Articoli e ritagli di stampa: dal 1980 al 1984

Rassegna-Stampa-anni-1980-1984


Indice degli avvenimenti importanti 1980-1984

Marzo 1980 Viene presentato a Napoli «SuperTotò», terzo film di montaggio dopo «Totò story» (1968) e «Totò, une anthologie» (1978)

1 marzo 1980 Viene pubblicato il libro «Totò», di Orio Caldiron, pagine 277, lire 12.500 - Gremese, 1980

13 maggio 1980 All'interno del programma televisivo «Gulliver», in onda sulla seconda rete RAI, viene presentato il baule di scena di Totò

9 luglio 1981 La Rete Uno della RAI dedica a Totò uno dei tanti cicli dei suoi più famosi film, dal titolo «Totò Tredici»

Mostre, programmi televisivi, retrospettive, serate a tema, Totò torna popolare come e forse più di quando era in vita. In suo onore vengono istituiti premi, giornate a tema, create associazioni commemorative, gli vengono dedicate strade, piazze e monumenti ed altre iniziative. Si parla della creazione di un museo a lui dedicato che si dovrà inaugurare a Napoli.

8 dicembre 1980 Viene trasmesso prima del telegiornale delle 18,50 sul secondo canale della RAI, «Il pianeta Totò» speciale documento televisivo in 25 puntate a cura di Giancarlo Governi. Raccolta di brani da film interpretati da Totò integrati con interviste a registi, attori. Ogni puntata avrà la durata di 50 minuti. Sempre Giancarlo Governi pubblica, pochi giorni prima della serie TV, il libro Vita di Totò, Rusconi ed., lire 12.000

 


Altri artisti ed altri temi


1980 - 1981 - 1982 - 1983 - 1984


Totò

Articoli d'epoca, dal 1980 al 1984

Totò? È un eroe dei fumetti

Totò? È un eroe dei fumetti Ultima settimana in televisione de «Il pianeta Totò» (Rete 2, ore 18.50), carrellata del successi cinematografici del grande comico napoletano. La trasmissione…
Bonvi, «Corriere della Sera», 6 gennaio 1981
530
17 Nov 2014

1980-1988 - Il Pianeta Totò

IL PIANETA TOTO' (1980-1988) Uno dei programmi televisivi più completi che siano stati mai realizzati su Totò, fu certamente "Il pianeta Totò". Vengono evidenziate la straordinarietà del…
RAI
4964
10 Apr 2014

Supertotò (1980)

SUPERTOTÒ (1980) Titolo originale SupertotòPaese di produzione Italia - Anno 1980 - Durata 98' - Colore e B/N - Audio sonoro - Genere Commedia, film di montaggio - Regia Brando Giordani,…
Daniele Palmesi, Federico Clemente
5437

1980

Come per la storia d’Italia esiste, ancora irrisolta, una questione meridionale, cosi per il cinema italiano sembra essersi consolidata negli anni una specifica comicità meridionale. Questa almeno è la proposta degli organizzatori del Centro Humor Side di Rifredi che collateralmente all'incontro con il teatro comico meridionale, in corso in questo periodo, hanno allestito una sezione cinematografica che dovrebbe documentare gli umori più stimolanti della vis comica del sud.

Senza itinerari cronologici, ma piuttosto con addensamenti tematici, si parte dall'unico, insuperato Totò e si arriva alla parodia della farsa e del cinema di Franchi e Ingrassia, cogliendo quindi il filone più estroverso, popolare, pazzariello dell'esuberanza meridionale.

Accuratamente evitata, invece, la «commedia alla siciliana» che spesso concepita da «continentali» e pur con bravi attori caratteristi (Giuffrè, Ferro, Ursi) ha inquinato di stereotipi l'immagine cinematografica del sud. Pur privilegiando la farsa plebea, però, la rassegna ricuce una tradizione che affonda in parte nei lazzi, le mascherate, gli equivoci dell'avanspettacolo, ma ben prima ancora distilla i succhi imprevedibili della commedia dell'arte, su su sino alle codificazioni letterarie e drammaturgiche dell'otto e novecento.

Ecco allora Totò e Scarpetta, il grande attore e drammaturgo partenopeo (1853 -1925) creatore della fortunata maschera di Scioscioammocca: Totò e Martoglio (1870 1921) commediografo siciliano, benevolo castigatore dei vizi indigeni, cineasta di talento e d’impianto verista: Totò e Pirandello. Ma prima ancora di Totò, due vivaci interpreti del teatro dialettale. Raffaele Viviani, napoletano (1888-1950) e Angelo Musco, siciliano (1872-1937) avevano trasferito in rare ma efficaci apparizioni cinematografiche la carica drammatica della loro comicità, frutto di una attenta e partecipe osservazione della realtà, anche la più diseredata.

