Viviani Raffaele
Vero cognome Viviano (Castellammare di Stabia, 10 gennaio 1888 – Napoli, 22 marzo 1950), è stato un attore teatrale, commediografo, compositore, poeta e scrittore italiano.
La lotta mi ha reso lottatore. Dicendo lotta intendo parlare, si capisce, non di quella greco romana che fa bene ai muscoli e stimola l'appetito, ma di quella sorda, quotidiana, spietata, implacabile che ogni giorno si è costretti a sostenere.
E la mia vita fu tutta una lotta: lotta per il passato, lotta per il presente, lotta per l'avvenire. Con chi lotto? Non col pubblico, il quale anzi facilmente si fa mettere con le spalle al tappeto, ma con i mille elementi che sono nell'anticamera, prima di giungere al pubblico. Parlo del repertorio, delle imprese, dei trusts, dei trusts soprattutto. Oggi come ieri, l'uomo di teatro è in lotta continua coll'accaparramento dei teatri di tutta Italia, i quali sono tenuti e gestiti da pochissime mani, tutte strette fra loro.
Raffaele Viviani ("Dalla Vita alle scene")
Biografia
1892: Debutta a quattro anni, sotto la guida del padre impresario teatrale, come piccolo canzonettista.
1900: Muore il padre e lavora al Circo Scritto come Don Nicola nella zarzuela carnevalesca Zeza Zeza.
1904: Ottiene il primo grande successo nell'interpretazione di Scugnizzo di Capurro.
1908: Inaugura con la sorella Luisella il Teatro Jovinelli di Roma.
1911: Recita a Budapest al Fowarosi Orpheum. Incontra Marinetti e Cangiullo alla Galleria Futurista in via Dei Mille a Napoli.
1912: Sposa Maria di Maio, nipote di Getano Gesualdo finanziatore del Teatro Nuovo.
1916: Recita all'Olympia di Parigi su invito di Felix Mayol.
1917: Fonda la compagnia "Teatro d'Arte" e debutta all'Eden Teatro di Napoli.
1924: Traduce ed interpreta La Patente di Pirandello.
1925: Recita a Tripoli. Vincenzo Gemito gli modella il ritratto in terracotta conservato al Museo di S. Martino.
1929: Parte per una tournée di sei mesi che lo porterà nei principali teatri dell'America Latina.
1934: Interpreta, nell'ambito della Biennale di Venezia, il personaggio di Don Marzio in La Bottega del caffè di Goldoni.
1940: Ottiene grande successo interpretando Felice Sciosciammocca in Miseria e nobiltà di Scarpetta.
1941: Veste i panni di Pulcinella in So' muorto e m'hanno fatto turna' a nascere di Petito.
1945: Recita per l'ultima volta ne O Vico commedia con la quale aveva esordito nel 1917.
1950: Muore a 62 anni dopo lunga malattia lasciando inediti Muratori e I Dieci Comandamenti.
L'infanzia
Nacque la notte del 10 gennaio 1888 a Castellammare di Stabia da Teresa Sansone e Raffaele Viviani Il padre vestiarista teatrale, divenne in seguito impresario dell'Arena Margherita di Castellammare di Stabia. Dopo un tracollo finanziario la famiglia, con i piccoli Luisella e Raffaele si trasferì a Napoli e fu lì che il padre fondò alcuni teatrini chiamati Masaniello. Questi piccoli teatri popolarissimi furono la prima scuola d'arte del piccolo Papiluccio (come veniva chiamato in famiglia).
Raffaele la sera si recava con il padre al teatrino di marionette a Porta San Gennaro entusiasmandosi per le avventure di Orlando e di Rinaldo ma era affascinato dal numero finale del tenore comico Gennaro Trengi, famoso per i gilet coloratissimi, tanto che presto imparò tutto il suo repertorio a memoria. Un giorno il Trengi si ammalò e così, Aniello Scarpati impresario del teatrino, spaventato dal dover restituire i soldi del biglietto propose di far esibire il piccolo Raffaele. Fu vestito con l'abito di un “pupo” che la madre raffazzonò alla meglio. Il Trengi perse il posto, la stampa si occupò del piccolo prodigio che "canta canzoni a quattro anni e mezzo". Ogni sera accorse più gente per vedere il piccolo Papiluccio che presto ebbe una vera paga per quattro spettacoli serali ed otto la domenica. Gli fu affiancata una giovane cantante, Vincenzina Di Capua come duettista.
Nel 1900 con la morte del padre quello che Raffaele aveva fatto per divertimento, dovette continuarlo per necessità. Cominciò a lavorare a cinquanta centesimi per sera, che servivano in parte a sfamare la famiglia. Ma subito comprese che, per farsi strada, avrebbe dovuto differenziarsi dagli altri, e cominciò a scrivere canzoni. Furono anni di miseria ma anche di studio e di formazione, si andava formando nella mente del piccolo artista quella visione poetica di un mondo popolare che avrebbe portato poi alla creazione di un suo teatro.
"Scugnizzo" il primo successo
La morte del padre lasciò la piccola famiglia in una situazione difficilissima. Il piccolo Papiluccio fattosi coraggio si mise in cerca di una scrittura. Fu ingaggiato da un impresario di giostre e numeri di circo, tale Don Ciccio Scritto, come Don Nicola nella Zeza, una specie di zarzuela carnevalesca con Pulcinella e Colombina (questa esperienza fu ricordata in seguito in Circo Equestre Sgueglia una commedia del 1922). Ricominciava dal più infimo livello dell'arte teatrale, lavorava dalle due fino a mezzanotte per 50 centesimi al giorno. La seconda scrittura fu con la compagnia Bova e Camerlingo che scritturò per una tournée in alta Italia Viviani e la sorella Luisella come duo di giovani cantanti. Partirono con la madre che si era improvvisata impresaria. Fu un fiasco. La famiglia tornò a Napoli ma Viviani riuscì ad avere una scrittura al Concerto Eden di Civitavecchia. Sostituiva un giovanissimo Ettore Petrolini, e nacque un'amicizia fraterna che sarebbe durata tutta la vita.
Il guadagno consisteva per ogni artista nello girare con il piattino fra il pubblico. Dopo tre mesi il locale fu chiuso dalla Questura. Viviani senza una lira si rivolse al commissariato per essere rispedito a Napoli. Nell'attesa dei soldi il giovanissimo attore fu rinchiuso (come misura protettiva) in cella di sicurezza, aveva tredici anni e non dimenticherà mai più quella drammatica esperienza. Tornato avventurosamente a Napoli riuscì a trovare una scrittura al teatro Petrella. Un locale vicino al porto frequentato da marinai, doganieri, scaricatori e prostitute. In breve divenne il beniamino di quel pubblico singolare.
Al Petrella Viviani trovò il suo genere ed interpretò per la prima volta “Scugnizzo” di Giovanni Capurro e Francesco Buongiovanni. Lo “scugnizzo“ era un cavallo di battaglia del comico Peppino Villani al teatro Umberto I e Viviani dopo essersi procurato parole e musica ne fece una sua interpretazione. Il successo fu enorme, e da quel momento Villani smise di fare “Lo scugnizzo”. Viviani passò dal Petrella all'Arena Olimpia e intraprese quel cammino che lo avrebbe portato ad essere una stella di prima grandezza. Nel 1905 scrive per la sorella Luisella "Bambenella 'e coppe quartiere".
Raffaele Viviani, formatosi grazie alla sua forza di volontà, nei teatri scalcinati di Napoli, a sedici anni vide, al teatro Umberto, Peppino Villani, comico di grossa fama, nell’interpretazione della macchietta O’ scugnizzo e ne rimase folgorato:
Capii che quella macchietta avrebbe potuto trovare nella mia interpretazione le corde necessarie perché vibrasse tutta di vita reale; pensai che io avrei potuto dare a quella creatura lacerata e scarna i palpiti esili del cuore, la dolcezza dell’anima, la mitezza monellesca del temperamento, perché quegli esseri mi erano vissuti accanto e ne avevo non studiate, ma immagazzinate – direi così – tutte le caratteristiche.
La scrittura all'Eden e il matrimonio
E venne la scrittura all'Eden che dopo la chiusura del salone Margherita era diventato l'unico caffè concerto di Napoli.
Viviani desideroso di creare un repertorio che lo differenziasse dagli altri cominciò a scrivere i propri “numeri”. Per le musiche ingaggiò un maestro di pianoforte al quale canticchiava i motivi che venivano trascritti in note, quello che in termini tecnici si chiama "un melodista non trascrittore" (come sarà Chaplin). Nasce "Fifi Rino" la stilizzazione marionettistica del "gagà" aristocratico e dannunziano. Scrive Vittorio Viviani la stilizzazione marionettistica di Fifi Rino attraverso i comici posteriori da Gaspare Castagna a Palmieri - detto il comico di caucciù - e da Mongelluzzo a Gustavo De Marco giungerà fino alle esibizioni di Nino Taranto ragazzo e soprattutto di Totò.
Ricorda Viviani: Cominciò così per me un triplice travaglio. Prima imparare a scrivere, poi il repertorio; e dedicai tutti i giorni e parte delle notti al lavoro; le musiche me le facevo scrivere dopo averle canticchiate al maestro Enrico Cannio e così, in quindici giorni vennero fuori i primi miei sei tipo realistici e di ispirazione popolare che dovevano dare il trionfale inizio alla mia ascesa. Avevo badato alla grammatica, non già come al tempo della mia prima macchietta "Fifì Rino" scritta da me, con la grafia di un bambino di prima elementare Nascono le tipizzazioni di "Prezzetella 'a capera" (Brigida la pettinatrice) che Viviani recitava in abiti femminili, 'O tammurraro, 'O pezzaiuolo, Pascale d'a cerca, tutti tipi che verranno in seguito inseriti negli atti unici.
La situazione economica ebbe una svolta positiva il che gli permise di cambiare casa, da Vico Finale al Borgo Sant'Antonio Abate, e di potersi permettere l'acquisto di un pianoforte. Una sera al teatro Nuovo di Napoli conobbe Maria Di Majo, la bella nipote di Gaetano Gesualdo, finanziatore e impresario del teatro. Dopo alterne vicende, e qualche difficoltà con la famiglia di lei, che non vedeva di buon occhio il matrimonio con un comico, i due si fidanzarono e dopo cinque anni si sposarono. Ebbero quattro figli Vittorio, Yvonne, Luciana e Gaetano.
Nell'estate del 1908 va a Roma dove interpreta tre film e viene scritturato per l'inaugurazione del teatro Jovinelli. Il successo di quegli anni è testimoniato dai contratti (che si conservano alla Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli) dal 1910 in poi, viene chiamato in tutte le importanti sale di Varietà d'Italia (a Roma Jovinelli e Sala Umberto, Torino Varietà Maffei, a Milano il Morisetti e l'Eden, a Napoli la Fenice, l'Umberto e l'Eden).
Tournée Viviani
Con il moltiplicarsi delle scritture in tutte le città d'Italia accrebbe la capacità di essere sempre più impresario di se stesso e della sorella Luisella, questa nuova consapevolezza spinse Viviani ad organizzare ed offrire serate complete, interi spettacoli, con numeri diversi scritturati da lui. Nasceva il capocomico.
Si può parlare di una vera e propria compagnia di Varietà che prese il nome di "Tournée Viviani". Con la consolidata frequentazione dei vari Café-chantant in tutta la penisola Viviani aveva assorbito "l'arte specialissima del variété", quella da cui apprese i primi rudimenti di drammaturgia.
Dai contratti dell'epoca si possono ricavare i numeri che veniva scritturando e proponendo come serate complete ai vari teatri: due "stelle" la Krameritz, “stella eccentrica” ed Estrella de Granada “stella italo- napoletana”, la divetta Gemma Nitouche, i musicisti The Tayon e il duo formato dalla Contessa Alda e da Gino Premier con le loro danze caratteristiche, “la divetta” italiana Gemma De Plana più una Bayadera “danzatrice originale”, non mancarono camerieri cantanti e acrobati.
Dalla composizione dell'organico a quello dell'orchestra all'organizzazione della successione dei numeri alla drammaturgia dell'azione nasceva la prima idea di un teatro “totale” fatto di prosa, musica, canto, danza e poesia.
Gli atti unici
Viviani prese in fitto l'Umberto e mise in scena una serata completa, ai numeri consueti della Tournée Viviani aggiunse un atto unico di prosa ‘O vico. Rivoluzionando i canoni classici del "Teatro d'Arte" inventò di fatto un nuovo genere dove la prosa si fondeva con musica canto e danza. Scrive Ferdinando Taviani “ nel caso di Viviani accadde un fatto unico nella storia del teatro moderno: i “numeri” che egli componeva per le sue esibizioni nei teatri di varietà divennero una cellula dalla quale crebbe un organismo teatrale autonomo e nuovo, che non si adeguava a nessun genere preesistente “ Funzionali a questo tipo di teatro non furono naturalmente attori provenienti dalla “ “prosa “ ma dalle file del Varietà. Viviani in uno scritto del 1933 “ nello scegliere i miei collaboratori non mi rivolsi agli attori di prosa ma ad una serie di piccole “vedette” del Varietà [ … ] credevo di poter avere con essi creature meglio adatte al mio nuovo tipo di teatro che allora era un'emanazione diretta delle mie macchiette, e difatti non mi sbagliai“
Infatti la prima compagnia comprendeva un gruppo di canzonettiste fra le quali Tecla Scarano e Tina Castigliana e di macchiettisti tra cui Cesare Faras, Gigi Pisano e Salvatore Costa. Il successo fu grandissimo, Viviani interpretava tre personaggi: L'acquaiuolo, il guappo innamorato e lo spazzino interventista. Seguirono a ‘O vico, a ritmo incalzante, ‘A notte (poi Tuledo ‘e notte), Via Partenope, Piazza ferrovia, ‘A Cantina ‘e copp'’o campo, Scalo Marittimo (‘Nterr'a Mmaculatella), Porta Capuana. In ogni atto unico Viviani interpretava vari personaggi pescando nel repertorio del varietà, tutto legato in una trama con la tecnica "dell'impasto" fondendo il dramma personale con l'ambiente pittoresco, la musica con le parole, il senso con il colore.
Il manifesto dell'Umberto annunziava ogni settimana un nuovo atto unico e Viviani impiegava tre giorni per scriverlo e quattro per metterlo in scena. Si provava prima di andare in scena e dopo la chiusura del teatro. Altra innovazione di Viviani fu per la prima volta l'abolizione del suggeritore, si recitava a memoria. Ricorda Viviani: Ogni battuta era meticolosamente provata e riprovata. Le prove perciò duravano ore ed ore. Volevo che tutti dessero il meglio di loro stessi in modo che non si creasse un distacco fra me ed i miei attori; che l'azione scenica ed il tono della dizione risultassero modellati secondo uno stile unico Il pubblico dell'Umberto vide per la prima volta Napoli rappresentata in una violenta deformazione espressiva, strada per strada, rione per rione, descritta nella realtà complessa e contraddittoria dei suoi personaggi umani.
La stagione dell'Umberto
L'affluenza del pubblico all'Umberto, un pubblico popolarissimo, è rimasta proverbiale. Il teatro di Viviani trionfava. L'Autore sempre più veniva constatando la giustezza della sua intuizione drammaturgica. Ricorda Viviani: intanto avendo esaurito tutti i miei "tipi" più noti, disseminati ormai nei miei primi lavori; cominciai a lambiccarmi il cervello per affrontare commedie di nuovo impianto scenico. Si trattava di costruire una pianta e cominciai ad improvvisarmi commediografo. Dagli atti unici che avevano esaurito la loro funzione, il passo successivo sono i due atti: Borgo Sant'Antonio, Caffè dì notte e giorno, Eden Teatro, Santa Lucia Nova, La Marina di Sorrento, Festa di Piedigrotta. Venivano sempre inseriti i personaggi nati per il varietà ma la trama si evolveva sintomo di una nuova consapevolezza drammaturgica. Osserva Taviani: L'esigenza di ampliare il "numero" di Varietà fa tutt'uno con quella di intrecciarlo in una complessa rete di relazioni e di esplorarne il fondo esistenziale.
Siamo negli anni turbolenti che seguirono la prima guerra mondiale, il protosindaco socialista di Napoli Arturo Labriola presentava al popolo Armando Diaz, generale vincitore, dall'alto di Palazzo Salerno e già si avvertivano i primi torbidi segnali di quella crisi che avrebbe portato al fascismo. Si sviluppava parallelamente il movimento di ispirazione bolscevica che aveva il suo ispiratore in Amedeo Bordiga. Viviani nei lavori in due atti non può che avvertire questo turbamento. Emblematico " Piazza Municipio" dove Vittorio Viviani scrive: per la prima volta, il dramma della lotta nelle fabbriche assume una sua eloquenza attraverso un fatto di natura comune, quotidiana.
