
Nonostante le preoccupazioni qualcosa rimane nell’ombra, troppo confuso, o troppo vago, o troppo sfumato. La situazione da cui il racconto prende le mosse è quella del complesso rapporto matrimoniale tra Federico e Giovanna, lui figlio di un artigiano emiliano, lei nobile e ricca. Come e perché si sono sposati? Indipendentemente dalla | differenza di livello sociale e finanziario, che può non avere alcun valore, che cosa Federico (Ugo Tognazzi) ha cercato in Giovanna (Jean Seberg) e, in particolare, Giovanna in Federico? Il film non dà una risposta esauriente, eppure sarebbe necessaria per penetrare il gioco dialettico delle rispettive frustrazioni.
Questo gioco prende tutta la prima parte della vicenda che si svolge a Roma, non senza l’intenzione di vedere nella città un simbolo di disordine morale, aderente quindi alla condizione psicologica dei personaggi. C’è, fra i due coniugi, un vincolo inconscio che gli impedisce di provocare rotture. Tuttavia ciascuno vive nel proprio isolamento invano aspettando dall'altro un aiuto. Federico rimugina, in una umiliazione autopunitiva, la colpa di avere tradito se stesso e le proprie origini per il benessere di cui gode; Giovanna fra-scheggia, compie frequenti viaggi, fa vita mondana non per convinzione ma per provocare il marito e spingerlo alla rivolta che potrebbe poi dare forza alla propria, piuttosto nebulosa nei moventi e nel fine. Entrambi sono figli degeneri dei loro padri, simboli di opposte concezioni morali.
L'uno, il padre di Giovanna, rappresenta l'egoismo degli abbienti, fantasmi blasonati di felliniana memoria, sordi ai bisogni del popolo, cinici difensori dei propri interessi di casta e della greppia. all'occorrenza intrallazzatori: il che sarà anche vero ma qui ha il suono di una forzatura convenzionale, come convenzionale è del resto il personaggio, sia nel disegno sia nell'interpretazione dell'austero Fernando Rey.
Di ben diversa pasta il padre di Federico, vero protagonista del film. Egli vive nei pressi di Parma, a contatto con madre terra. Coltiva fiori e fabbrica solide sedie. La sua vecchiaia è illuminata dagli stessi ideali democratici e umani che da giovane lo portarono a opporsi al fascismo in patria e nella guerra civile spagnola, mai domo nonostante le sopraffazioni, il carcere, il confino. La colpa del figlio, il suo segreto dolore, è di averne dimenticato l'esempio che a poco a poco, nelle varie fasi della crisi coniugale, riaffiora nella memoria.
Questi ritorni onirici al passato, questi frammenti di vita dolorosa ma integra di cui furono i testimoni gli occhi di Federico ragazzo, sono fra , migliori passi del film. Senza altra esigenza che la rappresentazione dei fatti, Bevilacqua dimostra qua sorprendenti capacità di immediatezza cinematografica, tanto che una figura, la madre, emerga dai frammenti a tutto tondo, con la sua dedizione e le sue ansie, dando modo a un'attrice finora sconosciuta, Anna Orso, di mettersi in luce.
Gli altri momenti buoni del film sono nella seconda parte, quando Federico, presa coscienza del proprio tradimento, lascia moglie e benessere per il mare a casa dal padre, cioè alle origini, in quelle Parma che fa da contraltare a Roma. A Parma si ritrova meglio lo stesso Bevilacqua che vi è nato. L’espressione si fa più genuina, svincolata dal manierismo ambientale che in fondo condiziona la prima parte.
Spesso succede che un regista azzecchi il primo film e fallisca il secondo poiché, nel primo, ha caricato tutto il proprio patrimonio autobiografici, i fermenti personali che lo hanno sollecitato ai affrontare la prova dello schermo. Bevilacqua fa eccezione. La sua semenza autobiografica non è tanto nella Califfo quanto in Questa specie di amore dove il padre di Federico, sebbene non qualificato politicamente, è certo ispirato al deputato comunista parmigiano Guido Picelli di cui nell'infanzia egli senti raccontare le gesta. Se il film si salva è per l’appunto in forza di questa componente, attraverso cui si chiariscono le posizioni sia di Federico sia di Giovanna la quale lo raggiunge per umiliarsi a sua volta. E difatti, alla fine, il padre morirà tranquillo quando figlio e nuora (sofisticata quanto può esserlo la glaciale Jean Seberg) avranno scoperto che non esiste amore senza un ideale da servire nelle tribolazioni. Forse sbagliamo, ma noi abbiamo l'impressione che la vena spontanea e sincera di Bevilacqua sia patetica e crepuscolare a dispetto del suo debole per discorsi impegnati e problematici.
Altra fissazione di Bevilacqua è l'impiego controcorrente di Ugo Tognazzi che nel film è tre personaggi in uno, a configurarne la continuità: Federico, il vecchio padre del presente, il padre giovane dei ricordi. Tognazzi se la cava en souplesse, con molta intelligenza, cambiando modi e atteggiamenti secondo l’età, sebbene come padre vecchio faccia un po’ il mezzo busto fra le glorie patrie del Pincio di Roma.
Domenico Meccoli, «Epoca», anno XXIII, n.1117, 27 febbraio 1972
ROMA. E' morto ieri sera alle 23 e 15 a Villa Nomentana, l'attore Ugo Tognazzi. Giovedì scorso era stato colto da un malore nella sua villa di Torvajanica, ieri mattina l'emorragia cerebrale che l'ha costretto al ricovero. Ma le sue condizioni si sono rapidamente aggravate ed è entrato in coma.
Era nato a Cremona il 23 marzo del 1922. Il suo esordio nel cinema avvenne nel 1950 con il film «I cadetti di Guascogna». Da allora ha interpretato oltre 200 film, portanto sullo schermo il volto dell'italiano medio e i mutamenti di costume della società. Tra i suoi film più noti: Il Federale, L'ape regina, Io la conoscevo bene, Venga a prendere il caffè da noi, Questa specie d'amore, Amici miei e Il Vizietto. Si era anche cimentato nella regia con cinque film, l'ultimo dei quali «I viaggiatori della sera» del 1979.
Ugo Tognazzi è morto ieri sera alle 23 e 15 nella casa di cura Villa Nomentana. Era stato ricoverato nella mattinata, a causa un'emorragia cerebrale. Giovedì scorso era già stato colpito da un malore, nella sua villa di Torvaianica, ma nulla faceva pensare a una tragedia così imminente. L'attore era impegnato nella realizzazione di una serie di telefilm per Rai Uno dal titolo «Famiglia in giallo», prodotta da Ugo Tucci, per la regia di Luciano Odorisio. Come sempre però il suo impegno era multiforme. Il 7 novembre avrebbe dovuto riprendere all'Eliseo le rappresentazioni di «Maddame Butterfly», già portata in scena con successo lo scorso anno accanto a Brachetti e preparava inoltre il suo rientro nel cinema.