Teatro e cinema degli umili per gli umili, dove il comico è al tempo stesso liberazione e denuncia di una condizione umana e sociale, la smorfia è dolore e dileggio, l'esito lieto è illusione e speranza. Su questo filone si innestano anche i fratelli De Filippo, da cinquant'anni ormai sulle scene, saltuariamente impegnati nel cinema (preziose rarità sono i film presentati «Non ti pago»! di Bragaglia, del '42 e «Il cappello a tre punte» di Camerini del ’34 che vede la partecipazione anche di Tina Pica, la vecchietta «terribile» del cinema italiano degli anni cinquanta.

Il panorama è variegato, spumeggiante, anche se a senso unico, secondo una direttrice che forse è l’unica lettura della comicità meridiane forzatamente retrospettiva, necrologica, vista l’assenza di validi ricambi, legati all'humus più genuino e popolare e non agli schemi televisivi. «Apres Totò le de luge».

g. m. r., «L'Unità», 17 gennaio 1980


«La Stampa», 21 gennaio 1980


Mi ero già occupato della figura di Totò per questa rubrica alcuni mesi or sono, nel presentare ai lettori di «Gazzetta d’Alba» un ciclo televisivo interamente dedicato alla sua grande figura di comico. Già dal tono di quell’articolo era probabilmente parso evidente il mio spassionato affetto per l’arte dello snodatissimo principe De Curtis; ma poiché sono certo che tale peccatuccio mi accomuna a moltissimi altri italiani, mi permetto di ritornare sull’argomento Totò — che io personalmente ritengo l’unico comico italiano di tutti in tempi in grado di competere con «mostri sacri» quali Chaplin, Keaton, i Marx Bros, ecc. — per segnalare un libro da poco pubblicato e dedicato a quella parte della sua attività che forse è meno nota al grosso pubblico: il varietà.

Il libro in questione si intitola: «Quisquilie e pizzillacchere» (un titolo davvero alla Totò), per i tipi della casa editrice Savelli, curato dal critico cinematografico Goffredo Fofi. Si tratta di una raccolta di testi dei migliori brani comici interpretati da Totò nei teatri di varietà di tutta Italia. Un volume certamente divertente, dunque, ma anche estremamente interessante; utilissimo per farci capire i meccanismi comici che l’attore napoletano doveva poi portare a rara perfezione nel cinema, questo «Quisquilie e pizzillacchere» costituisce un documento quasi storico della versione moderna di un filone teatrale — quello della commedia dell’arte — che è sempre stato tra i più vivi nella tradizione del nostro Paese. E potrà forse rievocare i fasti di un genere di spettacolo leggero, il varietà, che ha vissuto lunghi anni di declino, ma che pare essere ultimamente tornato abbastanza in voga.

Scaglione Fulvio, «Gazzetta d'Alba» 20 febbraio 1980


«Il Piccolo di Trieste», 28 febbraio 1980


«La Stampa», 1 marzo 1980 - Presentazione del libro «Totò», Orio Caldiron


NIZZA

SPQF, ovvero Sono Pazzi Questi Francesi!, Vien da dire, parafrasando Asterix, alla sola idea di un Festival permanente del cinema italiano, da quest’anno in poi, sulla Costa Azzurra, a pochi chilometri dalla mitica Croisette di Cannes, che prepara i suoi titoli a caratteri cubitali, i suoi mille schermi da accendere a maggio.

Ma perché? «Perché noi, meglio di chiunque altro, tappiamo capirvi. Perchè noi, più degli altri, sappiamo amarvi!», esclamava con voce commossa Jacques Médecin, sindaco di Nizza, mentre uno dei cieli più miti del mondo veniva improvvisamente squarciato da tuoni e lampi. Ti pareva, come minimo...

«E' arrivata la bufera/ è arrivato il temporale/chi sta bene e chi sta male/e chi sta come je pare»: scherzi a parte, questo refrain di Renato Rascel qui otterrebbe un successone, visto che impazza un omaggio a Gina Lollobrigida, vecchia réclame di nna al-trettanto remota opulenza femminile (Lolo, in Francia, era una forma gergale per indicare un paio di tette felliniane) che, a quanto pare, ancora funziona.