Il protagonista è Pasqualino, operaio dell'arsenale. Mentre in Santa Lucia Nova protagonisti sono dei barcaiuoli poveri condannati a vivere in funzione turistica alle prese una borghesia decadente sopravvissuta e forse arricchitasi con la guerra fatta di cocottes, viveurs, maquerots, e dove la cocaina fa da padrona. Questo periodo iniziale del lavoro di Viviani si può dire concludersi con il rutilante baillamme di "Festa di Piedigrotta" lo spettacolo più corale e complesso del primo periodo dove egli: colpisce a fondo il folklorismo della festa settembrina, ne scopre i moventi sociali, ne rivela gli aspetti demagogici.
Il teatro di Viviani del primo periodo (quello che va dagli esordi del 1906 fino alla svolta del 1917 in favore del teatro di prosa) propone una comicità veicolata da una recitazione capace di comprendere ogni aspetto dello spettacolo: dalla mimica al canto, dalla musica al dialetto, per dar vita ai suoi “scugnizzi”: individui emarginati e antiretorici (come per esempio: O’ sapunariello, “il saponaro, raccoglitore di stracci”; O’ tamurraro, “venditore di cembali”) che esprimono il proprio sentimento di solitudine e di rabbia nei confronti del loro destino di povertà ma, nello stesso tempo, sono dotati di una spiccata autoironia, qualità che si afferma come «massima forma di drammaticità che tali personaggi possono assumere».
Si viene definendo così l’esatta concezione di macchietta (petroliniana e vivianesca) che non coincide con la caricatura poiché, attraverso una recitazione comica, fulminea, ma anche lirica e drammatica, mette in scena un ritratto umano permeato da una vena fortemente realistica: è la realizzazione di «quel marionettismo istrionico […] con cui [Viviani] crea un originale tipo di icastica comicità, connotata da una marcata espressività vocale-somatica, raggiunta mediante una partecipazione gestuale di tutto il corpo, esibendo un allucinato marionettismo che anticipa l’espressività di Totò».
Una compagnia nazionale
Negli anni venti e trenta quel teatro “altro” che Viviani andava sognando e preparando da quando era poco più che un bambino stava per trasformarsi in realtà” La compagnia d'Arte napoletana di Viviani è ormai un fatto compiuto, una compagnia di giro nazionale presente da Nord a Sud in tutti i principali teatri Italiani. Si avvale di un repertorio di una ventina di lavori. Sono di quegli anni ‘A morte ‘e Carnevale (novembre 1928), Nullatenenti (1929) Don Mario Augurio e ‘O mastro ‘e forgia (1930); Napoli tascabile (1931); ‘O guappo ‘e cartone (gennaio 1932) tutte opere di successo. Viviani deve cimentarsi con il nuovo ruolo di direttore, drammaturgo e attore.
Eppure il momento è difficile, siamo intorno al '29 in piena crisi economica, le compagnie possono contare solo sul pubblico per gli incassi, questo determina la necessità di lavorare con ritmi frenetici. Ogni sera il pubblico pretende cose sempre nuove. La regola è che si prova continuamente, il pomeriggio prima dello spettacolo e alle volte anche la notte. Naturalmente tutti devono sapere il repertorio a memoria. Viviani è un direttore estremamente esigente per se stesso e per i suoi attori. Tutta la critica è concorde nel riconoscere la novità e l'altissimo livello professionale della compagnia. Il gusto del pubblico, plasmato dalla propaganda del regime, pretende un'arte rassicurante e consolatoria.
Viviani confida: Le illusioni se ne vanno. Ho fatto per l'arte tutti i sacrifici. Ma il pubblico vuole soltanto ridere… divertirsi. Viviani fa i conti con questo stato di fatto e ne è la prova Napoli in Frack, un testo del 1926, che ha il formato quasi di una rivista, in un quadro c'è “ la tarantella Sorrentina” che riscuote un grandissimo successo. Nel 1934 si era arrivati a 1466 repliche. Ancora Viviani: io non posso svolgere la mia arte in una sola direzione, quella dell'Arte con la A maiuscola per gli iniziati. Devo anche cercare di far teatro. E il teatro vuol dire pubblico … se fossi rimasto alle macchiette, avrei milioni … invece no… l'Arte.
Nell'agosto del 1928 Luisella, spinta dal marito Arturo Vietri, ed esaltata dalla critica che la definisce “ La Duse napoletana” specialmente come interprete dei lavori di Di Giacomo come Assunta Spina, mese Mariano, ed il Voto decide di lasciare il fratello e formare una sua compagnia. Seguita da alcuni attori della compagnia.
Un colpo durissimo, ma Viviani non si scoraggia, conferma le piazze già fissate e rimpiazza i transfughi con nuovi attori. La tournée sarà un successo. Le parti di Luisella vengono affidate ad Armida Cozzolino. Il tentativo di Luisella avrà vita breve, e nel 1939 è di nuovo in compagnia. Ma il mito della sua insostituibilità è tramontato. Anche senza Luisella la compagnia continua a raccogliere consensi. Nel 1929 Viviani e la compagnia affrontano una tournée nell'America Latina con tappe a Buenos Aires e Rosario, Montevideo e San Paolo. Ritorna a settembre, e il grande successo oltremare frutta a Viviani ben venti scritture nei principali teatri italiani.
Nel 1929 viene scelto come protagonista con la maschera di Pulcinella del "Cerchio della Morte" di Enrico Cavacchioli, uno dei primi spettacoli della celebre ZaBum dove recita al fianco di Andreina Pagnani ed Alessandro Salvini. L'anno successivo gira per la Cines il film {tip content="Testo de 'La tavola dei poveri' ritrovato e conservato tra i documenti personali di Totò"}"La tavola dei poveri"{/tip} con la regia di Alessandro Blasetti. Nel 1933 traduce Pensaci Giacomì di Pirandello con un trionfo al Fiorentini di Napoli. Scrive 'E pezziente 'e San Gennaro; L'ombra di Pulcinella; Leggiamo la Commedia; L'imbroglione onesto. Nel 1934 Gino Rocca lo sceglie come don Marzio nella Bottega del Caffé di Goldoni al primo festival della Biennale di Venezia. Nel 1936 è a Tunisi, nel 1937 a Tripoli. nel 1939 con la regia di Gennaro Righelli gira il film L'ultimo scugnizzo (andato perduto durante la guerra). Nel 1928, consacrando la sua figura di autore Cappelli di Bologna pubblica la sua autobiografia "Dalla vita alle scene" e nel 1931 Mondadori stampa le sue poesie nel volume "Tavolozza".
Dunque proprio a Viviani il merito di aver resuscitato il teatro dialettale, tramutando in un'immagine di giovinezza un corpo in decomposizione; trasformandolo, o meglio riportandolo, secondo la critica del periodo, alla sua giusta funzione, che era quella di dimostrare come l'agire umano fosse simile in ogni parte della terra
Il "teatro sociale" e la crisi con il fascismo
Verso la seconda metà degli anni trenta lo strepitoso successo degli spettacoli della compagnia Viviani cominciò a scemare. Siamo negli anni del regime rampante. Si è molto parlato dell'avversione del regime fascista e della lotta al dialetto. In realtà il teatro di Viviani basato spesso sulla realistica rappresentazione della miseria non era funzionale alla propaganda di regime. Fu soprattutto il pubblico, composto di nuovi ricchi, desideroso di grandeur e di rassicurazioni a decretare l'ostracismo per un teatro che metteva scomodamente a nudo le realtà più drammatiche della convivenza umana.
“ se anche Viviani è estraneo ad ogni movimento politico, non può non essere intimamente – diremmo, perfino, talvolta, involontariamente – solidale con tutto il mondo dei suoi personaggi, che è lo stesso mondo dei suoi spettatori. A questi, non per deliberato proposito di partecipare allo scatenarsi della lotta tra le classi, ma perché non può non essere se stesso, Viviani offre ogni sera non diremmo una denunzia ma una documentazione sociale attraverso il quadro desolato di una Napoli poverissima che la classe dirigente Italia, dall'unità, non ha saputo o voluto unire all'Italia “ Si può parlare della “ terza maniera” del teatro di Viviani anticipatrice di quella che sarà poi la poetica neorealistica del dopoguerra ponendo al centro della sua ispirazione Napoli come problema sociale.
Nasce, nei lavori di questo periodo, l'eroe popolare, il protagonista cioè di vicende ben precise nei loro termini rappresentativi. Un eroe che la realtà condiziona dal “basso”, rappresentante, sempre più spesso, delle nuove classi produttive che tentatno la via di un'emancipazione sociale e personale.
Questa stagione del “teatro sociale” culminerà con le due ultime opere Muratori (1942) e I dieci comandamenti (1947). Con queste premesse il nuovo pubblico borghese infastidito “ dagli stracci “ disertò le sale dove recitava. Lo accusarono di portare in giro “ le vergogne d'Italia “ Viviani non faceva più gli incassi di una volta e gli impresari lo relegarono sempre più in teatri periferici e secondari.
Ricorda Maria Viviani: Quando Raffaele andava a chiedere i teatri gli impresari gli dicevano: caro Viviani, cosa vuole, quelli, gli spettatori non vi vogliono. Ricordo una volta a Milano, stavamo al teatro Arena, in Corso Buenos Aires, incontrammo l'impresario Zerboni che gli disse: “ Glielo disse proprio così in faccia. Caro Viviani i teatri che avete avuto sono belli, ma soldi non ne fate lo stesso. Quindi quel teatro non glielo davano più, ne davano uno minore. Non è del tutto vero il fatto che il fascismo lo avrebbe ostacolato per motivi politici, la verità è che non faceva soldi. Non piaceva a quel pubblico. E non era nemmeno il dialetto, Angelo Musco e Govi facevano un sacco di soldi, a loro li davano i teatri. Un teatro più ridanciano, più comico, questo volevano.'' Insomma Viviani si trovò a dover lottare per non far scomparire il suo teatro che fin dal 1937 il fascismo, e per esso Nicola De Pirro, a capo della Direzione generale del teatro, aveva deciso di squalificare culturalmente cominciando con l'escluderlo dalle piazze più importanti e dai teatri più popolari. Nel 1937 il teatro dialettale viene escluso dagli aiuti statali Viviani non si arrende e non demorde dalla sua linea artistica tanto che scrive all'amico Paolo Ricci: so che se dovrò un giorno difendere il mio pane cedendo al pubblico... non lo difenderò
L'Attore protegge l'Autore
Nel 1937, mentre il fascismo aveva ormai il completo controllo di tutto il settore teatrale, l'Italia si avviava verso la seconda guerra mondiale. Viviani, che trovava sempre maggiori difficoltà ad organizzare stagioni teatrali con qualche speranza di un ritorno economicamente decoroso, si trovò di fronte ad una scelta dolorosa. L'Autore che trovava sempre maggiori ostacoli ad essere accettato dovette fare un passo indietro, e consigliato da un gruppo di giovani intellettuali che si era riunito intorno a lui, con in testa il figlio Vittorio Viviani ed il pittore Paolo Ricci, decise di puntare sulla sua fama di interprete e sul riconosciuto alto livello della compagnia.
Dopo un primo tentativo, andato a vuoto con Ugo Betti che gli propose un ruolo redditizio ma semplicemente attoriale nel suo Diluvio, ruolo che fu poi affidato a De Filippo, Viviani affrontò, adattandoli alle proprie corde poetiche Molière, Petito, Scarpetta e Petrolini.
Era un'operazione difficile, perché si trattava (e non credo sia stata una scelta casuale) non di meri (anche se grandi) autori, ma di uomini di teatro, autori, autori e insieme attori, che come lui, usavano rappresentare i propri testi.
Si rivolse insomma a degli "autori" come lui, che attraverso il proprio teatro scritto, diretto ed interpretato, avevano innovato il modo di fare teatro rispetto alla tradizione teatrale d'appartenenza.
Vivian mise in scena L'ammalo immortale da Molière nel 1936, Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta nel 1939, Chicchignola di Petrolini nel 1939 e Siamo tutti fratelli da Antonio Petito nel 1941 con la regia del figlio Vittorio. Il successo fu notevole conseguendo una nuova consacrazione nazionale. Viviani in una lettera a Paolo Ricci del 1940 scriveva: ho già circa quattro mesi con magnifico attivo, e cosa strana, finanziariamente, come incassi sono quasi alla testa di tutti I teatro erano di nuovo pieni, le piazze di conseguenza sempre primarie e la critica mostrò di apprezzare questa scelta di "autori veri ". Ma Viviani non rinunciò mai ad essere Autore, ed infatti egli usò il gran successo ottenuto per rilanciare il proprio teatro, sono di quegli anni Quel Tipaccio di Alfonso, La commedia della vita, il Trasformista e marito non marito scritto insieme al figlio Vittorio. Ed in compagnia entrarono due attori di prima grandezza come Vittoria Crispo e Vincenzo Scarpetta.
Quelle messe in scena avevano connotati diversi: mentre con Scarpetta si rendeva omaggio al fondatore di una tradizione, quella tradizione che proprio il suo teatro aveva rinnovato, con Petito fu scelta sentimentale e di meditazione. Nello studio di Corso Vittorio Emanuele, Viviani custodiva con cura tre oggetti dal particolare valore simbolico: la sua testa scolpita da Gemito, le foto con l'autografo di Petrolini ed un busto di Petito. Il ritratto di Gemito come segno dell'avvenuto successo ( anche per quello che era costato ); la foto di Petrolini, amico fraterno dall'epoca dei difficili inizi, come testimonianza dei sacrifici e delle lotte che quel successo era costato; il busto di Petito, nume tutelare e padre nobile, come solido ancoraggio alla tradizione.
Un teatro sotto le bombe
Il nuovo successo si scontrò presto con l'entrata in guerra dell'Italia. Viviani si trovò ancora una volta nella condizione di dover ripartire. Dopo una sosta a Napoli nella stagione 1942 -43, pur di far ripartire il suo teatro chiese di recitare nelle città bombardate allestendo una nuova compagnia e con in cartellone, oltre al suo repertorio, anche Bellavita di Pirandello del quale aveva già interpretato La patente nel 1924 e Pensaci Giacomino nel 1933. Si recitava fra un allarme e l'altro. Ad ogni suono di sirena compagnia e spettatori si rifugiavano nei rifugi per poi tornare in teatro con il cessate allarme.
Ricorda Ettore Masi: quando uno spettacolo fu interrotto tre volte per i bombardamenti, per tre volte il pubblico ritornò compatto a seguire il seguito dello spettacolo dopo avere avuto notizia delle zone colpite E Viviani: Il periodo dei bombardamenti mi trovò a Napoli, dove recitai ininterrottamente per tre mesi. Durante gli spettacoli quante volte ero costretto a scendere nei ricoveri, nei panni di " Don Giacinto" o di "sanguetta" o di "Ntonio esposito"! Ed il pubblico mi seguiva in quell'immenso ricovero che pareva una bocca d'inferno, e tutti al mio apparire mi facevano l'applauso come se fossi ancora in scena Ma De Pirro continuava a limitare il più possibile il sussidio morale e materiale che pure la Direzione generale del teatro si era impegnata ad offrire. Viviani si trova: nella assoluta impossibilità di allestire e portare in giro una compagnia, degna del mio nome e del mio teatro come scriverà in una lettera a Renato Rinaldi (allora sottosegretario di Stato). In una matinée di pentecoste del 1945 Viviani diede l'addio alle scene. La malattia aveva preso il sopravvento. Per uno strano ricorso del destino recitava Il Vicolo, il primo atto unico che nel 1917 aveva inaugurato la sua carriera teatrale.
Costretto all'inattività Viviani continuava a scrivere il suo teatro, anche nei momenti di inattività, anche nei periodi più bui, anche quando il male che gli camminava dentro sembrava succhiargli il respiro Nelle ultime pagine della sua biografia che non riuscì a vedere la luce scrive:Il Teatro !Due anni che non recito! L'ultimo lavoro in cui ho recitato a chiusura della mia purtroppo breve stagione di questo dopoguerra ed in cui ho ritrovato il mio pubblico di sempre, dell'"Umberto", è stato guardate la combinazione !: "'O Vico": il mio primo atto unico. E l'impresario è stato Del Piano, figlio del vecchio del Piano dell'Umberto
Ed infatti continuerà a lavorare nel suo studio alla stesura di “Muratori” e i “Dieci Comandamenti” che non riuscirà a mettere in scena. Lavora intensamente alla revisione e correzione delle sue opere in vista di una pubblicazione del teatro.
