Zavattini Cesare
(Luzzara, 20 settembre 1902 – Roma, 13 ottobre 1989) è stato uno sceneggiatore, giornalista, commediografo, scrittore, poeta e pittore italiano.
In ambito cinematografico, Zavattini (con all'attivo più di 60 film) è annoverato tra le figure più rilevanti del neorealismo italiano, di cui fu anche un teorico.[1]
Biografia
Vita e opere
Nato a Luzzara, un piccolo comune in provincia di Reggio Emilia, il 20 settembre del 1902, frequentò le scuole elementari dapprima a Luzzara e in seguito a Bergamo, dove conseguì la licenza ginnasiale presso il liceo ginnasio Paolo Sarpi[2]. Proseguì gli studi ad Alatri (in provincia di Frosinone) presso il celebre liceo classico Conti Gentili[3]; nella cittadina laziale trascorse tre anni che furono per lui «estremamente interessanti»[4].
Dopo il liceo tornò in Emilia. Si iscrisse alla Facoltà di Legge dell'Università di Parma. La sua più grande passione fu però la scrittura: nel 1928 intraprese a Parma la carriera giornalistica. Il suo esordio giornalistico sulla Gazzetta di Parma è datato 19 agosto 1926.
Successivamente si trasferì a Milano, collaborando a vari giornali della Rizzoli Editore. Dal 1934 diresse contemporaneamente: "Lei", "Novella", "Cinema illustrazione", "Il Secolo Illustrato" e "Piccola"[5]. Nel 1936 fondò il Bertoldo, fortunata rivista satirica, di cui fu anche direttore. L'anno dopo, a causa di una serie di contrasti con Angelo Rizzoli[6][7], passò alla concorrente Mondadori, dove assunse l'incarico di direttore editoriale (fino al 1939). Nel 1939 assunse la direzione, insieme con Achille Campanile, del giornale umoristico Settebello.[8]
La sua attività di narratore, per lo più umoristico, satirico, ironico, aveva preso l'avvio nel 1931 con l'opera Parliamo tanto di me, che riscosse uno straordinario successo. Scrittore non sempre facile da inquadrare nelle "correnti" del Novecento, autore fortemente critico verso la società, osservata tanto nei suoi aspetti dolorosi quanto in quelli umoristici, Zavattini costituì un fenomeno particolarissimo nell'ambito della letteratura italiana del Novecento. Nelle sue prime opere, dal 1931 al 1943, in un'epoca condizionata dal regime fascista, Zavattini («Za» per gli amici) presentò, in forme e contenuti inconsueti, il rapporto tra realtà e fantasia, cercando di privilegiare la prima attraverso originali mediazioni con la seconda. Oltre al libro d'esordio Parliamo tanto di me, i suoi primi e più noti lavori letterari sono stati I poveri sono matti, del 1937, Io sono il diavolo (1941), Totò il buono (1943), Straparole (1967).
Nel 1934 si avvicinò al mondo del cinema. Da quell'anno, oltre alla produzione letteraria e a quella pubblicistica, cominciò a dedicarsi con assiduità alla settima arte come soggettista e sceneggiatore. Nel 1939 incontrò Vittorio De Sica, con cui realizzò una ventina di film, tra i quali capolavori del neorealismo come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), tratto dal suo romanzo Totò il buono, Umberto D. (1952).
Tra i registi del cinema italiano e internazionale con i quali Zavattini lavorò nei suoi oltre 80 film troviamo: Michelangelo Antonioni, Hall Bartlett, Alessandro Blasetti, Mauro Bolognini, Mario Camerini, René Clément, Giuseppe De Santis, Federico Fellini, Pietro Germi, Alberto Lattuada, Mario Monicelli, Elio Petri, Dino Risi, Roberto Rossellini, Mario Soldati, Luchino Visconti, Damiano Damiani in L'isola di Arturo (1962).
Nel 1952 realizzò un progetto con il celebre fotografo statunitense Paul Strand. L'idea era quella di raccontare la vita quotidiana di un paese italiano come specchio dello spirito di un popolo. L'opera fu edita nel 1955 da Einaudi con il titolo Un paese. È considerata uno dei classici della storia della fotografia in Italia[9].
Zavattini si distinse, dunque, per la produzione copiosissima di soggetti cinematografici e per l'attività instancabile volta al rinnovamento del cinema, una forma d'arte che egli considerava duttile e popolare, che avrebbe voluto piegare al rinnovamento civile della società, sottraendola alle lusinghe del mercato. Non va dimenticata infatti la sua opera costante volta a svecchiare anche altre forme di espressione artistica. Sul piano letterario l'apogeo critico lo raggiunse nel 1970 grazie alla pubblicazione di NON LIBRO + disco, un volumetto estroso e anticonformista, scritto appositamente per non essere letto, cui era allegato un 45 giri. L'opera fu particolarmente cara all'autore sebbene molto contestata, ma l'elemento di rottura in essa preminente finì poi per stemperarsi nel clima convulso dei primi anni settanta.[affermazioni prive di fonti o di riferimenti]
Zavattini si cimentò inoltre e fruttuosamente nella poesia. Una citazione particolare spetta al poemetto Toni Ligabue (1967), sull'infelice pittore "naif" Antonio Ligabue e alla serie di poesie scritte nel dialetto della sua terra, dal titolo Stricarm' in d'na parola (Stringermi in una parola), un libro che Pasolini definì "bello in assoluto", uscito a Milano, nel 1973.
A Luzzara istituì nel 1967 il Premio dei Naïfs e diede origine al primo e unico Museo Nazionale delle Arti Naïves.
Oltre che scrittore, sceneggiatore di fumetti e soprattutto sceneggiatore cinematografico, commediografo, poeta, animatore culturale (in Italia e all'estero), promotore di cooperative culturali e di circoli del cinema, Zavattini fu anche pittore sensibilissimo.
Nel 1955, a coronamento di un impegno pluridecennale, gli venne assegnato il "Premio mondiale per la Pace". Nel 1973 riceve il Premio simpatia, si tratta dell'Oscar capitolino per la solidarietà[10]. Nel 1976 accettò l'invito da parte di Radio Rai di condurre una trasmissione di varia attualità. Voi ed io, punto a capo andò in onda per venti puntate dalla casa romana dello scrittore. Il 25 ottobre 1976 Zavattini annunciò: “E adesso dirò una parola che finora alla radio non ha mai detto nessuno”. Dopo una lunga pausa di silenzio disse: “Cazzo…”. Zavattini spiazzò tutti, anche il regista, il giovane Beppe Grillo, che non era stato avvisato[11].
Nel 1979 contribuì alla fondazione dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, di cui fu presidente fino alla sua morte, e che così definì nel 1980: "... è un archivio più del presente che del passato"[senza fonte]. Nello stesso anno gli venne conferito il Premio Flaiano per la sceneggiatura per il complesso della produzione artistica. Nel 1982 diresse e interpretò, ormai ottantenne, il suo unico film da regista: La Veritàaaa. Nel dicembre 1985 ottenne la cittadinanza onoraria di Alatri.
La morte lo colse ancora attivo, ottantasettenne, a Roma, il 13 ottobre 1989.
Collezionista d'arte, si era specializzato nella raccolta di mini-quadri (quadre di dimensioni 8 x 10 cm.) ma anche nell'organizzazione di raccolte per altri: ad esempio la Collezione "50 pittori per Roma" promossa per il produttore Caramelli, o la Collezione "I Miti Moderni (o del Dopoguerra)" per Vittorio De Sica oppure, ancora, la Collezione "Isa Miranda".
Cesare Zavattini soggettista di fumetti
La carriera di Cesare Zavattini soggettista fumettistico inizia per caso. Raccontava lui stesso di quando nel 1936 lavorava come direttore editoriale della Disney Mondadori, e un giorno il collega Federico Pedrocchi gli chiese per quale motivo non avesse mai pensato di creare una storia. Lo stesso Pedrocchi si offrì di scriverla sotto dettatura. «Finii col mettere il piede sul tavolo e dettai la prima di queste storie»[12]. Zavattini dichiarò in un'intervista che in quel periodo non c'erano storie e lui, che di fantasia ne aveva, le inventava; se qualche suo collega aveva bisogno di idee, lui era più che contento di dargliele. Ma se si divertiva così tanto, come mai iniziò non firmando le sue opere? Sempre nella stessa intervista, disse: "... per pudore, discutibile, di letterato". Solo dopo molti anni e dietro pressione sia di Pedrocchi che di Mondadori si decise a firmare un racconto.
La carriera di Zavattini vanta tra l'altro la realizzazione di un ciclo dedicato a “Saturno” con la sceneggiatura di Pedrocchi e i disegni affidati a Giovanni Scolari. In questo primo lavoro fumettistico, l'autore si concentra sul genere fantascientifico, già esplorato dai modelli americani. L'episodio Saturno contro la Terra esce per la prima volta nel 1936 sulle pagine dei Tre porcellini, riedito l'anno seguente su Topolino; nelle successive puntate viene inserita la figura di Rebo, uno spietato dittatore di Saturno, pensando di farlo assomigliare a Flash Gordon (personaggio nato dall'ingegno di Alex Raymond), ma senza successo. Rebo, aiutato dal collega traditore Leducq, cerca di muovere guerra contro la Terra, ma si troverà alle prese con le invenzioni di Marcus e il suo assistente Ciro, due scienziati. Il personaggio di Rebo è stato citato da altri autori di fumetti.
Zavattini mostra la grande capacità di eludere i canoni «patriottici, eroici e romantici» del regime, nascondendosi dietro storie apparentemente rozze e manifestando al contempo uno spirito pacifista e un invito alla collaborazione dei popoli. Ma il suo impegno fumettistico non si limita alle guerre stellari con Saturno: crea soggetti per altre storie, sempre sceneggiate da Pedrocchi. Aeroporto Z, non scritto ma probabilmente ideato da lui, viene pubblicato su Topolino; qui i disegni sono affidati a Kurt Caesar, noto in Italia con il soprannome di Cesare Avai.
Nel 1937 per Zorro nella metropoli (16 puntate pubblicate tutte nel 1937) lo sceneggiatore è Guido Martina e l'illustrazione è affidata a Walter Molino; ad ospitare il fumetto sono le pagine di Paperino. Questo racconto è una critica dello sfruttamento del lavoro e dell'alienazione dominante nella vita delle grandi città. Pier Lorenzo De Vita illustra La primula rossa del Risorgimento edito nel 1938-39 sempre su Paperino; nei due episodi La compagnia dei sette pubblicati in Almanacco di Topolino nel 1938, Zavattini chiama i vari personaggi con i nomi dei suoi figli. Nel 1947 Zavattini per la prima volta firma uno dei suoi lavori: il fantascientifico Un uomo contro il mondo, sceneggiato da Mario Gentilini (direttore della rivista Topolino), disegnato da Giovanni Scolari.
L'ultimo lavoro fumettistico di Zavattini 1949 è La grande avventura di Marco Za (Marco è il nome di uno dei figli di Zavattini), disegnato ancora da De Vita, nel quale viene narrata l'epopea della liberazione di Roma da parte degli alleati. Questi fumetti furono tradotti in inglese nel tentativo di conquistare il mercato anglosassone. Umberto Mauri, cognato di Valentino Bompiani, intraprese questa coraggiosa strada per diffondere le avventure di Saturn against the earth. Mauri nel 1930 aveva fondato la Helicon, una società che impegnandosi ad importare libri e fumetti stranieri in Italia, anticipò un fenomeno che si realizzerà poi completamente negli anni sessanta con i Disney italiani. Un bombardamento nel 1944 rase al suolo la sede dell'Helicon impedendo il buon fine prefissato da Mauri, lasciando un velo di rimpianto in Zavattini che, se non «fosse accaduto», si sarebbe trovato a confrontarsi con una realtà editoriale diversa.
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Totò e... Cesare Zavattini - Le opere, le collaborazioni
San Giovanni decollato (1940)
L'oro di Napoli (1954)
Totò: i premi i riconoscimenti
Titina De Filippo, l'amica e la compagna di lavoro
Perché mai proprio la bombetta?
Appena a conoscenza del latto che Cesare Zavattini, lasciato l'albergo nel quale alloggiava s'era trovata una abitazione in Roma, siamo andati alla ricerca dell’autore di «Parliamo tanto di me» per indurlo appunto a parlare moltissimo di sè e dei suoi progetti.
— Un uomo che abita in un albergo è sempre più o meno « di passaggio », — abbiamo detto. — Il fatto che tu abbia cercato un alloggio più stabile lascia pensare che la tua intenzione è quella di fissarti a Roma. E' cosi?
— Esattamente. — Ha confermato Zavattini. — A Roma c’è molto lavoro e ce ne sarà sempre di più visto che rindu8tria cinematografica è decisamente entrata nella sua fase ascensionale. Sono sicuro che questo è il momento migliore per chi ha qualcosa di bugno da dire o da fare nel fertile campo del cinema.
hai già dimostrato d’avere molto di nuovo da dire, — abbiamo osservato. — E non da oggi. Zavattini ha sorriso.
— Ecco, — ha detto, — sono lieto di constatare che finalmente i produttori hanno cominciato a capire l’opportunità di servirsi dell’umorismo italiano. (Ma di servirsene con misura, come ha già dotto « Film » tre settimane fa). Questo coso io lo ho sostenute da anni, o i fatti mi hanno dato ragione. Ma in questo campo siamo appena agli inizi.
— Quello che c’interessa conoscere ora sono i tuoi progetti, lo tue intenzioni — abbiamo detto. Zavattini ci ha guardato un po' in tralice.
— Mi si attribuiscono mollissime intenzioni. — ha detto. — Intenzioni che in parte ho o in gran parte non mi sogno d'avere...
— Non potresti esprimerti in un linguaggio meno diplomatico? Si dice che tu voglia...
— Appunto. — Zavattini ci ha interrotto rapidamente. — Si dicono molte cose sul conto mio. Si dico che io ho guadagnato somme favoloso vendendo soggetti. Si dice anche che io sono pigro, ma questo non è vero. Se mi alzo tardi, è solo perchè vado a letto tardissimo, e vado a letto tardissimo perchè lavoro molto.
— Sarebbe indiscreto chiederti a che cosa lavori? Si parla con una corta insistenza di un tuo film che...
Por la seconda volta Zavattini ci ha interrotto sviando il discorso; evidentemente egli non desiderava parlare del suo lavoro. Perchè poi? Glielo abbiamo chiesto.
— Oggi come oggi non posso dire nulla, anzi, preferisco non dire nulla: ogni indiscrezione potrebbe nuocere al piano che sto elaborando e che non è ancora perfettamente a punto. Effettivamente, ho delle intenzioni molto serio e dei progetti d'una certa importanza, non solo dal lato artistico ma anello da quello commerciale. Ma è prematuro parlarne.
— Abbiamo capito: tu stai preparando una di quelle sorprese...
— Non esageriamo, — ha osservato con molta calma Zavattini. — Quello che è certo è che lo sto lavorando con molta passione anche se può sembrare, dalle apparenze, il contrario. Ma c'è una cosa della quale bisogna tener conto per seguire il mio programma: io non ho fretta. Tra le virtù quella che più mi è familiare è la pazienza, ma una pazienza, intendiamoci, positiva, oculata, attiva. La fretta guasta molte delle migliori iniziative, e ne abbiamo esempi quotidiani, specialmente nel campo del cinema. Per questo io non mi agito, non mi lascio prendere dalla febbre e dall'impazienza di concludere. Non solo, ma dirò di più, io non mi faccio nemmeno vedere. E credo che questo sia ancora il sistema migliore per lavorare in pace e produrre meglio.
Guardiamo Zavattini che, sotto l'apparente placidità, nasconde un fuoco di idee e di iniziative. Il suo tavolo ingombro di libri, di foglietti sui quali pochi appunti tracciati in fretta hanno fermato delle idee, dei pensieri, dei temi e dei progetti. Appeso al muro un foglio sul quale sono tracciate delle righe attira la nostra attenzione. E’ una sorta di scadenzario degli impegni che Zavattini ha verso giornali e riviste a cui collabora. «Non ha fretta ed è ordinato», ci vien fatto di pensare, un piccolo ma importante ammonimento per quanti lavorano, oggi, per il cinema.
Vitt., «Film», 6 aprile 1940
Scrittore, giornalista, sceneggiatore, collezionista, pittore e ora anche regista, Zavattini è uno degli uomini più occupati d'Italia. Eppure il lavoro segretamente lo atterrisce: «Mi creo mille scuse ingegnose per rimandarlo, perdo ore ed ore facendo cose inutili, sempre sperando che una telefonata o una visita vengano a liberarmi».
Roma, febbraio
Raffaele Corsini regalò all’amico Zavattini un Campigli delle stesse dimensioni di un fazzoletto da signora. Zavattini lo appese nello studio, sopra il divano, ma era così piccolo che non si notava: «Ci vorrebbe un pendat» pensò Zavattini. Adesso, nel suo studio, vi sono 937 quadretti grandi come fazzolettini di seta. Ma se andate a trovare il proprietario, fate conto di non vederli. Il collezionismo è un’occulta malattia che dà gioie e dolori e Zavattini nutre per la sua curiosa raccolta un orgoglio misto ad un senso d’angoscia: è uno stato d’animo simile a quello dell’«apprenti sorcier» della favola, quando l’acqua evocata magicamente cominciava ad inondare la torre del mago.
La personalità di Zavattini sta lottando contro l’invadenza dei quadretti, che hanno già coperto le quattro pareti dello studio e straripano nelle altra stanze. Perciò, se gliene parlate, si arrabbia: «Basta con questa storia; se mi fanno una fotografia, la vogliono con, sfondo di quadretti, se mi fanno un regalo, mi regalano un quadretto, e se si fa il mio nome, c'è sempre qualcuno che porta il discorso sui miei quadretti. Vuole scommettere che anche lei ne parlerà nell’articolo?».