La stessa intestazione di questa rassegna «Nizza-Cinècittà», come un eroico viaggio alla Lindbergh) tradisce l'equivoco. Svegliatevi, e da quel di che la nostra Mecca del cinema è ridotta a vestigio. Adesso che c'è la metropolitana, venite anche voi, cari cugini francesi, a far cicoria a Cinecittà.

Purtroppo, è proprio vero che noi ci abbiamo avuto la malattia, come diceva Alberto Sordi, sennò a quest'ora chissà che film facevamo. La malattia si chiama mitomania di come eravamo: poveri ma belli, piena di difetti e di talento, ecc..., ecc... Poi sono venuti gli americani (Griffith ha saccheggiato Pastrone, e via via Scorsese-Dino Risi, Robert De Niro-Alberto Sordi) che ci hanno rubato tutto.

Una storia antica, che i nonni del ‘ cinema italiano amano ancora raccontarsi tra loro dinanzi al focolare, badando bene che i nipotini non sentano, altrimenti potrebbero andarsi ad impegnare le ultime posate di argento, come Nanni Moretti, apostrofato da Monicelli tempo fa in TV con l'epiteto «figlio della commedia Italiana».

Proprio Monicelli, l'artigiano per eccellenza del nostro cinema, è un gran festeggiato a Nizza. Gli sbagliano tutti i titoli dei film (I compagni diventa «I compagnoni» o compagnini», Totò e i re di Roma risulta «Totò e i rei di Roma», secondo la tipica arte francese del refuso), però vengono fornite notizie davvero minuziose sulla sua lunga e intensa carriera. Lo sapevate che Monicelli era stato aiuto regista di Camerini e Bonnard, aveva sceneggiato con Riccardo Freda e Raffaello Matarazzo, aveva scritto una commedia in tre atti intitolata Piccola stazione di campagna è rappresentata nel '55?

Sì, si, questi francesi ci amano sul serio. Ma non sono granché ricambiati, vista la penuria di film al primo Festival di Nizza (inediti in Francia, soltanto I viaggiatori della sera di Ugo Tognazzi, anch'egli, come Monicelli, la Vitti e ha insignito di una personale, Il garofano rosso di Luigi Faccini, Il matto di Franco Giortielli, e, tirato per i capelli, il bel mediometraggio di Martin Scorsese Italo Americani, dedicato ai suoi oriundi genitori) dovuta alla diffidenza simpaticamente cafona di molti nostri produttori e distributori. Insomma, noi i film (quei pochi degni rimasti) li vendiamo, mica li portiamo in villeggiatura, sembra che abbiano pensato questi poveri bottegai poco avvezzi alle lusinghe e ai modi garbati.

Perdonateli. Ma intanto, mentre a Nizza si fraternizza, si raccolgono complimenti e si sentono fare apprezzamenti non proprio di buon gusto sulla salute dei nostri film, in Italia c'é il colosso francese Gaumont che incalza come una ruspa, cercando di costruirsi un impero sulle macerie del nostro circuito cinematografico. Mossa napoleonica.

Torniamo dunque a Monicelli, l'unico autore che ci interessa riosservare un attimo, da «forestieri». in questo bizzarro contesto. Rivedendo Guardie e ladri, con quei duetti irresistibili di Totò e Aldo Fabrizi, goduti dal pubblico nizzardo in maniera così fresca cd esuberante, quella malattia di cui si parlava diventa grave. F questi ridono. «Si facciano una bella risata su questo paio di baffi», gli avrebbe risposto Totò.

Secondo loro noi, adesso, su due piedi, dove lo andiamo a trovare un Totò? E De Sica, Visconti, Pasolini, Rossellini? Qui insistono col dire che Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman, Mastroianni, e Fellini, Bellocchio, Monicelli, Scola, Contendili, Risi, Bertolucci, Antonioni, Montaldo, Petri, Pontecorvo, gli italiani ancora bastano e avanzano. Già, i francesi continuano a credere che «Mostro Sacro» sia un complimento. Possibile che non si rendano conto che per far lavorare attori c registi in età, ad Hollywood per esempio, bisognerebbe fare una dimostrazione di piazza?

Certo, il problema non sussiste. Dove sono, chi sono i giovani del cinema italiano? Se a Cinecittà non si vedono, a Nizza tanto meno se ne sente parlare. Non s'ode commento, del resto, neppure a proposito della dissacrante Macchina cinema di Bellocchio, che qui poteva fare l'effetto di un enorme peto nel salotto buono all'ora del tè. Sfido, l'hanno nascosto bene, di prima mattina, e lo danno solo col contagocce, perchè non possa andare di traverso.