Scrive Viviani : da due anni sono inoperoso. Due anni nei quali ho assistito a cose che la mia penna non riesce a descrivere. Povera Napoli mia ! Distrutta, a terra; dovunque alleati, dovunque borsa nera. Due sono stato chiuso dentro casa, senza poter uscire. L'autore voleva che il suo teatro gli sopravvivesse anche quando il grande attore cui sembrava inscindibilmente legato fosse scomparso. Si scontrò con il vecchio luogo comune che giudicava quel teatro come semplice pretesto per il grande attore. Il grande critico e studioso suo contemporaneo Silvio d'Amico riteneva che le opere di Viviani non avrebbero potuto sopravvivere senza l'interpretazione scenica del loro autore. I suoi testi, pensava, non potevano pretendere d'essere anche letteratura, erano solo le partiture dei complessi concerti di azioni parole e musica che Viviani allestiva nei suoi spettacoli. I fatti dimostrarono il contrario..
La stessa opinione espresse il professor Muscetta all'editore Enaudi per rifiutare la pubblicazione del teatro. Scrive la figlia Luciana Viviani: Le risposte negative che ricevette non si discostavano per niente dai giudizi che i vecchi santoni della cultura fascista avevano ripetutamente espresso in passato Dopo la guerra l'ultima battaglia di Viviani fu il tentativo di dar vita ad un teatro stabile d'arte a Napoli che riuscisse a fondere la grande tradizione e l'innovazione. Scriveva in una lettera a Giovanni Porzio, vicepresidente del consiglio, nel 1948: i fascisti non avevano capito che la coscienza nazionale si sviluppa solo valorizzando in pieno l'arte e la cultura che la genialità del popolo crea in ogni regione. E in una conversazione con Mario Stefanile: I giovani non sanno che accanto a loro vi sono dei maestri, non sanno che vi sono dei tesori.
Viviani muore la mattina del 22 marzo 1950; oggi riposa nella cappella riservata alle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al Cimitero di Poggioreale a Napoli. Il teatro di Viviani, in due volumi, fu pubblicato dopo la morte di Viviani da un privato: Ettore Novi, per anni suo attore.
Finì il mio contratto al “Nuovo” e, prima di ossequiarla, dato che le mie visite nel palco si erano fatte da quella sera frequenti, le palesai il mio onesto intendimento di farla mia sposa. Ella rimase senza parole, ma la zia, donna di grande esperienza, mi fece capire che non era ancora il caso di parlare di matrimonio, data l’età tenera della ragazza, 14 anni. Partii, e da Roma, ove fui scritturato per fare l’inaugurazione del Teatro Juvinelli a piazza Pepe, e dove ottenni un vero trionfo, io spedii qualche cartolina alla signorina Maria di Maio, senza averne mai risposta. Alla terza giunse una lettera della madre così concepita: “Egregio signore, non scrivete più a mia figlia, perché io non la darei ad un comico che la porterebbe girando”.
Non dico quello che provai; cercai di rassegnarmi, mi diedi alla gioia procurata: mi trovai amici ed amiche per distrarmi, ma il rimedio era peggiore del male: il mio successo da Juvinelli raggiunse grandi proporzioni: la mia paga da mille mensili salì, per spontanea elargizione del proprietario sig. Giuseppe Juvinelli, a lire tremila; e l’anno successivo tornai al Nuovo di Napoli con il triplo della paga dell’anno precedente, ossia con ben 190 lire serali. Immaginate in quell’epoca!
I miei comici li ho scelti a preferenza non tra le file dei cosiddetti passioni, ma tra i nuovi alla recita: per avere materia vergine, creta molle da plasmare, non credo alla valentia di chi fa il comico da quarant’anni. Chi è nuovo alle scene, vi porta sempre una freschezza propria, una sincerità non guastata attraverso i lunghi anni di mestiere. Chi fa l’arte da quarant’anni, a meno che l’arte non gli abbia già le sue gioie, è un meccanismo più o meno arrugginito della convenzione scenica, non ha più miraggi, quindi nessuna febbre più lo anima e lo infiamma; egli è uno scontento e quindi campa di terzina e di pettegolezzi, ignorando sempre che l’arte vuole sacrifici e non manovali.
«Raffaele Viviani - Dalla vita alle scene 1888-1947» (Maria Emilia Nardo, Rogiosi Editore, 2011)
L’arte del variété è un’arte specialissima. Chi ve la insegna? L’ambiente stesso, il pubblico, ed il pubblico è il più gran maestro. S’impara da sé per propria esperienza. Pensate all'intelligenza condensata di un artista di varietà che ha pochi minuti per poter svolgere il suo “numero” e in quei pochi minuti deve convincere. Quando un comico del variété, dal solo modo di annunziare la prima “cosa” che fa, non riesce a suscitare una risata o a incatenare la generale attenzione, va incontro al quasi insuccesso.
Dopo la prima strofa del suo tipo o della sua canzone, deve correre per la sala un mormorio di approvazione, una folata di consenso, mentre la musica ripete l’introduzione daccapo. Quando l’artista non ha ottenuto questo, ha perduto già terreno, ed il pubblico del variété, addestrato all’immediatezza, rimanendo freddo dopo la prima parte, comincia ad essere disattento e, per interessarlo e scuoterlo, l’artista deve subito prodursi nel suo pezzo migliore di maggiore successo e spessissimo accade che, quando il pubblico non è preso subito, non si lascia prender più.
L’arte del variété perciò è immediatezza e sintetismo; è il pugno nell’occhio bene assestato prima di dare al pubblico tempo di riflettere. Furono e saranno ben pochi gli artisti che nel variété poterono far pensare. Molti noti strofaioli comici ebbero i loro grandi successi per la velocità della loro parlantina con la quale dicevano una infinità di cose banali; ma il pubblico, per la impossibilità stessa di poterle valutare, data la rapidità con la quale esse si succedevano, alla fine rimaneva più sorpreso che preso e, quell’attimo di disorientamento era sfruttato dal comico per piazzarvi il suo bis. Nondimeno comici di questo stampo raggiunsero larga notorietà e paghe vistose.
Quindi arte specialissima quella del variété, simultanea perché fatta di tante cose agglomerate, in cui accanto al mestiere, al mezzuccio, spesso affiora un guizzo d’arte pura, sintetica, perché a tratti, condotta con pochi tocchi sicuri e la firma... Quando io facevo il variété, mi definirono soprattutto un futurista, perché facevo una commedia da solo; da solo rappresentavo una folla senza truccarmi, con i soli atteggiamenti e le diverse inflessioni di voce; è vero che io fui un artista singolare, ma è pur vero che io ero un artista del variété. E l’arte mia è germogliata là; là si è plasmata, là ho imparato le infinite magagne del palco-scenico e a conoscere il pubblico, a capire, leggendo nell'aria, fiutando nell’atmosfera, se il pubblico era preso oppure no, se mi seguiva con interesse o no. All’attore del variété non occorre molto tempo per capire se piacerà: gli bastano le prime “battute” per formarsi la convinzione del come passerà.
Ecco perché dei grandi attori del variété ce ne furono pochi e ce ne sono pochissimi, poiché le doti, che il variété richiede, sono tante che è assai difficile poterle mettere insieme. Il comico del variété non deve somigliare a nessun altro, né deve ricordare altri: deve avere una figura a sé, un genere a sé, un repertorio a sé; più riesce nuovo, più sorprende, più il suo successo è clamoroso. Deve avere una bella pronuncia e il dono di sapersi truccare con rapidità fulminea, deve essere un auto-direttore perché non è diretto da nessuno e spesso è costretto a improvvisarsi poeta e musicista per crearsi un repertorio nel quale sfruttare bene tutto quello chd meglio sa fare, l'udito sensibile alla musica e il dono della comunicativa, per potere trasmettere alla folla quello che si propone di voler comunicare.
Raffaele Viviani
Nel dicembre del 1918, allorché i giornali tutti facevano la campagna per fare chiudere i variétés che offrivano uno spettacolo poco edificante ai reduci dal fronte, io colsi la palla al balzo e dissi a me: “Questo è il momento, togliti gli abiti da generale e vestiti da soldato”. Mi accodai a tutti gli altri. Ero un ultimo arrivato, la recluta più giovane del grande esercito degli attori italiani. Pensai di creare all’artista quella rispettabilità che avevo saputo dare all’uomo, e condurre a termine tutto un programma di miglioramenti e debuttai al Teatro Umberto di Napoli, con un atto: ’O vico scritto da me, improvvisato tra i tipi del mio repertorio legati con un certo filo logico, affinché esso avesse una cotal parvenza di unità. Questo atto unico ebbe un successo insperato. Era il primo costruito con tenue trama, a base folcloristica, quasi un’impressione colorita, che più tardi doveva .dare l’indirizzo a tutto un orientamento nuovo di teatro, ora conosciuto per “genere Viviani”.
Eravamo quattro in Compagnia, e, a forma di zarzuela, ed ogni notte impostavo atti nuovi, si provava due giorni di seguito ed ogni venerdì si rappresentava la produzione nuova a memoria. Così sono nati, settimanalmente, Nterr’a Maculatella, il Caffè di notte e giorno, A Cantina ’e copp’o campo, Marina di Sorrento, Porta Capuana e tanti altri. Attività che segna forse il periodo più vivo e fertile e inventivo della mia carriera.
Si capisce che io raccoglievo in pochi giorni la esperienza di anni ed anni di teatro di varietà, ossia quello dall’effetto sicuro e dalla parlata sintetica e spassosa. La stampa cominciò a parlare di me, registrando il successo. Il pubblico accorreva in massa al “mio teatro ”dove si davano due spettacoli al giorno e tre alle feste, ed io chiusi il primo anno all’Umberto con un attivo di 18 atti scritti e 350 mila lire nette guadagnate, e così per anni di seguito.
Naturalmente il “materiale macchietta” era finito; io avevo esaurito tutti i miei tipi più noti, li avevo disseminati in tutti questi atti unici che su questi tipi si imperniavano, cominciai quindi a lambiccarmi il cervello per scrivere cose di maggiore contenuto, ossia commedie a più ampio respiro. Si trattava, ora, di ricostruire di sana pianta e cominciai ad improvvisarmi commediografo con la medesima sicurezza di quando mi ero improvvisato compositore di macchiette e di quadri impressionistici. Vennero opere organiche, come Circo Equestre Sgueglia, Il fatto di cronaca, Campagna napoletana, Lo sposalizio, lavori di due o tre atti con figura centrale e con dipinture di ambienti.
Raffaele Viviani
"Follie del Varietà", Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè, Feltrinelli, Milano, 1980
Alla schiera nutrita di stelle e divi che si avvicendavano nei programmi si aggiunge, ultimo nel tempo, un grandissimo artista, che farà parte, poi, della storia del Teatro. E’ Raffaele Viviani. Nato a Castellammare di Stabia nel 1888 da padre cappellaio e madre vestiarista teatrale, fin dalla tenera età ebbe modo di frequentare i palcoscenici dei teatrini di Varietà dell’estrema periferia napoletana.
Aveva quattro anni e mezzo, quando sostituì un certo comico Trengi che si era improvvisamente ammalato ed eseguì, imperterrito e alla perfezione, tutto il repertorio musicale di costui. Questa fortunosa e fortunata esperienza gli servì di guida e d’incitamento, ed egli divenne il bambino-prodigio di un certo ambiente con la paga di due lire serali e l’acquisto di molta popolarità.
Ma alla morte del padre egli, con la madre e la sorella, si trovò nella più nera miseria. Aveva poco più di dieci anni e urgeva un lavoro, che cercò di trovare fuori del teatro. Ma non fu possibile e allora accettò di lavorare nei locali più squallidi dei quartieri popolari.
Anche la sorella, quella che fu poi la grande attrice Luisella Viviani, iniziò la sua carriera sul palcoscenico del Varietà e divenne, presto, interprete esplosiva di canzoni dai violenti colori popolareschi.
Spesso baracconi e giostre ospitarono Raffaele e la sorella, poi egli si unì a Compagnie da strapazzo, che giravano la provincia e si avventurò finanche in alta Italia con alterna fortuna.
Tornò a Napoli più povero che mai e riuscì a farsi scritturare al teatro Petrella nel quartiere popolare del Porto, che, pur avendo toccato in quell’epoca il più basso scalino della decadenza, offriva pur sempre la possibilità di un lavoro continuativo. Fu in questo locale frequentato da marinai, scaricatori e popolaccio che si decise il destino artistico di Viviani. Egli stesso lo annota e lo racconta:
« Io, scritturato a lire due e mezza serali, mancando sempre il venerdì (l’uso di non pagare il venerdì era oramai una consuetudine comoda di cui tutte le imprese si avvantaggiavano) ero diventato in breve il beniamino di quel pubblico multiforme, variopinto e sensibilissimo. Questa mia affermazione mi permise di stare sei mesi di continuo al teatro Petrella con grande sollievo per la mia finanza e con grande vantaggio per la mia popolarità.Al Petrella io trovai il mio genere, interpretando per la prima volta « Lo scugnizzo », scritto dal compianto Giovanni Capurro e musicato da Francesco Buongiovanni. « Lo scugnizzo » fu interpretato per la prima volta da Peppino Villani al teatro Umberto I con grande successo. Io sentii Villani e mi procurai subito parole e musica di detta macchietta.
« Capii che essa avrebbe potuto trovare nella mia interpretazione le corde necessarie perchè vibrasse tutta di vita reale; pensai che io avrei potuto dare a quella creatura lacera e scarna i palpiti esili del cuore, la dolcezza dell’anima, la mitezza monellesca del temperamento, perchè quegli esseri mi erano vissuti accanto e ne avevo non studiato, ma immagazzinato — direi così — tutte le caratteristiche.
« Mi procurai un vestito, che un habitué stesso del Petrella, amico mio, mi diede (e ricordo che non ebbi nemmeno bisogno di ridurlo. . . tanto era già ridotto naturalmente alla bisogna) e quella sera fu un trionfo. M’accorsi di aver trovato le corde da far vibrare; dissi a me stesso quello che tutti mi dissero: questo è il tuo genere. Vi perseverai con amore e con studio, convinto che esso, finalmente, mi avrebbe sollevato dalla mediocrità.
« Dopo il mio grande successo, Villani smise di fare « Lo scugnizzo », perchè la sua complessione paffuta non gli consentiva di fare la capriola, ed io restai solo ed insuperato in quel genere che ora è genere Viviani ».
Infatti, sulla scia dello « Scugnizzo » egli portò sulla scena, in un potente carosello di tipi e figure, tutto un mondo di creature umane, vere e reali, con i problemi, le esigenze e le sommosse di ima società in fermento.
Con questo album di ritratti (e non di fotografie o imitazioni) che poi servirà al futuro attore e scrittore per la costruzione di un grande Teatro egli affronta avventure tristi e liete, fino a che raggiunge il traguardo del vero e duraturo successo. Fu quando venne scritturato zìi'Eden di Napoli e poi al Nuovo, dove il più grande pubblico della città lo consacrò alla ricchezza e alla fama.
L’ufficialità di questa consacrazione venne da Vincenzo Morello, il Rastignac del grande giornalismo nazionale, il quale, confessando sulla Tribuna di fare un’eccezione nell’interessarsi del Varietà, così termina un suo lungo articolo su Viviani:
« Così nacquero, una dopo l’altra, quelle caratteristiche figure di tipi partenopei che formano ancora le più fulgide gemme del repertorio di Viviani. Dopo Scugnizzo ecco il Trovatore, ’O Mariunciello, Malavita, Il Mendicante, ’ O Tramviere, ’O Scupatore, ’O Cucchiero, Il Professore, ’O Sunatore ’e pianino, che segnano altrettanti indimenticabili, successi del Teatro di Viviani.
« Il quale a poco a poco, forse inconsapevolmente sul primo per l’esuberanza stessa del suo temperamento artistico, era riuscito a portare sulla scena, lui solo, più persone, più tipi in una volta rendendo perfettamente con un rapido mutare d’espressione, di mimica e di tonalità vocale l’impressione della scena dialogata, dell’aggruppamento di persone varie.
« Egli sogna e studia di portare ancora la sua arte ad un grado più elevato, oltre gli attuali confini, verso una forma ancor più nobile, verso un’espressione ancor più perfetta. E di questi sogni e di questo studio egli riempie fervidamente le ore del suo riposo.
« Arriverà, perchè non gli manca nè fede, nè cuore, nè intelletto, e perchè, ogni giorno, ovunque egli conduca la tipica folla delle sue creazioni, il pubblico sente ed esprime tutta la sua simpatia a questo solitario, che, rompendo una poco decorosa tradizione del teatro di Varietà, riesce a divertire senza disgustare e riesce a fare dell’arte veramente umana nell’espressione e — ciò che più importa — nelle sue finalità.
« Non fosse che per questo soltanto Viviani merita pienamente l’eccezione che per lui abbiamo fatta ».