I funerali si svolgeranno martedì mattina nella chiesa di Santa Maria del popolo. Si annuncia una folta partecipazione del mondo del cinema, del teatro e della televisione, del quale Tognazzi è stato esponente di primo piano nei suoi quasi cinquant'anni di recitazione, di cui 40 dedicati con successo al cinema. Ma ci sarà anche la gente comune, che amava Tognazzi perchè ha saputo, sul piccolo e grandde schermo, dare un volto alle sue speranze, ambizioni e anche difetti. Tognazzi sapeva di averne e lo ammetteva apertamente: ««Ho lavorato - diceva . Mi son portato dietro i miei difetti, li ho coltivati, come le delusioni, come le sciocchezze, fidando sul mio carattere, sulla mia buona fede, sulla mia lealtà di fondo». Parlando del futuro, degli anni che si annunciavano misteriosi e del grande vuoto dopo la loro fine, aggiungeva: «La saggezza mi fa paura, perchè si identifica con la vecchiaia, con la pace dei sensi. Quando qualcuno ti chiama maestro vuol dire che hai chiuso. Io invece lavorerò finché ci riuscirò, mangerò, farò l'amore finché potrò, in pratica vivrò finché ci riuscirò».
Paura della morte? Tognazzi rispondeva: «Sì, certo, ma ho ancor più paura delle corna, se mia moglie mi tradisse la ucciderei». Quando ha festeggiato i cinquant'anni, un'età che considerava un castigo di Dio, disse: «Avrei voluto uccidermi». Poi ci ripensò e più normalmente si sposò con Franca Bettoja. Così, senza mai perdere il gusto della battuta, Ugo Tognazzi ha vissuto i suoi sessantotto anni; affrontando con lo stesso piglio da padano indomito la vita vera e quella recitata.
[r. cri.], «La Stampa», 28 ottobre 1990
L'attore Ugo Torgnazzi, era nato a Cremona nel 1922 Moralista, ma in vena di immoralità. Conformista, ma con il gusto di andare controcorrente. Monogamo, ma con la vocazione dell'harem. Vorace dei sapori forti della vita: quelli dell'amore, della buona cucina, dello sport. Così, con quella sua faccia e quel suo carattere da padano forte e schietto Ugo Tognazzi ha portato attraverso i suoi 68 anni e i suoi oltre duecento film l'immagine dell'altro italiano medio, quello che non si riconosceva in Alberto Sordi. Tognazzi uomo. Si descrive lui stesso: «Io sono un padano amava dire di sé - e questo significa qualcosa di preciso. Quando la composizione è buona dalle mie parti vien fuori un tipo umano fornito di una logica molto concreta, positivo, lavoratore, magari lento di riflessi, con i suoi principi ma anche con la sua voglia di godersi la vita». Tognazzi attore. Per la prima volta a quattro anni, comepuer del coro nel teatro Donizetti di Bergamo.
Nato a Cremona nel 1922, aveva già girato numerose città dell'Alta Italia seguendo gli spostamenti del padre, produttore di assicurazioni. Il secondo incontro con il palcoscenico a dodici anni: in un oratorio del Trentino dove era in vacanza recitò «Il viaggio di Pipino». La scena dei suoi sogni però non era un teatro, ma uno stadio. Avrebbe fatto il calciatore (lo chiamavano già il «Zamora di porta Vittoria») se una lesione al menisco non l'avesse costretto a rinunciare, lasciandogli un immutato amore per il calcio. Alla morte del padre, nel 1937, entrò come contabile in un salumificio, ma non rinunciò a recitare in una filodrammatica. Arruolato in Marina, si esibì nella compagnia delle Forze armate. Solo dopo la liberazione debuttò in teatro con «Viva le donne di Marchesi». E nel 1950 esordì nel cinema, con il non certo indimenticabile «I cadetti di Guascogna» di Mario Mattioli. La macchietta comica era ormai il suo asso nella manica. Lo calò in televisione dal '54 al '59 nel varietà satirico «Un due tre», in coppia con Raimondo Vianello. Gli Anni 50 non lo fecero uscire da questa dimensione.
Ci riuscì il decennio successivo, aperto con la splendida interpretazione nel film-svolta «Il federale» di Luciano Salce e la sua prima regia: «Il mantenuto». Da questo momento intrecciò la sua storia di attore a quella di un cinema che, finito il realismo, cercava di non scadere nel puro sketch. Vennero così i due film con Ferreri: «L'ape regina» e «La donna scimmia», «Io la conoscevo bene», di Antonio Pietrangeli, «La bambolona», di Franco Giraldi. Negli Anni 70 incarnò altri volti della nuova Italia, con «Questa specie d'amore» di Alberto Bevilacqua, «Amici miei», di Mario Monicelli, «Il vizietto», di Eduard Molinaro. Non dimenticò la regia: per 5 volte, ma senza fortuna sedette dietro la macchina da presa. L'ultima nel '79 con «I viaggiatori della sera». E la sua recita non terminava dopo l'ultimo ciak. Scrive nella sua biografia, pubblicata da Gremese, Aldo Bernardini: «Sembrava che il vero spettacolo di Tognazzi non si svolgesse sulla scena, ma nella vita».
[r. cri.], «La Stampa», 28 ottobre 1990
Ugo Tognazzi fu attore completo perché conobbe il successo in teatro, cinema e televisione. Due generazioni di spettatori lo hanno accompagnato con fervore tra montagne di risate. A volte le risate aprivano, quasi compunte, un discorso serio che toccava al pubblico approfondire. La sua generazione nasce con l'esperienza unica dell'avanspettacolo, oggi inimmaginabile per chi frequenta soprattutto l'anonima ed enorme ribalta televisiva. In sale fumose, di fronte a gente crudele che veniva o fingeva di venire soltanto per ingolosirsi di fronte alle 8 ballerine 8, il comico si trovava a recitare la parte dell'agnello di fronte ai lupi. Eppure chi sorpassava questo esame, da Totò a Sordi, non conosceva poi limiti nell'approfondimento della propria bravura.
Per Tognazzi poi, che proveniva da lugubri spettacoli per le truppe, l'avanspettacolo fu addirittura un punto di arrivo («Lavoro, lavoro veramente - ha scritto per le Follie del varietà della Feltrinelli -. Mi danno 150 lire al giorno, nel '44 ci potevo campare»). Duecento città e tre-quattro grandi piazze in una stagione, un ritmo frenetico che selezionava chi non aveva i numeri. Il giovane sfiora così la grande rivista, l'inimitabile Wanda Osiris, gl'impresari emergenti Garinei e Giovannini. Un giorno ci arriverà, gongolante in prima fila davanti alle poltronissime, a pavoneggiarsi con ironia tra le bellissime in lustrini e i sorrisi da pescecane delle star. Che cosa l'ha portato al successo e alla popolarità sulla soglia dei trent'anni? In primo luogo una simpatia istintiva, che si tramuta in camaleontismo quando avverte che la platea desidera identificarsi con lui per dare la caccia a belle donne e per rispondere con brio a un capufficio o a una suocera che idealmente aspettano all'uscita. Con tutto ciò non si sfonda ancora, ci vuole qualcosa di specifico. Falconi e Frattini, due vecchie volpi della rivista, non hanno dubbi nel collocarlo subito tra le stelle fisse del nostro spettacolo: «... quella sua maniera allegra di lanciare la battuta allegra a bazza in fuori e a occhi semichiusi, come fa il gallo col chicchirichì... lo stile impeccabile con cui la bocca a taglio di salvadanaio del nostro aspira golosamente l'aria tra una battuta e l'altra, quasi per assaporare da buongustaio il sale e il pepe della nuova storiella che gli viene in mente».