David Grieco, «Corriere della Sera», 14 marzo 1980


La cronaca della manifestazione in rassegna stampa


ROMA — Il dopo Totò non finisce mai. Sono passati tredici anni dalla scomparsa del grande comico napoletano, e intorno alla sua attività cinematografica c'è stata tutta una fioritura di studi per rivalutalo. In vita gli intellettuali Io snobbavano, ora dei suoi film, soprattutto i più commerciali, le televisioni private fanno grande uso. Un film su Totò sta per entrare nel circuito delle prime visioni, quel circuito che aveva quasi sempre sottovalutato la produzione dell'attore napoletano quand'era vivo.

Sabato 8 marzo, al teatro San Carlo, verrà proposto in anteprima «Super Totò», un film-collage dei gags migliori de! principe De Curtis ( il sottotiolo dice «Trenta film in uno»). L'idea e la realizzazione di questo omaggio al miglior Totò sono dovute a due uomini di televisione, Brando Giordani ed Emilio Ravel, gli stessi che per primi portarono qualche anno fa sul piccolo schermo il meglio dello spettacolo mondiale con «Odeon». Qualche brano del film ha il sapore dell'inedito, come quello di Ugo Tognazzi giovane che imita Totò e viene da questi spernacchiato. Alla viglia dell'anteprima di Napoli, il film di Giordani-Ravel è stato visto in una proiezione privata da Franca Faldini, il cui commento è stato: «finalmente!».

«La Stampa», 27 febbraio 1980 - La cronaca della manifestazione in rassegna stampa


Totò incompreso e «maltrattato» dai critici. Totò prima nella polvere e poi sull'altare, giudizi severi, stroncature senza mezze parole ma anche sviolinate fuori misura, una generazione di scrittori di cinema e di teatro quasi estinta (Aggeo Savioli ci ricordava, ad esempio, le recensioni tutt'altro che negative di un Umberto Barbaro alle riviste o ad altri spettacoli teatrali degli inizi delia carriera di Antonio de Curtis).

Un Totò, insomma, che, al di là del successo di pubblico, ha fatto sempre discutere gli «addetti ai lavori». Allora è vero che la critica si è troppo accanita contro Totò?

Giovanni Grazzini, scrittore e critico cinematografico, presidente del Sindacato nazionale dei critici, non ha dubbi, e afferma che questa storia del Totò bistrattato è diventata un po’ un'esagerazione, quasi un luogo comune.

«D'altra parte — egli continua — la critica era a quei tempi, negli anni Cinquanta e Sessanta, ancora fortemente influenzata dal mito del neorealismo ed è poi arrivata in ritardo, tuttavia non in modo soddisfacente, a recuperare il fenomeno Totò. Goffredo Fofi, ad esempio, ha fato un grosso sforzo, sebbene la sua interpretazione mi sembri di maniera. La stessa, tutto sommato, di quegli ambienti giovanili che tendono ad un recupero detrattore come "fonte di piacere". Dall'altro versante, invece, la critica cosiddetta perbenista rimprovera a Totò l'eccesso volgare. Molti, quindi, restano tuttora su posizioni di riserva, e tra questi mi ci metto anch'io. In definitiva ritengo che rimanga ancora molto da fare per studiare e approfondire questo fenomeno. Si tratta, però di scavare più nel valore "figurativo" di Totò non di rimestare tra le facili battute. Totò, in fondo è nato troppo tardi, all'epoca del muto sarebbe stato grande quanto Charlie Chaplin».

Ma tu, in particolare, come hai trattato Totò? Credi di averlo capito? E, infine, quante volte hai mandato il tuo «vice» a vedere un suo film?

«Non sono per niente sicuro di averlo capito. Tuttavia. si tratta di un personaggio che ti sfugge da tutte le parti. Sai come succede: di film di Fantozzi, fatte le dovute proporzioni, ne sono stati fatti tanti. E non sempre hai voglia di vedere le stesse cose. Quando, invece, mi sono occupato dei suoi film, gli ho rimproverato soprattutto la ripetitività e quella gestualità da macchietta da avanspettacolo tutta legata alle sue origini partenopee. D'altronde, non credo che Totò avesse una grossa coscienza di se stesso, si "vendeva" con molta facilità, prendendo qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani».

E del successo di questi anni?

«Sono in generale insoddisfatto del revival dì Totò. Diciamo la verità: siamo di fronte ad una speculazione commerciale a posteriori. Della critica ti ho già detto: rimane il pubblico che, certo, continua a divertirsi e ad applaudire. Ricordo, però, quello che diceva Pier Paolo Pasolini a proposito del successo post mortem di Totò: vale a dire, che la volgarità degli anni Cinquanta «si rifletteva in quella degli anni Settanta».