Mario Mangini
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Raffaele Viviani, rassegna stampa
Viviani e i "gialli"
A proposito di Viviani
«La tavola dei poveri» di Viviani nel baule di Totò
Ritratto di Raffaele Viviani
«Napoli notte e giorno» di Raffaele Viviani, diretto da Patroni Griffi
«Comoedia», dicembre 1929 - Raffaele Viviani, uno e due
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Lettere a Raffaele Viviani
Ammiro moltissimo il Viviani quando con una intuizione rara davvero, con una verità che colpisce, con la prova vivissima della sua osservazione acuta e penetrante, questo artista produce le creature che appartengono a' così detti strati inferiori della Società: le creature stanche, misere, talvolta crudeli, talvolta pur sentimentali, ignare sempre, che son figlie del vizio, dell’abbandono, delle oscure passioni. Lo ammiro qui — e mi commuove, anche.
Nelle cosi dette macchiette spiritose composte di volgarità, di sudicerie, di doppii sensi, scritte nella ibrida lingua degli scarafaggi letterarii da’ quali questa nostra povera Napoli è ammorbata, mi dispiace dirlo, Viviani è uno che somiglia a tutti gli altri — e m'è insopportabile.
Salvatore di Giacomo, 1 luglio 1910
Una lontana sera, in un piccolo teatrino della vecchia Napoli, un guaglioncello, di nemmeno sei anni, si affacciò per la prima volta alla ribalta. Mancava non so che attore: il fanciullo, figlio dell'impresario di quel teatro, conosceva a menadito la parte dell’assente, e venne a qualcuno la bizzarra idea che egli avrebbe potuto sostituirlo.
Fu cosi elio Viviani, indossando l’abito di una marionetta raffazzonato alla svelta dalle premuroso mani materno, ebbe il suo battesimo d’arte.
Oggi il nome di Viviani ò noto e caro a tutti i pubblici d’Italia : a Milano, come a Palermo, a Roma, come a Torino, ovunque egli porta la sua arte originale e personale quant’ altre mai, lo stesso plauso nelle diverse folle conferma la rinomanza ch’egli si è creata o che lo rendo ormai uno dei più ricercati o preziosi artisti di varietà
Artista di varietà! Ecco che queste parole fanno arricciare il naso a qualche lettore ! Ecco che qualcuno sul serio domanda se valga la pena di scrivere una colonna e mezzo di roba per un artista di varietà!
Vorrei intanto domandare io a quel « qualcuno » se —conoscendo Viviani — lo stimi soltanto o semplicemente un artista di varietà, confondendolo con altri conto che, più o mono, contribuiscono a faro della « varietà » la cosa, ahimè, meno varia di questo mondo.
Ma, d’altronde, siccome non è la prima volta che la critica, proprio quella, col C maiuscolo, fa un’eccezione per Viviani , ciò non significa, in fondo, se non ohe egli è, pur nel teatro di varietà, l’artista eccezionale per il quale vai bene la pena di rompere un’abitudine.
Quando la "macchietta" di « ’O Scugnizzo » che Poppino Villani, un altro «divo» della varietà, aveva creato ed interpretato secondo il proprio temperamento, ed aveva già resa popolare ani palcoscenici d’Italia, fu impersonata per la prima volta, a Napoli, da Viviani, il pubblico ebbe a tutta prima uno scatto di rivolta contro questo novellino che sembrava, anch’egli come tanti altri, voler seguire il comodo sistema di calcare lo altrui orme, ed aveva per ginnta l’audacia di cimentarsi in una dello maggiori « fatiche » del repertorio di Villani.
Ma , come il tristissimo e gaio straccioncello visse nel gesto, nella voce e nella maschera mobilissima di Viviani le suo strazianti battute, i suoi frizzi mordaci, e i lazzi e le lacrimo, e l’ira o l’ironia, un brivido nuovo scosse la no mica diffidenza della platea: un'altra anima, più umana, più vera, viveva nel piccolo smunto eroe del marciapiede, nel suo riso tremava lo spasimo della sofferenza e nel suo lamento vibrava la serena gioia che il cielo sereno sembra trasfondere nell’ultimo e più tristo dei misera bili che «calda i suoi cenci ed il suo sangue sotto il solo di Napoli.
Il pubblico comprese subito quale vergine tesoro di energia e d’intelligenza si nascondesse in Viviani, ohe allora muoveva il primo sicuro passo verso quella che è stata ed è la sua vera arte e il primo segreto del suo successo.
Viviani era sulla buona via e la percorreva sicuro: negli anni lontani aveva intuito che questo doveva essere il "genere" che lo rivelasse al pubblico, aveva sentito che questo il pubblico voleva ormai, per un godimento maggiore o miglioro di quello che potessero dirgli le rifritte macchiette di maniera, e còme egli, Viviani, vedeva, a qual punto di perfezione e di verità occorresse portare le sue creazioni per assicurarne successo, egli visse una lunga, paziente, ininterrotta vita di osservazione e di stadio. Egli volle che i suoi « tipi » portati dal marciapiede al palcoscenico nulla perdessero della loro originale verità, ma Beppe anche comprendere, o mai dimenticò, che cosa ci voleva perchè ossi potessero riuscire, alla ribalta, ad interessare o soggiogare quello stesso pubblico che li aveva avuti, durante il giorno, ira i piedi ad ogni passo, e schivati con noia o con disgusto , o appena degnati di uno sguardo di pietà nella vita reale.
Allora espresso dalla sua viva intelligenza e dal suo istinto sagace tutto ciò che occorreva a « teatralizzare » quelle figure senza guastarne o alterarne la gaia o dolente umanità , colse la frase nella sua espressione dialettale più pura e sincera e seppe torcerla nel verso colorito impeccabilmente, senza farne svanire la primitiva naturalezza e , cosi composta, sempre solitario artefice, le creò il commento musicale che ne sottolineasse il senso e la misura, e per le vie oc-culto dell' emotività melodica , contribuisse ad imprimerla più profondamente nell'animo dello spettatore. Poi, da autore si foce attore : la truccatura e il vestiario sapientemente studiati integrarono la lunga o difficile opera di preparazione. Quando Viviani si presentò sul palcoscenico fu altrettanto volto il « tipo» che ogni volta volle essere : la sua dizione e la sua mimica riuscirono sempre a sviscerare tutti gli effetti sui quali aveva calcolalo nella composizione dei suoi lavori por la compiutezza dei quadro.
Il segno caricaturato, usato con sapiente misura, non sopraffece mai ne sformò la linea di dolente umanità nella quale il senso esatto del reale doveva contenere le sue figurazioni.
Temperò col sorriso amaro la battuta malinconica, e quando, espressa con lo scatto violento del gesto e della voce la primitiva ed ingenua passionalità del suo personaggio, l'onda di tragicità poteva sembrare forse troppo inumana sulla maschera grottesca, subito ne mitigò il senso opprimente con una spontanea sortita, rapida di tutto il freschissimo umore popolaresco.
Sfece e rifece col gioco esperto dei muscoli e degli occhi tutte le sparute irose sarcastiche gio viali facce delle suo finzioni, e torso e stese la persona duttile ed agile onde vestire della forma corporea adeguata la strana psiche dei suoi personaggi. Chiese alla'luce ed al colore le ultime pennellate, e il quadro fu compiuto. Lo sforzo, pur poderoso, della creazione e dell’interpretazione non lu mai superficialmente visibile nella perfetta espressione dell’ attore, perchè l’arte sapiente lo nascose sotto l’immediatezza dell’affetto e porche la continuità insoluta dello sue finzioni non lasciò mai tempo di accorgersene allo spettatore avvinto e vinto dal giuoco scenico.
Cosi nacquero, una dopo l’altra, quelle caratteristiche figure di tipi partenopei che formano ancora lo più fulgide gemmo del repertorio di Viviani. Dopo « Scugnizzo, Il trovatore, 'O mariuncello, Malavita , Il mendicante , 'O tram-viere, ’O scupatore, ’O cucchiere, Il professore, ’O sunatore ’e pianino » sognano altrettanti in dimenticabili successi del teatro di Viviani.
Il quale, a poco a poco , forse inconsapevolmente, sul primo, per l’esuberanza stessa dei suo temperamento artistico, era riuscito a portare sulla scena, lui solo, più persone, più "tipi" in una volta, rendendo perfettamente, con un rapido mutare di espressione, di mimica, di tonalità vocale, l’impressiono della scena dialogata, dell' aggruppamento di persone varie, su su , fino a quella della vera folla multiforme e multicolore rombante orgiasticamente in quei bozzetti magistrali, come « 'O Spusalizio, A Motevergine, Piedigrotta ».
Con questo nuovo « genere » nuovi e più vasti orizzonti si sono aperti alla sua instancabile operosità.
Guidato sempre dal suo fine intuito psicologico ed esperto ormai in tutti i lenocinii del colore, in tutte le malizie della forma , egli ha dato vita a quei riuscitissimi quadri d’ambiento cho sono il « Bel Tabarin » e il « Caffè di notte e giorno » che presi essi soli o messi a raffronto, servono a dare un’idea esatta delle singolari attitudini e della versatilità di questo singolarissimo artista.
Egli sogna e studia di portare ancora la sua arte ad un grado più elevato, oltre gli attuali confini, verso una forma ancor più nobile, verso una espressione ancor più perfetta.
E di questi sogni o di questo studio egli riempio fervidamente le ore del suo riposo,
Arriverà , perché non gli manca nè fede, nè cuore, nè intelletto, e perché ogni giorno, ovini* quo egli conduca la tipica folla dello sue creazioni, il pubblico sente ed esprime tutta la sua simpatia a questo solitario che, rompendo una poco decorosa tradizione del teatro di varietà, riesco a divertire senza disgustare e riesce a fare dell’arte veramente umana nell’espressione o — ciò che più importa — nelle sue finalità.
Non fosse che per questo soltanto Viviani merita pienamente l’eccezione che per lui abbiamo fatta. Sono lieto della riproduzione di questo articolo della Tribuna del 23 gennaio intorno all1 arte di Raffaele Viviani.
E noto con grande soddisfazione una cosa: che la stampa quotidiana, giudicando la grande arte dell’artista napoletanissimo e meraviglioso per spontaneità ed efficacia, ha dovuto riconoscere che pure sulle piccole scene, si fa dell’arte.
Per gli artisti che come Viviani, sanno elevare il prestigio del Varietà bisogna serbare un vivissimo senso di gratitudine. Non altro.
Tramontana, «Café-Chantant», 1 marzo 1915
Mio carissimo Viviani,
Quante volte ho inteso dire di voi «Ha un intuito artistico meraviglioso» ! Io credo che sia questa la lode che più v'offenda, perchè è la meno remuneratrice per l’arte vostra.
Forse, in voi, è «istinto» l'osservazione, non l'interpetrazione. La quale è, invece, la risultante di lungo e penoso studio per fissare sul volto la maschera incisiva, per dare alla voce, alla persona l'intonazione perfetta d'un tipo.
Noi offendiamo, spesso, una forma d'arte nostrana, acquisita con lo studio, lodandola e confondendola con il solito ingegnaccio naturale di razza, con «lo spirito d' imitazione istintivo del popolo». Eccetera.
Ma voi siete un artista superiore, caro Viviani. Ci elargite i vostri tesori. comunque li giudichino: istinto o studio.E cantate...; «fate la vita», piacete al pubblico, e... piacete tanto, tanto, tanto a me.
Vostro Ernesto Murolo
Viviani è tutta una folla, una realistica folla plebea, di tipi riprodotti mirabilmente, incomparabilmente perchè studiati nella vita e fra la folla di quel popolo di piccoli eroi e di piccoli delinquenti nel quale e lo scugnizzo, sia saponariello, sia lieto e spensierato rappresentante della rumorosa gaiezza di Piedigrotta. E' un'artista di una efficacia terribile di una evidenza patetica; e non pottrà aver seguaci ed imitatori. Primo e solo, ci stupisce e lo ammiriamo e lo riteniamo veramente unico é grande, in quel genere che egli ha creato.
Ferdinando Russo
Mio caro Viviani,
Un giudizio sulla vostra arte? E potrebbe il mio giudizio raggiungere la perfezione che voi avete raggiunta nei vostri « tipi » e nelle vostre « macchiette? Non lo credo e non lo spero. Epperò mi limito a battere le mani con sincero e convinto entusiasmo.
Libero Bovio
Caro Viviani,
Siete straordinario e non è proprio necessario che ve lo afferrai io, ancora una volta, quando tutti i buongustai del teatro di Varietà ve lo hanno affermato. Siete straordinario di verità, d'efficacia, di pittoresco. E però avete in me un ammiratore sincero e fedele.
Vostro Ugo Ricci
Caro Viviani,
Napoli, che noi cantiamo nei nostri versi, vibra nel vostro gesto, nella vostra voce e nelle vostre interpretazioni, che sono manifestazioni d'arte per la verità onde le rendete impressionanti e belle. Questo vi dico, non perchè vi fermiate, chè molto e sempre si può ascendere quando si ha il vostro talento e la vostra fedeltà di osservazione.
Vogliatemi bene.
Vostro Rocco Galdieri
Sotto il titolo di Viviani al Teatro Umberto 1, il diffuso ed importante « Giornale della Sera » di Napoli pubblicava nel numero del 9 agosto un lusinghiero articolo che ci è grato riportare, sottoscrivendolo pienamente, e che dimostra come la critica più seria dei nostri quotidiani si interessa dell' arte meravigliosa di un artista di varietà ormai assurto, per studio e meriti personali, alla maggiore considerazione dei pubblici e della stampa.
Viviani al Teatro Umberto I.
Viviani tornerà, fra qualche giorno, con la sua compagnia, al Teatro Umberto I. per svolgervi una lunga stagione artistica, durante la quale darà ancora molte cd interessanti novità. Ecco una bella notizia per il nostro pubblico, che ama ed ammira questo originalissimo e singolare attore, e che ne ha seguito, con interesse e sopratutto con fede, i rapidi e prodigiosi progressi.
Con Viviani una forza è nata, una forza che attendevamo da tempo, e che ha germogliato improvvisa e violentò dal più fertile terriccio della nostra razza. Viviani non è il macchiettista del caffè chantant, e assai di meglio e di più. Egli è un attore nel vero senso della parola, ed è un artista. Poeta, musicista, autore, interprete , egli procede per sensazioni, vedere, sentire e rendere per lui é tutt'uno. Vede, e rende; e rende con la medesima schiettezza con la quale " ha visto » senza % iterare la verità con i pallidi fiori della retorica. Viviani ha vero temperamento pittorico, e del calore serie tutto il fascino e tutta la poesia, ogni suo tipo, ogni sua scena, ogni sua parola, ogni suo atteggiamento è pennellata, è bozzetto, e quadro, Egli ha sopratutto il senso plastico dell'arte, che tutto egli riesce a plasficizzare, si che la parola, talvolta, o arriva tardi, o appare superflua: giacché essa è stata già preceduta dal* P atteggiamento, dallo sguardo, dal gesto ; gesto che nel Viviani è sempre originale, efficace, definitivo.
Ogni suo quadretto sembra venuto fuori dal pennello del nostro Migliaro; ogni sua « scena » è un angolo palpitante e canoro di questo incantevole paese del quale il Viviani, come pochi, subisce il fascino malioso e sfibrante.
Questo giovane attore — conviene confessarlo — ha dato al suo paese un teatro sui generis, un teatro folkloristico, nel quale sono fusi, in bella armonia, tutti gli elementi più pittoreschi dell'anima napoletana: un teatro un po' frammentario, un po' spezzettato, è vero, ma nel quale Napoli è cantata con cuore commosso, sempre, anche quando la gaiezza tenta scavalcare il quadro che è quasi sempre, velato di sogno, sospiroso di nostalgia, tenero di rimpianto.
Napoli antica, Napoli del fondaco e del basso, Napoli delle maschere e delle tarantelle, Napoli delle piazze luminose e delle luride soffite, ha trovato nel Viviani un celebratore commosso e fedele, giacché il Viviani, tenero e devoto custode di una tradizione che nemmeno l'ira del piccone è riuscita a distruggere, reca in sù un vago ed insanabile senso di nostalgia di.uomini e cose che egli non ha conosciuti, ma che appunto per il velo di sogno nel quale oggi sembrano avvolti, accendono maggiormente la sua fantasia, inteneriscono la sua anima, e rendono inquieto il suo spirito.
Siamo ancora lontani dalla perfezione — non è vero , caro Viviani? — ma siamo così vicini all’arte che la critica sentirà il dovere di discutere con serenità e con larghezza l' opera di un gio vane che da solo ha creato un piccolo teatro.