Un cimitero di carte
Cesare Zavattini è di temperamento nervoso. Quando discorre va su a giù per la stanza gesticolando e, se si siede, alterna di continuo la posizione normale con quella a cavalcioni della sedia. Occorre essere molto agili per seguire il suo discorso. Parla a precipizio, ma il suo pensiero è ancora più rapido ed egli non riesce mai a raggiungerlo. Allora si aiuta con fischiatine, violenti colpi di tacco sul pavimento, termini di uso facile e riassuntivo come vattelapesca, il coso, fregarsene, cosare. Gli si chiede, per esempio: «Quale dei suoi libri preferisce e perchè?». «Uno che non ho scritto, dal titolo Libro degli Italiani. E il libro che ho cosato di più». Quasi tutti i libri di Zavattini non sono stati scritti, come Diario Colorato. Lettera del 1943 e altri che da anni riposano nel suo cervello, in attesa di essere messi su carta. E probabile che attendano ancora molto perchè, dice l’autore, «sembra destino, quando mi metto al tavolo deciso a cominciare, la penna è sempre rotta; anzi, molte vòlte non riesco nemmeno a trovarla». Per dimostrare la sua avversa sorte, fa un balzo alla scrivania ed estrae, da un cimitero di carte e oggetti vari, matite spuntate e stilografiche antichissime senza pennino, che brandisce con esclamazioni indignate. In realtà poi, questo handicap lo rende molto felice, perchè Zavattini, che è, oltre che scrittore, soggettista, sceneggiatore, collezionista e pittore, è tuttavia un uomo pigro. Il lavoro lo atterrisce, ma ha bisogno di una giustificazione morale per sottrarvisi: «Mi creo mille scuse ingegnose per rimandarlo, perdo ore e ore facendo cose inutili, sempre sperando che una telefonata o una visita vengano a liberarmi. Se proprio non c’è scampo, allora mi butto come un matto a scrivere, con la voglia di finire presto». In questo modo sono nati i libri Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Totò il Buono e L’ipocrita 1950 che uscirà presto. Inoltre una trentina di film di successo, di cui egli è stato soggettista, sceneggiatore o le due cose insieme. Tra i più noti: Darò un milione, Una famiglia impossibile. Quattro passi tra le nuvole, Teresa Venerdì, I bambini ci guardano, Ladri di biciclette. Avanti c'è posto, Silenzio si gira, Sciuscià, Vangelo e il diavolo, Lo sconosciuto di San Marino.
Pur indolente di natura, è. come si vede, persona indaffaratissima. Se gli chiedete un appuntamento, comincia ad estrarre da cento tasche librettini, foglietti, agende, dai quali risulta che, per almeno una settimana, non ha un quarto d’ora disponibile. Tuttavia vi riceverà nel giorno stesso, e vi tratterrà molte ore: «Tanto, dice, qualche impegno l'ho di certo dimenticato. Faccio conto di averti, dimenticati tutti». E aggiunge: «Per un uomo come me, che non ha voglia di lavorare ed ha tanto da fare, non c’è che una salvezza: la distrazione».
Cesare Zavattini ha 47 anni e quattro figli È nato a Suzzara. sul Po: «un paese nebbioso e freddo, dove alle volte d si sente come annegati». In paesi come questi fioriscono le leggende, perchè gli uomini sono portati a creare con l'immaginazione quel che la natura gli nega. A sentire Zavattini raccontare la sua infanzia, sembra di ascoltare una bella favola di Natale, ornata di comete, carte di cioccolatini, fuochi artificiali e cascate di chantilly: «Eravamo molto poveri, ma io ho sempre vissuto tra cose meravigliose. Mio padre era un oste pasticciere, faceva delle spume bianche, poi vi versava una polverina e diventavano rosse, verdi, di tutti i colori. Poi i confetti d'argento, la carta trinata, tutto m’incantava. Su una finestra avevamo il caprifoglio ed io ero convinto di possedere un tesoro. Si coglievano i pistilli e si succhiavano, pensavo che se un giorno fossimo caduti in miseria, avremmo potuto venderne e diventare ricchissimi Ricordo come fosse adesso la cometa del 1908 con sagome nere delle persone come ombre misteriose contro l’immensa coda splendente; e quando ho visto per la prima volta i fuochi artificiali, a due anni cavalcioni sulle spalle del nonno! A tre anni imparai la paura, nel letto avevano messo il prete, quell’arnese per scaldare le lenzuola. Lo presi per un uomo e mi misi a urlare di spavento. So bene che sono emozioni comuni a tutti i bambini ma, per me, sono entrate a far parte del mio tessuto connettivo».
L'incontro con De Sica
Da giovane andò a Parma come istitutore in un collegio e poi a Firenze. Anni di miseria, di pasti saltati di mestieri umili come il cameriere e l’oste, finché cominciò una collaborazione sul Travaso. Da allora, molta strada ha fatto Zavattini ma nel suo animo è rimasto intatto il fantastico mondo infantile costruito sulla miseria.
I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre i poveri e sovente nei suoi racconti accadono fatti straordinari e miracolosi. Si capisce perchè i suoi libri e i suoi film abbiano spesso un contenuto sodale. Del cinema dice: «È una cosa meravigliosa che diventa sempre più importante. Ma è tutto pieno di grossi equivoci. I più lo considerano uno spettacolo, e invece dev’essere un mezzo di civiltà.
È come se, una volta inventata la ruota, gli uomini se ne fossero serviti soltanto per farla correre al giardini pubblici Siamo nell’era dell’utilità, signori. Bisogna guardare alla realtà, la realtà è bella. Bello non è vedere una bella donna con un bel vestito che va ad una bella festa. Bello è quel che si scopre della vita degli altri, pedinare un uomo minuto per minuto, renderlo interessante come il cow boy della prateria. Noi ce ne freghiamo degli altri, perchè non li conosciamo. Dicono: basta col realismo, bisogna cambiare. Macché cambiare e cambiare, la lealtà è vasta come il mondo e noi ne abbiamo scoperto solo cento metri quadrati E la miseria è così varia, che ce n’è per tutti».
Queste teorie Zavattini le ha in comune con l’amico e collaboratore De Sica. Quest’amicizia dura da quindici anni e cominciò in modo curioso. Racconta Zavattini: «Fu a Verona, si girava il film. Darò un milione, di cui io avevo scritto il soggetto, interpretato da De Sica. Naturalmente ci conoscevamo già di nome, ma non ancora personalmente. Quando sono entrato nello stabilimento. De Sica mi è venuto incontro, e d siamo stretti la mano. Poi abbiamo fatto un sincronico salto: con gran fracasso, era crollato un grosso lampadario vicino a noi. Ci siamo sentiti subito amici».
Adesso però Zavattini pensa di fare un film tutto da solo, tentando anche la regìa. Un film sul suicidio. Il soggetto non è allegro, ma quasi tutte le storie di Zavattini sono tristi, piene di un malinconico umorismo. Dice: «È strano, io sono allegro di natura, trovo che la vita è bella, è letizia, e poi faccio storie tremende. Non so spiegarlo, c’è tutto un misto in me». Ci pensa un po’, poi aggiunge: «C’è un vattelapesca».
Laura Bergagna, «Tempo», anno XII, n.6, 18 febbraio 1950
«Noi donne»,16 aprile 1950 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
«L'Avvenire d'Italia», 27 febbraio 1951 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
E' curioso: coloro che si sono accorti soltanto pochi minuti fa che Sciuscià e Ladri di biciclette sono due capolavori, ora si spellano le mani per applaudire Miracolo a Milano. Quando De Sica ci darà un altro bel film, solo allora forse si accorgeranno che Miracolo a Milano è uno sbaglio, sia pure commesso in buona fede e da un autentico artista. La verità è che De Sica ha creduto troppo a Zavattini, al mondo dì Zavattini, agli eroi-del-corpo-sei, ai poveri-che-sono-matti, all’io-so-no-il diavolo., Miracolo a Milano è il campionario dei difetti di Zavattini : uno strano miscuglio, prima di tutto, di cronaca, favola, moralità e persino farsa e simbolismo e, sotto sotto, la polemica col cuore in mano contro la società che è fatta cori e non colà. Ma una polemica sui generis che accontenta comunisti e anti : con i poveri che appena possono si fanno più avidi dei ricchi e i ricchi che tengono un servo appeso alla finestra a fare da termometro e due vacche in casa per avere sempre il latte.
Zavattini è sempre stato tirato per i capelli dalla realtà e per i piedi dalle favole, ma in genere aveva saputo bilanciare le sue due passioni o sfogarle in modo che non si danneggiassero a vicenda e aveva mostrato di capire che certe invenzioni vive sulla carta non lo sono altrettanto sulla pellicola. In Miracolo a Milano invece (e cioè in Totò il buono, il racconto usato come soggetto) la favola, il surrealismo — o l’irrealismo — più sfrenato e arbitrario cerca, senza riuscirci mai, di incastrarsi nella realtà più precisa: la storiella di Totò, il ragazzo nato sotto il cavolo (perche? solo perchè si usa nelle favole?), buono, buonissimo per non si sa quale misteriosa ragione, che bisogno c'era di ambientarla fra i «barboni» alla periferia di Milano? Questo scompenso fra i riferimenti a una realtà sociale e a un ambiente precisissimo e le invenzioni più strampalate (e inutili: perchè mai quell’insistenza sulle moltiplicazioni ? Forse Zavattini ha una segreta simpatia per i ragionieri? o vuole fare concorrenza a Rascel?) si trascina dalla prima all’ultima inquadratura falsando tutto il tono del film. Il quale, poi, è una specie di antologia dell'umorismo degli ultimi quindici anni, da Campanile a Mosca (i «barboni» che pagano una lira per sedersi a guardare il tramonto... avete mai visto un tramonto?.. una volta, signore...), a Mondaini, Steno, Metz ecc.
E ambisce inoltre a essere clairiano (soprattutto nella seconda parte) e chapliniano, ma lo è alla lontana, sbiadito come una copia non riuscita. Il regista Vittorio De Sica ha subito lo sfogo del suo soggettista e sceneggiatore, convinto forse che le bizzarrie zavattiniane fossero poesia; ha creduto, ripetiamo, certamente in buona fede, che l’illogicità bastasse a creare la fiaba. Non v’è in Miracolo a Milano un solo personaggio o una sola situazione logica, psicologicamente definita : tutto procede per subitanee invenzioni, come in un avanspettacolo improvvisato (con dei lunghi «siparetti»), invenzioni che non riescono a sanificare dò che Zavattini avrebbe voluto. Ma che avrebbe voluto dire? Totò salva un giovanotta che vuole suicidarsi convincendolo che dopo tutto la vita è bella e olla fine invece vola via verso un paese dove «buongiorno vuol dire veramente buongiorno» (queste, poi, sono astruserie, cavilli), riconoscendo cosi che la vita è tutt’altro che bella. E allora? O ha ragione l'Unità quando scrive che Miracolo a Milano è un episodio della lotti di classe? Ma è più probabile che non voglia dire assolutamente niente. De Sica ha peccato di debolezza, ma è troppo artista per ricadere in un errore del genere: lo sperano, anzi ne sono sicuri tutti coloro cui sta a cuore il cinema italiano. De Sica resti ancorato alla «sua» realtà, quella di Sciuscià e di Ladri di biciclette e continuerà ad essere uno dei più importanti registi dei nostri anni.
Lamberto Sechi, «Settimana Incom Illustrata», 17 febbraio 1951
«L'Unità», 17 aprile 1951 - Cesare Zavattini e Vittorio De Sica
Voi sapete che il film di De Santis « Roma, ore 11 » nasce da un fatto di cronaca veramente accaduto. De Santis e noi suoi collaboratori pensammo che bisognava raccontare quel fatto così come si era svolto in quella mattinata romana del 1950. Tutte le volte che questa realtà abbiamo dovuto contaminare ci è sembrato di commettere un tradimento verso il nostro prossimo.

Vedemmo arrivare nel luogo da noi prescelto in via Po la prima, poi la seconda, poi dieci, venti, quaranta ragazze. Vedemmo la prima giungere piena di ansia, vedemmo quella che non aveva il coraggio di entrare e quella che dopo la prova uscì piangendo, addirittura scappo via, e nessuno osò fermarla; vedemmo quella che tremava come una foglia prima di cominciare la prova; quella che diceva che suo padre era un modesto falegname che non poteva più lavorare a causa di una malattia e che lei cercava invano da mesi lavoro; poi quella diffidente poiché le avevano fatto delle proposte oscene pochi giorni prima in un altro ufficio.
Ciascuna aveva una storia e una protesta taciuta o espressa. Venivano dai quartieri popolari di tutta Roma; alcune avevano fretta per correre a fare la prova in un’altra parte della città e avevano in mano il giornale con gli indirizzi sottolineati nella quarta pagina.
Noi uscimmo da quell’esperimento con la convinzione che gli uomini del cinema, coloro che hanno nelle mani questo mezzo per comunicare, il più potente che esista oggi nel mondo, non dovrebbero che raccontare, con modestia, con umiltà, e con il coraggio necessario, questi fatti togliendoli dall’empireo del romanzo affinché siano di fronte a noi con le domande di quella nuova, profonda solidarietà che essi contengono.
Cesare Zavattini, «Epoca», anno III, n. 78, 5 aprile 1952
Recensione del film "Miracolo a Milano"
È vero che i nostri più illustri registi si sono dati in questo momento ai santi o alle favole o agli apologhi; questo non deve ingannare nessuno. Sono brevi vacanze. Sarebbe doloroso che essi rinunciassero alla primogenitura per qualche bel film. Il problema non è più quello del bel film e neppure quello del capolavoro, ma si tratta di continuare il discorso cominciato sùbito dopo la guerra. Tengano fede alle illuminazioni che ha loro dato la guerra, e il cinema italiano contribuirà davvero a fard vedere la 'reale durata’ del dolore dell'uomo e della sua presenza nel giorno, non un uomo metafisico, ma l’uomo che incontriamo all’angolo della nostra strada, per cui a questa reale durata dovrà corrispondere un reale apporto alla nostra solidarietà ». Cosi Cesare Zavattini concludeva, or non è molto, la prefazione ad una antologia sul film italiano; e forse, quella prefazione, non era altro che un premessa a Miracolo a Milano, quasi un voler mettere le mani avanti e giustificare l’opera in un ben determinato piano: e rispetto alla filmografia di De Sica, e nett'ambito del nostro cinema del dopoguerra. Zavattini e De Sica si sono, in fatti, dati ai miracoli, alla favola, all'apologo e, in un certo senso, anche ai santi. Ma non in questo risiede il motivo che li ha purtroppo portati all’inizio di una involuzione che viene ad accoppiarsi a quella ben più grave di Rossellini (ed è sintomatico che l’una segua, a breve scadenza, l’altra). La favola non esclude mai, anche se molti cosi vorreb bero, una morale : non elimina la possibilità, in altre parole, di « continuare un discorso cominciato », di tener fede alle 'illuminazioni' che, ad esempio, ha da*o la guerra. "Fabula docet”, da Esopo a La Fontaine. E « Les fables ne sont pas ce qu'elles semblent ètre; le plus simple animai nous y tient lieu de maitre » (i). contengono cioè elementi allegorici, ci costringono a guardare ad occhi aperti entro noi stessi. In fine, ogni prodotto della fantasia, anche il metafisico e il sogno, ha relazioni e rapporti più o meno diretti con la realtà. Le testimonianze, in proposito, sono numerose (2). E una 'morale' ha, e non potrebbe essere altrimenti, anche Miracolo a Milano : film che intanto comincia con l'avere, nel titolo (e non soltanto nel titolo), un preciso riferimento geografico (una allegoria in meno rispetto al romanzo: « Bamba era una città di migliaia e migliaia di abitanti... I palazzi del centro erano molto alti e costruiti con marmo prezioso... »), e dove i personaggi parlano un dialetto ben definibile, e ad un certo punto appaiono anche due carabinieri in alta uniforme. Ora si tratta di vedere di quale natura sia questa 'morale', se accettabile, cioè valida, o non piuttosto più o meno equivoca, negativa. In Miracolo a Milano c’è pure una solidarietà, e anche in questo caso occorre vedere in quale ambito essa si muova, in quale direzione si estenda, e si estendano, implicitamente, le allegorie: quali siano, in altre parole, i risultati cui pervengono Zavattini e De Sica con questa favola che Flora ha definito 'neorealistica'.