Una tecnica già affinata dunque e, di più, una singolare capacità di mettere a suo agio l'antagonista. La prova migliore consiste tuttora nel sodalizio con Raimondo Vianello, suo impeccabile compagno d'avventura in televisione nel famoso spettacolo di varietà intitolato 1, 2, 3 più volte ripreso e più volte censurato. Pienamente comprensibile, dati i tempi. La Rai non aveva a disposizione la ricca scuderia d'oggi e d'altronde il potere esibiva, se mai possibile, una suscettibilità maggiore e più vendicativa.
Tognazzi e Vianello non erano uno l'attrazione e l'altro la spalla. Erano una creatura unica e irripetibile, una T e una V che sintetizzavano la televisione, negli Anni Cinquanta ricchi di fantasia e non di organizzazione: loro specialità la satira, loro risultato il trionfo. La parodia di Mario Soldati, che andava alla ricerca di cibi genuini o risaliva il corso del Po, si frantumò in una serie di scenette esilaranti. In genere Vianello faceva Soldati o altri più inamidati intervistatori in cerca di parole difficili e in balìa di finti stupori. Tognazzi, con camiciotti a quadri e cappellacci sfatti, scandiva colossali sciocchezze rette da un'improntitudine bizzarra. Una volta convinse Vianello dell'importanza sociale del suo lavoro, consistente nel ricavare un solo perfette stuzzicadenti da un intere albero d'alto fusto. Con un pericolo, ventilato dallo zelante intellettuale: e se sbagliava? Tognazzi rispondeva compito che se falliva lo stussicadenti, rimaneva un sacco di trucoli. Non era male davvero, al di là di una dolce ingenuità, in tempi di ossessiva organizzazione del lavoro. Di conseguenza il cinema, allora più ricco e più diffuso della televisione, non si lasciò sfuggire questo burlone così incisivo. C'erano altri attori di teatro (e di talento) che Cinecittà allettava e sprecava in farse di pronta mescita al banco di un consumo ebbro di battutacce carnali e di situazioni stantie.
Sarebbe persino una cattiveria accreditare a Tognazzi un dimenticato debutto ne I cadetti di Guascogna. Se nella colonna sonora si cantava a voce spiegata: «Noi siamo i cadetti di Guascogna / Veniam dalla Spagna / andiamo a Bologna ...», il comico doveva adeguarsi e pazientare. Qual è stata la bravura di Tognazzi negli Anni Cinquanta, ricchi di scritture e poveri di occasioni? Studiare i copioni, migliorare la tecnica, frequentare gli artisti. Quando Luciano Salce ne Il federale gli offerse il personaggio del fascistone, fu all'altezza di una celebrità europea quale il «democratico» Georges Wilson. E cominciò una traiettoria brillante e spiritosa nel cinema internazionale. I suoi orano personaggi edonistici, meschini talora, molto italiani nel gusto della beffa e nella propensione al riscatto. E' stato fondamentale per Risi (I mostri), cinque volte per Ferreri (L'ape regina, La donna scimmia, Marcia nuziale, L'udienza, La grande abbuffata), per Bertolucci (La tragedia di un uomo ridicolo, premio d'interpretazione a Cannes), per Scola (Il commissario Pepe). Ha furoreggiato con i Taviani, con Lattuada, Monicelli, per i francesi Vadim e Molinaro.
Durante una ventina d'anni si divide il mercato nazionale e smuove il mercato internazionale con gli assi della commedia italiana, i Sordi, Manfredi, Gassman, Mastroianni. In Amici miei e II vizietto cesella modi di dire e di fare che chiunque di noi in una gaia serata abbiamo malamente e con gioia imitati. Se teme che il mercato si chiuda, non ha dubbi nel tornare in teatro. Litiga con Mario Missiroli che gli ha messo in scena un'edizione de L'avaro di Molière e fa tutto da sé. Conosce il successo pieno, appoggiandosi all'impresario Ardenzi e allo sponsor Berlusconi. Quando la critica non lo comprende, se ne adonta. Dimentica che sono stati i giornalisti a dimostrare che il Tognazzi di La marcia su Roma o Splendori e miserie di Madame Royale non era lo stesso delle freddure pesanti che trattenevano il pubblico attorno alla passerella finché l'ultimo tram era passato nel disinteresse generale. Ma ciò fa parte del gioco. In teatro, anche successivamente a fianco di Arturo Brachetti per M. Butterfly, ritrovava la sua giovinezza. Di sicuro se ne eccitava in senso buono, quest'anno l'avrebbe ridata con immutabile aggressività.
Forse alla Rai lo vedremo prossimamente nella serie di telefilm polizieschi Una famiglia in giallo, che dovrebbe avere finito di registrare nei giorni scorsi. Sarà un commiato, un'ultima occasione di divertimento. Sarebbe bello però che la televisione riscoprisse un dimenticato bianco-nero: Io la conoscevo bene di Pietrangeli. Tognazzi vi raffigura un personaggio nato dall'esperienza antica: il patetico comico sorpassato che implora un ingaggio durante una festa di tutte stelle esibendosi su un tavolo in un tip-tap fuori moda e senza termine. Straziante e buffo, promemoria per chi conosce e non valuta il successo, proposta di autocritica per il pubblico che dimentica. E ancora, all'infinito, quei piedi che battono fino alla disperazione sulla tovaglia di lusso, quelle stille di sudore che disfanno l'impasto di brillantina sulle tempie scarnite...
Piero Perona, «La Stampa», 29 ottobre 1990
«Ogni tanto mi dico che dovrei fermarmi, rallentare il ritmo: insomma gustare quello che si definisce il riposo del guerriero. Ma in realtà questo "riposo" proprio non lo so godere, non so riposare e questa è una delle ragioni per cui, oggi, sento un grande fastidio "giovanile" proprio nel constatare che giovane più non sono. Non ce la faccio a recitare, a vivere la parte dell'attore che si ritira e magari apre un ristorante (e io lo potrei ben fare perché sono davvero esperto in questo) in cui si rifugia e si mette in mostra come in un museo.
No, meglio disperarsi, dannarsi a lavorare, anche per non avere il tempo di pensare a se stesso». Evitando così di fare un bilancio personale? «Esatto: mi annoierei e la noia mi terrorizza perché non sono un inattivo, un contemplativo e quindi i momenti di solitudine si trasformano in noie terribili che io riempio subito di cose da fare: se non ho progetti, lavori, me ne invento o faccio altro per riempirmi la vita. Non sono un intellettuale che cogita: io vivo, disperatamente forse, ma comunque vivo ogni minuto del mio tempo». Così Ugo Tognazzi ci raccontava al microfono di «Radiodue» alcuni mesi fa in un'intervista a cuore aperto per «Lo specchio del cielo» nella quale, parola dopo parola, abbozzò un quadro della propria esistenza d'attore e di uomo. Si era intorno a mezzogiorno, nel salotto di casa in piazza dell'Oro («La mia casa romana dove vengo per riposarmi», ci confidò) e Tognazzi, appena alzato, parlò volentieri e molto: con indosso un pigiama azzurro, i capelli bianchissimi e l'incarnato rosso ci parve più anziano dell'immagine pubblica. Comunque molto vissuto: cinque pacchetti di Marlboro sul tavolo, uno finito nel tempo dell'intervista, meno di due ore, con una premessa: «Guardi che io non sono un intellettuale, non ho grandi cose da | dire, messaggi da lanciare. Men che meno posso essere un esempio di vita».