Gianni Cerasuolo, «L'Unità», 23 marzo 1980


Nelle salette di periferia del Quarticciolo e di Centocelle Ninetto Davoli aveva visto, ragazzo di vita, decine e decine di film di Totò. Poi un giorno Pasolini gli disse che avrebbe fatto un film con Totò e che lui, Ninetto, avrebbe esordito nel cinema. Incredulo è divertito allo stesso tempo, Ninetto Davoli continuava a domandarsi: «io in un film con Totò?» . Per convincerlo il regista aggiunse: «Devi conoscere Totò. Stasera andiamo a casa sua».

Così Pasolini e Ninetto Davoli bussarono alla porta del marchese de Curtis, il quale andò a riceverli in vestaglia e sciarpetta di seta intorno al collo. «Vedendolo conciato così da gran signore - ricordo Davoli, che aveva addosso, invece, un paio di jeans sdruciti è un maglione - mi venne da ridere. Pierpaolo cercava di farmi star buono mentre lui, Totò, continuava a rassicurarlo che quel ragazzaccio in fondo non gli dava fastidio».

«Qualcuno in seguito mi disse che, appena andammo via, Totò prese un insetticida e lo spruzzo sulla poltrona dove ero rimasto seduto. Non so se sia vero: ma, se fosse veramente andata così, la cosa mi diverte lo stesso». «Durante la lavorazione di “Uccellacci e uccellini” Totò era prodigo di consigli nei miei confronti: tu sei giovane - diceva - hai un avvenire, cerca di studiare (e a me di questo proprio non me ne fregava). Oppure, quando la battuta non mi veniva e mi impappinavo: “Non ci pensare, dì qualche numero ‘na fesseria qualsiasi”. Io, d'altra parte, per rispetto verso la sua età, cercavo di aiutarlo e spesso gli dicevo “Vi serve questo, Vi serve quest'altro. Ma lui quasi si incazza va e ribatteva “Ma che m'hai preso per Capannelle?”»

Gianni Cerasuolo, «L'Unità», 23 marzo 1980


Franca Faldini, che fu la sua compagna, parla di un personaggio straordinario- l'incontro di Ninetto Davoli e di Pier Paolo Pasolini con il marchese de Curtis- Giovanni Grazzini e certi atteggiamenti della critica

Napoli

Seduta nella hall di uno degli alberghi più chic di via Caracciolo, Franca Faldini attende che giunga la sera per stare, ancora una volta, insieme con Totò. Alle 21, al teatro San Carlo, danno in prima Supertotò, un film dei film dell'attore organizzato da Brando Giordani ed Emilio Ravel. Quando lei è il marchese de Curtis arrivavano a Napoli, erano costretti a barricarsi nella camera d'albergo, lo stesso che oggi ospita la signora e che ha Totò, però, non andava a genio perché, e gli diceva «pare quasi il cimitero degli elefanti tanto è intristito, se sono fortunato ci incontro Ibn saud, con seguito l'harem, che puzzano quasi quanto un basso del pallonetto a Santa Lucia», non dandosi pace dei cambiamenti della sua città, dove «persino gli scugnizzi... sono diventati viziosi».

Tutti e due, allora, aspettavano la notte per fare un giro della città: di giorno, Totò non poteva fare un passo, lo riconoscevano, gli si facevano intorno e qualcuno lo invitava a bere un caffè al bar più vicino. Un abbraccio che Napoli non allentò quel giorno di aprile del 1967, quando Totò decise di andarsene per sempre e nella chiesa del Carmine ricevette un lungo, inatteso applauso. Della morte, Totò aveva davvero una concezione immortale (che espresse, in parte, nei versi di ‘A livella). Racconta la Faldini che quando si recavano al cimitero, lui si convinceva che quelli sotto terra continuavano la loro vita: «qui c'è da nonna che bada al nipotino, là c'è la mamma che sta con i suoi figli...».