Vittorio De Sica non è giunto a Ladri di biciclette in virtù di un miracolo, ma per gradi, dopo elaborazioni e progressive esperienze. Già nel 1929, quando era ancora interprete piccolo-borghese nei film di Camerini, De Sica dichiarava di « volersi liberare, una volta per sempre, dal ruolo di buon ragazzo, un po’ svagato, generoso e sentimentale, per affrontare qualcosa di più profondo» (3). Da quella dichiarazione, e dallo studio di una realtà umana, nascono prima Teresa Venerdì e Un garibaldino al convento, poi I bambini ci guardano, Sciuscià e in fine Ladri di biciclette. Con quest’ultimo film, per la prima volta nella storia del cinema italiano, un operaio assurge al ruolo di protagonista : un operaio reale, intendiamo dire, che vive, con la famiglia (la moglie e due figli) nella problematica di un certo nostro proletariato ancora chiuso nel dramma individuale, con una coscienza sociale vagamente romantica. E il dramma si svolge all’interno di pochi personaggi, si sviluppa sopra tutto nell’ambito dei rapporti tra padre e figlio maggiore, il piccolo Bruno, che intuisce e comprende il dolore che è più grande di lui (già su un altro piano, più avanzato, si trova il ’Ntoni di Visconti in La terra trema, episodio del mare). E Ladri di biciclette si chiude con l’attacchino Antonio e Bruno presi alle, spalle, proprio come i personaggi del Chaplin-Charlot (non del Chaplin-Verdoux). Un’ulteriore analisi della realtà, da parie di Zavattini e De Sica, presupponeva dunque un avanzamento, una continuazione, iu un certo senso, della storia di Antonio e di Bruno. In Miracolo a Milano tale avanzamento non si verifica; si verifica, invece, un ritorno indietro, o, in alcuni punti, a certe posizioni piccolo-borghesi, ad atmosfere, tanto per intenderci, di II signor Max. « Per capire veramente il significato di questa notizia (l’operaio derubato) bisogna ». scriveva Zavattini, « che vi sforziate ad essere Antonio. Non è facile. Bisogna tra l’altro fare un buco nel soffitto, perché nella casa di Antonio, proprio sul tetto, quando piove, vengono giù delle gocce... Ammetto che c’è chi sta peggio del nostro Antonio, c’è chi non ha la bicicletta. Ma Antonio ce l’ba e il suo dramma nasce infatti perché ce l’ha. Ci auguriamo », concludeva ironicamente Zavattini, « che gli spettatori benestanti non arrivino alla conclusione che gli operai starebbero meglio se non avessero la bicicletta » (4) : gli operai certo no, ma i ‘poveri’ di Miracolo a Milano si: quest'ultimi, pur non avendo la bicicletta, a guardar bene e in un determinato senso, stanno meglio di Antonio, e contrariamente ad Antonio avranno un 'lieto fine’: la mancanza della bicicletta, intesa come strumento di lavoro, non determina il dramma, per il semplice fatto che essi non lavorano, né intendono lavorare. Il fondamentale errore di Miracolo a Milano, e dal quale derivano tutti gli altri, consiste in una errata generalizzazione e tipizzazione: neH’avere appunto chiamato e presi per poveri ’tout-court’ non i poveri, ma se mai una ben determinata categoria di questi: senza peraltro avvertirne comunque lo spettatore, magari con una semplice didascalia iniziale: e, si badi bene, nel film non si parla neppure di 'barboni’. Il dramma di Antonio e di Bruno è un dramma di lotta per l’esistenza di fronte alla disoccupazione, che vuol dire fame. Con Miracolo a Milano tale lotta non viene più intesa come necessità e diritto al lavoro; in fatti, ed ecco l'accezione in cui vengono intesi da Zavattini e De Sica i poveri, i personaggi-coro del film sono dei derelitti, uomini rassegnati ad una grama esistenza e senza problemi se non quello di continuare a vivere come tali, da accattoni, da vagabondi. Il loro inno, in proposito è significativo: « Ci basta una capanna per vivere e dormir - Ci basta un po' di terta per viver e morir - Chiediamo un paio di scarpe, le calze e un po’ di pan - A queste condizioni crederemo nel doman ». Come si vede, non siamo neppure nel clima di I poveri sono matti. I poveri, cui Zavattini vuole insegnare « un gioco molto bello », in quel libro, lavorano: Bat, Sue, Evans, Tom, Matter vanno in ufficio, Paolo « pu lisce i vetri »; sono al servizio di Dod, credono magari nel domani per poter dare uno schiaffo a chi li sfrutta, per vedere Dod con gli occhi bassi davanti a loro; sono persone male retribuite e che soffrono, che hanno debiti e debbono chiedere nuovi prestiti; e Bat « vorrebbe sapere quando è incominciato il male ». I poveri di Zavattini e De Sica sono invece di natura analoga a quelli che Ford ha preso, falsificandoli, dalla 'via del tabacco' : a Jeeter, ad esempio, presentato come un indifferente di là dai limiti concessi nel romanzo di Caldwell, come un pigro, un inguaribile svogliato che rimanda tutto e sempre al domani, che cerca una giustificazione alla sua inoperosità: che adduce, cioè, il pretesto di non aver denaro e mezzi adeguati per lavorare la terra. Andrà all’ospizio, per sua colpa: l'inno di Miracolo a Milano (e Jeeter vive in una baracca) gli si addice. Ci sono si, tra i poveri di Zavattini e De Sica, uno che aggiusta gli ombrelli, e un vecchietto che vende i palloncini; ma gli altri? Gli altri si affannano per essere reclutati da un tale che offre loro cento lire a patto che dicano, durante 1’ accattonaggio, al passante caritatevole: "Dio ve ne renda merito. Il cioccolato Fano è il migliore”. E Giuseppe, di 'professione Giuseppe’, predice ai clienti sempre il medesimo avvenire: "Che profilo! Che sguardo! Lei chissà cosa diventerà. Non finisce, non finisce qui. Chissà chi era suo padre, cento lire. Avanti un altro”: e riscuote le uniche cento lire che il malcapitato baracchese ha nel 'portafoglio'. Non manca chi si vuole uccidìere, chi tenta il suicidio come Arturo: "Ma perché, perché volevi farlo?", gli chiede Totò. E Arturo: "Mi annoio” - "Ma no, la vita è bella. Lallarallà. Prova”. Ben diversi sono oggi i problemi, e le ragioni del suicidio. Basta leggere i giornali.
E’ evidente che altra è la tipizzazione dei poveri, i quali inoltre non sono tutti, o quasi, come in Miracolo a Milano, dei ricchi mancanti. I baracchesi, essendo ella natura accennata, quando Totò ha in mano la colomba, non chiedono un posto, una occupazione, un 'mestiere', una giustizia umana, ma una pelliccia, la 'toilette', il frac, il divano di raso. E vero: c’è chi domanda una valigia, una birra, un armadio, una coperta, una macchina da cucire; c’è il nano che invoca il miracolo di diventare alto (quel nano umanamente presentato: "Darei un occhio", dice a Totò, "un occhio darei per essere alto come te”); e ci sono il balbuziente che chiede la parola (la quale gli servirà però per l’accattonaggio) e il negro la pelle bianca, e l’innamorata infelice la pelle nera (e queste due ultime figure, la natura dei loro desideri, documentano il conformismo razziale di tutta una 'civiltà': una documentazione alla quale, peraltro, Zavattini e De Sica non dànno un accento critico). Ma quando i baracchesi credono di ravvisare in Totò un angelo, o un santo, o "qualcosa di più" ("E' un angelo", dice uno dei diseredati. "No, un santo”, risponde un altro. "Di più, di più”, aggiunge una donna), allora cominciano a domandare prima mille lire, e poi un milione, un miliardo, un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi, e la cifra aumenta, giunge fin dove arrivano le loro possibilità fisiche e matematiche, e quando queste possibilità vengono meno, l’atleta aggiunge: "più uno”. Ben altra è la gara, cui tuttavia questa si riallaccia, in Parliamo tanto di me (la "Gara Mondiale di Matematica"). E ognuno di noi spera, mettiamo, in una eredità magari improvvisa, in un colpo di fortuna, in un tredici al totacalcio; ma questo non toglie che i problemi della nostra vita, della nostra esistenza, siano altri : di trovare, ad esempio, se disoccupati, una occupazione, un lavoro, magari uno stipendio da statale. La differenza, tra poveri e ricchi, è in realtà di ben altro genere e lo ammette in un certo senso lo stesso Zavattini in Totò il buono : « Una volta per sempre vi dirò che l’uomo non va diviso come al solito nelle due categorie: povero e ricco - bensì' buono e cattivo. Ciò non toglie che i ricchi abbiano il dovere di non approfittare troppo_di_questa distibzione ». E del resto, in un certo senso, tutto il romanzo di Zavattini è più avanzato, nelle concezioni e nella verità, del film stesso, e in parte dello stesso soggetto che lo scrittore aveva steso, con la collaborazione di Antonio de Curtis, nel 1940 (5).
I baracchesi di Totò il buono, come Bat, Sue, Evans, Tom, Matter e Paolo di I poveri sono matti, lavorano; e Zavattini si preoccupa di sottolineare la cosa : « Campava d aria questa gente, direte? I nostri quattro amici continuavano a costruire statuette di gesso e gli altri lavoravano in città, facchini o strilloni, o pulitori di pavimento o di vetro. Geo faceva lo zucchero filato e Semp il venditore ambulante. Tutti lavoravano insomma e tutti mangiavano, poco ma mangiavano ». Ecco perché, tra l’altro, la sequenza della lotteria, e del vecchio che mangia il pollo ("Primo premio un pollo. Vero”, grida Totò) assume un oismo ("Dammene bestiale e oltranzistico un tochèto", chiede Gaetano. - "No!") escluso dalla pagina (« Una volta al mese uno di loro, per estrazione a sorte, mangiava il pollo e gli altri lo guardavano. Questo avveniva in una specie di teatrino, costruito da Totò »). E molto più 'morale’ Consono, Brunella Bovo e Vittorio De Sica, è, in sostanza, come vedremo, il libro rispetto al film: e quindi nel primo più giustificate appaiono alcune allegorie, alcune parti satiriche e polemiche. In Miracolo a Milano, certi riferimenti diretti, vigorosi e validi in se stessi, vengono poi a perdere gran parte del loro valore se messi, come vanno messi, in relazione ad altri elementi e fattori. Si veda il personaggio del ricco cattivo e senza scrupoli, di Mobbi, magnificamente tipizzato; si vedano il servo-ragioniere e quella polizia che lavora e opera con il ricco e a favore di quest’ultimo. La condanna, da parte degli autori, è in proposito evidente, e sono evidenti le allegorie. Ma tale condanna, involontariamente o no, si sviluppa soltanto su una certa direzione, parziaimente : sul piano, ad esempio, di una violenza impiegata in nome di una discutibile legalità (lo sfratto in se stesso), la quale non esclude, tra l’altro, la schiavitù feudale, primitiva (cfr. l'uomo-barometro : "Giovanni, umidità?” - "Tramontana" - "Portami la pelliccia”), il fenomeno dell’accaparramento (cfr. le L’ottimo Barnabó nella pane del ricco Mobbit. mucche nascoste dietro le pareti di quell' ampio salone con sintomatica statua ("Il latte è un alimento completo... in caso di guerra... bisogna essere previdenti”). E non a caso Mobbi telefona "comprate” nel momento stesso in cui sente il rumore delle prime autoblinde che lasciano il cortile del palazzo, e ad altri analoghi rumori licenzia gli esponenti dell’accampamento. Non a caso in fine Mobbi assume personalmente il comando della polizia, lancia per primo la bomba lacrimogena, dà dell'imbecille al comandante in prima il quale, dopo aver contato sino a dieci, il tempo concesso ai baracchesi per la resa, si rivolge esitante al 'padrone'. (« E’ naturale », risponde Mobbi, e; aggiunge : « Imbecille »). Tutte queste cose, questi particolari, queste situazioni e personaggi significativi, sono anche sottolineati, nelle loro simboliche prese di posizione, da musiche altrettanto simboliche. Ma, tali prese di posizione vengono per lo meno in gran parte eliminate se messe in relazione, appunto, alla natura particolare dei baracchesi. Quando Zavattini e De Sica fanno dire a Mobbi, rivolto al comandante in prima, (il quale peraltro piange non per pietà, ma perché il fumo delle bombe gli è andato negli occhi), « E lei non pianga, scusi. E’ gente che non merita alcuna pietà », implicitamente dànno ragione, in un certo senso, a Mobbi stesso. Quelle di Mobbi sono, senza dubbio e in ogni caso, paròle inumane: ma in parte 'giuste' se riferite, come lo sono, a vagabondi, a poveri di tale genere. Come è inumano, ma giusto, che Jeeter se ne vada all’ospizio. Rimane se mai da prendere in esame e da condannare la società che ha determinato il cosi detto sotto proletariato.
E non sembra giusto (giusto in senso di giustizia) il finale di Miracolo a Milano, quel volare, a cavallo delle scope, di tutti i baracchesi: fuorché Arturo, il mancato suicida, evaso in città con la statua vivente (e cantando, questa volta con convinzione, "Lallarallà", come se "la vita bella" consistesse nell’andare in città, e l’antidoto alla noia nella lussuria); e fuorché Rappi, il traditore: altro personaggio, come quelli 4i Mobbi e del ragioniere-servo singolarmente tipizzato (Rapdila". E i due angeli-atleti (simboli non molto chiari tra tanti altri) rincorrono Lolotta, la strappano a Totò, portano via più volte a quest’ultimo la colomba, si fermano di fronte al vigile-semaforo (contrariamente a Lolotta stessa); in fine la macchina li inquadra mentre corrono al tempo stesso dei ’mobbisti' che, sempre nella medesima inquadratura, vediamo poi entrare in campo dalla parte opposta. C’è qualcosa di analogo, anche nella 'divisa’, tra quest’ultimi e i due angeli. Esistono, quindi, diverse contraddizioni; e in fine non si può ravvisare, nella colomba, quella di Picasso: la quale a ben altro serve e intende servire. I simboli sono molto più chiari e coerenti, nel loro valore normativo, nella prima parte del film, senza dubbio la migliore e che più si avvicina al 'tono' di Ladri di biciclette.
Totò « non era mai, veramente mai, andato al di là della sua strada corta e scura, credeva che allo svolto finisse il mondo ». E il suo stupore è 'immenso', automaticamente gli giungono le parole del becchino; "Bambino, andiamo"; solitario dietro al carro, vede ad un tratto accanto a sé un uomo piangente, e non si rende neppure ragione che si tratta di un ladro inseguito da due guardie. Lo stupore di Totò è immenso anche quando esce dall’orfanotrofio, e dice a tutti buon giorno, aiuta gli operai, chiede lavoro, applaude l’uscita dei signori dalla Scala, regala ad Alfredo la valigetta che questi gli aveva rubato. Poi pi, più degli altri baracchesi, è un ricco mancato: con invidia, morbosamente anela alla ricchezza. A Totò, che lo invita a riscaldarsi ai raggi del sole, risponde: « Non ho freddo. Ho la maglia, io »; e porta sempre con sé la sedia sia pur spaziata; la sua capanna, unica in tutto l'accampamento, sorge sopra una specie di palafitta, chiama i compagni 'straccioni’, non dà confidenza e non ne vuole, tira con la fionda sassi alle galline, si scappella di fronte a Mobbi, e di fronte alla donna che vede nel treno). Rappi è l'unico ad essere punito (e puniti non vengono, ad esempio, il ragioniere e Mobbi). Ammesso che una delle discutibili 'morali' del film voglia essere che la bontà viene dal cielo e al cielo ritorna, al cielo se mai doveva tornare soltanto Totò, l’unico veramente buono, e l’unico che, almeno all'inizio, cerca lavoro. Appena uscito dall’orfanotrofio, dopo aver dato il buon giorno ai passanti e aiutato alcuni operai, domanda: "Me scusa, c’è lavoro?”. E con Totò se ne doveva andare, se mai, Edvige. Per quale merito acquisito gli altri baracchesi possono andare verso un regno « dove 'buon giorno’ vuol dire veramente 'buon giorno’ »? Nel libro, non esistendo la figura di Edvige, è soltanto Totò che va a raggiungere la signora Lolotta. Ma, e in questo il capovolgimento totale rispetto a Ladri di biciclette. i baracchesi, per avere lo strumento per volare, lottano con gli spazzini, tolgono ad altri poveri, ma che a differenza di loro lavorano, le scope. La lotta, tra Mobbi e i baracchesi, si sposta sul piano della lotta tra diseredati e diseredati: tra diseredati che lavorano e diseredati che non lavoranr (e non vogliono lavorare), a vantaggio dei secondi i quali, dato la loro natura, non ci saremmo invece meravigliati se si fossero messi ad inseguire, come nel romanzo Totò; e nel romanzo Totò non sottrae la scopa ad uno spazzino: « Giunto davanti ad una bottega, dove vendevano scope, nc inforcò una proprio mentre le mani degli inseguitori stavano per afferrarlo e gridò ansimando: 'Tac'. La scopa si alzò nell’aria lasciando sbalorditi gli inseguitori ». E di che natura è quel regno dove dire « buon giorno vuol dire buon giorno»? Certo non si tratta di una ipotetica parte del nostro globo, come qualcuno vorrebbe. A quel paese ipotetico non si addice la natura dei baracchesi zavattiniani né l’inno, in vero poco rivoluzionario, che alla fine essi riprendono a cantare mentre si perdono nelle nuvole, in una certa direzione. E sostenere che tale direzione è diversa da quella in cui Lolotta e i due angeli si perdono, con le conseguenti conclusioni in merito, è cosa per lo mento tanto forzata quanto umoristico l’affermare, come altri hanno fatto, che Miracolo a Milano è un film falso per la ragione che la « nostra legislazione stabilisce, nel modo più tassativo, che il proprietario del suolo non ha alcun diritto sulle ricchezze del sottosuolo, di proprietà statale ». (E del resto, in proposito, volendo si potrebbe sostenere che Mobbi è ben più di un ricco, ma il rappresentante di tutto un organismo capitalistico). E, in ogni caso, la colomba che serve al miracolo, per andare verso il 'buon giorno’, viene regalata a Totò da Lolotta, che 'vive’ in un regno di trapassati e ai trapassati l’ha sottratta: "Ecco la colomba, puoi fame ciò che vuoi: restare con i tuoi amici, o volere la luna, Nascondila, nascondila... » e se Lolotta trova Totò tra le foglie dei cavoli, questa parte si sviluppa tenendo presente la realtà della vita, o perlomeno una certa realtà. Si veda l’esemplare sequenza, non presa in se stessa, del funerale, la quale si stacca visivamente da quella che precede (dalla scena in cui l’ammalata guarda con rassegnazione i due medici) mentre permangono e si dissolvono, nella colonna sonora, la cantilena dei medici stessi che contano le pulsazioni. Poi silenzio, interrotto dal rumore degli zoccoli de! cavallo che trascina il modestissimo carro, e dei tram che lasciano il capo linea ; finché sopraggiunge la musica allegra del furgone pubblicitario. ' « Camminate felici. Scarpe Faita », dicono i cartelli degli uomini 'sandwich'; e Totò si ferma, i suoi occhi sono attoniti, come quando guardava il latte scendere dalla pentola. « Totò non osava dire come stavano le cose: egli vedeva nel pentolino del latte fatti straordinari, prima vedeva la superficie bianca e calma, una distesa di neve, che freddo, la quale poi si increspava ed era rotta da bolle di fumo, quanti crateri; miriadi di esseri liberati dalla crosta di ghiaccio salivano su per le pareti del pentolino, tra fumo e scoppi ne raggiungevano l’orlo, avrebbero invaso le terre calde, oh! il risveglio, la visione intensamente dolorosa, desolata della periferia, delle baracche; Totò balbuziente per il freddo della notte, il treno che rallenta mentre il vapore acqueo del riscaldamento si confonde con la nebbia, il viaggiatore che lancia dal finestrino la bottiglia vuota come si getta un osso al cane randagio, il signore che si annoda la cravatta, la donna che guarda annoiata con le mani in bocca. E ancora il vociare gioioso (gioia amara) dei poveri i quali corrono a riscaldarsi sotto i raggi del sole che timidamente compare e scompare, Totò che induce la bimba a giuocare, cioè a battere i piedini interizziti ("Via, dài, batti i piedi su, allegra!"); e quando si alza il vento, che porta con sé rottami e baracche, j due si 'riparano' dietro una porta isolata, solitaria e conficcata nel terreno. La potenza descrittiva e l'introspezione umana sono qui di una rara potenza. Come con singolarità vengono presentati, nella sequenza successiva, lo speculatore Brambi che vuole vendere a Mobbi il prato dove è sorto l’accampamento; il disprezzo del primo per i poveri ("Chi è tutta questa gente?" - "Poveri, si possono mandarli via quando si vuole. Basta battere i piedi, e scappano via tutti quanti"); la paura di Mobbi che fa il "suo” discorso sulla uguaglianza (“Questa è la verità: un naso è sempre un naso. Vedete? Io ho freddo come voi. Siamo uguali. Cinque sono le mie dita, e cinque le tue, e le tue...”). A questa prima parte (arrivo compreso dei nuovi 'inquilini’), se vogliamo favolistica ma favolisticamente vera, cioè con riferimenti diretti a certe situazioni e condizioni umane, segue l'individuazione del povero nell’erTata e riferita accezione; di qui il ribaltamento dei valori, l’equivoca "morale ", le contraddizioni, la polemica compromessa, la 'solidarietà* spiritualmente limitata: « Il verbo », avvertiva De Sanctis, « non è più solo la libertà, ma la giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi reali dell’esistenza, la democrazia non solo giuridica, ma affettiva » (6).