Cosa vuol dire, allora, «non essere intellettuale»? «Mah, io credo di non esserlo perché applico il mio tempo libero a cose per me più piacevoli: amare una donna, ad esempio, averne il desiderio e quindi cercarla. E' chiaro che questo non rientra nel pensiero profondo della vita, secondo un intellettuale, che probabilmente giudicherebbe questo mio agire un fatto superficiale ma, onestamente, io dò la precedenza a queste cose con buona pace della cultura: la mia parte intellettuale, se c'è, è tutta nel lavoro che ho fatto e faccio». Che cosa la spaventa di più oltre la noia? «Sicuramente la vecchiaia. Ne ho il terrore: inesorabilmente arriva ma io la lascio fuori della porta il più possibile tirando fuori tutte le mie energie. Ho sempre evitato di fare delle verifiche nella mia vita, non mi sono soffermato preferendo vivermi addosso: anche con la vecchiaia non voglio avere verifiche, rapporti, non ci voglio parlare. Da anni non mi specchio più per non vedermi, per evitare di fare i conti con il tempo che passa: è la mia indole. Non sono un tenace, un grande sentimentale: sono un estroverso, questo sì, e... vivo così.
Minuto per minuto, penso al domani, sì, ma a quello immediato». Amarezze? «Ce ne sono: soprattutto nel lavoro quando mi sono reso conto che Tognazzi è stato chiamato a fare una cosa non tanto per le sue qualità ma perché aveva un nome sicuro. E questo mi rattrista molto». Cos'è la solitudine per lei? «E' quello che provi soprattutto quando stai con tanti altri che ti privano della tua libertà. Allora cerco di rifugiarmi se non altro perché sono obbligato a rifinire scelte professionali: però, mi creda, è una solitudine riempita da mille cose. Da donne ma anche da amici: non ne ho molti, ma davvero buoni amici». Alla prima del film di suo figlio Riky «Piccoli equivoci», a Cannes, lei si è commosso alle lacrime e il cronista di turno ha scritto di una paternità ritrovata in Ugo Tognazzi... «Sono sciocchezze. Come padre ho vissuto l'emozione di vedere l'opera del figlio che ha passato, bene, gli esami: una reazione umanissima che ho tradotto in una lacrima. Con i miei figli non ho un rapporto da padre: sono un papà disordinato che non vuole riconoscenze assolute e così i miei figli sono veramente i miei migliori amici. E poi eredità non ne lascio: se non quella di un nome che vale quel che vale».
Alberto Gedda, «La Stampa», 29 ottobre 1990
I ricordi sono più teneri della morte che trancia tutto, e sono costellati di personaggi irripetibili. Ogni tanto scompare un grande dello schermo o della televisione: ieri è toccato a Tognazzi. La tv non fa grande nessuno, semmai lo gonfia: Tognazzi ha saputo cavalcarla e andarsene altrove a cercare la grandezza. L'ultima volta che è comparso in televisione era venerdì scorso, su Raitre, in un frammento di un vecchio sketch di «Un, due, tre». Lo si era visto anche in diretta, un paio di mesi prima, quando per la prima volta un palcoscenico aveva ospitato tutti insieme i massimi del nostro cinema: lui, Sordi, Gassman, Manfredi, la Vitti. Dicono che temesse - ma non ne aveva motivo - di venir tagliato fuori. Suo figlio Ricky aveva progettato un film. L'altra sera lui gli ha chiesto: «Ci sarebbe anche una parte per un sessantenne?». In televisione era esploso. Si era ritirato e ricompariva sullo sfondo, ogni tanto.
Incidentalmente ritornava nei momenti cruciali della piccola fenomenologia del video. Era di fronte a Pippo Baudo quando Baudo a «Fantastico» fece la sparata su Manca e si era messo a ridere. Poco prima aveva raccontato i suoi esordi come imitatore. Baudo lo aveva invitato a prodursi ancora una volta in un'imitazione. Tognazzi si era messo a ridere anche in quel caso e non gli aveva nemmeno risposto. Una tv che non ride è una televisione oppressa: i Ceausescu preferiscono le parate e non «Drive In». Tognazzi credeva nel valore della risata. Quando lui e Vianello non ne poterono più di «Un, due, tre» che durava da sei anni e impediva loro (soprattutto a lui) di lavorare al teatro e al cinema, decisero di autosilurarsi 1 esagerando. La gag è celebre: 1 De Gaulle era stato ospite del presidente della Repubblica, Gronchi, ad una prima alla Scala, e Gronchi, sedendosi, gli era caduto addosso.
Tognazzi a «Un, due, tre» cadde dalla sedia, e Vianello lo sgridò: «Chi ti credi di essere?». Non bastò: ottennero solo un rimprovero. Un paio di settimane dopo fecero di più: c'era un alto prelato in sala e i due lo impacchettarono con un lenzuolo. Poi in una gag Tognazzi chiedeva: «Dov'è il ladro?», e Vianello rispondeva: «Non puoi disturbarlo: sta servendo messa». Il programma venne sospeso per un mese, e non se ne sentì più parlare. Passò per Carosello (faceva reclame alla penna Bic). Presentò una «Canzonissima» (nel 1958: fu la prima a chiamarsi così), e venne cacciato dopo sei puntate perché imitava i politici. Nel '61 si rifiutò di presentarne un'altra edizione. Poi nel '70 inventò «FBI - Frank Bertolazzi Investigatore», parodia dei telefilm polizieschi americani, ma il pubblico non gli dimostrò l'entusiasmo che aveva sperato. Aveva avuto il coraggio - allora ce ne voleva - di partecipare a una delle prime edizioni di «Bontà loro», la trasmissione di Maurizio Costanzo che osava chiedere alla gente le cose che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di chiedere. Costanzo gli aveva domandato: «Non si sente vecchio?». Tognazzi lo aveva guardato come si guarda un Ufo: «No». Il video, nella sua programmazione tanto casuale da sembrare ogni tanto dissennata, ha mandato in onda decine di volte «Il commissario Pepe», che non è fra i suoi film migliori, ma al noleggio costa poco. Il ricordo di Tognazzi è che quando (raramente) era ospite della tv in bianco e nero uno pensava: adesso si ride. E' morto un amico.
Stefano Pettinati, «La Stampa», 29 ottobre 1990
ROMA. La camera ardente è stata aperta poco dopo le 11 di ieri in un locale al pianterreno della clinica dove Ugo Tognazzi è mancato. L'attore ha il volto sereno ed è vestito con il suo classico e impeccabile doppiopetto blu. A rendergli l'ultimo saluto sono venuti, in tanti, i suoi amici del mondo del cinema. Tra questi Marcello Mastroianni, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. «Eravamo portati a ridere su ogni cosa e su tutti. Finché abbiamo recitato insieme», ricorda affettuosamente Raimondo Vianello, suo compagno di lavoro per tanti anni dal 1951, prima cui palcoscenici della rivista poi in televisione e sui set cinematografici, «eravamo dei perfetti complici. Bastava un' occhiata per capirci, sia sul lavoro sia nei momenti che passavamo fuori dalle scene. Ed eravamo sempre noi stessi, capaci di divertirci in ogni occasione. Perché Ugo guardava alla vita con ironia.