Nessun culto invece, come ricorda Franca Faldini, per la professione. «In casa non avevamo nemmeno un ritaglio di giornale che parlasse di Totò, nessuna fotografia di qualche film». Tra Antonio de Curtis e Totò c'era soltanto un rapporto di lavoro particolare. Lui, infatti, sosteneva che Antonio de Curtis era il magnaccia di Totò, che Totò, insomma, faticava e si spremeva comune di limone per mantenere l'altro, il marchese Antonio de Curtis. Non è che il «magnaccia» avesse molto fiducia dell'altro e viceversa. Antonio pensava che quello che stava girando fosse l'ultimo film di Totò, che presto si sarebbero dimenticati di lui, che i critici del cinema «che non sanno fare il loro mestiere» gli avrebbero dato addosso ancora una volta: per questo, era meglio arraffare quello che gli veniva offerto, sebbene in molte occasioni rimanessi amareggiato ad esclama: «O non valgo niente, oppure devo morire per essere preso in considerazione». Intanto, al cinema andava di rado quasi mai a vedere i film di Totò, preferiva i gialli. Del resto, sui giornali leggeva con attenzione soprattutto da cronaca nera e si appassionava a dare una spiegazione tutta sua di fatti delittuosi, più forte tentando di mettersi in contatto con qualche amico della squadra mobile per saperne di più e, magari, tentando di dare egli stesso la soluzione.

Tuttavia, in Francia gli capitò di vedere “Totò sceicco”. Quando sentì quello che era diventata in lingua francese la battuta «Vide ‘o mare quant'è bello» sulle note della celebre canzone napoletana (battuta che Totò pronunciava in risposta al l'invocazione del suo nome, «Omar, Omar» da parte di una donna), si tappò le orecchie e scappò via, convinto che la sua maschera (secondo quanto lui stesso andava dicendo, Totò era nato in un collegio napoletano perché è un cazzotto di un precettore gli aveva semiparalizzato la mascella), potesse esprimere molto di più di qualsiasi battuta, aveva chiesto più volte a produttori e registi di fargli girare un film muto. «Tu sei pazzo», gli risposero, per ovvi motivi di cassetta.

Totò dunque rimaneva a lavorare sul set, come sempre. Dentro casa, Antonio de Curtis era un'altra cosa: abbastanza pigro e abitudinario, amante della buona musica, geloso e all'antica in fatto di donne (che avessero però carattere) «qualunquista di sinistra», come egli stesso si definiva, affermando l'assoluta apoliticità dell'attore che non può far dispiacere una parte del pubblico, abbastanza schivo nel frequentare personaggi dell'ambiente cinematografico. I soli argomenti che lo stimolassero a parlare di lavoro era nel teatro e l'avanspettacolo. cioè, di quegli anni che, prima del successo, furono per lui di fame nera, la stessa che aveva provato al rione Sanità, a Napoli, dove era nato, figlio di Anna Clemente, nubile.

Raccontava spesso, ad esempio, ricordando la tristezza che c'era dietro il sipario, un episodio accadutogli a Montecatini, dove dovette capitare per qualche scalcagnata tournée. «Nella sala del teatrino non c'era mai nessuno a vedere lo spettacolo. Allora mi misi d'accordo con il proprietario della locanda dove la compagnia era alloggiata. Lui veniva allo spettacolo e, quando si era portato dietro un po' di gente, quel brav'uomo cominciava a fare tosse e a sbattere i piedi, tanto per farci capire che finalmente un po' di pubblico era arrivato».

«Chissà se ce la farò», disse quando Pier Paolo Pasolini gli offrì di fare “Uccellacci uccellini”. La malattia agli occhi che lo aveva reso ormai (era il 1966) quasi cieco. Tuttavia, la sua preoccupazione maggiore non era quella dell'infermità, ma piuttosto la soggezione che gli metteva il regista, di cui era rimasto quasi affascinato soprattutto per il suo modo aperto e diretto di accostare la gente punto dicono che Pasolini provasse da stessa sensazione di rispetto. Certo è che Totò cominciò a lavorare con lui come un attore ai primi passi, rammaricandosi poi di quell'incontro troppo tardivo. Totò aveva aspettato che Luchino Visconti ti facesse un cenno per una «Storia di Antonio Petito», che pare il regista volesse realizzare. Aveva sperato che Federico Fellini si ricordasse di lui. Ma lui e Fellini si sono visti soltanto di sfuggita, in occasione di un drink in casa di amici, dice ancora Franca Faldini.

Ed Eduardo? Totò Lo stimava ed ammirava tanto ma aveva saputo che al «grande vecchio», affezionato ad Antonio de Curtis, non era granché piaciuta la sua interpretazione di “Napoli milionaria”, nella versione cinematografica (1949) dello stesso De Filippo. Con Pasolini, invece, Totò smentiva quanti, critici e registi, hanno sostenuto (ed è chiaro che riferimento della Faldini è a Fellini) che era praticamente impossibile dirigere Totò, l'attore. La profezia di Totò si è avverata («devo morire per essere apprezzato»), ma Franca Faldini giudica che gli atti di contrizione postumi hanno molto spesso il valore speculativo. Ben vengano, comunque, visto che nuove generazioni hanno conosciuto, capito e applaudito Totò. Forse per la carica dissacratoria e plebea di quella faccia da aristocratico che si portava dietro dal rione Sanità.