Nella seconda parte viene pertanto a mancare la partecipazione umana ai personaggi, a cessare la « reale durata del dolore dell’uomo e della sua presenza nel giorno »; e nasce invece il 'bel film’ : il 'capolavoro' proprio nel significato sottinteso da Zavattini: nascono cioè il 'divertimento', la 'vacanza', l’estasi del trucco e dell’ egocentrismo, del "quanto sono bravo", cioè della composizione e della rifinitura calligrafiche, della ricerca fine a se stessa. Dalla sostanziale diversità stilistico-umana delle due parti, deriva tra le altre cose la fatale impossibilità, da parte degli autori, di fondere realtà e sogno (cioè miracolo). Zavattini e De Sica sono in un certo senso caduti nello stesso errore del Clair di La bellezza del diavolo: l"ironica variazione’ del mito di Faust (una variazione che è capovolgimento) in un film che, cosi come Miracolo a Milano, dimostra d’essere pieno di sottintesi, di analogie, di riferimenti al presente, raggiunge risultati antistorici : cioè alla scienza intesa come peccato. Appunto in un’analoga falsificazione antistorica noi vediamo sopra tutto l’influenza di Clair su Zavattini e De Sica; le altre influenze di natura inventiva, tonale, stilistica — che pur sono molte, e riallacciabili anche ad altri: da Prévert al Bresson di Une affaire publique — sono più o meno inconsapevoli e comunque non determinanti sul piano negativo: appartengono alla cosi detta collaborazione nel tempo o ad evoluzioni parallele (e del resto gli stessi libri di Zavattini risentono di tali evoluzioni e collaborazione: e anche di Chaplin): si vedano l’elemento cilindro, i comandanti in prima e in seconda, e gli stessi ’mobbisti’, che cantano, i cappelli che inseguono alla fine Rappi, l’offerta e la controfferta di Mobbi e Brambi le cui voci si mutano in latrati, e cosi via, sino alla reggia di Mobbi, ai cori dei personaggi che si rincorrono a ritmo di ballo, a certe acrobazie di recitazione cui De Sica si affida nella seconda parte per sostenerla insieme con altri elementi suggestivi, naturalmente nei limiti concessi dalla seconda parte stessa. Golisano, Brunella Bovo, la Carena, Emma Gramatica, e, più degli altri. Bragaglia, Barnabò e Stoppa sono di una rara bravura. Tra gli altri elementi 'suggestivi' è da annoverare la musica, la quale, più in funzione d'accompagnamento appunto che espressiva, si sviluppa seguendo tre motivi principali e a 'leit-motiv' : il 'ballabile', la pianola, e il jazz; quest’ultimo impiegato nella presentazione del ricco e ritornante ogni qual volta Mobbi e la sua polizia sono in campo, cosi come la pianola è legata all’inno e alle scene che si svolgono nell’accampamento (ed Edvige suona la pianola per rincorare, ad un certo punto, i baracchesi). Di puro e semplice accompagnamento sono il motivo patetico, sentimentale di « C’era una volta... », che si ripete quando Lolotta consegna al 'figlio' la colomba, e la musica a cadenza sacra nella scena centrale in cui Totò 'fa i miracoli’. La funzione suggestiva della partitura si avverte, in particolar modo, nella sequenza dei furgoni cellulari: timpa ni, fiati, archi si susseguono. Non diremmo suggestiva invece la fotografia (eccetto quella riguardante i trucchi, difettosa anche tecnicamente) ma piuttosto indispensabile per la introspezione di certe parti (il funerale, ad esempio, la presentazione delle baracche), per comprendere la Milano invernale, per sostenere alcune 'trovate' di natura prettamente letteraria (il tramonto come spettacolo, oppure il bambino-campanello). G. R. Aldo rimane in somma coerente ai suoi precedenti contributi; egli riconferma, dopo La terra trema di Visconti e Cielo sulla palude di Genina, la ragione critica per cui lo consideriamo il nostro operatore più dotato, più artista su un piano intemazionale, cosciente di una collaborazione diretta col regista e che peraltro in Miracolo a Milano talvolta viene a mancare, naturalmente nella seconda parte.
Nel corso di queste note più volte abbiamo accoppiato il nome di Zavattini con quello di De Sica, dando al primo la precedenza sul secondo. In vero Miracolo a Milano è il film meno personale di Vittorio De Sica; l’ideale collaborazione regista-soggettista raggiunta in Sciuscià e in Ladri di biciclette non si è, nel caso in esame e per le ragioni dette, verificata. Miracolo a Milano, oltre a rifarsi, e in maniera meno avanzata, a Totò il buono, attinge in più parti anche a Parliamo tanto di me, 1 poveri sono matti, Io sono il diavolo: cioè a tutta l’opera letteraria di Zavattini : a quei pensieri, riflessioni, manie, acrobazie, atmosfere surrealistiche e sogni, a tutta quella 'matematica' (malinconia, riso, paradosso), a quel rendere abnorme la normalità, a quel 'meccanismo' stilistico di cui han parlato, a proposito di Zavattini, i critici letterari. « Zavattini », scriveva nel '42 uno di questi. « giungerà al racconto, nella forma più propria, pur conservando tutti gli estri e le avventure di quelle che abbiamo detto sue 'manie'. Sarà forse un racconto che, più che iniziare un nuovo itinerario, riassumerà e ripeterà con un tono diverso (in una sistemazione melodica) i suoi precedenti » (7). Totò il buono conferma sostanzialmente quella previsione. Ma, pur restando significative le sue esperienze letterarie, oggi Zavattini non può rimanere fermo ai suoi vecchi itinerari, e tanto meno continuare a riassumerli e a ripeterli nel cinema, in toni più o meno diversi. Miracolo a Milano, che magari aveva l'ambizione di aprire come suol dire qualcuno, uno sbocco al nostro realismo del dopoguerra, induce invece lo spettatore a riproporre i limiti in cui si muove Zavattini, e a prospettare a De Sica e a Zavattini stesso (e specie di fronte all'annunciato Umberto D), la necessità di un loro avanzamento, sulla falsariga di quell'esperienza di libertà che fattori di varia natura oggi minacciano di uccidere o comunque di frenare: sulla falsariga, cioè, di quelle illuminazioni che li hanno porti ti a Sciuscià e a Ladri di biciclette. Il nostro non è più tempo di miti, e del cosi detto super-artista. Miracolo a Milano è appunto anche la conseguenza dei miti che noi abbiamo creato intorno a Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, e che loro stessi, di riflesso, si sono creati.
Guido Aristarco, "Cinema" n.57, 1951
«L'Unità», 10 febbraio 1951 - Vittorio De Sica, Cesare Zavattini
«Epoca», 8 marzo 1952 - Cesare Zavattini
«Tempo», 24 febbraio 1951 - Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
Cesare Zavattini è nato a Luzzara (Reggio Emilia) il 20 settembre 1902. Scrittore e giornalista, è considerato, come soggettista e sceneggiatore, uno dei fondatori del "neorealismo” nel cinema. Pubblica nel 1931 il suo primo romanzo: "Parliamo tanto di me”, al quale fanno seguito "I poveri sono matti", "Io sono il diavolo", "Totò il buono". Trasferitosi nel 1939 da Milano a Roma, dedica la maggior parte della sua attività al cinema, per cui ha scritto oltre 50 soggetti.
Domanda. - Qual è l’avvenimento cui rimpiange maggiormente di non aver assistito?
Risposta. - Il discorso della montagna.
D. - Supponiamo che in treno ad un passaggio di frontiera lei venga a trovarsi sprovvisto di documenti. Invitato a qualificarsi, che cosa risponderebbe?
R. - Scrittore di cinema. Per la parola cinema l’impiegato di un aeroporto recentemente mi abbuonò venti chili di bagaglio. Un cattivo regista oggi ha molto più fascino di un grande scrittore, che Dio ci perdoni.
D. - Che cosa vorrebbe che si dicesse di lei fra un secolo?
R. - Era migliore di quello che lui credeva.
D. - Per quale categoria di individui sente di essere maggiormente spietato?
R. - Con coloro che hanno i miei difetti.
D. - Qual è l’azione umana a lei contemporanea che ha maggiormente apprezzato?
R. - Apprezzo dì preferenza quelle azioni poco appariscenti prese una a una ma che tutte insieme tessono una vita esemplare.
D. - Qual è stata la sua prima emozione, quale la più violenta?
R. - A otto anni stavo rubando due soldi dal borsellino di un mio zio: il borsellino mi cascò, il denaro si sparpagliò per terra, lo zio accorse, io diventai di ghiaccio e lo zio voleva convincere me che non l’avevo fatto ver rubare, ma per curiosità. La più violenta, il bombardamento di San Lorenzo.
D. - Qual è la differenza che separa il giornalismo dalla letteratura?
R. - Nei casi migliori si confondono, il primo mutuando dalla seconda un impegno intimo sempre più estremo, e la seconda dal primo una maggiore attualità di temi, una più 'scoperta diretta partecipazione alla vita sociale.
D. - In quale periodo storico avrebbe desiderato vivere ammesso che le fosse stato concesso di parteciparvi attivamente?
R. - In questo, ma con maggior coraggio.
D. — Se da fonte assoluta-mente attendibile le venisse comunicato che Mussolini è vivo, quale sarebbe la sua prima reazione?
R. - Parlargli subito, sapere come ora vede le cose e se stesso. La mia curiosità sarebbe immensa, non meno che per un viaggio sulla Luna.
D. - L'incondizionata devozione di un suo simile quale reazione le provoca?
R. - Molto piacere, e un po' dopo lo sforzo che la mia coscienza non se ne accorga.
D. - Qual è la domanda che là infastidisce maggiormente?
R. - Secondo, ma fra quelle che mi infastidiscono c’è senza dubbio la domanda che io stesso desidererei spesso rivolgere agli altri: «Che cosa pensa lei in questo momento?».
D. - Qual è in società la situazione che la imbarazza di più?
R. - Arrivare in un salotto, tutti si voltano verso di me, e mi viene fulmineamente il sospetto di avere i pantaloni sbottonati (la pena mortale finisce solo quando, con mano di fata, come per un arpeggio, si verifica velocissimamente).
D. - Secondo lei una donna ha diritto di sedere in una giuria di Corte d’Assise?
R. - Si, ovviamente.
D. - Un’attricetta decide di inscenare un suicidio allo scopo di far parlare di sè. A tal scopo assorbe una certa dose di sonnifero; ma sbaglia dose e muore. Vuol dettarmi un epitaffio per la sua tomba?
R. - «Perchè gli altri sono vivi?».
D. - Qual è secondo lei la più importante istituzione del nostro Paese?
R. - La libertà di stampa.
D. - C’è una piccola azione da lei compiuta che le abbia lasciato un grande rimorso?
R. - Parecchie.
D. - Sarebbe disposto a sacrificare la sua indipendenza per qualcuno o qualche cosa?
R. - Istintivamente rispondo sì, ma vorrei vedermi alla prova. Ad ogni modo, mi pare che l’indipendenza in sè non sia niente, significhi solitudine. Acquista valore appunto nell'atto in cui la si sacrifica per qualcuno o qualche cosa.
D. - Se le venisse proposto il patto di Faust che cosa risponderebbe?
R. - Ne riparleremo quando avrò l’età di Faust.
D. -- Se fosse costretto a trascorrere la sua esistenza lontano dal suo Paese su quale parte del globo cadrebbe la sua scelta?
R. - Delft (Olanda). Ne conservo solo una rapida immagine ma nitida, una stretta strada alberata, in mezzo all'abitato con un ponticello su un canale e l’aria più quieta del mondo.
D. - Quali virtù apprezza maggiormente nell’uomo?
R. - La più rara, la coerenza.
D. - Ritiene di essere sempre stato quello che è adesso?
R. - No. La mia vita si divide in due periodi: prima e dopo la guerra. L’ultima guerra ha mutato il mio modo di pensare e di fare (da allora è diventato cosciente il mio desiderio di capire la realtà italiana).
D. - Una gioia le sembra più grande se pubblica o nascosta?
R. - Oscillo.
D. - Qual è la sua opinione sui premi?
R. - Positiva. E’ un uomo che afferma il valore di un altro uomo (e per di più vivente). Quindici anni fa un nostro grande poeta, Vincenzo Cardarelli, mi disse: «Non si è mai abbastanza sicuri di sè per aspettare riconoscimenti dai posteri, perciò gradisco quelli dei contemporanei».
D. - Preferisce i vinti o i vincitori nella vita?
R. - Non credo si possa rispondere seccamente: vinti, oppure vincitori. Ci sono troppe qualità di vittorie e di sconfitte. Ma se l’aut aut fosse inevitabile, direi: i vinti, pensando a quei milioni e milioni di individui che sono dei vinti non attraverso la lotta, ma a priori, per le condizioni che trovano nascendo.
D. - Se le venisse accordato un atto di potenza assoluta come lo esplicherebbe?
R. - Abolirei la proprietà.
D. - Ricomincerebbe la sua vita daccapo se ciò le fosse concesso?
R. - Non ha senso ricominciare senza la coscienza che si ricomincia. Sarebbe come se invece di me ricominciasse un altro
D. - Se venisse posto nell’alternativa: non scrivere più un solo rigo contro l’acquisto di non importa quale bene materiale, che cosa risponderebbe?
R. - Mi inebria il pensiero di non avere mai più incubi sul tipo delle tasse. Si, cederei (e finirei con lo scrivere di nascosto).
D. - Qual è secondo lei il vento che spira nella letteratura italiana contemporanea?
R. - Oggi la letteratura mi interessa in quanto esprima dei maestri di vita. In questo senso i cosiddetti vecchi ci hanno deluso e il vento è ancora un venticello arcadico. Alvaro, per esempio, parve a molti di noi il più dotato per incarnare l’ideale scrittore moderno, generosamente compromesso, sistematicamente compromesso nella lotta politica. Ma anche questo grande artista, a mio modesto avviso, è ritornato nella torre d’avorio.
D. - Le è mai accaduto di interrompere un libro a metà? Se sì, vuol dirmene la ragione?
R. - No.
D. - Qual è secondo lei il rapporto tra giornalismo e pettegolezzo?
R. - Il rapporto che sostanzialmente c’è, mettiamo, tra Enrico Emanuelli (giornalismo) e Indro Montanelli (pettegolezzo).
D. - Dovendo raccontare una favola ad un bambino quale sceglierebbe?
R. - Cera una volta uno che si voleva ammazzare perchè al mondo secondo lui non c’era abbastanza solidarietà e tutti gli stavano intorno a supplicarlo, a cercare di convincerlo che il mondo va bene e gli uomini dànno, in fondo. «Quanto?», domanda il morituro tenendo la rivoltella puntata alle tempie. «Un milione», gridano tutti, e tra applausi e canti spingono avanti un tale che ha davvero offerto un milione per beneficenza. Ma tac, risuona il colpo di rivoltella, l’uomo si è sparato. «Un milione», gli gridano ancora in coro, un milione, convinti che prima non ha udito bene. «Perchè... non due?», domanda il poveretto con l’ultimo fiato. Allora la folla si allontana commentando severamente la frase dell’incontentabile.