Quando parlavamo di tornare a lavorare insieme, magari riportando in scena anche gli sketch del passato, lui con la stessa ironia mi diceva: "sai che tristezza...". Poi abbiamo preso strade di spettacolo diverse, ma se ci rivedevamo tornavamo a vivere la stessa allegria di un tempo». «E' morto Ugo. Perché?». Questa la prima reazione di Nino Manfredi, uno degli altri «mostri» della grande stagione della commedia italiana: «Io ho avuto una vita diversa dalla sua, costantemente accompagnata dal dolore. Per chi, come me, sembrava dover morire a 15 anni ed ha trascoso tre anni in sanatorio, l'idea della morte dovrebbe essere più accettabile. E infatti oggi mi commuovo non tanto perché è morto un compagno di strada, un amico di un'epoca e di una civiltà che sta sparendo; ma perché è come se mi fosse morto un figlio. Non riesco ad essere lucido, ma sento che c'è un'ingiustizia.
Lui era più giovane di un anno, toccava prima a me, mi ha rubato la parte. Solo con l'ironia riesco a difendermi, noi attori siamo fatti così, dobbiamo sempre metterci in prima fila. So però che ci ha insegnato molto, a tutti, con la qualità più alta, facendo ridere». Per Dino Risi, regista di Tognazzi in tanti film, è un «regalo inaspettato» la programmazione, stasera su Retequattro, della sua «Marcia su Roma» con Tognazzi e Gassman. «E' un modo di farlo vivere e di ritrovare sullo schermo la sua qualità più grande: la gioia di vivere. Lo avevo incontrato l'ultima volta due anni fa e mi aveva impressionato una stanchezza, un ripiegamento interiore che avevo notato per la prima volta in tanti anni. Per me gli attori si dividono in due categorie: quelli che aggiungono e quelli che sottraggono qualcosa alla loro parte. Ugo aveva saputo trovare un inatteso equilibrio, offrendo la sua generosità, ma filtrando il mestiere con grande sensibilità. Comunicava la sua gioia vorace della vita». «Ricordo», ha detto l'amministratore della Sacis Gian Paolo Cresci, «quando andammo quattro anni fa in Unione Sovietica per una sua personale.
Alla fine del film salì in palcoscenico ammaliando gli spettatori, nonostante la barriera linguistica, per ore ed ore, fin nel cuore della notte». Per Raiuno, Ugo Tognazzi stava attualmente interpretando una serie di telefilm intitolata «Famiglia in giallo». «Sono rimasto molto scosso», ha dichiarato il direttore della prima rete della Rai, Carlo Fuscagni, «anche perché avevo visto Ugo di recente e lo avevo trovato in ottima forma. Si sapeva che aveva attraversato un periodo di depressione, ma aveva recuperato molto bene. Nella serie che stiamo realizzando il pubblico potrà vedere proprio il grande attore che abbiamo conosciuto nei suoi momenti migliori. Ci viene a mancare oggi un padre, e sarà un'assenza molto dolorosa».
«La Stampa», 29 ottobre 1990
Ugo Tognazzi ha fatto tutto: rivista, cinema, teatro, TV.
Ne avevano fallo quasi uno stereotipo caricaturale. Non solo una sagoma buffa, alla caccia accanita della «joie de vivre», ma un ostinato procacciatore della stessa joie per sé e per gli amici, alla minima occasione, in tutti i campi: nell'amore, nel lavoro, nella convivialità, nello sport, nella corsa al gentil sesso, nel conversare e nel motteggiare fino al l'alba, nello stare e nel mangiare insieme. Ma lui non è mai stato un erotomane o un goliardo o un edonista. È stato un innamorato di quella inconfondibile voracità del vivere che è così tipica in quelli che sono cresciuti nella Lombardia rurale e carnasciale sca. E infatti, prima di approdare alla casa bellissima di Piazza dell'Oro, là dove inizia la rinascimentale Via Giulia e ai due casaioni rustici (ma con piscina a tre livelli e galleria di arte moderna) di Velletri. Ugo Tognazzi era ben noto nella godereccia Cremona, «e nella Bassa», aveva confessato una volta, «che ho imparato a parlare, a mangiare, a pensare e ad apprezzare la gnocca».
Certo, se c'era uno cui ripugnava pensare alla morte, era proprio lui. Ancora la sera prima, in clinica, aveva giocato a carte con la Franca Bettoja, sua moglie. Un embolo, avevano minimizzato i medici, che si sarebbe facilmente «riassorbito». Lo avrebbero dimesso il martedì successivo, avevano promesso al degente che già scalpitava. Invece se n'è andato di soppiatto, d'improvviso, tra lo stupore degli ami ci, entrando in coma il sabato mattina. Una bella vita e anche una rapida fine: proprio come lui se l’era sempre augurata. Ammesso che Ugo Tognazzi avesse mai pensato a una cosa cosi astratta, improbabile, remota dalla sua ingordigia di vita.
E stato un formidabile comico? Be', qualcosa di più: un grandissimo attore. Scettico, gaudente e burlone, però mai cinico, e, grazie a Dio, di inflessioni, gusti e cadenze padane. Un interprete, come ogni grande, sempre assillato dai dubbi; anche quando trafficava in mezzo alle salse e ai fornelli. E sempre disposto a correre rischi terribili, come quello di affrontare il satanico intreccio dei Sei personaggi di Pirandello (di cui non aveva mai letto un rigo) sul palcoscenico parigino dell'Odoon. Diceva: «Mi piace giocare senza rete». E la volta che dovette affrontare la parte di Arpagone ne L'Avaro di Molière-Missiroli (e litigò col grande regista) ripetè: «Tutto ciò mi angoscia, ma nello stesso tempo mi stimola». Che cosa, la regia di Missiroli? «Ma no, dover recitare il linguaggio di Arpagone, che è vecchio di 300 anni». È per questo, gli chiedevano gli amici, che da qualche tempo ti senti infelice, depresso? «Ma porca miseria è per chè devo lavorare come un mulo: la mattina intera a studiare la parte, niente pranzo, alle due via al Teatro dei Servi fino alle sette con Missiroli, un brevissimo break di un’ora c via di nuovo fino alle dieci». È dura? «Macché dura. È durissima. Perché non è possibile sfuggire alla drammaticità del personaggio che non è affatto una macchietta». Ma allora, quando hai dovuto recitare in francese e farti accettare da un pubblico straniero?, gli obiettarono. Rispondeva che «quando il rischio è maggiore, io vedo meno nero. E non ho più dubbi e angosce».
Ma forse la verità vera è un'altra. Uno che lo conosceva bene, Tullio Kezich, ha scritto che negli ultimi tempi «sentiva la vita che gli sfuggiva come la sabbia dalla clessidra, che il meglio di tutto fosse ormai passato». E cominciava ad avere qualche problema di memoria, lui vecchio guitto del glorioso varietà anni Quaranta, con quel tanto di cipria, di rimmel, di bruscolini, di soubrettine di coscia tornita, dove tutti recitavano a braccio.