«Café-Chantant», 31 agosto 1918
Ettore Petrolini, come c’informa suo figlio nella prefazione a certi scritti postumi dell’attore, fu detto : «una fontana di Roma», e questa ci pare una definizione molto bella a patto di non pensare alle culturali fontane di Respighi e di tener presente, invece, una di quelle fontanelle rionali fatte con un mascherone di stucco ma dall’umore inesauribible e dalle origini-che si perdono nella toponomastica medievale. Di un mascherone (il naso e la bazza avrebbero finito, col tempo, per incontrarsi, sotto lo sguardo patetico dei buonissimi occhi) Petrolini aveva l’aspetto : ma noi soprattutto vogliamo ricordarlo come l’unico attore che sia stato capace di superare l’orticello del dialetto e di esprimere gli aspetti buffi della sua mirabolante epoca con un linguaggio nuovo, «curioso» e un gusto preciso che gli veniva da una tradizione istintiva.
Senza saperlo era un «lacerbiano» e allegramente passò gran parte dell’esistenza a osservare gli usi e costumi della sua generazione e a circondarli di sospetto presso un pubblico che si faceva man mano più avvertito. Sicché, alla fine, più di tutti ad apprezzarlo, furono quelli che lui aveva un tempo preso di mira, cioè gli intellettuali (veri o falsi, come si fa a distinguerli di colpo?) e i buoni borghesi : destino, questo, inevitabile per ogni autore satirico.
Petrolini venne fuori al tempo della guerra di Tripoli, cioè in piena reazione al neo-romanticismo. Il secolo diciannovesimo traballava sotto un cumulo di abitudini e a un desiderio di vita fervida non corrispondeva una uguale condizione di libertà mentale. L’attore, nel suo campo, in maniera non meno efficace di quanto facevano i letterati nel loro, sfiorava col ridicolo, per la prima volta, idee incrollabili e secolari, dava colpi maestri al cattivo gusto, all’esibizionismo, all’aria viziata. Il pubblico prima s’indignò, poi cominciò a ridere. Parecchi idoletti cominciarono, da un giorno all’altro, a trovarsi senza piedistallo : gli «scherzi» di Petrolini rarefacevano la buona fede che, soltanto, permette il vivere indisturbato di certi fenomeni sociali. La società cambiava pelle e Petrolini indicava i brani prossimi a cadere. Di conseguenza, p. es., gli scrittori non ebbero più il crampo degli scrittori, le donne fatali finirono nelle caricature, le «grandi» attrici vennero riportate ad una più umile misura di sé stesse; scomparvero, per qualche tempo, i conferenzieri, gli spaccamonti e i calamai agli occhi.
Tutto ciò che non doveva essere più preso sul serio si trovò in difficoltà, una folla di snobs rimase scoperta e immobilizzata dal ridicolo, l’umorismo prese strade nuove, insegnò a sorridere e a «prendere in giro». In fondo a Petrolini, più che un Pulcinella, c’era un Teofastro o un Tackeray che si serviva di ogni mezzo per illustrare i vizi inutili dei suoi contemporanei. Far girare su un fonografo i dischi di Petrolini, equivale a ritrovare un mondo perduto di cui ci dimentichiamo spesso l’esistenza. Usufruendo l’esperienza dei futuristi fa sapere ai poetini del millenovecentododici che anche il suo animo è pieno di cose inespresse, p. es. «desiderio di morire, salamini e caffelatte».
Perché non credere che l’ondata dei viveur* del dopoguerra fu rovinata in parte dalla ferocia dei suoi ritornelli? Il suo giovane gaudente si alzava dopo una notte «d’orgia» e implorava : «Nina - prestami la cocaina - ché la prendo a colazione - pensando a Gastone» : dove si vede che l’idea del prestito» e della «colazione» mischiata alle pratiche viziose finiva per ridicolizzare queste irreparabilmente. La satira petroliniana era indulgente e comprensiva, romana e cattolica, perciò si riscattava.
La sua disposizione a spingere il gioco agli estremi doveva creare il «petrolinismo» degli imitatori che credevano il gioco molto facile. Ma il nostro attore aveva un fondo di malinconia classica cui appoggiarsi e quanto sembrava in lui superficiale c incosciente veniva invece dalle sagge radici romanesche e dalla placidissima convinzione dell’inutilità d’ogni cosa. I suoi aforismi elementari, che tagliano il nodo c scoprono l'autodidatta, ce lo mostrano come il primo innocente esemplare di «scettico blu». (e L’uomo è un pacco postale che la levatrice spedisce al becchino». «Fortunato l’attore cui nessuno ha insegnato a recitare perché cosi, non sapendo recitare, reciterà benissimo»).
Petrolini morì in un appartamento di una casa «razionale» di pessimo gusto, con un cipresso che gli svettava proprio davanti alle finestre. Non amava quei tipi, scomparsi e poi riapparsi sotto altre vesti, che sfoggiano il gran vocabolario e si compiacciono d'ascoltarsi : perciò li utilizzava. In tutte le sue commedie c’è il personaggio che parla «pulito» e dice parole difficili. «Vacuo», «urge», «incongruo». Persino lo sciagurato Chicchignola, venditore ambulante, dice alla moglie : «Ti turba il dialogo?» * Dialoghiamo!». Il pubblico gli era riconoscente.
Appunto di Chicchignola la compagnia comica diretta da Raffaele Viviani ha ripreso le gesta sul palco-scenico dell’Eliseo, in questi giorni. Come può, pensavamo, il sentimentale e appassionato comm. Viviani entrare in panni così diversi da quelli «macchiettistici» che usa portare di solito sulla scena? Bisogna dire che i nostri dubbi sull’incompatibilità tra intelligenza e istinto sono stati risolti dalla buona volontà dell’attore napoletano. Viviani ha mostrato di capire Petrolini, ha lasciato intatta la tessitura del personaggio, il suo strabiliante linguaggio, la sua calma da finto tonto. Chicchignola è tornato a rivivere davanti a noi, dopo parecchi anni, con tutta l’evidenza necessaria.
Dopo i tre atti, che narrano la storia di un povero disprezzato, che si scopre alla fine per una persona di gran cuore e intelligenza (un motivo caro a Petrolini, certamente autobiografico), Viviani è ritornato sé stesso, recitando alcune macchiette napoletane. Ed ha finito con una sua poesia, composta in occasione della visita del Re a Napoli, che comincia con questo formidabile verso : «E permesso salutarLa? Benvenuta, Maestà!...».
Ennio Flaiano, «Oggi», 31 ottobre 1940
C'era un sipario — al Teatro S. Carlino — dipinto da Giuseppe Cammarano, che rappresentava una compagnia di comici napoletani condotti ad Apollo da una Musa. La scritta che illustrava tale ardita allegoria era la seguente:
Ad Apollo, Talia con volto lieto
le maschere presenta del Sebeto.
Laddove si vedeva il Musagete accogliere con sguardo contegnoso la coorte pulcinellesca che, per nulla intimorita dalle inedite visioni del Parnaso, pareva volesse aggiungere alla presentazione una definitiva presa di possesso: Hic manebimus optime.
Il vecchio sipario fu tolto da Eduardo Scarpetta, quando nel 1880 egli rinnovò il S. Carlino. Ma la visione di quella allegoria, con i quattro allampanati guittacci parte cipi alle mense di Zeus dovette imprimere certo al suo subcoscieute una spinta segreta, se otto anni dopo, il motivo dominante di « Miseria e nobiltà » resta lo stesso: proletari alla scalata della musa olimpica, battaglia di forchette.
Eduardo Scarpetta poteva parlare con la stessa competenza sia della miseria che della nobiltà. A sentire i termini della sua prima apparizione nella farsa « Feliciello Sciosciammocca mariuolo de na pizza » c'è già da antivedere in nuce la estetica tra affamata e furiosa che animerà Sciosciammocca negli anni seguenti, con un seguito di variazioni gastriche ed esofagee da fare invidia ai più famosi esegeti dell'appetito. da Tucklite a Rabelais, da Teofilo Folengo a Fabio Tombari.
Per diciassette lire l'esordiente attore aveva firmato con l'impresario del S. Carlino un contratto dove sobbligava a «...ballare, sfondare, volare, fornirsi di basso vestiario all’oltremontana, tingersi il volto, esser sospeso in aria e cantare nei cori ».
Ma a forza di descrivere miseria, Scarpetta aveva intuito la scorciatoia dell'Olimpo. E dopo appena dieci anni ria quel contratto i bilanci del suo repertorio divennero tanto grassi che « ...lo si vide capitare alle prove e alle recite del San Carlino in una elegante carrozza privata c si seppe che Sciosciammocca si faceva fabbricare un palazzo ». Sono parole corrucciate di Salvatore di Giacomo. Ma Scarpetta facendo — come suol dirsi — manichetto al corruccio, liquidò in due stagioni l'allora esorbitante bilancio di trentamila lire ed entrò con fermo e deciso passo nell’Olimpo dei Borghesi.
Non gli mancarono le lotte. Lo accusavano di avere soppresse le maschere per lasciarsi tentare dalla Musa discinta del vaudeville e i critici dei giornali partenopei auspicavano resipiscenze campanilistiche. Le lotte tra Hennequin e Pappo divennero il fatto del giorno. La città si divise in nuovi guelfi e ghibellini. Il 24 Gennaio 1881 il grande rivale di Scarpetta parve segnare un trionfo recitando: « Na mazziata morale fatta da Pulcinella a Sciosciammocca, ovvero l'apoteosi della maschera napoletana. »
Ma fu vittoria di Pirro. Scarpetta aveva dalla sua il nuovo secolo, col salvacondotto della mondanità incipiente. Mentre apparivano all'orizzonte i cavalli di Andrea Sperelli e i levrieri di Elena Muti, il povero Pulcinella — ultimo cireneo — spariva — col suo fagottino di stracci — da questa valle di lacrime.
E, al pulcinellicida, vennero il plauso dei pubblici di tutta Italia, le lodi dei principali centri della Penisola, l'onorificenza del Governo, che nominò Scarpetta, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione, Cavaliere della Corona d'Italia. La Compagnia di Viviani ha dato di « Miseria e nobiltà » una riesumazione ironica e stilizzata. Come a dire Pergolesi trascritto da Strawinski.
«Tempo», 21 settembre 1940
Giunse alla ribalta a piccoli passi, quasi saltellando, si fermò di colpo, sorridendo agli applausi, gli occhi semichiusi erano piccole ombre bluastre, due lampade alte lo inondavano di luce. Diceva una poesia di Di Giacomo. La sala, in ascolto, sembrava non avesse più vita, solo lui esisteva, quel suo volto divinamente plebeo fioriva, viveva, esplodeva ; pause, scatti, canti, modulazioni, silenzi, l'antica Napoli dei pescatori e dei sogni cantati risorgeva in quella voce che partiva dalla profondità dei secoli e veniva al nostro cuore. Pensavo: ancora noi possiamo comprenderla questa Napoli, poi tutto sembrerà un gioco di luci ad effetti più o meno calcati, tutto cadrà nel museo delle voci, delle armonie del passato. Ma lui rimarrà sempre, con quella sagoma immensa di scugnizzo incantato, l'ultimo degli scugnizzi, a vagare nottetempo tra i vicoli ambigui, e quella voce atona, aspra, soave, ce la porteremo con noi, anche oltre la vita.
«A S. Francisco già sona 'a risveglia». La piccola cella viveva sulla sala, il lume fioco a petrolio sospeso nel centro dell'aria, il passo lento del secondino, gli uomini dormienti sui giacigli, ai margini della tragedia. Viviani era l'Ottocento con le sue furie di onore e d'amore, soffriva la sua parte, la sua sofferenza cadeva fredda come una lama d'acciaio sulle nostre reni, l’attore divinizzava, nel bene e nel male, l'uomo del popolo, era così, come sempre, Viviani, l'immagine viva del nostro dramma sociale.
Scorreva nei suoi lavori la vita di questa Napoli antica, laggiù in quel piccolo teatro Umberto ove l’attore potenziò la sua storia, ove la sua arte toccò i culmini del realismo più chiaro e sconvolgente ed il pubblico borghese si accostava, dalle orrende frange rosse dei palchi, alla verità misconosciuta di una umanità favolosa. Centinaia di scaricatori, muratori, operai assiepati tra la platea ed il loggione, ritrovavano nell'attore uno dei loro, venuto via dalla ciurma, dall'andito, dal tornio, a mostrare al mondo le piaghe aperte e sanguinanti della gente sua pari, sentivano nella canzone d’emigrante la voce del fratello partito a cercare fortuna per terre straniere e lontane, e un amore vasto nasceva per Viviani tra le masse che lo vedevano uomo, personaggio e tribuno; i giovani lo guardavano forse altrimenti, gli trovavano funzionalità, scopi, indirizzi, che alla folla sfuggivano e lo amavano, per questo, ancora di più. Pochi, allora, forse pochissimi, pensarono che l'arte di Viviani fosse, tra l'altro, audacemente polemica.
Eccolo poggialo, ora, alla prua di una barca, l’arenile dorme in un tramonto calmo, i pescatori lo circondano, egli svolge la sua parte ed è centro di vita. Ai primi del Settecento, in una commedia di Nicolo Moresca, il pescatore Titta è a guardia del suo gozzo, fuma la pipa, canta:
Oh, quanta è bella l'aria de lo mare
che no mme dice core de partire;
che nc’è na figlia de no marenare
ch'è tanto bella che mme fa morire.
Il pescatore Titta non può essere che Viviani. a ridosso dei secoli, eterno come la sua filosofia, come il mare e le case povere dei personaggi che formano la sua inconfondibile umanità.
Muratore, pescatore, ciabattino filosofo e svagato, centro di una umanità da piazza antica, da arenile, da angiporto, camminante notturno alla deriva tra i personaggi vivi ed i misteri di una città povera e regale, mistica ed epicurea, Viviani popola da solo un quartiere; poi le donne s’affacciano ai balconi, escono gli antichi guappi rumorosi e guasconi, i vicoli fioriscono di canti, si fermano le carrozze infiorate e stanche delle gite a Montevergine, egli chiama a raccolta la sua gente, e questa gente è Napoli.
Passa e canta su la sua «carretta» in viaggio tra siepi e nuvole di polvere. E' l'estate, egli è solo, col suo cavallo, su di una strada bianca, il sole lo martella. Questo canto di carrettiere sa dì inerzia e di sogno, odora di sudore umano e di fiori campestri. E quand'è notte, tra vìcolo e vicolo, alla squallida luce dei fanali, lontana come un perduto ricordo, fiorisce la nostalgia del suo «canto 'a figliole».
Viviani fa pensare a Gemito, a Dalbono, a Paisiella, ai provenzali, ai cantastorie, ai mimi tragici del Teatro greco. E' Fattore vivente che riunisce insieme tutte le atmosfere di un’arte accessibile alle sensibilità più disparate e distanti, Viviani è Farte-popolo. E’ stupendo che anche i borghesi la comprendano, questa arte, e bisogna essere grati all'attore per la possibilità realizzata di questo incredibile incontro.
La sala, in penombra, sembra vuota, il pubblico non c’è più; lui solo rimane, nell'alto di tirare una rete, ritmico, immenso. La plastica del corpo agile (è un'eterna adolescenza la sua) è un capolavoro di vitalità, una musica lenta, strana, sembra venire su dai gorghi di una antichità senza confine, la voce è la stessa, a tona, allucinante, notturna, che udimmo un tempo, in sogno, da bambini. Ora anche la sala sparisce. Viviani è a riva di mare, tra i suoi simili, tra gli uomini come lui, e sul suo capo si succedono, eterni come la Poesia, i cieli e le stagioni del suo paese.
Domenico Mancuso, «Il Dramma», 1 ottobre 1943
Raffaele Viviani, ultimo crede dei comici dettarle, unico «Pulece-nella» che sopravviva, tragico e farsesco, sulle tavole dei palcoscenici italiani, ha esordito così, nella sua Napoli, una sera lontana del 1892. Aveva allora quattro anni e messo. Figlio d'un vestiarista teatrale, gli capitava spesso di trascorrere le sere dietro le quinte ttun baraccone, che sorgeva a Porta San Gennaro e che, di Raffaele, godeva le particolari simpatie. Si trattava di un teatrino di marionette e una sera, venuto a mancare, all’ultimo momento, il numero di centro, rappresentalo da un certo Tronzi, tenore e comico, che con altri numeri di varietà completava lo spettacolo dei «pupi», fu chiamato Raffaele a sostituirlo. Raffaele si era da tempo abituato a imitare Trensi nei gesti e nella voce. Si presentò al pubblico. Non era più alto di ottanta centimetri, compreso il tubino. Fu accolto con una grande risata; ma poi lo lasciarono recitare e cantare. Ebbe successo e si guadagnò, per quella sua felice e improvvisa prestazione, una scrittura, la prima della sua vita, per «lire due serali». D’allora Viviani non s'è più fermato. Col suo passo un po’ leggero, sempre in punta di piedi, un passo rubato ad Arlecchino o a Pulcinella, egli è andato lontano. Il suo passo non ha battuto senza eco sull'acciottolato delle strade consuete; ma è risuonato sempre più forte sul legno dei palcoscenici, traendone polvere e gloria, fino a quando, cioè, il mondo riconoscendogli il merito di aver riportato la vita sul teatro, com’era capitato talvolta ai mimi e ai grandi tragici del passato, s’è volto ad applaudirlo senza fine. Il grande attore era nato.