D. - Costrettovi quale lavoro manuale avrebbe scelto?
R. - Quello del contadino.
D. - Se venisse bandito un concorso per l’undecimo comandamento quale proposta avrebbe da fare?
R. - Ripetere il quinto, non ammazzare, scritto un po' più in grande.
D. - Qual è dalla fine della guerra in poi la più grave perdita subita dall’umanità?
R. - La perdita del reale ricordo di quella mostruosa guerra.
D. - Fatta astrazione delle necessità pratiche, ritiene che un uomo possa vivere solo? Essere insomma sufficiente a se stesso?
R. - No. E’ possibile una risposta affermativa?
D. - Qual è la sua opinione sulla censura in Italia?
R. - Quella del cinema è riuscita a poco a poco non tanto a impedire di scrivere certe cose quanti di pensarle. Cosi attualmente la censura ha assai poco da fare.
D. - In quale conto tiene la opinione altrui? *
R. - In serio conto, ma purtroppo me ne dimentico spesso.
D. - Qual è secondo lei la differenza fondamentale fra Roma e Milano?
R. - Il mio cuore è rimasto a Milano, qui ho sempre paura di qualche cosa.
Quali delle risposte date da Zavattini lo rappresentano per intero? Nessuna, e tale conclusione appare tanto più sconcertante in quanto Zavattini ha posto in ognuna delle sue risposte un impegno, una serietà che qualche volta lo spingono perfino oltre la portata e le intenzioni della domanda stessa e ciò per un desiderio, un bisogno in lui innato di raggiungere il fondo delle cose. Zavattini è un uomo che si trova ancora alla ricerca di se stesso in quanto la sua aspirazione fondamentale è di raggiungere appunto il fondo delle cose, ossia la verità, con la quale tenta disperatamente di identificarsi. In questa ansia ed in questo sforzo drammatico di identificazione sta dunque il segreto della sua personalità, la quale non ostante il suo leale desiderio di collaborazione, resta inafferrabile per la stessa ragione che non si riesce mai ad afferrare il fondo della verità, ossia del principio universale.
Enrico Roda, «Tempo», 1955
Ma ce n’è un terzo che spiega meglio la sua personalità di scrittore; quello del catfettlere. Il mestiere del padre. "Ancora oggi - racconta - sono sempre a disposizione di chi mi vuole, di chi mi chiama. E’ più forte di me”
Roma, aprile
Dopo essermi invitato da me a mangiare i tortelli col ripieno di zucca, la passione di Za, che lui fa fare alla moglie, la signora Olga, anche fuori della vigilia di Natale, quando c’è un amico sfrontato come me a chiederli, io dico all’amico Cesare: «Un pezzo su Za rischia di ripetere cose che la gente sa a memoria, ormai. Di te si sa tutto o press’a poco. Si conoscono i tuoi libri, i tuoi piccoli magici libri; si conoscono i soggetti che hai dato da realizzare a De Sica; l’azione che svolgi in difesa del nostro cinema come Presidente del Circolo Italiano del Cinema; il diario che pubblichi qua e là su temi e argomenti cinematografici, in attesa di riunirlo in un grosso volume; le tue dichiarazioni di fedeltà assoluta al neorealismo; le tue brillanti trovate di giornalista, specialmente in ciò che tocca l’inchiesta popolare; il tuo ritorno all’Almanacco Letterario Bompiani festeggiato l’altra sera col Premio Tor Margana; e così via. Si sa che hai l’hobby della pittura; si sa che puoi condurre trenta disegni insieme come Balzac i suoi romanzi; si sa che hai fatto una mostra di guazzi a Londra vendendo anche; si sa che sei stato stipendiato da Cardazzo per far pittura per lui; si sa che non c’è amico che non abbia avuto in regalo un tuo disegno; si sa che dalle pareti della tua casa guardano in formato pulce i visi dei maestri della pittura d’oggi; si sa che hai una raccolta di libri d’arte da far concorrenza a quella di Carrieri; si sa che in primavera odori di prato per la febbre del fieno; si sa che sei afflitto dall’insonnia, il tuo guaio maggiore; si sa che ti arrabbi se si dice che sei pieno di soldi; si sa che Chaplin ha dichiarato di aver pianto a un tuo film; si sa ch’egli ha avvertito la parentela tra il suo umorismo e il tuo; si sa che adori Luzzara il tuo paese natale; si sa che sogneresti di ritirarti là, se non ti spaventasse l’umidità del luogo; si sa che ogni volta che ci torni festeggi la rimpatriata a base di un rituale fatto di salame, uova al burro e lambrusco; si sa che ti piace giocare a scopone scientifico coi tuoi compaesani, sparigliando e facendoti urlare; si sa che ami assistere, mescolato alla folla, ai Cantamaggio; si sa che il tuo famoso barbiere, Corrado Lavizzoli, ti dà ogni giorno con le sue lettere le "croniche” del paese: nascite, morti, matrimoni, infortuni, successi della squadra di calcio, debiti dei mesi invernali, caccia, agitazioni operaie, situazione elettorale; si sa di quel tuo progetto di creare a Luzzara e in ogni centro d’Italia una "giornata tipo del rapporto civico” in cui si puntualizzi un paese nei suoi vari aspetti; si sa che hai pubblicato una sola poesia e che c’è un uomo solo che la sa a memoria; si sa che avresti pronti i quadri per la rinascita del cinema; si sa che al Messico hai lavorato per parecchi mesi a sceneggiare un soggetto affidato alla regia di Carlos Velo; si sa che il Giudizio universale dovrebbe esser girato a Bergamo, una città che è vicina al tuo cuore; si sa che sei mattiniero, anche se non hai chiuso occhio e hai passato la notte a leggere e a prender note; si sa che non fumi da quindici anni; si sa ti piacciono le donne; si sa che hai una mamma di ottantanni, freschissima di spirito, che non perde una riga di quel che ti riguarda; si sa che hai quattro figli, il maggiore dei quali ha trentaquattro anni: tutto, insomma, è stato divulgato di te, caro Cesare, e non è il caso di portar vasi a Samo, bastando il semplice accenno che ne abbiamo fatto. Bisogna, se vogliamo far qualcosa di buono, dar notizie inedite, e queste notizie non possiamo che pescarle nel periodo meno noto di te, infanzia, fanciullezza, prima giovinezza. Sei d’accordo?».
Un atteggiamento caratteristico di Cesare Zavattini. Lo scrittore è nato a Luzzara (Reggio Emilia) il 20 settembre del 1902 "mentre in piazza suonava la marcia reale per festeggiare la breccia di Porta Pia". A Luzzara rimase sino a sette anni, allorché venne mandato a Bergamo, presso una zia, per frequentare le elementari e il ginnasio. Qui gli nasce l’idea del teatro.
«D’accordissimo, vecchio Rèpaci. Però prima di iniziare sarà bene dare un’occhiata ai miei libri mastri perchè là ci sono notizie conosciute o perlomeno riferite, anche sul periodo che tu dici. Elimineremo anche quelle, cosicché tu presenterai un Zavattini completamente inedito, con un viso molto giovanile, quanto diverso ahimè dal povero vecchio che ti sta davanti...».
Dice, e, seguito da me, si reca al ripostiglio in fondo al corridoio, ch’è come la battigia della sua grande casa di Via Sant'Angela Merici, dove, aperto un cassetto, che si presenta gremito fino alla colmatura, tira fuori alcuni enormi e grossi libri mastri, compagni di quelli che servono agli esercenti per iscrivere nomi di clienti, indirizzi, ordinazioni. In essi Zavattini annota ogni giorno pagine di diario, impressioni di viaggio, visite di amici, letture, notizie cinematografiche, scoperte fatte sul video della TV, e quanto insomma può interessare un uomo come lui che, degli scrittori e uomini di cultura d’oggi, è tra i più dotati a penetrare in certe zone discrete della sensibilità popolare, il più misericordioso forse nel cercare la vena del sentimento anche nei deserti delle vite pietrificate, il più pronto a sbloccarle con una parola di speranza, con un sorriso, con una trovata gentile, con uno di quei suoi paradossali "risvolti” che sono il ricupero del sentimento sulla logica, sulla fredda ragione. In questo senso i suoi libri — Parliamo tanto di me, I poveri son matti, Io sono il diavolo, Totò il buono, Ipocrita 1950, Un paese — danno la mano ai suoi celebri soggetti — Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D, Il tetto — sì che, tra gli uni e gli altri, a dar la corrente è sempre la poesia zavattiniana, una poesia mesta e ventilata insieme. che può anche arrivare all'idea del suicidio nella riconosciuta impossibilità di fare il bene, e che, andando dal fantastico al concreto, cioè verso la responsabilità, verso gli altri, fatta tacere la voce ossessionante dell’egoismo, io io io, si schiera sempre dalla parte degli umili, dei dolenti.
Cesare Zavattini a sei anni, nel 1908. con il padre Arturo. Quando il padre morì, nel 1930, lasciando al figlio 50 lire e molti debiti, lo scrittore per un certo tempo fu costretto a fare l’oste. Durante il giorno serviva i clienti, la notte scriveva.
A Bergamo in occasione di una recita di studenti. Zavattini (seduto) ha 15 anni e frequenta il ginnasio con scarso profitto. In compenso si trova in un ambiente che non è più ossessionato dalla miseria, e può dare sfogo all’immaginazione.
Il nonno capobandista
Dopo aver guardato attentamente e a lungo nei suoi messali, Za inizia: «Concepito in un letto di fortuna, una botte scoperchiata davanti alle fiamme di un forno, io nacqui a Luzzara alle sei pomeridiane del 20 settembre del 1902, mentre in piazza suonava la marcia reale per festeggiare la breccia di Porta Pia. Mio nonno si recò dal capobandista a pregarlo di spostarsi con i musicanti per non disturbare la puerpera. Ciò fu fatto. Mio padre era caffettiere, e nel suo locale i clienti diventavano presto amici. Il parto imminente era a conoscenza di tutti, era un fatto pubblico. Così nacqui io. Nacqui col complesso del caffettiere: quello che accorre quando è chiamato. Così la mia famiglia: niente di preordinato, tutto fatto al momento, su ordinazione. Qualche cosa che si alza, si siede, non sta mai ferma. Una famiglia come una porta aperta a chi chiama dalla strada. Tutto questo mi è rimasto addosso. Ancora oggi io sono sempre a disposizione di chi mi vuole, di chi mi chiama al telefono, di chi mi viene a visitare. E’ più forte di me. Non riesco a dire di non esserci in casa, trovo che è più semplice rispondere subito che rimandare. Il complesso del caffettiere è una delle componenti del mio carattere. Lo metto come importanza vicino
al complesso della timidità e a quello della calvizie, che non mi hanno mai abbandonato. Ho cominciato a perdere i capelli a vent’anni. Tenevo sempre il cappello in testa per nascondere il principio della calvizie. E così la timidità. Per andare a Milano da Roma avrei girato dalla Sicilia per avere il tempo di rifletterci, di prepararmici, di rimandare una certa cosa che mi dava soggezione al solo pensarla. La mia vita non può esser capita senza la timidezza. La mia esuberanza, la mia carica vitale, il mio lavoro, possono averla distratta, possono averla fatta dimenticare, però io so che, nel fondo di me, la timidezza è rimasta, s’è rannicchiata come sotto un ombrello nero per sfuggire all’indagine altrui, quasi non la si vede, ma c’è, nessuno la può togliere. Ancora oggi, entrando in un caffè, gli occhi della gente mi danno noia. Se ho un amico con me, lo prendo al braccio per farmi animo. Se non ce l’ho, guardo come i leoni, senza veder le persone, e, dopo un breve occhieggiare, non vedo l’ora di ritirarmi...».
Nel 1927 Zavattini (a destra) è soldato a Firenze. Ha rinunciato alla laurea puntando sulla carriera di scrittore. E’ l’epoca dei primi racconti (pubblicati per interessamento di Ugo Betti) che lo rivelano al pubblico.
E così via... Zavattini è come la pietra che butti nell’acqua, nasce un primo cerchio, poi un altro, un altro ancora, che si allargano, occupando tutto lo spazio che è davanti ai tuoi occhi. Riporto l’amico in argomento tirandolo giù per la giacca, ed egli ritorna a Luzzara, è felice, del resto, di tornarci. Si indovina in lui lo stato d’animo di chi, non avendo potuto avere giocattoli da bambino, non si consolerà mai di questa mancanza, per quante soddisfazioni la vita gli possa dare. Niente giocattoli, e. invece, ossessionanti, i debiti, quelle terribili cambiali, di cui il piccolo Cesare sente continuamente parlare, che camminano nell’insonnia, nel silenzio della notte, alle quali ogni minuto che_ passa avvicina, senza che si possa opporre difesa alcuna. Arturo Zavattini è un uomo che non ha saputo prenderla la vita, costretto a un mestiere faticoso e senza orizzonti, mentre la sua ambizione sarebbe stata di studiare, di apprendere, di migliorare. Con quelle sue belle mani, più fatte per trattar libri, sete, ricami, stoffe, gli era toccato di dover rigovernare, di dover maneggiare cuccume tazze posate. Si vendicava del suo mestiere sbagliato peggiorando sempre più il suo stato di piccolo esercente. Aveva l’ambizione di fare i migliori gelati, i migliori caffè del paese e non gliene importava niente che i clienti fossero poveracci, e non potessero, a volte, neanche pagare la consumazione. Un artista nel suo genere. In gioventù era stato un moderato, e un giorno aveva aspettato a braccia conserte, minaccioso e sprezzante, una folla di donne urlanti contro i signori asseragliati nel locale, quei signori che eran soliti spesso bastonare i contadini per una specie di abitudine storica, difficile da levare. Andando avanti negli anni, le idee di Arturo Zavattini si erano cambiate. Aveva cominciato a capire che, anche nella sua disastrosa avventura di piccolo esercente di paese povero, poteva avere il suo peso il sistema sociale vigente.
Questo l’ambiente in cui Za passa i primi anni. Ed è qui. a Luzzara, ch’egli ha la prima forte impressione della sua vita, il senso della tragedia e della morte. La sua maestra Guapperi è processata a Guastalla per avere offeso e maledetto in aula il direttore didattico Edmondo Schivi. Durante il dibattito, in cui anche Cesare è testimone, presa dalla disperazione, la maestra estrae la rivoltella e spara sul direttore. Nel fuggi fuggi generale anche il piccolo Cesare si rifugia sbigottito sotto un banco, col nonno. Per fortuna la rivoltella, caricata a salve dall’armaiolo, procura solo un grande spavento a tutti. La maestra è portata in carcere, mentre per la strada si accalca la folla in attesa di notizie. Ecco un episodio di violenza e di dolore che Za bambino non dimenticherà più. Egli è sottratto a questo ambiente di povertà e di desolazione verso i 7 anni, allorché è mandato a Bergamo presso una zia. Silvia Zavattini, a fare le elementari e il ginnasio. Il soggiorno di Bergamo è un’oasi per il piccolo Za. Egli trova nella zia una seconda mamma da collocare tra le presenze più pure e consolatrici della vita. La zia è maestra di un giardino d’infanzia, fa anche un teatrino pieno d’immaginazione, d’inventiva, per i ragazzi, ed è qui che Cesare riprende flato, dopo l’ossessione di miseria e di preoccupazioni dei primi anni, scatenando la fantasia sui magici orizzonti della ribalta.
Za sta con la zia fino ai 15 anni, più giocando che studiando, avendo il senso del vento nelle corse da cavallo fatte sotto le vecchie mura della città, la gioia di sentirsi gonfiare i muscoli nella gara con i coetanei. Bergamo resta una presenza mitica per Zavattini, qualche cosa che si libra tra sogno e realtà con un suo colore, e indimenticabile. La città è associata per lui alla pri-! ma idea del teatro, come si è detto, e anche alle prime immagini del cinema. Si può anche precisare che queste immagini sono una sequenza di cani scatenati dietro una frotta di topi, e un primo piano di donna che annega nel mare in un film ispirato agli Ultimi giorni di Pompei. Con 10 centesimi il giovanissimo Za può conoscere al Teatro Sociale di Bergamo i primi film polizie-
schi e comici, i Nick Winter, i Prince, i drammi realistici. Il teatro, il cinema, dunque, e la città stessa, Bergamo, si colloca per Za in una certa prospettiva figurativa. Bergamo è un formicaio di preti. Le file dei sacerdoti di ogni età che scendon dal seminario hanno un valore pittorico che fa pensare a Caffè, a Usellini, a Por-flrius, e anche a Zavattini, il Zavattini che si formerà più tardi. Non si può pensare a Bergamo senza preti. Strade strette, incassate, dove, a tratti, appare un prete. Ora si spiega la gran quantità di preti che dipingerà più tardi, a guazzo e a olio, Zavattini. Preti pallidi con grandi ceri accesi ai lati, per accentuare il biancore spettrale dei visi. Preti semoventi con corpi fatti di acqua di marèa sotto cotte e piviali, mentre, nello sfondo, una specie di berlina reale con la croce in cima, condotta da strani cavalli ieri, sale per un’erta che simboleggia la volta terrestre.
Il primo amore
E’ questo un tema dominante di Cesare Zavattini pittore, ed è certo che la matrice di esso si trova a Bergamo, dove il giovane Za, tra le tante altre cose, trova anche il modo di innamorarsi. E’ un episodio questo che merita di esser conosciuto. Un mese fa un intervistatore della radio chiede in trasmissione a Za se ricorda una compagna di scuola della quale sia stato invaghito. Frugando nella memoria, Za dice di ricordare una compagna da lui amata, soprannominata poeticamente ”Lago”, a Bergamo, negli anni del ginnasio. Non sapeva più nulla di lei, forse era morta, forse era mamma di molti figli, e aveva del tutto dimenticato il nipote della maestra Zavattini che le aveva sospirato dietro. Ed ecco, il giorno dopo la trasmissione, un giornalista scrivere a Za di avere identificato il suo primo amore. L’antica compagna di scuola, ”Lago” è viva e rinchiusa in manicomio da molti anni. In passato era venuta anche a Roma, ma senza neppure cercare di avvicinare
Zavattini, e si che aveva anche fatto del cinema. Non sembra un soggetto dell’amico nostro, invece che un fatto realmente accaduto? Ecco come la vita imita l’arte. Entrata nell’orbita della poesia zavattiniana. "Lago" ne era uscita per la tangente pirandelliana della pazzia.