Dall'avanspettacolo all’Odèon parigino con gli attori mostri della Comé-die: quanta strada. Per aver recitato in francese a Pangi gli attribuirono la «Légion d’honneur». Ne era stato contento. Ma avvertiva dentro un rodio: si sentiva vicino, ormai, a quella maledetta linea grigia, oltre la quale ce n'è solo un’altra, più buia.
Per un quarto di secolo è stato un mattatore del cinema italiano. Centocinquanta film (più o meno) filtrati attraverso un mestiere fatto di vulcanica ma, tutto sommato, equilibrata sensibilità. Gli ultimi campioni di incasso furono Venga a prendere il caffè con noi (Lattuada), Amici miei (Monicelli), Il vizietto (Molinaro). La palma di miglior attore l'aveva conquistata a Cannes, ne,,' '81, con La tragedia di un uomo difficile (Bertolucci).
Aveva iniziato la carriera teatrale con un successo strepitoso: una cosct-ta di Metz che si chiamava Il frolloccone. Sul piccolo schermo aveva sfondato nel 1954 insieme a Raimondo Vianello, con Un, due tre. rimasto un classico della Rai di tutti i tempi Una lunga carrellata di mille facce, una galleria sterminata di estrose maschere del costume in bilico tra il tragico, l'afflitto c il farsesco. Insieme a Manfredi, Mastroianni e Gassman, Ugo è stato uno degli alfieri della risata all'italiana. La sua carriera artistica (iniziata a 14 anni, mentre era impiegato in un salumificio) e quella sentimentale (iniziata poco più in là) hanno proceduto di pari passo: convulsa e senza pause la prima, agitatissima e senza fine la seconda: dall'inglese Pat O’Hara, alla spagnola Eslava Nieves, dalle francesi Helène Chanel e Capricc Chantal alla norvegese Margarethe Robsbahm e all’italiana Franca Bettoja (da cui Ugo ha avuto gli ultimi due dei suoi quattro figli: Gianmarco e Maria Sole).
Ugo Tognazzi impegnato in una partita di tennis. Ogni anno organizzava nella sua villa, a Torvaianica, un torneo con gli amici attori e registi. In premio lo «scolapasta» d'oro.
Certo non sono tutte gemme di luce purissima quelle che ci ha lasciato. Qualche film di gusto meno azzeccato avrebbe potuto anche risparmiarcelo. Sparso qua e là nel grande forziere di Tognazzi c’è anche dell'oro di Bologna. Ma, nel bello e nel meno bello, rimane incontaminato auell'incredibile, caleidoscopico specchio dell'Italia fine millennio che Ugo ci ha lasciato in consegna. Il suo rimpianto più lancinante è stato sempre per la stagione errabonda, c a lui in fondo più congeniale, della rivista, quando andava alla scoperta di trattorie e di piatti paesani in compagnia di altri guitti ridanciani come lui.
Con Sordi, Mastroianni e Manfredi è stato uno dei «quatros gcncralcs» della risata all'italiana. Eppure negli ultimi due anni gli amici avevano cominciato ad avvertire un retrogusto di stanchezza, un accenno di ripiegamento, una punta di amarognolo nella sua sanguigna ingordigia di vitalismo. Come gli altri «generales». spiazzati dai nuovi gusti di un pubblico giovane, il cinema non lo cercava più con la foga di una volta e Ugo preferiva la malinconia al disdoro. Amori, figli, infedeltà, abbuffate? Si, ma Tognazzi è stato anche un signore che aveva sobrietà di linea; anche
Nelle vesti di gastronomo. Sopra, a sinistra, L'Avaro di Molière, in teatro nel 1968
3uando sognava di fare una comincia su Rossini: «Altroché Tartufo. Pensa, recitare davanti a tavole imbandite, schidionate di polli e selvaggina-».
Tramontati gli anni ruggenti del villaggio Tognazzi, del torneo di tennis, dello scolapasta d'oro al vincitore. «Torvaianica? Adesso è diventata una Miami per bottegai». Gli piaceva la cioccolata: se n'è mangiato un pezzo prima di morire. E odiava invecchiare. Il figlio Gianmarco, il più sereno di tutti ai funerali, diceva: «Papà dev’essere contento di esser vissuto così. Si, morire è tremendo. Ma morire senza aver vissuto dev'essere ancor più insopportabile».
Franca Bettoja con la figlia Maria Sola e Ricky Tognazzi, il primo figlio dall’attore, il 30 ottobre, giorno dal funerale di Ugo Tognazzi
Mino Monicelli, «Radiocorriere TV», 17 novembre 1990
Riconoscimenti
Premi cinematografici
David di Donatello
1967 L'immorale Migliore attore protagonista Vinto
1971 La Califfa Migliore attore protagonista Vinto
1976 Amici miei Migliore attore protagonista Vinto
Nastro d'argento
1964 Una storia moderna: l'ape regina Migliore attore protagonista Vinto
1966 Io la conoscevo bene Migliore attore non protagonista Vinto
1968 L'immorale Migliore attore protagonista Candidatura
Il padre di famiglia Migliore attore non protagonista Candidatura
1969 La bambolona Migliore attore protagonista Vinto
1970 Il commissario Pepe Migliore attore protagonista Candidatura
1975 Romanzo popolare Migliore attore protagonista Candidatura
1976 Amici miei Migliore attore protagonista Candidatura
1977 La stanza del vescovo Migliore attore protagonista Candidatura
1982 La tragedia di un uomo ridicolo Migliore attore protagonista Vinto
Globo d'oro
1971 La Califfa Miglior attore Vinto
Grolla d'oro
1964 I mostri Miglior attore Vinto
1967 L'immorale e Il fischio al naso Miglior attore Vinto
Golden Globe
1968 L'immorale Miglior attore in un film commedia o musicale Candidatura
Festival di Cannes
1981 La tragedia di un uomo ridicolo Miglior interpretazione maschile Vinto
Dediche
Gli sono stati dedicati:
il Parco "Ugo Tognazzi" a Cremona
il cinema "Tognazzi" a Cremona (non più attivo)
l'istituto professionale alberghiero (I.P.S.S.A.R.) "Ugo Tognazzi" di Pollena Trocchia (NA)
il Teatro comunale "Ugo Tognazzi" di Velletri (RM)
l'istituto professionale alberghiero "Ugo Tognazzi" di Velletri (RM)
una delle sale del cinema "Multisale Ariston" di Colleferro (RM)
un tratto del lungomare di Torvaianica, comune di Pomezia (Roma)
una frazione di Torvaianica (Pomezia, Roma) porta il suo nome
Teatrografia
1944 - Spettacolissimo
1944 - Si chiude (quasi) all'alba
1945 - Vive le donne!