Ma, vero autentico comico dell’arte, Fattore Viviani nacque insieme a Viviani autore. Fu nel 1918, allorché abbandonato il varietà, esordì con altri tre attori al «Teatro Umberto» di Napoli, rappresentandovi O vico, un suo atto unico. Era il primo d'una serie innumerevole, e fu, già quello, un grande successo. Nasceva cosi il Teatro di Viviani, un Teatro «ad hominem», fatto per la sua persona; in cui le figure vengono teatralizzate fin nel loro intimo, senza che per ciò perdano la gaia e dolente umanità con cui l’autore le ha create per la scena, traendola dalla vita, nude. Un «quid», il Teatro di Viviani, indefinibile e tipico; un ponte, un’affinità continua tra la farsa e la tragedia, Eraclito e Democrito insieme; sberleffo da istrione gabba mondacelo, brighella, caposcarico e tragica risata da finale grottesco. Teatro dialettale per eccellenza, varca però tutti i confini dell’arte perchè è sempre lui, Viviani attore, che gli dà vita, che lo sostenta e lo esalta col calore stesso delta sua terra che è come il suo sangue; con la vena inesauribile del mimo classico e antico; con l'ottimismo tradizionale e l’antica vena anacreontica del Pulcinella; con quella sua espressione da maschera del diavolo rediviva; con quella sua voce che par rósa da un tarlo; con quel suo sguardo da pupo asiatico.
Per stabilire un limite all'arte di Viviani basta porre un limite alle possibilità umane di comprenderla. Dove queste finiscono, quella ha concluso il suo ciclo. E’ dunque senza confini. Perchè? Il perchè è nel tipo della sua arte: uno di quei prodigi dell'istinto che può, in un attore, attingere le vette. Guardate infatti la mimica di Viviani. Anch’essa un istinto. E’ questa mimica che gli permette di parlare senza voce e farsi udire; di urlare senza voce e dare i brividi; di dire parole inarticolate e sentirle scendere nel cuore col peso di una lacrima.
Viviani era come una piccola orchestra formata da una tromba, da un clarino e da un violoncello. Un po’ di circo; qualche mazurca familiare; un pianto raffazzonato con l’archetto d'un violoncello. Non era forse questa la cartolina illustrata di Viviani, che si vendeva dai palcoscenici dei varietà periferici? D’allora molti anni sono trascorsi. L’orchestrina è diventata grande orchestra. La tromba non attacca più per Viviani l’introduzione della «Ballerina», come in quelle lontane sere del 1892, nel baraccone di Porta San Gennaro. Non c’è nessun comico Trenzi da sostituire. E chi sostituirà Viviani non è ancora nato.
F. M. Pranzo, «Il Dramma», 1 giugno 1944 - Disegno di Umberto Onorato
Don Raffaele e gli attori napoletani
Anche Don Raffaele Viviani se n’è andato. Fino a pochi anni or sono, il raccontare altrui la propria fortuna, l’enumerare i suoi palazzi, nell'invitare alla sua mensa, non solo gli amici vecchi, ma anche i conoscenti nuovi, erano cari modi suoi di descrivere la propria fama e di fare idealmente rilucere il denaro guadagnato con l’arte sua. Come quasi tutti gli attori napoletani, aveva dilatato la sua valentia di attore fino ad annettere ad essa tante abilità che erano o gli sembravano affini: scrivere commedie, naturalmente; e pubblicare volumi tra lieti e patetici ed essere un proprietario ricco come Scarpetta che sull’uscio o sul muro di una sua bellissima villa, pagata con i denari che gli fruttarono le commedie francesi trasformate in napoletane, e la sua allegrissima recitazione che faceva ridere tutti i pubblici di Italia, aveva fatto scrivere : «Qui rido io». Anche Viviani volle avere un palazzo, poi due palazzi, poi più palazzi, sull’uscio dei quali avrebbe potuto scrivere : «Qui rido è godo e fo il signore io». Ma non so come e perchè, quand'era più lieto e raccontava vicende festose e vittoriose della sua vita, una punta di amaro s’intuiva sempre nel suo discorso. Forse perchè ciascuno degli altri, Pe-tito. Scarpetta ossia Sciosciammocca avevano avuto un momento in cui erano soli a vincere e a stravincere; e lui, no. Al tempo di Scarpetta gli autori napoletani protestavano contro Mademoiselle Nitouche diventata Santerellina, ma tenevano cosi distaccata, per esempio, la poesia di Salvatore di Giacomo da Miseria e nobiltà di Scarpetta, che parevano riparare talora in un campo tutto azzurrato e aureo. Al tempo di Viviani. invece, il teatro corrente desiderava sempre di essere tutto artistico, anche quando era in parte commerciale; e tra le due vocazioni di Viviani, il poeta teatrale e l’attore napoletano era facile che una delle due qualità prevalesse a danno dell’altra; ed egli aspirava ad essere perfetto attore e insieme compiuto poeta; ed essendo egli anche «il capocomico», responsabile della Compagnia, doveva talvolta rinunciare un po’ all’ideale; e forse se ne doleva.
Ma che si doleva non gli gradiva far vedere. Voleva essere per tutti il capocomico, l’attore, l’autore in piena fortuna. favorito dal pubblico; e lo era, infatti, perchè la sua fantasia arguta aderiva tanto a quella della folla e nella sua arte di riprodurre mezzi caratteri e tipi e macchiette erano tante parti di fantasia e d’osservazione popolare, che egli avrebbe potuto lasciare un repertorio vasto agli attori di domani. Il suo torto era di non voler distaccarsi o dalie invenzioni per limitarsi ad essere un magnifico interprete dalle gustose interpretazioni per poter dare più ala al suo arguto e spesso poetico spirito di osservazione.
Certo era un vero artista; ma gli pareva spesso di patire qualche ingiustizia; e quel suo fervore, quella sua tenacia. quel suo romanticismo per il quale Napoli era mezza in Italia e mezza tra gli incantesimi e le luci e le musiche del paradiso, gli mettevano in cuore una tristezza amara e una malinconia soave. Forse felice non è stato mai, o soltanto quando raffigurava gli scugnizzi, gli acquaioli, verrebbe voglia di dire qualche parte fanciullesca del mondo di Gemito. Allora, usciva dall’oscurità e dalla miseria, godeva i primi applausi, poteva mandare a casa i primi denari. Poi, quel sapore di gloriola che gustano con fervido palato i fanciulli, l’amareggiava perchè avrebbe voluto sapere in maniera definitiva se era stata gloria.
Viviani ebbe quel molto di giusta fortuna che altri magnifici attori non conobbero. Che cosa donò la vita a Petito oltre all’amore del suo pubblico? Scarpetta uscì dalle linee prescritte, fu libero e scanzonato e perciò un pochetto cinico; e si godette la popolarità e la ricchezza; ma Pantalena, per esempio, grosso e grande attore, con un corpo pesante, miope, con due grossi cristalli al posto delle lenti, rassegnato alla mediocrità, egli che aveva diritto ad essere ammirato, sempre povero e sempre lindo, sempre artisticamente puro e generosamente modesto, che cosa ebbe dal destino? E vive ancora, poverissimo, un Pulcinella che dicono valentissimo, degno di continuare, e destinato, ohimè, a chiudere, la serie dei Pulcinella, uno dei quali, chiamandosi, invece, alla ribalta, Giancola, fu il padre di quel Cammarano che scrisse tanti libretti per Giuseppe Verdi; libretti dove non si sente «l’orma dei passi spietati» e il campo dei giustiziati non si chiama il «campo abbominato - ove la colpa, scontasi - con l’ultimo sospiri». Cammarano sciocchezze non ne scriveva. Era povero, docile e sensato. Faceva onore, a suo padre, Giancola. Cari attori napoletani! Ci fu nel ’700 uno di essi che scrisse la «Nuova Guida dei Forestieri per osservare e godere le curiosità pià vaghe e più rare della Fedelissima gran Napoli» e la «Nuova Guida di Forestieri per l'antichità curiosissime di Pozzuoli, ecc. ccc.». Si chiamava Domenico Antonio Parrino; e si dichiarava «Natural Cittadino Napoletano».
Tutti gli altri attori napoletani sono Naturali cittadini della gran città; lo si vede dall’amore che hanno per Napoli; un amore capace di tutte le ambizioni e anche di tutte le rassegna-
Tutte le ambizioni teatrali avevano i due poeti e commediografi Murolo e Bovio; il primo più fecondo, teatralmente, dell’altro; l’altro capace di rinchiudere in una canzonetta il soggetto di una. squisita opera teatrale. Nè l’uno nè l’altro erano sereni; come non lo erano stati Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo, giunti (il secondo specialmente) alle più ingiuste asprezze polemiche contro l’altro. Sarebbe statò così bello invece un pieno accordo tra artisti grandi e minori napoletani! Forse ora lo pensa Adelina Magnetti, grande attrice veramente, ed ora ospite della Casa di riposo per i vecchi attori di Bologna, Adelina, anche ella naufraga. Ed era una splendente vincitrice! Che tristezza ricordare quelli che non ebbero la meritata fortuna.
Renato Simoni «La Gazzetta di Mantova», marzo 1950
In alto, nel legno della libreria che copriva una parete del suo piccolo studio, Raffaele Viviani aveva fatto incidere queste parole: • Ce ne stanno fatiche! •. Ce n’è di fatica, nei libri. L’osservazione non era di un letterato, ma di un artista che alla poesia era faticosamente, istintivamente arrivato attraverso le quotidiane esperienze piuttosto che dalla pratica dell’alfabeto.
Lo scugnizzo, tema conduttore della sua produzione, maschera e personaggio attorno al quale si addensa un mondo tragico ed estroso, è la memoria della propria condizione di fanciullo, identica alla condizione di altre migliaia di ragazzi che formicolavano, laceri e affamati, nella Napoli fine Ottocento. Ma lo scugnizzo Raffaele Viviani prende coscienza (questo, il suo segreto) di una realtà fino ad allora deformata, in sede letteraria, dalle lusinghe del pittoresco.
« ...A dudece anne, a tridece - cu 'a famma, e cu 'o ccapì (cioè, con la fame e col capire) - dicette: Nun pò essere, - 'sta vita ha da fernì! - Pigliaio 'nu sillabario: - Rafele mio fa tu! - E me mettetto a correre -cu a e i o u». Ce n’è di fatica, nei libri: a cominciare dal sillabario.
Così il bambino che a quattro anni aveva iniziato a lavorare in uno squallido teatrino di marionette, scopriva — adolescente — la parola scritta: strumento per fissare una verità che nasceva e si sviluppava nei vicoli sopra Toledo, nei bassi di Santa Lucia, nelle stra-dette di basso porto. Una verità che andava rivelata senza compiacimenti folcloristici. Per questo. Raffaele Viviani si fece interprete di se stesso, dell'ambiente che lo aveva espresso, prima ancora che autore delle proprie pagine: di volta in volta pescatore o zingaro, posteggiatore o camorrista, guitto o mendicante.
Portentoso mimo — lo ricordava Silvio D’Amico — con un fisico che a cinquantanni pareva ancora quello agile e snodato di un ginnasta adolescente, rimasto perpetuamente scugnizzo aggressivo, riottoso, animalesco e sentimentale.
Questo è il ritratto del popolaresco protagonista di 'O vico, ’O fatto ’e cronaca, 'E piscature, ’O guappo 'e cartone: un artista che della matrice dialettale assimilò il mordente, la vivezza, la sincerità, ma non quell’approssimato moralismo fatto di inerzia, di rassegna-zio ne amara alle sventure, di scetticismo, di fatalismo convenzionale. Raffaele Viviani, lo scugnizzo che da solo aveva affrontato l’alfabeto, credeva che il mondo possa essere migliorato dalla solidarietà degli uomini, dal loro quotidiano fervore. Era soprattutto falso, per lui, il proverbio napoletano secondo il quale «chi nasce quadro non può morire tondo». Con questo pensiero, tradotto nelle rime di una poesia, chiuse nel 1950 la sua giornata terrena.
Ghigo De Chiara, «Radiocorriere TV», aprile 1956
Ritrono di Viviani
Raffaele Viviani ha una vita non troppo lunga (nasce a Castellammare di Stabia nel 1888, muore a Napoli nel 1950), ma sempre amareggiata da un cumulo di traversie. Comincia attore a sei anni, al «Teatro dei pupi»; e si tuffa nell’aura poetica quanto surrealistica dei Reali di Francia, pigliando volta a volta, con uguale baldanza, le vesti del paladino cristiano come del guerriero musulmano. Tenta altre epericnze nei baracconi della periferia di Napoli, e diviene il più applaudito interprete della una gioconda zarzucla carnevalesca di moda a quel tempo.
Un’infanzia di miseria e di stenti, e alle luci della ribalta si contrappone l’ombra più densa. Raffaele, con tutto il suo ingegno, non riesce a districarsi dalla piccola folla di guitti che popola quei baracconi. Finché a sedici anni trova una scrittura al teatro Petrella, «abbasso Porto», con una paga serale di due lire e mezza, escluso il venerdì, giornata in cui l’impresario non paga i suoi comici.
Al teatro Petrella interpreta Lo scugnizzo di Giovanni Capurro, un bozzetto drammatico pieno di umore e di colore. E’ il suo trampolino di lancio. Gli altri macchiettisti, ee vogliono rendere veridica la loro interpretazione, debbono studiare, penetrare il fondo della realtà. Raffaele no. Gli basta pigliare i panni del suo personaggio e parlare, perchè la realtà è dentro di lui, pronta a manifestarsi al primo moto delle labbra, al primo gesto.
Via via, scaltrendosi nel gioco scenico, non s’accontenta più dei «numeri» scritti dagli altri, la legione di poeti che si accoda a Capurro. Allora siede al tavolino, sottraendo al sonno le ore della notte, e se li teglia su misura per i suoi panni, che esprimano i fatti autentici, concreti, della vita a lui più congeniale.
«Numeri» di caffè concerto, perchè adesso Raffaele trionfa al caffè concerto, insieme a Maldacea, a Fregoli, a Petrolini; e sono sempre fluidi, sempre incisivi, e spesso respingono il facile riso per esprimere un’amarezza tagliente, un’angoscia ossessiva; e in embrione vi è la futura poesia, il futuro teatro.
Perchè Viviani comincia a scrivere nei ritagli di tempo le prime poesie. Ogni poesia guarda a un uomo, descrive un momento della vita di un uomo. Una folla minuta di personaggi poetici non più scenici, sbuca dalle case più sordide, passeggia nei vicoli più malfamati. Una folla dedita al vizio, rilassata nell’ozio, abbandonata alla perversione sessuale; sembra più straccione e miserabile perchè si muove in un paesaggio sontuoso di mare, di colli, di cielo.
Viviani fino al 1918 continua a calcare con immutato successo le tavole dei caffè concerto. Muore il caffè concerto, e il macchiettista rivolge la sua attenzione al teatro. Forma compagnia. Quanto al repertorio, gli basta ricucire insieme quei tipi e tipacci nei quali s’era fino allora sdoppiato, mutando a volta la voce e gli atti. I soliloqui formano un dialogo, i caratteri si incontrano e si scontrano; e nasce la commedia, nasce il dramma. E’ un teatro insolito, un teatro angosciato, inquietante; e anche lo spettatore più distratto o indifferente resta scosso. Una sequenza serrata di scene, l'una aggrappata all’altra, e come intermezzo, quasi a lumeggiare quella prosa scarna, interviene la poesia. E la passione, la gelosia, l’amore, non corrisposto, i sentimenti più istintivi, compressi negli endecasillabi, si esprimono con più violenza e virulenza.
Un teatro per il popolo, un teatro popolare ma senza la solita retorica della miseria o dell'ineguaglianza sociale. I sentimenti più nativi sono rappresentati nudi e crudi, senza orpelli stilistici, senza vaniloqui o baloccamenti letterari.
Tutti conoscono il teatro di Raffaele Viviani, pochi le sue poesie. Queste poesie, cominciate a scrivere trenta o quaranta anni fa, sono state sommerse da quella marca di drammi, di commedie, di atti unici: sono state soffocate da quell'attività febbrile quanto inesauribile di capocomico, regista, primattore; ma oggi, grazie alle cure affettuose di Vasco Pratolini e di Paolo Ricci, vedono finalmente la luce (Poesie, Vallecchi, 1956).