Da Bergamo Za va a Roma, per frequentare il liceo. Ha ancora i calzoni corti, e, se è accettato alla Sala Umberto, al Margherita, al Trianon, dove può fare indigestione di varieté, la sua passione, è respinto dall’Apollo, perchè è tabarin, e i ragazzi debbono andare a scuola, non già far la vita nei locali notturni. E’ questo un anno che Za giudica del più straordinari della sua vita, ”un anno tondo’’. A scuola ci va di rado. Il complesso della matematica, del prof. Martone, lo terrorizza, gli fa abbandonare le lezioni. Preferisce andarsene in Piazza San Silvestro, dove c’è il capolinea dei tram, a osservare, nella saletta d’aspetto, il ladruncolo che sta borseggiando la signora, la prostituta che attira il militare, il pederasta dalle mossette femminee che passa suscitando il risolino della gente. Proprio in questo periodo, Zavattini ha la gioia di non far nulla, di trasferire tutto in fantasia, in fatto immaginativo. Alloggiato presso un ferroviere, in una casa di povera gente, il ragazzo è libero, senza controllo, si può abbandonare agli incontri con le persone e le cose in una specie di esplosione permanente.
Naturalmente bocciato, i genitori, per punirlo, lo mandano ad Alatri, un famoso centro umanistico, per finire il liceo. Anche questi anni sono per Za sorprendenti, scoppian-ti di giovinezza, fitti di care amicizie, ventilati di trovate di ogni genere, caratterizzati da numerosi scioperi scolastici. Finalmente licenziato da Alatri, va, a diciannove anni, istitutore nel Collegio Nazionale Maria Luisa di Parma. Nei cinque anni che passa in collegio ha per allievi Giovannino Guareschi e Guido Maria Terzi. Guadagna 150 lire al mese, è trattato male. Gli istitutori si rifanno del cattivo trattamento sui convittori, danno un’educazione viziata dal rancore, nè basta l’ora di libera uscita al mese per disintossicarli. Una sera Za organizza una fuga generale di tutti gli istitutori dal Collegio. Tutti rispondono all’appello. Il Collegio è lasciato in balia di se stesso. La cosa fa tanta impressione che si preferisce ignorarla. Il rettore Trincas assume nei riguardi di Za un atteggiamento da partoritore socratico. Mentre legge agli allievi le note particolari dell’istitutore, definito "cattivo” "mediocre” "disattento”, dall’altro lato lo invita a scrivere un articolo sulla villeggiatura dei convittori a Fano. Za accetta, e ottiene cosi la prima vittoria sulla Gazzetta di Parma. Ha 25 anni. E’ l’inizio della carriera. La laurea in legge a Parma non la prenderà, pur dando, in tutto, quindici esami. Ci rinuncia, puntando sulla vocazione di scrittore. Intanto si lega di amicizia con Ugo Betti, Pietro Bianchi, Attilio Bertolucci, Gino Saviotti, Erberto Carboni, Atanasio Soldati. Betti porta le prime cose di Za al Tevere, dove scrivono Ungaretti Cecchi Barilli D’Amico, Sofia. Son raccontini, quelli di Za, che rivelano un nuovo umorismo. e attirano l’attenzione.
La smisurata famiglia di Cesare Zavattini (riconoscibile dall’inseparabile basco) a Lunara. Al suo paese lo scrittore, che vive a Roma, fa ritorno più spesso che può. per riposarsi giocando a carte o alle bocce con i compaesani e per ritrovare l’ambiente al quale ancora oggi è più legato.
Da Parma a Firenze per il servizio militare. Firenze vuol dire, per Za, Solaria, l’amicizia con Bonsanti, Carocci, Vieni-Nannetti, Loria, Ferrata, Montale. Sta nove mesi a Firenze, interrotti dalla malattia di suo padre. A Luzzara Cesare sostituisce il genitore al banco, però non ci resiste a lungo, scappa a Milano, e, da Cavacchioli, direttore di Rizzoli, ha la proposta di un contratto a duemila lire al mese, e ciò dica la considerazione che il giovane scrittore si è già conquistata con i suoi pezzi. Mentre sta per firmare, non credendo ai suoi occhi, gli arriva la notizia che suo padre è agli estremi per un attacco di cirrosi epatica. E’ il 1930. Za fa appena in tempo a vedere il babbo che si tira il lenzuolo sul viso prima di morire, e quello è il suo addio alla vita. Lasciava in casa, dopo una vita di lavoro, 50 lire. Al letto di morte si alternano i creditori che reclamano incattiviti di esser pagati perchè corron voci di danari nascosti chi sa dove. Non si sa come fare le esequie. Non si può aprire il caffè per mancanza di un minimo di liquido per la gestione. Ore terribili per la famiglia orfana. Finalmente si trova presso un amico un aiuto per portare Arturo Zavattini al camposanto e per riaprire il suo esercizio. Cesare fa l’oste, il caffettiere, il cameriere, per tre mesi, mentre la notte, ricondotto infine a se stesso, mette a punto qualche pezzo da mandare in giro, o prosegue il suo librettino, il futuro Parliamo tanto di me.
Dopo questo periodo. Za riscappa a Milano per cercare di Cavacchioli, ma questi non c’è più da Rizzoli, quindi il contratto vien meno. Si vede, invece, proporre, non senza interna desolazione, da Wronosky, un posto di correttore di bozze. Messo con le spalle al muro, pensando soprattutto alle due creature che ha messo al mondo. Za accetta, e dà prova di illuminata umiltà e di intelligenza, chè l’entrata da Rizzoli gli serve per stare nel giro e per allargare la sfera delle sue amicizie letterarie. Da un lato entra alla Fiera, facendo della critica letteraria, e dove simpatizza con Angioletti Franci Pescarzoli Solmi Lanza Tittarosa, dall’altro consolida la sua posizione presso gli amici di Rizzoli, i Piazzi, i Buzzichini, i Garrone, i Jeri, e soprattutto Marotta, che è il primo a dargli la sua solidarietà totale, favorendolo nel lavoro, e facendogli passare qualche cosa da stampare. In questo periodo Za va da Bompiani col suo librettino. L'editore legge e consiglia l’autore di lavorarci ancora su. Il suo consiglio è accettato, e quando Za riporta il manoscritto ha la coscienza di averlo reso ancora più essenziale e schietto. L’editore accetta il libro e lo stampa subito. E’ il 1931. Parliamo tanto di me è il best seller dell’anno. Grosso successo di critica e di pubblico. Rizzoli dà un pranzo d’onore al suo correttore nella villa di Lanzo. Za ricorda un fondo di Interlandi per il libro del suo collaboratore. E’ a Viareggio. Cesare, per la Fiera organizzata dal Premio, e non ha chiuso occhio durante la notte, perchè il suo alberguccio è visitato dalle cimici. Vede sorgere l'alba sulla rena, ed ecco arrivare il Tevere con l’articolo di Interlandi. Za ricorda ancora Vergani che, montato su una sedia, si mette a leggere ai bagnini che stan rastrellando la sabbia alcune pagine del libro.
Gli anni che seguono vedono il nostro Za assumere funzioni direttoriali prima da Rizzoli, quando Marotta se n’è andato, e poi da Mondadori, dove dirige tutti i periodici, continuando a lavorare all’Almanacco Letterario Bompiani. Viene anche il momento per lui di lasciar Mondadori per venire a Roma. Rinunzia a uno stipendio spettacoloso per il salto nel buio. De Sica cerca di spaventarlo, gli dipinge l’ambiente romano come brutto e pericoloso, ma egli ha già messo questo nel conto. Chiedo all’amico quando ha conosciuto De Sica. E lui:
«L’ho visto recitare per la prima volta nel Professore di matematica di Campanile al Manzoni di Milano, nella parte del bambino. In quell’occasione conobbi anche un’altra persona, il mio amico Rèpaci. Nella stessa serata due buoni e fedeli amici che debbo a un terzo amico, Campanile. Serata piena, dunque. Rividi De Sica a Verona nel 1935, nella parte di protagonista di Darò un milione. Ma la conoscenza intima venne più tardi, quando De Sica acquistò per ventimila lire il mio primo soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo. Fu Franci che mi avvicinò a De Sica. Da quel momento è nata un’amicizia che ritengo esemplare. E’ per me una vera gioia lavorare con De Sica. La mia più grande ambizione sarebbe di poter fare un giorno il mio Diario di un uomo con lui. Un film realista al cento per cento».
«Hai mai pensato di fare il regista dei tuoi soggetti?».
«Mi son mancate le qualità per farlo. Se non avessi trovato De Sica, la mia avventura sarebbe stata sfasata. Ci siamo capiti subito...».
«Mi vuoi dire i nomi dei registi vecchi e giovani del nostro Paese che stimi di più?».
«Con piacere. Tra i vecchi, se così si posson dire, metto Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Castellani, Comencini, De Santis, Lizzani, Lattuada, Germi, Blasetti, Emmer, Franciolini. Tra i giova-
ni metto Pietrangeli, Maselli, Nelli, Turlini, Rossi, Rosi, Pontecorvo, Puccini, Pellegrini, Gaudin, De Seta, D’Amico, Dall’Ara. Sono molti questi nomi? Son troppi per il poco che si è potuto fare, non son troppi per le grandi cose che si dovrebbero e potrebbero realizzare. La sproporzione tra quello che è e quello che poteva essere è tremenda, ma di chi la colpa? Son riusciti a separare tutti, a corrompere tutti, a fermare il movimento. Son cose che ripeto da anni nel mio diario. Son convinto che i quadri per fare una battaglia vittoriosa ci sarebbero. Dei nomi che ti ho fatto c’è chi ha fatto otto e chi ha fatto nove, ma tutti insieme formano il cinema. Con un altro clima, aiutati da una politica cinematografica efficiente, si sarebbe potuto realizzare molto...».
«Che ne dici dell’affermazione di Visconti che il neorealismo è finito con La terra trema?».
«E’ un giudizio non scevro di presunzione. L’urgenza di fare un cinema di presenza contro un cinema di assenza, o, nel migliore dei casi, di evasione, ha radice nella realtà in cui viviamo. Le circostanze avverse han fatto segnare il passo, ma la battaglia è sempre aperta, affidata a quei nomi che ho detto, ai quali devi aggiungere Luigi Chiarini, per ciò che egli rappresenta nel nostro cinema di pensiero e di insegnamento».
E’ ormai l’ora di andare a tavola. I tortelli, per i quali hanno dato il loro battuto le ultime zucche della stagione, stanno per essere portati in tavola da Gilda, la cameriera sarda di Za, una moretta dagli occhi esplosivi e dalle mosse energiche. Ci avviamo verso la sala da pranzo e, sulla tavola, troviamo non solo il lambnisco nelle bocce di cristallo ma il pane di casa, il pane di Luzzara, portato stamattina — è una sorpresa anche per Za — da un compaesano. Quel pane ha un potere irresistibile per l’amico.
«Il pane ha un’importanza enorme nella mia vita. Ne ho mangiato più di dieci uomini messi insieme. Se io ho il diavolo in corpo lo debbo al pane divorato da ragazzo. La mia infanzia è avvolta in un buon odor di pane. Pane sotto il cuscino, pane nelle tasche del grembiule, pane nella cartella di scuola. Uno dei miei dolori di oggi è l’imbastardimento del pane anche in Emilia. Pane unto, fatto con la lana piuma, invece che col grano. Qualche mese fa ho proposto a quelli di Gonzaga di fare la giornata del pane e del vino. Sì anche del vino. Questo lambrusco che tu vedi riassume tutti i miti del mio paese...».
Arrivano i tortelli, e Za si mette a tavola con gli occhi sfavillanti, felice di farmi assistere a un bel paesaggio sull’aereo da lui pilotato. Debbo dire che questi tortelli di zucca delicatissimi ben meritano l’ammirazione loro decretata recentemente da Soldati alla TV, e nella persona della signora Olga Zavattini, cuoca di eccezione. E mi spiego pure perchè Za quando ritorna in patria "est perdu pour la raison". Sfido io. Tortelli lambrusco e pane di casa son per la sua pelle l’equivalente di una pomata sintetica fatta di olio di balena, di olio di tartaruga e di pappa reale delle api.
Leonida Repaci, «Tempo», anno XXI, n.17, 28 aprile 1959
Scrittore, uomo di cinema fra i più importanti del dopoguerra, pittore, collezionista di quadri, ed oggi, per la prima volta, commediografo. Questo è Cesare Zavattini. L'opera che, dopo lunghi vagheggiamenti delusi, l'ha infine condotto al teatro, «Come nasce un soggetto cinematografico», fu rappresentata alla «Fenice» di Venezia nel luglio dell'anno scorso e ripresa recentemente al «Piccolo» di Milano. L'occasione di riparlarne in questa sede deriva però dalla circostanza che la commedia è passata ora dalle scene alle stampe, avendola l'editore Bompiani pubblicata in un bei volumetto del «Pegaso teatrale».
Ma per parlare di «Come nasce un soggetto cinematografico» sarà utile risalire alle origini letterarie di Zavattini, saldissimo essendo rimasto, pur fra tante e così diverse esperienze, il legame con la sua lontana, singolarissima stagione degli anni tra il '30 e il '40. Le dodici edizioni del «Parliamo tanto di me» (1931), le nove de «I poveri sono matti» (1936), le sei di «Io sono il diavolo» (1941) avevano infatti assegnato a Zavattini un posto di rilievo nella narrativa italiana, poiché la coerenza e la concretezza del suo impegno morale, seppure adombrato da un estroso umorismo ai confini tra la letizia e la pena, arrivava in quel tempo di arcadia letteraria come un improvviso capogiro pieno di turbamento. Questi tre esilissimi libri furono le stazioni d'un itinerario che chiedeva l'interiore e graduale maturazione d'un motivo unico, ma per l'autore fondamentale, anzi inalienabile dalla sua brama inesausta di penetrarlo fino alle radici: la cronistoria, o forse, una sorta di stilizzata biografia universale, dei motivi supremi dell'esistenza, dell'angoscia quotidiana, dei rapporti umani. Bontà ed egoismo, amore e risentimento, innocenza ed ipocrisia, assunti da Zavattini quali termini esemplificativi della nostra condizione, vennero a configurarsi — nell'ideogramma narrativo — in una galleria di emblemi realistici sorretti da un così vivo senso di scoperta e meraviglia da sconfinare quasi sempre nel fiabesco o surreale, e dove lo scarto tra la levità irrisoria e buffa dei fatti e il traguardo della proposta morale faceva scattare la molla d'una dolente facezia umoristica. O, più precisamente, d'una critica in termini di farsa tragica.
Al trittico di quel decennio (a parte «Totò il buono», «Un paese» e l'intenso lavoro cinematografico), seguì un lungo silenzio rotto soltanto nel '56 dalla uscita de «L'ipocrita '43», il libro che segnava non una svolta nuova nell'operare di Zavattini, bensì un' accentuazione nello spessore delle sue curiosità, delle sue interrogazioni, dei suoi sondaggi condotti fino alle soglie di Dio. «Ipocrita '43» era ima confessione, scontrosa e trepidante insieme, che pareva risalire da un naufragio nel tempo e poneva con lucidità ansiosa retema domanda, sottolineata, allora, da tutta la critica: «Sii buono, se ci sei tu devi darmi un segno: siamo soli, convincimi, fai parlare una sedia...».
La data del '43 (tredici anni avanti l'uscita del libro), posta accanto al titolo, rispondeva a un'intenzione ben precisa dello scrittore. Infatti proprio intorno a quell’epoca la vena di Zavattini s'era appuntita, il suo umorismo amaro ma sostanzialmente bonario s'era contratto come in un coagulo dei sentimenti. Zavattini apparve simile a un novello Diogene ossessionato dal mistero dell'uomo, dal moto d'una foglia, dall'aria stessa : un Diogene moderno che inseguiva le sue verità con piglio puerilmente feroce, scosso dalla frenesia del reale, e insieme, dal patetico senso del miracolo quotidiano; e ignaro, forse, di quanta concretezza si nascondesse sotto la sua svagata confessione e di quanta realtà ci fosse sotto la sua candida «imagerie». Era anche il tempo in cui stava nascendo, nei cinema, il neorealismo, di cui egli sarebbe diventato il massimo esponente e teorizzatore. Ed ecco il punto che ci conclude al nodo del discorso: all'identificazione, cioè, delle due nature, o applicazioni, dell' arte zavattiniana: quella d'un uomo di cinema, d'un «artigiano», tenuto alla servitù del contratto e al rispetto leale delle sue clausole, quali che siano; e quella autonoma d'un poeta, che riaffiora ogni qualvolta opera in proprio, scrivendo libri, o una commedia come questa. Due nature o modi d'applicazione che certo coesistono, ma a fasi successive e alterne, e che a metterle insieme risulterebbero inconciliabili. Non basta infatti rivestire i personaggi con gli stracci del sottoproletariato romano, tra casupole scalcinate e bidoni della spazzatura per fare di lui uno scrittore realista, e sia pure neorealista. Anzi, ripensando alla sua opera più sincera e originale, verrebbe da credere che il mondo di bontà e innocenza evocato tante volte da Zavattini tendesse quasi fatalmente a scardinare i puntelli ordinari della realtà, o quanto meno a trasfigurare il realismo minuto che stava alla base dei suoi «sketches» metafisici, in un realismo evasivo, favoloso, capace di creare le attonite prospettive, le incantate colorazioni del miraggio. Ed è forse proprio questo fi mondo poetico cui anela spesso Zavattini col desiderio d'una libera vacanza, tanto libera, tanto svincolata da impegni «artigianali» o neorealisti da sfiorare l’anarchia, il funambolismo, l'automatismo della scrittura. Ora, ci sembra che in questa luce di vacanza e di fuga dello Zavattini poeta dallo Zavattini artigiano, vada intesa e interpretata anche la recentissima commedia «Come nasce un soggetto cinematografico», che non è — o almeno non ci sembra — una denuncia, uno sfogo polemico contro le servitù del rinema, ma l'ultima proiezione di quel monologo in libertà, l'ultima figura retorica d’innocenza e conformismo, di amore e ipocrisia, di bontà ed egoismo della sua leggenda.