Gianni Cerasuolo, «L'Unità», 23 marzo 1980


1980 03 25 La Stampa Supertoto intro11

SuperTotò, film antologico sul comico napoletano raccolto da Brando Giordani ed Emilio Ravel. Bianco nero e colori Italia. Cine Augustus.

Omaggio a Totò. Brandelli di film raccolti In antologia, ovvero spezzatino cinematografico. Sarti di questa variopinta arlecchinata sono Brando Giordani ed Emilio Ravel, i quali, innestandosi nel gonfio fiume della totomania nata il giorno dopo la morte del comico napoletano e tuttora rigogliosa, hanno assemblato spezzoni (a volte pochi fotogrammi) di una ventina di pellicole da S. Giovanni decollato a L'oro di Napoli.

Il risultato non è una lettura critica della maschera, dei suoi meccanismi comici elementari ed efficacissimi, ma piuttosto un repertorio affettuoso e agiografico di gag e sketch «classici». SuperTotò non ci spiega nulla, non cerca di farci capire qualcosa di più sull'attore, trascura molti suoi film anche importanti come Dov'è la libertà di Rossellini, Uccellacci uccellini di Pasolini. E' soltanto un'ulteriore tappa (esistono già altre due antologie, una italiana del '68 e una del francese Jean-Louis Comolll) nella discussa beatificazione di Totò che ancora oggi spacca in due la critica.

I «Totologi-Totofili», di formazione post-sessantottesca, sulle barricate della monumentalizzazione a oltranza, e i «Toto-neutralisti» che distinguono, eccepiscono, separano il Totò buono, impegnato, dal Totò cattivo, sciammannato, qualunquista, improvvisatore arruffone Totò di destra, Totò di sinistra, borghese o sottoproletario, progressista o reazionario? Chissà? Forse tutte le cose insieme.

Un fatto è certo: il suo personaggio non conosceva le pieghe dell'ambiguità, la sua espressività era diretta, la forza comunicativa travolgente e senza mediazioni di tipo intellettuale. Vendeva risate e le vendeva onestamente, generosamente, con effetti sempre liberatori. Questo la gente lo capi allora e lo avverte ancora oggi. Senza preoccuparsi delle «guerriglie» critiche migliaia di persone, almeno in questi primi giorni di proiezione, hanno risposto all'appuntamento con il grande Totò. Come si poteva mancare: intorno ci sono cosi poche occasioni per ridere.

r. s., «La Stampa», 25 marzo 1980


«Corriere della Sera», 10 aprile 1980


SUPERTOTO' di Brando Giordani ed Emilio Ravel. Film di montaggio. Italia, 1980

Terzo film di montaggio dedicato al nostro massimo attore comico dopo Totò story (1968) Totò, une anthologie, realizzato nel 1978 dal francese Jean-Louis Comolli con commento di Darlo Fo. Che si distingue dagli altri per il tentativo di raggruppare le mille occasioni di ilarità offerte dall'«angelo folle», come ebbe a chiamarlo Felllni, in numerosi capitoletti.

Questa di condensare sotto un titolo-etichetta i modi ed l temi in cui si espresse la personalità di quel guitto di genio «la maschera», «le donne», «l'arte d’arrangiarsi», ecc. è un'ipotesi critica rispettabile ma non soddisfacente. Il fenomeno Totò, uno del più interessanti dello spettacolo italiano e uno del più difficili ad analizzare, si presta poco, infatti, alle classificazioni che, per sistematizzarlo, lo frantumano. Totò è scindibile soltanto per ragioni di comodo didascalico. Nella sostanza egli è un tutto organico un attore d’avanspettacolo che il cinema dissipò, ma che fu grande quando potette saldare la tradizione della rivista con quella della farsa surreale e del teatro popolare napoletano. Chi lo comprese appieno fu Pasolini, il quale in Uccellarci e uccellini, un film purtroppo escluso da questa antologia, per ragioni indipendenti dalla volontà degli autori, ne afferrò l’assurdo poetico e il dolore atavico. Quasi tutti gli altri sceneggiatoli e registi lo utilizzarono come macchina da risate, come un Pulcinella da caserma, un burattino di gomma che alla buffezza delle smorfie aggiungeva la scemenza delle battute.