«Sono un poeta pittore», ha detto Viviani di sè, aperchè mi piace sempre di fare la poesia colorita», e precisa: «a pennellate vivide, come chi, descrivendo, colorisca». Scultore d’anime nel dramma, perchè non s’era fermato alla scorza del personaggio, ma era andato a frugare, a «cavare nel suo intimo. Pittore nella poesia; ma i colori, esuberanti e sgocciolanti che siano, non arrivano mai a soffocare le sensazioni, le reazioni dei suoi personaggi. L’astrazione lirica dura sempre un attimo, a lascia subito il passo a un’indagine minuziosa, laboriosa del carattere, come per rivelarlo a se stesso prima di farne oggetto di poesia e presentarlo agli altri.
Ma Salvatore di Giacomo scrive nella pace del suo studio, studio elegante scrivania rococò, inondato dai libri, e l’orecchio in gestionato dall’arietta metalliana. Ferdinando Russo preferisce la saletta del caffè, mason con la vetrina aperta sul vicolo trafficatissimo di gente; il suo lapis è puntato sul taccuino e l’occhio segue il campionario di figure e figurine che gli passano davanti. Raffaele Viviani invece non riesce a star fermo, nè a casa nè al caffè. Deve muoversi, deve passeggiare. Quando incontra il suo personaggio l’affronta decisamente, lo piglia a braccetto, fa amicizia con lui e lo lascia parlare e sfogare, pronto a registrarne fino all’ultima vibrazione i suoi sentimenti, rassegnati o ribelli che siano.
Da questo intento d’arte, da questo travaglio d’arte, è nata un’opera nuova, significativa, inconfondibile. Non è esemplata su modelli più o meno illustri, ma si ispira alla più squallida realtà quotidiana. E viene a reclamare il suo posto che le compete nella poesia napoletana di tutti i tempi.
Mario dell'Arco, «Il Piccolo di Trieste», 28 aprile 1956
Viviani scoprì la Napoli senza sole
L'artista fece incidere nel suo studio un motto che riassumeva la sua vita: “Ce ne stanno fatiche!”
La vena dolorosa e arguta di Raffaele Viviani ha messo foce in questi anni. Sta acadendo per l'autore-attore napoletano quanto è accaduto per Carlo Bertolazzi : che cioè a una relativa indifferenza del pubblico e della critica in vita seguono un acuto interesse e addirittura il successo dopo la morte dell'artista. L'ostilità che il Viviani dovette subire durante quei suoi duri pellegrinaggi di capocomico d’una compagnia napoletana fu dovuta all’atmosfera politica del ventennio fascista: quel suo sciorinare sul palcoscenico i panni di una Napoli per nulla folcloristica e pittoresca ma aspra ed amara, l'evidente socialità del suo teatro, danno fastidio; e, su sollecitazioni della cultura ufficiale, venne bandita la famigerata campagna contro il dialetto. Questo, per quanto riguarda l'ostilità. Ma l’indifferenza, la scettica disinvoltura con cui i grossi critici del giornalismo d'allora lasciarono cadere la sua offerta di poesia, restano il frutto di una singolare insensibilità alle voci italiane più autentiche e disperate.
Del resto, con quale dispettoso ritardo quei signori capitolarono davanti al genio di Pirandello. Aveva ragione Viviani quando, sulla fine della vita, fece incidere nel suo studio il motto: «Ce ne stanno fatiche!».
Il nome di Pirandello non è fatto a caso. Se si prende per esempio questa Figliata, rappresentata dalla compagnia di Nino Taranto con la regia del figlio dell'autore, Vittorio Viviani, è impossibile non ritrovarci il contraccolpo di certe invenzioni pirandelliane. Lo scrittore siciliano parte, in più d'una sua commedia, dal candore; da una specie di fiducia ingenua dei personaggi in quelle che sono le regole della morale di convenzione; poi gli mette sotto i piedi la miccia di quella sua logica micidiale e quei poveri pupazzi saltano per aria.
Ne La figliata, con assai meno preoccupazioni dialettiche, semplicemente abbandonandosi alla pateticità d un caso umano, Viviani ripete un'operazione del genera Questo suo Don Gennaro, infatti, piccolo impiegato dei lotto, brutto, fortemente miope, un povero diavolo insom-ma. vive senza saperlo appoggiato al paravento di carta di un'apparenza. Ha spoeto una bella ragazza di cui è innamorato ma non sa che, tra lei e la madre, l'hanno preso nel laccio all'ultimo momento per coprire un guaio; non sa che il figlio che deve nascere non è suo, ma di un uomo che la moglie ama ancora, a sua volta sposato e con figli. E proprio costui, che gli fa l'onore di mandargli una serenata sotto le finestre la notte in cui la moglie sta partorendo, il candido Don Gennaro colma di gentilezze e carezze, se lo coccola, vuole che gli tenga a battesimo il neonato, come padrino. Il vicinato, pettegolo e perfido, sa tutto e se la ride. Quando poi, proprio durante la festa del battesimo, il poveruomo, tramite la moglie gelosa di quell'altro, viene a scoprire la verità, il lampo è troppo abbagliante per quei suoi occhi meschini. Si scaglia sul rivale e tenta di strozzarlo. Nemmeno a questo riuscirà. Il buio gli è sceso improvvisamente sulle pupille, se ne va barcollando e gridando : «Io nun ce veco... Io nun ce veco...».
Quest’ultima scena, violentissima e persino un po’ «granguignolesca», accende il corto circuito fra gli spettatori, che hanno sempre saputo fin dalle prime battute, e il protagonista che conosce la verità solo in quel momento; ma sul dissidio fra apparenza e realtà, tipico tema pirandelliano, tutta la commedia è costruita; da tale contrasto esce il grottesco. Tutt’altra cosa Il vicolo, che fu il primo atto unico scritto dal Viviani nel 1917. Mentre ne La figliata il milieu sociale è quello impiegatizio piccolo-borghese, qui siamo decisamente in mezzo al popolo. Ci sono le premesse dei grossi affreschi popolari dipinti più tardi. Null'altro che un vicolo di Napoli e i suoi personaggi, non già visti attraverso la lente sentimentale ma nella prospettiva d'una dura obiettività, d'un distacco che già allude, pur temperato com’è dall'ironia, a quel c teatro epico» che stava nascendo negli stessi anni in Germania. Le poesie e le musiche di Viviani sono deliziose. C’è inoltre in esse, senza alcuna compiacenza, un riflesso della grande stagione del Café-chantant napoletano, un patetico barbaglio della Belle Epoque. Taranto e i suoi compagni - l'efficacissima Luisa Conte, l’interessante Angela Luce, Ugo D’Alessio, Amedeo Girard, Nino Veglia non potrebbero essere più bravi.
Roberto De Monticelli, «Epoca», 1961
Opere teatrali
1917: Il vicolo
1918: Via Toledo di notte, Piazza Ferrovia, via Partenope, Scalo Marittimo, Porta Capuana, Osteria di campagna, Piazza Municipio;
1919: Borgo Sant'Antonio, Caffè dì notte e giorno, Eden Teatro, Santa Lucia Nova, La Marina di Sorrento, Festa di Piedigrotta;
1920: La Bohème dei comici, Lo sposalizio;
1921: Campagna napoletana;
1922: Circo equestre Sgueglia;
Con Luisella davanti al teatro Carignano di Torino nel 1933
1923: Fatto di cronaca, Don Giacinto;
1924: La figliata;
1925: I pescatori;
1926: Zingari, Napoli in frac, L'Italia al Polo Nord;
1927: Tre amici un soldo, Putiferio;
1928: La festa di Montevergine, La musica dei ciechi, Vetturini da nolo, La morte di Carnevale;
1929: Nullatenenti;
1930: Don Mario Augurio, Il mastro di forgia;
1932: Il guappo di cartone, L'ultimo scugnizzo;
1933: I vecchi di San Gennaro, L'ombra di Pulcinella, L'imbroglione onesto;
1935: Il mestiere di padre, L'ultima Piedigrotta;
1936: Quel tipaccio di Alfonso, La tavola dei poveri;
1937: Padroni di barche;
1939: La commedia della vita, Muratori, I dieci Comandamenti.
Collaborazioni, traduzioni, opere irreperibili
1920 Il Cantastorie( A. Costagliola, R. Chiurazzi, R. Viviani);
1921 Salita Tarsia, 15( Il palazzo innamorato) ( Carlo Mauro, R. Viviani)
1921 Caserta-Benevento Foggia C. Mauro, R. Viviani);
1921 Te voglio malandrino (S. Ragosta, R. Viviani);
1924 Quello che il pubblico non sa (M. Corsi, M. Salvini, R. Viviani);
1924 La patente (L. Pirandello, R. Viviani);
1925 Sartoria Romano (C. Mauro, R. Viviani);
1925 Novanta nove lupi (0. Castellino, R. Viviani);
1926 Pezzecaglie (F. Paolieri, R. Viviani);
1927 Quando Napoli era Napoli (D. Petriccione S. Ragosta, R. Viviani);
1927 Napoletani d'oggi (opera irreperibile);
1931 Socrate secondo (Abate Galiani, P. de Flaviis, R. Viviani);
1931 Napoli tascabile (rifacimento);
1933 Pensaci, Giacomino! (L. Pirandello, R. Viviani);
1935 Lanterna cieca (irreperibile);
1936 L'ammalato immaginario (Molière, R. Viviani, V. Viviani);
1938 A vele gonfie (rifacimento);
1939 Il Trasformista (preparatorio dieci comandamenti);
1940 Chicchignola (E. Petrolini, R. Viviani);
1940 Siamo tutti fratelli (A. Petito, R. Viviani);
1943 Bellavita (L. Pirandello, R. Viviani).
Edizioni di Raffaele Viviani
Testi drammatici
Raffaele Viviani, bozzetti del Comm. Raffaele Viviani: Prinpinella, Napoli industriale, L'amore telefonico, Domenica del ciabattino, La strategia da strapazzo (ricordi di guerra), Napoli, Casa editrice Cav. Emilio Gennarelli &C., 1921
Piedigrotta Viviani Ed. Gennarelli, Napoli, 1925
Raffaele Viviani, La festa di Montevergine, in Rivista di Commedie, XIII, 1930, n° 50
Raffaele Viviani, 'O fatto 'e cronaca , Napoli, Guida 1935
Raffaele Viviani, L'imbroglione onesto in Il Dramma, XIII n° 266, 1939
Raffaele Viviani, Mestiere di padre , in Il Dramma, XV, n° 318, 1939
Raffaele Viviani, Dieci comandamenti , in Rinascita 1952.
Raffaele Viviani, Pescatori in Teatro d'oggi, I, n° 1 1953
Raffaele Viviani, La tavola dei poveri , in Sipario, IX,n° 100-101,1954
Raffaele Viviani, La musica dei ciechi , in Maschere, I, 1954
Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene autobiografia con illustrazioni di Onorato, prefazione Gigi Michelotti - L. Cappelli editore Bologna 1928
Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene autobiografia con l'aggiunta di numeri di varietà e nota di Vittorio Viviani - Guida Editore Napoli 1977
Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene l'altra biografia 1988-1947 a cura di Maria Emilia Nardo. palcoscenico napoletano Rogiosi Edizioni 2012
Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene autobiografia con l'aggiunta di foto dell'archivio Viviani scelte da Giuliano Longone - Guida Editore 1988
Raffaele Viviani, ‘O fatto e cronaca commedia in tre atti - Guida Napoli 1934
Raffaele Viviani, L'imbroglione onesto commedia in tre atti Il Dramma 1937
Teatro di Raffaele Viviani due volumi a cura di Lucio Ridenti, prefazione di Eligio Possenti, introduzione biografica Alberto Spaini, La “commedia umana” di Vito Pandolfi con scritti di Umberto Barbaro, Enrico Bassano, Francesco Bernardelli, Carlo Bernari, Eugenio Bertuetti, Anton Giulio Bragaglia, Gino Capriolo, Ermanno Contini, Silvio d'Amico, Gino Damrini, Rodolfo De Angelis, Augusto Donaudy, Federico Frascani, Angelo Frattini, Lorenzo Gigli, Ernesto Grassi, Carlo Lari, Carlo Levi, Giuseppe Marotta, Roberto Minervini, Eugenio Ferdinando Palmieri, Domenico Rea, Leonida Répaci, Paolo Ricci, Matilde Serao, Alberto Spaini, Mario Stefanile, Carlo Trabucco, Giulio Trevisani- ILTE 1957 – 1994
Raffaele Viviani Teatro peverad s italjanskopo, (in it. Raffaele Viviani, opere teatrali: Scalo Marittimo, Campagna napoletana, Pescatori, L'ultimo scugnizzo, L'imbroglione onesto, Muratori, Dieci comandamenti) con un ricordo di Eduardo De Filippo, il saggio di Vito Pandolfi, "La commedia umana di Napoli ", traduzione di Tomascevskogo, Biblioteca drammaturgica-Arte - Mosca Iskusstvo 1962
Raffaele Viviani, La festa di Montevergine rappresentazione in tre atti con 6 tavole di Vincenzo Montefusco - Napoli Edizioni Scientifiche Italiane 1963
Raffaele Viviani, Tutto il Teatro sei volumi a cura di Guido Davico Bonino, Antonia Lezza, Pasquale Scialò - Guida Editori 1987
Viviani I capolavori a cura di Antonia Lezza prefazione Roberto De Simone con una nota musicale di Pasquale Scialò - Guida Editori 1992
Raffaele Viviani, Circo equestre Sgueglia a cura di Edo Bellingieri Roma Editori Riuniti, 1978
Raffaele Viviani, Quai d'embarquement, la musique d'aveugles Parigi, Editions Dramaturgie, 1996
Raffaele Viviani,‘A morte ‘e Carnevale commedia in tre atti napoli 1928 - Bellini editrice 1999
Raffaele Viviani, I dieci comandamenti decalogo in due tempi, versi prosa e musica, presentazione di Mario Martone - Alfredo Guida Editore 2000
Viviani catalogo della mostra alla Biblioteca Nazionale di Napoli a cura di Marcello Andria, Rosaria Borrelli, Giuliano Longone - Tullio Pironti Napoli 2001
Raffaele Viviani ‘E Zingare, tragedia in tre atti, con una nota di Giulio Baffi - Guida editore 2006
Poesie
Raffaele Viviani, Tavolozza poesie in dialetto napoletano, a cura dell'autore - Mondadori 1931
Raffaele Viviani, … e c'è la vita ! poesie, a cura dell'autore - editrice Rispoli Anonima Napoli 1940
Raffaele Viviani, Poesie a cura di Vasco Pratolini e Paolo Ricci - Vallecchi editore 1956
Raffaele Viviani, Voci e canti edizione fuori commercio - Guida Editori 1972
Raffaele Viviani, Poesie introduzione Vittorio Viviani - Guida Editori 1975
Raffaele Viviani, Poesie edizione economica tascabili - Guida Editori 1977
Raffaele Viviani, Poesie a cura di Luciana Viviani e Giuliano Longone - Guida Editori 1990
Raffaele Viviani, Canti di scena a cura di Pasquale Scialò - Simeoli Guida editori 2006
Raffele Viviani Poesie, opera completa a cura di Antonia Lezza – Alfredo Guida Editore 2010
Raffaele Viviani, "Primitivamente" ... Viviani sognava di andare un giorno a vivere ad Acerra..La città di Pulcinella
Canzoni, dischi e compact disc
Compact disc
Raffaele Viviani, Voci , Phonotype Record, serie storica (CD 0097). Tutti i brani sono recitati o cantati da Raffaele Viviani. Indice del compact disc: 1. Borgo Sant'Antonio; "2. è morta muglerema ; 3. L'aquaiuolo ; 4. Arte liggera; 5. 'O maruzzaro; 6. Magnetismo ; 7. 'E vvoce 'e Napule ; 8. 'O tammurraro ; 9. 'A feste 'e Piedigrotta ; 10. 'O cantante e pianino ; 11. 'O Pizzajuolo ; 12. 'O vicariello ; 13. 'A cerca ; 14 benvenuto a 'o re ; 15. 'O ciarlatano; 16. Emigrante.
Raffaele Viviani, canti e voci di Napoli Nino Taranto (fonit VP 10004) ottobre 1971, dir. Mario Testa Indice: 'O sapunariello; L'aquaiuolo ;da scugnizzo a marenaro; Eroismo; 'E ccose mprivvisate; pascale da cerca ; Tanno e mo' ; canto all'isola; 'O ciaramellaro a Napule; 'O guappo 'nnammurato.