Antonio è uno scrittore di cinema, cui il successo, dopo gli stenti, ha assicurato il benessere. Egli vivrebbe dunque contento della sua condizione e dei suoi affetti, la moglie e il figlio che sta per nascergli. A dargli uno spessore d’uomo gli basterebbe la spinta a oontempi are il dolore che macchia il mondo. E infatti un giorno la spinta gli arriva sotto forma d’una notizia di giornale: -.«il signor N. B. della LomeUina girava da alcuni giorni con la sua automobile la nostra provinda alla ricerca d'una persona disposta a vendergli un occhio...». Antonio ne è profondamente colpito. Ecco la storia che vuole scrivere e immaginare in tutti i più minuti particolari: le circostanze che possono indurre un povero diavolo a vendere un occhio, il prezzo, le contrattazioni, come impiegherà i milioni l'uno e male uso farà dell'occhio comperato l'altro, e così via. Immagina, immagina, ma Antonio non è solo, non può pensare ciò che vuole, non può scegliere e scrivere le storie che desidera, perchè due controllori, il produttore e il censore, lo affiancano e vigilano sulle sue idee, sulla sua libertà inventiva. La conservazione di quel benessere, ch'egli ha conquistato, esige la obbedienza e il conformismo. Antonio sa che di benessere e di doci affetti familiari non è fatto tutto un uomo, ma si può protestare, protestare a fondo, sino alla rivolta, e continuare a vivere come gli altri, godendo dei loro stessi privilegi, che equivalgono alla tirannia del bisogno e del conformismo? Egli dapprima tenta, ma finisce per cedere, conscio che «gli artisti sono come foglie di gelso. Con un soffio d'aria cambiano colore». Da questa situazione paradossale nasce l'inconfondibile ansia di poesia penetrata da un dolente sorriso.
Che la commedia rappresenti davvero una vacanza di Zavattini, come s'è detto e ripetuto, lo dimostra forse il fatto che egli non si è preoccupato, o non vi ha nemmeno pensato, di fissarne una vera dimensione teatrale, d'intreccio e sviluppo logico, di figure corpose, di piani psicologici. In effetti la fantasia corre in tutte le direzioni, fugge da ogni parte, scavalca le dighe della realtà fisica e i nessi della logica, proiettata com'è al quasi esclusivo inseguimento di un versilibero arabesco surrealista. L’Antonio, il Chiaretti, il Saloni, il guercio ricco, il povero che vende il proprio occhio, Maria, i vicini di casa e insomma tutta questa galleria di omettini palazzeschianamente «di fumo» che ornano la commedia, sono gli ultimi arrivati del viaggio nelle nuvole. Ora hanno raggiunto gli antichi compagni, i Bat, i Dod, gli Evans, i Mac Namara per rievocare insieme, in un monologo a cento voci, la loro astrale biografia cominciata trentanni fa con le umanissime parole : «Parliamo tanto di me».
Giorgio Bergamini, «Il Piccolo di Trieste», 27 gennaio 1960
«Radiocorriere TV», 1962 - Cesare Zavattini
Costretto a rinunciare alle ore di riposo sia per una incredibile forma di insonnia sia per i continui impegni di lavoro, Cesare Zavattini è sorvegliato, guidato, curato e assistito dalla moglie Olga come un bambino
«L'altra sera — dice Cesare Zavattini — sono stato a cena a casa del produttore Dino De Laurentiis. Se io potessi, non mangerei mai a casa: andrei in giro per i ristoranti, per le osterie, per le bettole. Queste cene con i produttori, però, hanno un aspetto semiufficiale che mi imbarazza e mi spaventa: comunque sono andato a casa di De Laurentiis, ci sono restato tutta la sera e poi m’hanno accompagnato (non ho La macchina, non so guidare) alla mia abitazione. E' stato li che, improvvisamente solo, mi sono accorto di una cosa quasi terribile: ho ripassato i nomi e le fattezze di tutti quelli con cui ero stato a tavola, uno per uno, da Monicelli a Bolognini, e ho saputo che io ero il più vecchio di tutti. Gli altri invitati erano più giovani di me. E alcuni di questi io li ascoltavo, quando parlavano, col rispetto e la deferenza che si ha per una persona anziana. C’era, per esempio, un direttore di banca che m’aveva spiegato certe questioni tecnico-finanziarie ed io ero stato a sentirlo come uno scolaro davanti a un maestro. E invece quell’uomo non avrà avuto più di cinquant’anni. Dieci meno di me. Perchè io ormai ne ho sessanta e ti dico che a questo punto è veramente difficile credere alla propria età».
La testa di Zavattini ondeggia da una parte e dall’altra, in un gesto preoccupato. Poi l’attenzione dello scrittore si porta di nuovo al vassoio e al piatto che ha davanti. Siamo a casa sua, sono le undici di sera. Soltanto adesso, Zavattini trova il tempo per ingoiare un boccone. Sono quattordici ore che è in movimento, con appuntamenti, discussioni, lettere, telefonate, telefonate interurbane, e le ultime cinque ore le ha trascorse in una riunione con gli undici registi dei Misteri di Roma, il film che domani incominceranno a girare.
«Sì — risponde Zavattini ad una mia osservazione — una conferenza con undici persone può essere massacrante, ma t’assicuro che è una cosa da nulla se penso alle altre riunioni che abbiamo tenuto per i Misteri di Roma proprio all’inizio quando l’idea era ancora bambina. Certe volte, mentre parlavo, m’interrompevo perchè mi ero improvvisamente accorto che a sentirmi c’erano trenta o quaranta persone. Tutti autori, tutti giovani registi. Allora mi guardavo intorno sbalordito: c’era qualcuno che non conoscevo, qualche faccia invece mi era familiare, ma non ricordavo il nome, e poi c’erano altri che entravano, uscivano, che non parlavano mai, che non riuscivano a capire come fossero capitati lì davanti a me». Io penso, mentre Zavattini parla, a sua moglie, la bionda signora Olga che da quindici anni, dai tempi, cioè, di Ladri di biciclette, conduce una lotta giornaliera per indurre il marito, non dico a pensare a se stesso, ma perlomeno a non dimenticarsi di mangiare, ad accorgersi quando la stagione cambia e si deve mettere la maglia pesante, a rendersi conto che, magari, sono quaranta ore che non dorme; ad avvertirlo quando è giorno, quando è notte, quando è estate, quando è inverno. Perchè lui, continuamente occupato a costruire film, a scrivere soggetti e sceneggiature, a tenere riunioni, non se ne accorgerebbe mai.
“Ho avuto paura”
All’inizio i registi dei Misteri di Roma, dovevano essere anziché undici addirittura venti. Venti autori che ancora non avevano filmato nessun film, alla loro prima esperienza cinematografica: venti entusiasti.
Era l’epoca in cui la signora Olga non poteva muoversi per casa senza imbattersi in qualcuno di loro. Spostava un tavolo e lì sotto scopriva un regista che, sdraiato per terra, studiava la carta topografica di Roma. Apriva la porta del bagno e ne trovava altri tre seduti sul bordo della vasca che discutevano su Roma. Un altro era seduto al tavolo di cucina che scriveva furiosamente. Quasi tutti erano vestiti con dei maglioni ed avevano un’aria terribilmente impegnata. La signora Olga sorrideva con indulgenza e si rifugiava in camera da letto che, ad una rapida perquisizione, si rivelava del tutto spoglia di giovani registi e di giovani sceneggiatori.
«Ad un certo punto — racconta Zavattini — il film fallì. Chiuso: non si faceva più. Non c’era più il produttore, non c’erano più i soldi per farlo. Allora molti registi cominciarono a sparire e rimasero soltanto quelli più fedeli. E fu proprio allora, con loro, che mi venne l’idea. Proprio qui, dove son seduto adesso: mi viene in testa di girare tutto il film in una giornata sola. Mando fuori venti scatenati, ognuno con la macchina da presa, ognuno a guardare la città in una particolare ora del giorno. E con una sola giornata di lavorazione il film finì. Appena raccolto tutto, ci mettiamo subito a fare dei calcoli: quanto costerà il film fatto così? Facciamo i calcoli, e sappiamo che la spesa sarà di venti milioni. Beh, allora dico io, facciamo venticinque (non mi fido tanto delle nostre capacità matematiche) e andiamo a cercare un produttore. Sei ore più tardi l’avevamo già trovato».
A questo punto mi sembra necessaria una domanda: «Con tutte le energie che profondi in un film, come mai non hai pensato di dirigerne uno tuo?».
Il viso di Zavattini si contrae improvvisamente per la sofferenza, come se un crampo l’avesse colpito in qualche parte del corpo. S’agita nella sua poltrona prima di rispondere, e finalmente esplode: «Già! Come mai! Adesso te lo dico come mai! Perchè ho avuto paura. Perchè non me la sono mai sentita nelle tante occasioni, che mi sono state offerte di accettarne una. Perchè ho sempre avuto il terrore della macchina da presa: come fatto spirituale, e non come fatto tecnico. Eppoi soprattutto perchè facevo un’altra professione. Facevo lo scrittore di cinema. Ora io dico a te, ai miei amici, a tutti, e lo dico sempre e non mi stanco mai di ripeterlo: fate della vostra vita quello che volete, ma non fate mai lo sceneggiatore. Fate l’impiegato, il militare, il bandito, il benzinaro, fate qualunque cosa in qualunque momento, basta che riusciate a tenervi sempre lontani da questa pazza idea di scrivere per il cinema. Se proprio ci tenete, fate lo sceneggiatore per un anno, per due al massimo, perchè un maggior tempo sarebbe troppo pericoloso: la trappola potrebbe richiudersi su di voi e non farvi più uscire dai corridoi di questo mestiere infame». Lo sfogo di Zavattini mi sorprende, anche perchè non c’è amarezza in quello che dice, ma quasi gioia, una specie di sadica gioia di svilirsi, di ingigantire quello che lui giudica il più grande errore della sua vita.
E infatti continua: «Che errore, non avere fatto il regista! Pensa che un regista ha il diritto, anzi il dovere, di sfruttare tutti quelli che ha intorno, di estrarre con qualsiasi mezzo il meglio dei collaboratori, di tormentare gli sceneggiatori e gli attori più di quanto non si sente soddisfatto. E’ un padrone assoluto. E i suoi padroni quali sono? Non ci sono. Nessun regista ha mai con i produttori quel rapporto d’inferiorità che invece hanno nei suoi riguardi tutti i personaggi della "troupe”. E’ umanamente giustificata questa posizione di privilegio del regista? Tu sai che il novanta per cento di quelli che compongono l’ambiente del cinema sono intellettualmente così limitati che, se non esistesse il cinema, non riesco proprio ad immaginare cos’altro potrebbero fare per guadagnare altrettanto. Anche i registi non sfuggono a questa regola: ne conosco certi che sono dei perfetti cretini, e che pure sono capaci di confezionare un prodotto decente anche se banale».
Cattivo amministratore della vita
M’accorgo che Zavattini ingigantisce, davanti ai propri occhi, l’errore che ha commesso rinunciando alla regia, proprio per dare a questo errore un senso definitivo e totale. E’ stato commesso e non ci sono più rimedi. Questo permette a Zavattini di non essere più tormentato dai dubbi e dalle tentazioni di afferrare la macchina da presa, di non pensare più alla possibilità di dirigere un film. In fondo, ciò che Zavattini vuole è soprattutto considerare quello della sua nonregia, come il capitolo più chiuso della propria vita e su cui non è possibile ritornare.
«Ed ecco la conclusione — mormora Zavattini indicando il letto. E spiega: — La conclusione di una cattiva amministrazione della propria vita è che, a un certo punto, non si dorme più». Perchè Zavattini non dorme più. La sua insonnia, che dura da anni, l'ha ridotto ormai in uno stato tale, che si considera soddisfatto se riesce a dormire un’ora, un’ora e mezzo al giorno. Fatto incredibile, anche senza dormire Zavattini non ha perso un grammo della sua energia, del suo entusiasmo, della sua vivezza. Naturalmente, ne soffre. Ne soffre al mattino e anche prima del mattino, quando le prime luci del giorno cominciano a filtrare
tra le persiane, e Zavattini capisce che anche questa notte non ce l’ha fatta, non è riuscito a dormire. E adesso si tratta di cominciare una buona giornata.
Prendiamo l’esempio di una giornata di Cesare Zavattini. Prendiamo quella di ieri. Non è riuscito a dormire tutta la notte e ha chiuso gli occhi soltanto fra le otto e le otto e mezzo della mattina e alle nove doveva vedere un amico, Lionni, direttore artistico della rivista Fortune. Alle nove, perchè quella è l’unica ora della giornata che il cinema lasci libero a Cesare Zavattini per fare due chiacchiere di carattere personale. Alle dieci, appena uscito Lionni, è arrivata Marcella Ferrara che doveva ritirare un articolo per la rivista Rinascita. Zavattini non aveva ancora scritto e si è affrettato a stenderlo lavorando fino a mezzogiorno. A questa ora aveva già preso quattro cachet e incominciava il ritmo normale degli appuntamenti, cioè circa uno ogni mezz’ora con le persone più diverse, per finire con una riunione-fiume di quattro ore con i registi di Misteri di Roma. Alle undici di sera la giornata era finita. Zavattini è rimasto ancora un po’ al tavolo di lavoro, per scrivere qualche lettera, e poi è andato a letto ad aspettare di nuovo l’alba ad occhi aperti.
Mino Guerrini, «Tempo», anno XXIV, n.25, 23 giugno 1962
Flusso di sentimenti in Zavattini il Buono
Il nostro soggettista - sceneggiatore è tra i pochi scrittori italiani d'oggi che non consideri il cinema come un sottoprodotto dell'arte o un remunerativo mercato di sbocco per gli scarti della professione letteraria.
LE POLEMICHE suscitate da Miracolo a Milano, varie nel tono e discordi quanto al giudizio critico, hanno però tutte posto in rilievo l’eccezionale apporto conferito, all’ultimo film di De Sica, dagli umori e dal temperamento di Cesare Zavattini. Ammesso infatti che l’opera del soggettista e dello sceneggiatore debba raggiungere nella creazione cinematografica un’importante o magari risolutiva indicazione di temi, situazioni e passaggi minuti — lasciando però sempre al regista un largo margine di respiro e fornendogli in ogni caso i mezzi per esprimere la sua propria sensibilità, un particolare concetto della vita e insomma ciò che si chiama il suo stile — potremo convenire sul fatto che in Miracolo a Milano quel margine ha subito una notevole riduzione, e quei mezzi sono stati offerti in misura singolarmente scarsa. Del resto, se parliamo di Miracolo a Milano, è solo perché ci sembra ch'esso si adatti a proporre un chiaro 0 contemporaneo esempio cosi dei valori positivi di Zavattini (che sono molti e importanti) come dei suoi punti di minor resistenza, dei suoi estri e "dada” (che qualche volta offuscano quegli stessi valori e qualche volta, sebbene più di rado, minacciano addirittura di comprometterli). Difatti si può dire che il film, nei limiti del discorso che abbiamo avviato, illustri puntualmente la coesistenza dei due poli intorno a cui ruota la natura stessa di Zavattini — scoprendo perfino, se ci si passi la antifrasi, i difetti delle sue qualità —, quel complesso d’impulsi generosi e di prudenti riserve, di sagacia e candore, onestà sentimentale e gusto del giuoco puro e semplice che fanno di lui un ingegno cosi dotato pur nelle contraddizioni e cosi ricco nella più o meno consapevole antinomia di quegli opposti elementi, o forse proprio a causa di essa. D’altronde chi conosca l’uomo e lo scrittore, anche al di fuori della sua attività di soggettista, potrà sempre testimoniarne. E sempre con meraviglia: perché in realtà non capita spesso d'imbattersi in una tale abbondanza di cuore che l’intelligenza si affanna a restringere dentro insoliti schemi, rischiando magari di darne un’immagine troppo gracile o rattrappita. Ciò è vero soprattutto per l'opera letteraria di Zavattini, dove accade più d’una volta che il proposito di "far nuovo” e "moderno” contragga o raggeli situazioni di grande calore umano, dando in una faticosa enigmistica e toccando risultati, perciò, troppo più interessanti che persuasivi; sebbene anche in questi casi sia possibile avvertire dietro quei fumismi e lacci verbali, dietro la contorta geometria delle iterazioni, ellissi, allusioni, impennate e salti di stile, il battito d’un sangue caldo e vivo che non chiederebbe altro, invece, se non di circolare secondo il suo ritmo ordinario.