1945 - Polvere negli occhi
1945 - Polvere di Broadway
1946 - Bocca baciata
1946 - Cento di queste donne
1946 - Cavalcata di donne
1948 - Febbre azzurra
1948 - Paradiso per tutti
1949 - Castellinaria
1950 - Quel treno che si chiama desiderio
1951 - Dove vai se il cavallo non ce l'hai
1952 - Ciao fantasma
1953 - Barbanera, bel tempo si spera
1954 - Passo doppio
1955 - Campione senza volere
1955 - Il medico delle donne
1956 - Il fidanzato di tutte
1957 - Uno scandalo per Lilli
1957 - Papà mio marito
1957 - L'uomo della grondaia
1960 - Gog e Magog
1975 - Il Tartufo
1986 - Sei personaggi in cerca d'autore
1988 - L'avaro
1989 - M. Butterfly
Filmografia
Attore
Cinema
I cadetti di Guascogna, regia di Mario Mattoli (1950)
La paura fa 90, regia di Giorgio Simonelli (1951)
Una bruna indiavolata, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1951)
Auguri e figli maschi!, regia di Giorgio Simonelli (1951)
L'incantevole nemica, regia di Claudio Gora (1953)
Sua Altezza ha detto: no!, regia di Maria Basaglia (1953)
Siamo tutti milanesi, regia di Mario Landi (1953)
Se vincessi cento milioni, regia di Carlo Campogalliani e Carlo Moscovini (1953)
Café Chantant, regia di Camillo Mastrocinque (1953)
Ridere! Ridere! Ridere!, regia di Edoardo Anton (1954)
Milanesi a Napoli, regia di Enzo Di Gianni (1954)
La moglie è uguale per tutti, regia di Giorgio Simonelli (1955)
Domenica è sempre domenica, regia di Camillo Mastrocinque (1958)
Totò nella luna, regia di Steno (1958)
Mia nonna poliziotto, regia di Steno (1958)
Marinai, donne e guai, regia di Giorgio Simonelli (1958)
Il terribile Teodoro, regia di Roberto Bianchi Montero (1958)
Guardatele ma non toccatele, regia di Mario Mattoli (1959)
Fantasmi e ladri, regia di Giorgio Simonelli (1959)
Non perdiamo la testa, regia di Mario Mattoli (1959)
Policarpo, ufficiale di scrittura, non accreditato, regia di Mario Soldati (1959)
Le cameriere, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1959)
Psicanalista per signora, regia di Jean Boyer (1959)
Noi siamo due evasi, regia di Giorgio Simonelli (1959)
La duchessa di Santa Lucia, regia di Roberto Bianchi Montero (1959)
La cambiale, regia di Camillo Mastrocinque (1959)
Tipi da spiaggia, regia di Mario Mattoli (1959)
La sceriffa, regia di Roberto Bianchi Montero (1959)
La Pica sul Pacifico, regia di Roberto Bianchi Montero (1959)
I baccanali di Tiberio, regia di Giorgio Simonelli (1960)
Genitori in blue-jeans, regia di Camillo Mastrocinque (1960)
Il principe fusto, regia di Maurizio Arena (1960)
Il mio amico Jekyll, regia di Marino Girolami (1960)
Le olimpiadi dei mariti, regia di Giorgio Bianchi (1960)
Femmine di lusso, regia di Giorgio Bianchi (1960)
Un dollaro di fifa, regia di Giorgio Simonelli (1960)
Tu che ne dici?, regia di Silvio Amadio (1960)
A noi piace freddo...!, regia di Steno (1960)
Gli incensurati, regia di Francesco Giaculli (1961)
Sua Eccellenza si fermò a mangiare, regia di Mario Mattoli (1961)
Che gioia vivere, regia di René Clément (1961)
Il federale, regia di Luciano Salce (1961)
5 marines per 100 ragazze, regia di Mario Mattoli (1961)
La ragazza di mille mesi, regia di Steno (1961)
Il mantenuto, non accreditato, regia di Ugo Tognazzi (1961)
Pugni pupe e marinai, regia di Daniele D'Anza (1961)
I magnifici tre, regia di Giorgio Simonelli (1961)
Una domenica d'estate, regia di Giulio Petroni (1962)
La voglia matta, regia di Luciano Salce (1962)
Psycosissimo, regia di Steno (1962)
La cuccagna, non accreditato, regia di Luciano Salce (1962)
I tromboni di Fra' Diavolo, regia di Giorgio Simonelli (1962)
I motorizzati, regia di Camillo Mastrocinque (1962)
La marcia su Roma, regia di Dino Risi (1962)
Il giorno più corto, regia di Sergio Corbucci (1963)
Ro.Go.Pa.G., episodio Il pollo ruspante, regia di Ugo Gregoretti (1963)
Le ore dell'amore, regia di Luciano Salce (1963)
Una storia moderna - L'ape regina, regia di Marco Ferreri (1963)
I mostri, regia di Dino Risi (1963)
I fuorilegge del matrimonio, regia di Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani (1963)
Alta infedeltà, episodio Gente moderna, regia di Mario Monicelli (1964)
Liolà, regia di Alessandro Blasetti (1964)
La vita agra, regia di Carlo Lizzani (1964)
La donna scimmia, regia di Marco Ferreri (1964)
Il magnifico cornuto, regia di Antonio Pietrangeli (1964)
Controsesso, episodio Il professore, regia di Marco Ferreri (1964)
I complessi, episodio Il complesso della schiava nubiana, regia di Franco Rossi (1965)
Una moglie americana, regia di Gian Luigi Polidoro (1965)
Io la conoscevo bene, regia di Antonio Pietrangeli (1965)
Oggi, domani, dopodomani, non accreditato, episodio L'uomo dei cinque palloni, regia di Marco Ferreri (1965)
Ménage all'italiana, regia di Franco Indovina (1965)
L'uomo dei cinque palloni, regia di Marco Ferreri (1965)
Marcia nuziale, regia di Marco Ferreri (1966)
Una questione d'onore, regia di Luigi Zampa (1966)
I nostri mariti, episodio Il marito di Attilia, regia di Dino Risi (1966)
Le piacevoli notti, regia di Armando Crispino e Luciano Lucignani (1966)
Il fischio al naso, regia di Ugo Tognazzi (1967)
L'harem, regia di Marco Ferreri (1967)
L'immorale, regia di Pietro Germi (1967)
Il padre di famiglia, regia di Nanni Loy (1967)
Gli altri, gli altri e... noi, regia di Maurizio Arena (1967)
Straziami ma di baci saziami, regia di Dino Risi (1968)
Barbarella, regia di Roger Vadim (1968)
Sissignore, regia di Ugo Tognazzi (1968)
La bambolona, regia di Franco Giraldi (1968)
Satyricon, regia di Gian Luigi Polidoro (1969)
Porcile, regia di Pier Paolo Pasolini (1969)
Il commissario Pepe, regia di Ettore Scola (1969)
Nell'anno del Signore, regia di Luigi Magni (1969)
Cuori solitari, regia di Franco Giraldi (1970)
Venga a prendere il caffè da noi, regia di Alberto Lattuada (1970)
Splendori e miserie di Madame Royale, regia di Vittorio Caprioli (1970)
La Califfa, regia di Alberto Bevilacqua (1970)
La supertestimone, regia di Franco Giraldi (1971)
In nome del popolo italiano, regia di Dino Risi (1971)
Stanza 17-17 palazzo delle tasse, ufficio imposte, regia di Michele Lupo (1971)
Questa specie d'amore, regia di Alberto Bevilacqua (1972)
L'udienza, regia di Marco Ferreri (1972)
Il maestro e Margherita, regia di Aleksandar Petrović (1972)