Omaggio a Raffaele Viviani, Pino De Maio Phonotype Record (CD0118) . Pino De Maio: voce e chitarra, Gianni Dell'Aversana: chitarra;Aldo Mariniello: chitarra;Gennaro Cardone: mandolino, Salvatore Esposito: mandolino; indice del compact disc: L'emigrante, Pare'nu suonno, 'A rumba de scugnizze, Mast'Errico, 'O mare 'e Margellina, Lavannare', Tarantella segreta, Si vide all'animale,'O cacciavino, Cuncetti'Cuncetti','O carro de'disoccupate, Marenaro 'nnammurato, Mimì di Montemuro, 'A retena de scugnizze, 'O carro de bazzariote, fravecature, 'O guappo nnammurato, 'A canzona da fatica, 'E zingare, 'A tirata da rezza, 'O malamente, 'A preghiera do zuoppo, Serrafina, 'O sapunariello, Campanilismo, L'acquaiuolo.
Bellissimo... canta Viviani( Bellissimo e Trampetti) MEGA (CD 19093) Umberto Bellissimo canta e recita. indice: Guaglione,'O guappo nnammurato, 'o scupatore, L'acquaiuolo, Mast'Errico, 'O sapunariello,'O muorto 'e famme, Serrafina, L'ommo sbagliato, la rumba degli scugnizzi, Fravecature, 'O mare e Margellina, 'E ccose mpruvvisate, Da scugnizzo a marenaro, Eroismo, Si vide all'animale, Si overo more 'o cuorpo sulamente, Canto a Viviani
Festa di Piedigrotta di Raffaele Viviani Elaborazione musicale Eugenio Bennato. CD prodotto nell'ambito dell'evento Piedigrotta 2007. indice del compact disc: Piedigrotta- canta Pietra Montecorvino; Passarrammo na bella notte- cantano Filomena Diodati Ciccio Marola Francesco Cortopassi, Sta festa 'o ssa - corale, 'E mpchere- cana Nicola Vorelli, Evviva Napule- canta Eugenio Bennato, Matalena canta Marcello Colasurdo Sara Trama, St'ammore, ojnì - canta Pietra Montecorvino, Swing Mimì- cantano Francesco Cortopassi Ivana Maioni, Pescatori- canta Sasà Misticone, Lucianelle- cantano Marianna Mercurio Ornella Varchetta Sara Tramontana, Femmena Guappa - canta Ciccio Merolla, Pare nu suonno- canta Eugenio Bennato, Canto per la Madonna de Piedigrotta - canta Filomena Diodati, Taranta Viviani- cantano Pietra Montecorvino Ciccio Merolla Sara Tramma
Canto a Viviani di Enrico Fiore, a cura di Nunzio Gallo, arrangiamenti e direzione d'orchestra Tonino Esposito (Phonotype record CD 0396) con: Franco Acampora, Concetta Barra, Peppe Barra, Antonio Casagrande, Maurizio Casagrande, Gianfranco Gallo, Massimiliano Gallo, Rosalia Maggio, Angela Pagano, Mario Scarpetta.
Musicassette
Raffele Viviani Presentato da Roberto Murolo 1974 (Durium MD 262) Indice: 'A tirata da rezza; Lavannare' ; L'acquaiuolo ; 'A preghiera d00o zuoppo; Zingare ; Tarantella segreta ; 'A canzone da fatica ; Cuncetti' Cuncetti' ; 'O carro de disoccupati ; Marenaro nnammurato ; 'O malamente
Dischi 33 giri
Poesie di Raffaele Viviani lette da Achille Millo, La voce dei Poeti, collana diretta da Folco Portinari (Fonit LPZ 2073) Indice: Guaglione; Oje ninno; 'Ngiulina ; 'E ccose 'mpruvvisate, 'O scupatore ; Ombre e addore ; facimmece 'a croce ; 'A caravana, 'E zingare, Coro e campaguole ; Eroismo, Guerra e pace, 'A mano d'opera, faticannp sotte schizze, 'O canto do manganiello, Fravecature, Piscature, Gnastillo, Io quanno sento 'e di... , 'A carta 'e visita. 'A legge, Primitivamente, Veglia, Quantaucielle ; So overo more 'o cuorpo sulamente ; 'O pesce Nicolo'
Canto a Viviani di Enrico Fiore, a cura di Nunzio Gallo, arrangiamenti e direzione d'orchestra Tonino Esposito (la Platea Record, Phonotype record) con: Franco Acampora, Concetta Barra, Peppe Barra, Antonio Casagrande, Maurizio Casagrande, Gianfranco Gallo, Massimiliano Gallo, Rosalia Maggio, Angela Pagano, Mario Scarpetta.
Io Raffaele Viviani Poesie e canti dello spettacolo a cura di Antonio Ghirelli e Achille Millo. Con Achille Millo, Antonio Casagrande, Marina Pagano, Franco Acampora. Elaborazioni musicali Roberto De Simone ; realizzazione e direzione artistica Achille Millo.
Raffaele Viviani presentato da Roberto Murolo ( Durium ms AI 77345, D.St. 051251) Indice: 'A tirata da rezza; Lavannare' ; L'acquaiuolo ; 'A preghiera d00o zuoppo; Zingare ; Tarantella segreta ; 'A canzone da fatica ; Cuncetti' Cuncetti' ; 'O carro de disoccupati ; Marenaro nnammurato ; 'O malamente.
Canti e Voci di Napoli di Raffaele Viviani nell'interpretazione di Nino Taranto,(Fonit Cetra VP 10003) indice del disco: Tarantella segreta, Marenaro ‘nnammurato; Campanilismo; ‘O Don Nicola ; ‘O cacciavino ; ‘A canzone d'’a fatica.
Canti e Voci di Napoli di Raffaele Viviani nell'interpretazione di Nino Taranto,(Fonit Cetra VP 10004) indice del disco: ‘O sapunariello; L'acquaiolo; da scugnizzo a marenaro; Eriosmo; ‘E ccose ‘mpruvvisate.
Canti e Voci di Napoli di Raffaele Viviani nell'interpretazione di Nino Taranto,(Fonit Cetra VP 10005) indice del disco: Pascale d'’a cerca ; Tanno e mo; Canto dell'isola; ‘O ciaramellaro a Napule; ‘A tirata d'’a rezza.
Canti e Voci di Napoli di Raffaele Viviani nell'interpretazione di Nino Taranto,(Fonit Cetra VP 10006) indice del disco: Guappo ‘nnammurato; Mare ‘e Margellina; ‘E piscature; Fravecature; ‘O tripulino Napulitano
Cinema
Un amore selvaggio, con Luisella Viviani e Giovanni Grasso. Produzione Cines, 1908
L'accusato , (titolo incerto, pellicola perduta) il cui soggetto prende spunto da uno dei numeri di Varietà di Viviani recitato in romanesco, "fiamme der core ". Produzione: Cines 1908
La catena d'oro , (titolo incerto, pellicola perduta) Produzione: Cines 1908
Testa per testa (risulta perduto) Viviani veste i panni di un giacobino ai tempi della Rivoluzione francese. Produzione: Partenope Film di Napoli 1912
La catena d'oro (con Luisella, risulta perduto) Produzione: Cines 1912 (1918 ? )
La tavola dei poveri regia di Alessandro Blasetti; soggetto di Raffaele Viviani; sceneggiatura di Alessandro Blasetti, Emilio Cecchi, Alessandro De Stefani, Mario Soldati, Raffaele Viviani; Musiche Roberto Caraggiano su motivi di Raffaele Viviani; con Raffaele Viviani, Lina Bacci, Salvatore Costa, Armida Cozzolino, Vasco Creti, Giovanni Ferrari, Vincenzo Flocco, Leda Gloria, Renato Navarrini, Carlo Pisacane, Gennaro Pisano, Marcello Spada, Cesare Zoppetti, Produzione Emilio Cecchi, Cines-Anonima Pittaluga, 1932
L'ultimo scugnizzo regia Gennaro Righelli - soggetto Raffaele Viviani ; sceneggiatura Gherardo Gherardi; musiche Franco Casavole, Cesare A. Bixio ; con Raffaele Viviani, Silvana Jachini, Dria Pola, Vanna Vanni, Laura Nucci. Produzione Juventus Film (abbinata per la distribuzione agli Artisti Associati) 1932
Notte di tempesta: prima dell'acuirsi del secondo conflitto mondiale, era in opera un progetto di riduzione cinematografica del dramma Pescatori, ad opera di Pozzi Bellini, sceneggiatori Gianni Puccini, Gino Doria e Vittorio Viviani, regia Luchino Visconti, protagonista Raffaele Viviani, il cui titolo avrebbe dovuto essere "Notte di tempesta". Del film resta una foto tratta da un provino del 1942. Nel 1946, anche se con altri protagonisti, il progetto verrà ripreso e cambiato, sempre da Pescatori viene ripreso il titolo Notte di tempesta, regia di Gianni Franciolini, sceneggiatura di Edoardo Anton e Renato Castellani, interpreti principali: Fosco Giacchetti, Maureen Melrose e Leonardo Cortese. Produzione Pan Film. La prima assoluta avvenne all'Augusteo di Napoli alla presenza dello stesso Viviani.
Alcuni giudizi critici
Eduardo Scarpetta ... Il riso di Raffaele Viviani addita e scopre sempre una piaga sociale !
Matilde Serao : sono dieci anni che i nostri autori litigano per stabilire quale sia il vero teatro napoletano; questo ragazzo lo ha creato in così poco tempo.
Ferdinando Taviani: La capacità di estrarre dalle tecniche del Varietà una drammaturgia capace di esplorare l'intera gamma delle azioni sceniche, dalla farsa alla tragedia, dalla concisione dell'atto unico alle complesse e corali vicende del dramma in tre atti, è forse il più straordinario - e misconosciuto - merito storico di Viviani.
Paolo Ricci: ... non si può certo dire che l'opera di Raffaele Viviani sia ancora stata valutata in pieno per quella che essa effettivamente rappresentò: la più alta espressione del teatro italiano della prima metà del Novecento; insieme a quella di Pirandello.
Vito Pandolfi: Raffaele Viviani segna una tappa decisiva nella storia del teatro italiano in questo senso : per la prima volta ( e questo si offre a precisa rispondenza storica ) abbiamo l'apporto diretto della creazione popolare
Mario Stefanile in Civiltà della Campania, 1975 ;il teatro di Raffaele Viviani resta un teatro di personaggi che si sforzano di dichiarare i propri diritti non di rivendicarli in una demagogica protesta- che sono diritti elementari quali il diritto alla libertà dell'intelligenza, alla libertà dei lavoro, alla libertà dell'esistenza come dignità piena e assoluta dell'uomo.
Ferdinando Russo: Viviani è una folla, una realistica folla plebea, di tipi riprodotti mirabilmente perché studiati nella vita e fra la folla di quel popolo di piccoli eroi e di piccoli delinquenti, nel quale è lo scugnizzo, sia sapunariello, sia lieto e spensierato rappresentante della rumorosa gaiezza di Piedigrotta. È un artista di un'efficacia terribile …
Salvatore di Giacomo: Ammiro moltissimo il Viviani quando, con intuizione rara davvero, con una verità che colpisce, con la pruova vivissima della sua osservazione acuta e penetrante, questo artista produce le creature che appartengono a' così detti strati inferiori della Società: le creature stanche, misere, talvolta crudeli, talvolta pur sentimentali, ignare sempre, che son figlie del vizio, dell'abbandono delle oscure passioni. Lo ammiro qui, e mi commuove anche.
Vasco Pratolini L'autenticità dell'ispirazione, che non rappresenta ancora un giudizio di merito, ma un preciso riferimento critico, è ciò che preliminarmente distingue e differenzia Viviani dagli altri poeti napoletani. Egli è ugualmente distante e dalla purezza di Di Giacomo e dal fervoroso naturalismo di Russo: c'è il popolo napoletano che da pretesto diventa soggetto di poesia, e che rappresentandosi, si rivela a se stesso, grida le proprie ragioni, si giudica e si conforta.
Luigi Compagnone Gli veniva quel linguaggio da una profonda, remota, radice popolare, che lui trasformava in qualcosa d'altro: quel dialetto da subalterno che era, diventava in Viviani linguaggio primario, frantumava il proprio angusto recinto per assurgere a realtà nazionale, per farsi portatore del modo d'essere delle classi popolari.
Silvio D'Amico Antologia del grande attore: Il suo 'Scugnizzo', il suo 'Spazzino', il suo 'Vagabondo' non sono un attore che rifà lo scugnizzo, lo spazzino, il vagabondo, sono senz'altro scugnizzo, spazzino e vagabondo quintessenziati e fissati per l'eternità ...
Roberto De Simone. È chiaro che nei testi del Nostro si ritrovano riflessi della variegata espressività teatrale napoletana, ma è altrettanto chiaro che l'impegno di diversi linguaggi, di elementi quali il canto, la musica, la recitazione e il mimo, conferiscono a quei drammi, in particolar modo a tutti gli atti unici del primo periodo, una originalità che non trova riferimento nel panorama napoletano di quegli anni. In sostanza, Viviani attinge ai linguaggi teatrali del suo tempo, ma ne altera subito i connotati, ai fini di un suo stile, atto ad allontanare o straniare i moduli espressivi della convenzionalità
Pasquale Scialò: Chiunque oggi voglia ripercorrere le diverse trasformazioni della musica a Napoli dagli inizi del Novecento fino alla fine degli anni trenta, non può che partire dalla sua opera, una fonte inesauribile di stimoli e di informazioni: dalla tradizione etnofonica a quella urbana, dal varietà alla canzone popolaresca, dall'opera all'operetta, dalla romanza da camera alla musica d'importazione. Inoltre, il suo metodo compositivo, orientato inequivocabilmente verso il polistilismo, rappresenta un caso esemplare di sincretismo sonoro urbano, che prepara il terreno a tutta quella schiera di cantautori ( Carosone, Daniele, Senese, Avitabile, Eduardo ed Eugenio Bennato, Gragnianiello, Bisca, 99 Posse...) che coniugano la tradizione mediterranea con gli umori anglo-americani.
Goffredo Fofi: Nel campo che fu suo, quello del teatro, verifichiamo oggi tutti quanto avesse ragione Pandolfi nel metterlo accanto a Pirandello, e nell'indicare i due nomi come centrali del teatro italiano del secolo - cui il tempo aggiungerà quello di Bene, che soffrirà bensì presso il pubblico e gli storici il fatto di essere grande attore e regista prima che autore, così come Viviani ha sofferto della sua grandezza di scrittore in napoletano. ... Viviani ha descritto la città, e la società del "sottosviluppo". E di città e società del "sottosviluppo" continua ad essere pieno il mondo, se l'Europa ne è fuori. Per questo impressiona, nella scoperta delle letterature asiatiche, africane, latino-americane nostre contemporanee ritrovare la coralità che è stata di Viviani (e di lui soprattutto, quasi di lui soltanto, in Italia).
Riferimenti e bibliografie:
- "Il Teatro Jovinelli. Varietà, avanspettacolo, attrazioni nel teatro più popolare di Roma", Nicola Fano, Officina Edizioni, Roma, 1985
- Tramontana, «Café-Chantant», 1 marzo 1915
- Raffaele Viviani in "Follie del Varietà", Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè, Feltrinelli, Milano, 1980
- «Café-Chantant», 31 agosto 1918
- "Viviani e i gialli", Enrico Fulchignoni, «Tempo», anno IV, n.62, 1 agosto 1940
- Pa. Ri., «Tempo», anno V, n.113, 31 luglio 1941
- Testo de "La tavola dei poveri" ritrovato e conservato tra i documenti personali di Totò (Archivio Famiglia Clemente)
- "Il Cafè-Chantant", (Mario Mangini), Ed. Ludovico Greco, Napoli 1967
- Raffaele Viviani - Dalla vita alle scene 1888-1947 - Maria Emilia Nardo, Rogiosi Editore, 2011
- "Follie del Varietà", Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè, Feltrinelli, Milano, 1980
«Comoedia», dicembre 1929 - Raffaele Viviani, uno e due - Tramontana, «Café-Chantant», 1 marzo 1915
- «Café-Chantant», 31 agosto 1918
- Ennio Flaiano, «Oggi», 31 ottobre 1940
- «Tempo», 21 settembre 1940
- Domenico Mancuso, «Il Dramma», 1 ottobre 1943
- F. M. Pranzo, «Il Dramma», 1 giugno 1944 - Disegno di Umberto Onorato
- Renato Simoni «La Gazzetta di Mantova», marzo 1950
- Ghigo De Chiara, «Radiocorriere TV», aprile 1956
- Mario dell'Arco, «Il Piccolo di Trieste», 28 aprile 1956
- Roberto De Monticelli, «Epoca», 1961
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Il Piccolo di Trieste
- Il Piccolo della Sera
- Il Piccolo delle ore diciotto
- Film
- Film d'Oggi
- Noi donne
- Settimo Giorno
- Radiocorriere TV
- Il Lavoro