Comunque a noi interessa qui lo Zavattini soggettista e uomo di cinema; ma le ultime osservazioni non saranno state forse del tutto inutili quando si voglia ammettere che anche in questo campo egli ha trasferito il dualismo che gli è particolare, come d’altronde era giusto o addirittura inevitabile, naturalmente secondo i mezzi propri del cinema, e nello schema di linguaggio dei vari registi. Cosi' da una parte sono nate storie piene d’autetica commozione — storie dove il flusso dei sentimenti era tanto largo e copioso da rifiutare ogni presidio di caratte intellettualistico (e basti pensare a Sciuscià, Ladri di biciclette ecc.) — dall’altra episodi magari d’effetto assai gradevole ma nei quali l'impegno umano, evidente nei presupposti o insito addirittura nella materia dei fatti narrati, non ha resistito alle lusinghe della trovata, della situazione ingegnosa, del "gag”, alterando la sua stessa portata e creando in tal modo uno squilibrio, a volte notevole, tra intenzioni e risultati (Prima Comunione, E’ più facile che un cammello... e via dicendo. Si noti che la nostra attenzione, per quanto abbiamo detto, si rivolge ad opere importanti — o che tali erano nei propositi del soggettista — trascurando i film nei quali il contributo di Zavattini si è ristretto ai termini d’un lavoro di carattere più o meno artigianale). E’ giusto riconoscere, ad ogni modo, che in un film realizzato nulla è così' difficile da valutare quanto l’opera del soggettista, cioè dell’uomo a cui risale la paternità della "storia": la quale appunto può subire via via manipolazioni, travisamenti, contrazioni o sviluppi non previsti, allontanandosi dal suo nucleo essenziale e perdendo molto del suo sapore primitivo. Cosicché il soggettista, di fronte all’opera compiuta e ai suoi eventuali difetti, potrà sempre giustificarsi invocando a buon diritto quelle manomissioni, ovvero tutta la serie dei compromessi cui la "storia” abbia dovuto soggiacere, quando pure non gli sia lecito attribuire le mende del film, o la debolezza del suo tono complessivo, allo scarso mordente della regia. Detto questo, però, conviene pur aggiungere che nel caso di Zavattini lo scarto tra idea e realizzazione (o meglio: tra la "storia" e la sua traduzione in immagini) è stato quasi sempre meno sensibile di quanto accada alla maggior parte dei cineautori : sia perché
egli ha ordinariamente partecipato alla sceneggiatura dei soggetti che andava fornendo di volta in volta, sia perché ha portato e porta di solito in questo lavoro il peso e il prestigio d’una personalità tanto spiccata da persuadere alle proprie vedute, anche quando per avventura risultino singolari o troppo ardite rispetto alle possibilità della regia. Non che tutti i film di qualche rilievo in cui è comparsa anche la sua firma siano rimasti fedeli all’idea ch’egli se n’era fatta, e agli sviluppi o alle conclusioni immaginati da lui; ma è certo che ad ognuno la presenza di questo uomo dalla crepitante immaginazione in un’ampia apertura d’interessi umani ha conferito un tono particolare e sempre riconoscibile, in misura più o meno larga, sia che nascesse dall’una o dall'altra "vena” del suo temperamento.
Unico forse tra gli scrittori italiani d’oggi che non consideri il cinema come un sottoprodotto dell'arte o un remunerativo mercato di sbocco per gli scarti e ritagli della professione letteraria, del resto, Zavattini conta al proprio attivo da molto tempo una serietà di propositi e una ricchezza di temi che sarebbe difficile negargli. Qualcuno, esprimendosi in termini piuttosto iperbolici, ha scritto mesi fa che il film italiano del dopoguerra non esisterebbe senza di lui; ma anche senza ricorrere a decreti cosa massicci e impegnativi, resta di vero che la sua influenza sugli orientamenti della nostra produzione di questi anni (e, indirettamente, su determinati aspetti di quella d’altri Paesi) rappresenta un fatto di considerevole importanza nella storia del cinema generalmente considerata, e certo il maggior titolo di merito ch’egli possa vantare. Ora ci si può chiedere : come s’è manifestata questa influenza? attraverso quale processo mentale o veicolo d’intuizioni è andata esercitando i suoi suggerimenti, i suoi motivi, le sue conseguenze? Uomo vivo, curioso degli aspetti d’un mondo del quale avverte con acutezza gli scompensi e le incongruenze specie nel campo dei rapporti sociali (e non tanto, si badi, in linea teorica o di principi quanto nella problematica giornaliera dei fatti anche più comuni e generalmente accettati), Zavattini si rivolge d’istinto a denunciare quelle situazioni di squilibrio o d'ingiustizia introducendovi una polemica portata a prendere le mosse da ricorrenze minute, eventi umilissimi che la nostra guerra umana e la nostra fretta di vivere ci consigliano di solito a trascurare, particolari di cui siamo disposti a riconoscere l’importanza solo a patto che la nostra attenzione vi venga espressamente sollecitata. Era dunque abbastanza naturale che un simile "metodo” trovasse il suo miglior alleato nella macchina da presa, poiché formalmente nulla è più chiaro dell’immagine e nulla si presta di più, o con maggiore immediatezza, a isolare la nozione dei dettagli, l'importanza dei loro nessi e significati; ed era altrettanto naturale che in sede di contenuti quella polemica — sviluppandosi dagli "avvenimenti minimi” di cui parla Stendhal in qualche punto del Brulard— tendesse a chiudere la sua misura ideale, il suo "optimum” di efficacia, nei novanta minuti di proiezione, nel giro esatto e stringato del racconto cinematografico. Questa polemica difatti non investiva e non investe direttamente la sostanza dei problemi intorno ai quali si esercita, né aggredisce alla scoperta le cause da cui provengono, dandole anzi per note e condannabili "a priori” e neppure intende proporre esplicite soluzioni, indicative d’un mezzo specifico per distruggere i motivi di male nel mondo, ma preferisce illustrarne gli effetti lasciando all’obiettivo il compito d'una testimonianza quanto più possibile precisa, non violenta, e tanto meglio se rivolta a circostanze cosi abituali da passare quasi affatto inosservate all’orecchio dei più. Caratteristiche di Zavattini sono dunque una straordinaria capacità di captazione della realtà circostante (avvertita di preferenza nei suoi motivi meno vistosi ed eccellente materia, quindi, per l’indagine cinematografica), non meno che lo stimolo naturale a trasferirla in chiave di partecipazione e sollecitudine umana, cioè in chiave morale, visto che ogni dato e su pur minimo della nostra vita di oggi porta con sé la sua carica di dolore, la sua durata di amarezze e d'affanni.
Noterete che la compresenza di queste due posizioni (l’una formalo con riguardo non già ai mezzi espressivi ma ai procedimenti della rappresentazione, l’altra sostanziale con riguardo al giudizio sui fatti rappresentati, alla particolare "presa di coscienza” sulla materia del racconto) è distintiva del cosiddetto neorealismo nel cinema italiano, o almeno delle sue prove più valide e meditate. Ora, e tenuto conto del temperamento dei vari registi, essa potrà articolarsi in senso propriamente tragico (Visconti) o appassionatamente documentario (Rossellini), emotivo (De Sica) o drammatico (Germi), grossamente avventuroso e sensualistico (De Santis) o magari psicologico-intimista (Antonioni); e gli esempi potrebbero continuare. Ma il fondo comune a tutta questa produzione, gli elementi di parentela che hanno reso e rendono legittimo il riconoscimento d’una "scuola italiana" nel cinema del dopoguerra, sono pur sempre rintracciabili da una parte nella tendenza a procedere induttivamente, a configurare in vicende riprese sulla misura della cronaca privata più dimessa, ma anche più attuale e accertabile, una sorte o una condizione collettiva — dall’altra nell’interesse verso i problemi che ne derivano in questa società, in questa organizzazione delle classi, con la più o meno palese disposizione a rilevare il senso dell»; angosce, degli scompensi e delle ingiustizie che sempre vi si accompagnano. Si potrà facilmente obiettare che fenomeni cosi estesi e complessi come la nascita e fioritura d’una "scuola’’ non possono soltanto giustificarsi con le sollecitazioni c i convincimenti d’una singola personalità, per quanto dotata e ricca di umori : poiché viene il momento in cui determinate istanze sono nell’aria, come si dice, e alla convenienza di esprimerle concorrono fattori specifici di tempo e di luogo, premesse che affondano le loro radici nell’ "humus’’ sociale e storico di tutto un popolo, l'insorgere di crisi che toccano interi ceti coi loro interessi e bisogni, egoismi e speranze, desideri e paure. Ma ciò non toglie nulla o toglie ben poco all’importanza dell'influsso che Zavattini ha senza dubbio esercitato sugli andamenti generali di quell'indirizzo, specie quando si voglia tener conto del continuo commercio e scambio d’idee ch’egli ha intrattenuto e va intrattenendo con la maggior parte dei nostri registi e sceneggiatori, e ai continui processi di osmosi, o di simbiosi, che avvengono di giorno in giorno nel mondo del cinema. Molta della sua dinamica mentale si può cosi ritrovare alla base di parecchi film ai quali non ha direttamente partecipato, e soprattutto nello spirito informatore della nostra produzione più legata agli obblighi d’una seria testimonianza, nel clima interno da cui ha tratto i motivi della propria efficacia; molti dei concetti a lui cari (ad esempio il cinema come fatto di confessione, dove il racconto letterario ceda il posto alla diretta, immediata rappresentazione d’uno qualunque di noi come protagonista della vita alla quale partecipa : dove non esista il mito dei personaggi ma il mito di noi stessi concluso in una specie di "memento vivere” d’ogni giorno) potranno forse offrire nuovi sviluppi al nostro cinema di domani. L'altra direzione del suo temperamento, quella in cui Zavattini esaurisce i suoi estri momentanei, le sue bizzarre e spiritose invenzioni, non ha invece (né poteva avere) un seguito di qualche peso. Essa nasce e si svolge quasi sempre sullo stesso piano delle osservazioni che altrimenti permettono al loro autore di scorgere gli aspetti più nascosti e commoventi della realtà : ma proprio nel momento in cui egli preferisce coglierne invece i connotati irrazionali, di là da ogni significato umanamente apprezzabile, e indugia a compiacersene sempre più. Naturale quindi che reazioni del genere rimangano circoscritte all’occasione da cui nascono.
Nei prossimi articoli ci proponiamo d’illustrare criticamente i soggetti che Zavattini ha steso nel corso di parecchi anni, e che non soijo stati tradotti in film, circa una quarantina. Si tratta d’idee per il cinema allo stato puro, cioè immuni da ogni equivoco sugli eventuali compromessi per la loro realizzazione, ma con quel tanto che basti a lasciarne intravvedere i lineamenti cinematografici: abbiamo quindi motivo di credere che dal loro esame possano risultare tanto meglio i criteri d’una coerenza nell’opera di Zavattini, le sue ragioni di fedeltà alla propria natura, cosi come l’esattezza dei rilievi che siamo andati compiendo sin qui.
Aldo Paladini
Filmografia
Darò un milione, regia di Mario Camerini (1935)
San Giovanni Decollato, regia di Amleto Palermi (1940)
Una famiglia impossibile, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1940)
È caduta una donna, regia di Alfredo Guarini (1941)
Teresa Venerdì, regia di Vittorio De Sica (1941)
La scuola dei timidi, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1941)
4 passi fra le nuvole, regia di Alessandro Blasetti (1942)
Quarta pagina, regia di Nicola Manzari (1942)
Il birichino di papà, regia di Raffaello Matarazzo, (1943)
C'è sempre un ma!, regia di Luigi Zampa (1943)
Romanzo a passo di danza, regia di Giancarlo Cappelli (1943)
I bambini ci guardano, regia di Vittorio De Sica (1943)
La porta del cielo, regia di Vittorio De Sica (1944)
Canto, ma sottovoce..., regia di Guido Brignone (1945)
La freccia nel fianco, regia di Alberto Lattuada (1945)
Biraghin, regia di Carmine Gallone (1946)
Un giorno nella vita, regia di Alessandro Blasetti (1946)
Sciuscià, regia di Vittorio De Sica (1946)
Il marito povero, regia di Gaetano Amata (1946)
L'angelo e il diavolo, regia di Mario Camerini (1946)
Il mondo vuole così, regia di Giorgio Bianchi (1946)
Roma città libera, regia di Marcello Pagliero (1946)
Caccia tragica, regia di Giuseppe De Santis (1947)
Ladri di biciclette, regia di Vittorio De Sica (1948)
Vent'anni, regia di Giorgio Bianchi (1949)
Le mura di Malapaga, regia di René Clément (1949)
Il cielo è rosso, regia di Claudio Gora (1950)
È più facile che un cammello..., regia di Luigi Zampa (1950)
Prima comunione, regia di Alessandro Blasetti (1950)
Miracolo a Milano, regia di Vittorio De Sica (1950)
Bellissima, regia di Luchino Visconti (1951)
Mamma mia, che impressione!, regia di Roberto Savarese (1951)
5 poveri in automobile, regia di Mario Mattoli (1952)
Il cappotto, regia di Alberto Lattuada (1952)
Roma ore 11, regia di Giuseppe De Santis (1952)
Umberto D., regia di Vittorio De Sica (1952)
Buongiorno, elefante!, regia di Gianni Franciolini (1952)
Un marito per Anna Zaccheo (1953), regia di Giuseppe De Santis
Stazione Termini (1953), regia di Vittorio De Sica
Siamo donne (1953), registi vari
La passeggiata. regia di Renato Rascel (1953)
L'amore in città (1953), registi vari
La cavallina storna di Giulio Morelli (1953) consulenza sul soggetto
Donne proibite di Giuseppe Amato (1953)
Piovuto dal cielo (1953), regia di Leonardo De Mitri
Alì Babà (1954), regia di Jacques Becker
L'oro di Napoli (1954), regia di Vittorio De Sica
Il tetto (1955), regia di Vittorio De Sica
Suor Letizia (1956), regia di Mario Camerini
Amore e chiacchiere di Alessandro Blasetti (1957)
La donna del giorno (1957), regia di Francesco Maselli
Nel blu dipinto di blu, regia di Piero Tellini (1959)
Il rossetto, regia di Damiano Damiani (1960)
La ciociara, regia di Vittorio De Sica (1960)
La guerra, regia di Veljko Bulajić (1960)
Il sicario, regia di Damiano Damiani (1960)
Il giudizio universale, regia di Vittorio De Sica (1961)
La lunga calza verde, regia di Roberto Gavioli (1961) - animazione
Le italiane e l'amore, registi vari (1961)
Boccaccio '70, episodio La riffa, regia di Vittorio De Sica (1962)
I sequestrati di Altona, regia di Vittorio De Sica (1962)
Il boom, regia di Vittorio De Sica (1963)
Ieri, oggi, domani, regia di Vittorio De Sica (1963)
Matrimonio all'italiana, regia di Vittorio De Sica (1964)
Un mondo nuovo, regia di Vittorio De Sica (1965)
Caccia alla volpe, regia di Vittorio De Sica (1966)
Le streghe, episodio Una sera come le altre, regia di Vittorio De Sica (1967)
Sette volte donna, regia di Vittorio De Sica (1967)
Amanti, regia di Vittorio De Sica (1968)
I girasoli, regia di Vittorio De Sica (1969)
Lo chiameremo Andrea, regia di Vittorio De Sica (1972)
Una breve vacanza, regia di Vittorio De Sica (1973)
Il viaggio, regia di Vittorio De Sica (1974)
La veritaaaà, regia di Cesare Zavattini (1982)
Premi e riconoscimenti
Nastri d'argento
Il tetto
Prima comunione
È primavera...
Ladri di biciclette
Nomination al Premio Oscar
Sciuscià (1946)
Ladri di biciclette (1948)
Umberto D. (1952)
Musei dove sono conservate opere di Cesare Zavattini
Museo civico e della mail art di Montecarotto (AN).
Note
- ^ Cristina Jandelli, Cesare Zavattini, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2004.
- ^ Cesare Zavattini: sguardi sulla realtà - 28/04/2017 - Programmazione - Lab 80 film, su www.lab80.it. URL consultato il 26 aprile 2017.
- ^ Cesare Zavattini
- ^ Cesare Zavattini, Io. Un'autobiografia, a cura di Paolo Nuzzi, Einaudi.
- ^ Cesare Zavattini, su italinemo.it. URL consultato il 22 agosto 2019.
- ^ Gian Carlo Ferretti, Storia dell'editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004, pagg. 22-23.
- ^ Secondo Oreste Del Buono, Zavattini fu licenziato per essersi iscritto al Sindacato dei giornalisti professionisti, contravvenendo alla volontà di Angelo Rizzoli, che faceva firmare ai suoi dipendenti un contratto da impiegato. Vedi O. Del Buono, Amici. Amici degli amici. Maestri..., Baldini&Castoldi, Milano 1994, pagg. 204 e 235.
- ^ Fondato da Egeo Carcavallo, Bepi Fabiano e Pio Pizzicaria nel 1933. Cfr. Franco Bergamasco, L'Italia della caricatura: la grande storia del Caricaturismo in Italia (e dintorni), Vercelli, Whitelight, 2008, p. 98.
- ^ Strand Zavattini Un paese, su palazzomagnani.it. URL consultato il 16 ottobre 2017(archiviato dall'url originale il 16 ottobre 2017).
- ^ Premio simpatia - vedere sezione i premiati dal 1971, su premiosimpatia.it.
- ^ Ferruccio De Bortoli, Poteri forti (o quasi), Rizzoli, Milano 2017, p. 55.
- ^ C. Zavattini, Le grandi firme del fumetto, 1971
Riferimenti e bibliografie:
- Fondo Marengo, «Il Milione», rivista diretta da Cesare Zavattini (1938)
- Cesare Zavattini: la rivoluzione dello sguardo, su cinefile.biz
- Sito dedicato a Cesare Zavattini, su cesarezavattini.it
- (DE, EN) Cesare Zavattini, su filmportal.de
- (EN) Cesare Zavattini, su AllMovie, All Media Network
- (EN) Cesare Zavattini, su Internet Movie Database, IMDb.com
- Bibliografia italiana di Cesare Zavattini, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com
- (EN) Cesare Zavattini, su Open Library, Internet Archive.
- (EN) Cesare Zavattini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc
- Cesare Zavattini, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana
- Cesare Zavattini, su Treccani.it, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
- Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
- Storia della fantascienza italiana
- "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
- Laura Bergagna, «Tempo», anno XII, n.6, 18 febbraio 1950
- Guido Aristarco, "Cinema" n.57, 1951
- Cesare Zavattini, «Epoca», anno III, n. 78, 5 aprile 1952