Il generale dorme in piedi, regia di Francesco Massaro (1972)
Vogliamo i colonnelli, regia di Mario Monicelli (1973)
La grande abbuffata, regia di Marco Ferreri (1973)
La proprietà non è più un furto, regia di Elio Petri (1973)
Non toccare la donna bianca, regia di Marco Ferreri (1974)
Permettete signora che ami vostra figlia?, regia di Gian Luigi Polidoro (1974)
Romanzo popolare, regia di Mario Monicelli (1974)
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, regia di Pupi Avati (1975)
La smagliatura, regia di Peter Fleischmann (1975)
Amici miei, regia di Mario Monicelli (1975)
L'anatra all'arancia, regia di Luciano Salce (1975)
Al piacere di rivederla, regia di Marco Leto (1976)
Telefoni bianchi, regia di Dino Risi (1976)
Cattivi pensieri, regia di Ugo Tognazzi (1976)
Signore e signori, buonanotte, regia di Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli ed Ettore Scola (1976)
La stanza del vescovo, regia di Dino Risi (1977)
Casotto, regia di Sergio Citti (1977)
I nuovi mostri, regia di Mario Monicelli, Dino Risi ed Ettore Scola (1977)
Il gatto, regia di Luigi Comencini (1977)
Nenè, non accreditato, regia di Salvatore Samperi (1978)
La mazzetta, regia di Sergio Corbucci (1978)
Primo amore, regia di Dino Risi (1978)
Il vizietto, regia di Édouard Molinaro (1978)
Dove vai in vacanza?, episodio Sarò tutta per te, regia di Mauro Bolognini (1978)
L'ingorgo, regia di Luigi Comencini (1979)
I viaggiatori della sera, regia di Ugo Tognazzi (1979)
La terrazza, regia di Ettore Scola (1980)
Arrivano i bersaglieri, regia di Luigi Magni (1980)
I seduttori della domenica, episodio Il carnet di Armando, regia di Dino Risi (1980)
Il vizietto II, regia di Edouard Molinaro (1980)
La tragedia di un uomo ridicolo, regia di Bernardo Bertolucci (1981)
Scusa se è poco, regia di Marco Vicario (1982)
Amici miei - Atto IIº, regia di Mario Monicelli (1982)
Scherzo del destino in agguato dietro l'angolo come un brigante da strada, regia di Lina Wertmüller (1983)
Il petomane, regia di Pasquale Festa Campanile (1983)
Dagobert, regia di Dino Risi (1984)
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, regia di Mario Monicelli (1984)
Fatto su misura, regia di Francesco Laudadio (1985)
Matrimonio con vizietto (Il vizietto III), regia di Georges Lautner (1985)
Amici miei - Atto IIIº, regia di Nanni Loy (1985)
Yiddish Connection, regia di Paul Boujenah (1986)
Ultimo minuto, regia di Pupi Avati (1987)
Arrivederci e grazie, regia di Giorgio Capitani (1988)
I giorni del commissario Ambrosio, regia di Sergio Corbucci (1988)
Tolérance, regia di Pierre-Henry Salfati (1989)
La battaglia dei tre tamburi di fuoco, regia di Souheil Ben-Barka e Uchkun Nazarov (1990)
Televisione
FBI - Francesco Bertolazzi investigatore, miniserie TV in 6 episodi, regia di Ugo Tognazzi (1970)
Cuore nero episodio della miniserie TV Sogni e bisogni, regia di Sergio Citti (1985)
Qui c'est ce garçon?, miniserie TV in 2 episodi, regia di Nadine Trintignant (1987)
Una famiglia in giallo, postumo, film TV, regia di Luciano Odorisio (1991)
Regista
Il mantenuto (1961)
Il fischio al naso (1967)
Sissignore (1968)
FBI - Francesco Bertolazzi investigatore, miniserie TV in 6 episodi (1970)
Cattivi pensieri (1976)
I viaggiatori della sera (1979)
Radio
Colpo di vento, "baraonda musicale" di Italo Terzoli, regia di Adolfo Perani (domenica 17 giugno 1956) Secondo programma, ore 21.
L'imperfetto, di Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi, regia di Renzo Tarabusi (1956)
Vado e torno paisà, Le occasioni dell'umorismo di Gianni Bellavisata, regia di Nino Meloni (domenica 27 aprile 1958), Terzo programma.
Il dissipatore, di Ferdinand Raimund regia di Sandro Bolchi (1958)
Gran Varietà, (1966-1972)
Discografia
Singoli
1981 - Risotto amaro
Libri
Afrodite in cucina, Cava de' Tirreni, Marlin, 2005, p. 256, ISBN 88-6043-000-3.
L'abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire, Avagliano, 2004, p. 183, ISBN 88-8309-143-4.
Note
- ^ a b G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo: Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Bari 2007 - ed. dig. 11-2015
- ^ Teche RAI Consultato il 18 agosto 2016
- ^ Treccani - Enciclopedia del Cinema (2003) - Scheda di M. d'Amico - Consultato il 18 agosto 2016
- ^ La villa di Ugo Tognazzi a Velletri apre al pubblico... e a iniziative culturali, in Il Caffè, 11 aprile 2014. URL consultato il 31 luglio 2014.
- ^ Ugo e il Milan, su Ugo Tognazzi Official Web Site.
- ^ Raimondo Vianello ricorda Ugo Tognazzi per il Corriere
- ^ Dalla " caduta " di Gronchi alla Scala alle " corna " di Leone anti universitari
- ^ Curiosità. Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate Rosse
Riferimenti e bibliografie:
- Carlo Terron, «Tempo», anno XXII, n.45, 5 novembre 1960
- Sito ufficiale, su ugotognazzi.com
- (EN) Ugo Tognazzi, su Find a Grave
- Ugo Tognazzi, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi
- (EN) Ugo Tognazzi, su Discogs, Zink Media
- Ugo Tognazzi, su CineDataBase, Rivista del cinematografo
- (EN) Ugo Tognazzi, su Internet Movie Database, IMDb.com
- (EN) Ugo Tognazzi, su AllMovie, All Media Network
- (DE, EN) Ugo Tognazzi, su filmportal.de
- Tognazzi - L'ugoista, su La Storia siamo noi. URL consultato il 24 ottobre 2012 (archiviato dall'url originale il 22 giugno 2013)
- Ugo Tognazzi, su RSI (archiviato dall'url originale il 3 dicembre 2011)
- Bruno P. Pieroni, 90 anni di "Italie": Appunti del decano dei giornalisti medici, 2012.
- Roberto Buffagni (a cura di), La supercazzola. Istruzioni per l'Ugo, Mondadori, ISBN 88-04-55073-2.
- Roberto Buffagni (a cura di), Un, due, tre, Mondadori, ISBN 88-04-49312-7.
- Aldo Bernardini, Ugo Tognazzi, Gremese, 1978, ISBN 88-7605-030-2.
- Andrea Jelardi, Giordano Bassetti, Queer TV, Roma, Croce, 2006.
- Andrea Pergolari, Paolo Silvestrini, Tognazzingiallo, Giulio Perrone Editore, 2010, ISBN 978-88-6004-163-0.
- Alessandro Ticozzi, Il grande abbuffone. Tra cinema e cucina con Ugo Tognazzi, SensoInverso Edizioni, 2013.
- Fabio Francione, Lorenzo Pellizzari (a cura di), Ugo Tognazzi regista, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2002.
- Il Radiocorriere, annate varie 1953/1980.
- "La città del cinema", AA.VV., Napoleone, Roma, 1979
- "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953