Attore di grandissimo istinto, Totò nacque troppo tardi ed è morto troppo presto. Sarebbe divenuto uno dei protagonisti indiscussi del cinema universale se avesse operato negli anni del muto. Sarebbe forse stato un interprete eccezionale se fosse vissuto abbastanza da incontrare qualche regista che puntasse tutto sulla sua immagine mobilissima, sulla sua sovrana sapienza di esprimere qualsiasi sentimento e il retroterra storico e sociale coi movimenti del corpo. Servito, il più delle volte, da produttori rapaci e autori dozzinali (arrivò ad interpretare sette film in un anno), Totò va oggi gustato cum grano salis. Anziché cadere nell'ammirazione incondizionata del suoi frizzi e del suoi lazzi, cui vorrebbero spingerci quanti vi leggono un inno alla libertà un massacro delle istituzioni borghesi e la schizofrenia del povero cristo famelico — chiave applicabile anche a tanti altri comici — occorre domandarsi con Mario Monicelli se non sia stato un doppio errore portare Totò dalle parti di Eduardo per renderlo «più umano», e respingerlo tanto spesso a macchietta napoletana per militari in libera uscita. Forse ciò che soprattutto resta di Totò è la rivolta contro la convenzione gestuale, la geometria euclidea e la sua logica rispettabile, quel disarticolare la realtà che è propria del clown metafisico. Felllni aveva ragione quando diceva che di fronte a Totò si era colpiti della stessa meraviglia che prova un bambino di fronte a un animale fantastico come la giraffa o il pellicano. Benché inflazionato da decenni di cinema di serie B e C, questo stupore conserva ancora oggi la sua carica.

Il film di Giordani e Ravel può essere perciò visto con frutto. Esso comprende brani da L'oro di Napoli, Miseria e nobiltà, Totò e le donne, Guardie e ladri, Totò a colori, Napoli milionaria, Il più comico spettacolo del mondo, Totò nella luna, Fifa e arena, Lo smemorato di Collegno, Totò cerca moglie, Totò sceicco, La banda degli onesti, Totò Peppino e la malafemmena, San Giovanni decollato, 47 morto che parla, Totòtarzan, Totò le Mokò, L'allegro fantasma, Il mostro della domenica. Quanto basta perché lo spettatore di gusti semplici si abbandoni alla risata, lo storico del cinema italiano torni a considerare la povertà stilistica di tanti film degli anni Cinquanta e Sessanta, gli anziani siano presi da attacchi di nostalgia rivedendo giovanissimi molti attori popolari, e il talento naturale di Totò esploda in sequenze impagabili. Dove la girandola del «non sense» irrompe cosi spesso nell’universo realistico, e sublima in parossismo formale gli stenti del misero in guerra con la vita.

Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 13 aprile 1980


NAPOLI - A distanza di 13 anni dalla morte di Totò (15 aprile 1967) è stato riaperto per la prima volta il suo baule teatrale. L'avvenimento è stato filmato da «Gulliver», la terza pagina del Tg2 curata da Ettore Martina ed Emilio Ravel in occasione di un servizio dedicato alle «radici» di Totò.

il prezioso cimelio custodisce alcuni abiti di scena e oggetti a cui il principe De Curtis era particolarmente affezionato: il costume e la parrucca di Otello ( personaggio da lui interpretato in chiave e caricaturale), due dei suoi classici con calzoni a saltafosso, la casacca azzurra a palline bianche di Pinocchio, la divisa di ufficiale indossata in un film in cui faceva il comandante, il cappello del film Uccellacci e uccellini ( di Pasolini), quello di Guardie e ladri, il berretto colorato de L'imperatore di Capri e le due bombette da cui non si separava mai. In più la sua scatola del trucco( una misera scatola di latta), lo specchietto e una spazzola d'argento con le iniziali principesche e, infine, la custodia dei biglietti da visita.

Antonio Lubrano, autore del servizio col regista Pino Passalacqua, ha ritrovato il baule di Totò in casa di Edoardo Clemente, cugino del grande attore, che ha seguito come segretario Totò dal 1950 al 1967.
Le radici di Totò - che Gulliver manderà in onda presumibilmente martedì 13 maggio - tenta di ricostruire il clima in cui è nata la maschera di Totò, portando l'attenzione sugli anni che vanno dal 1898 al 1922: che cosa erano, per esempio, le «periodiche» che videro il debutto di Totò come imitatore di Gustavo de Marco, com'era il varietà di allora (attraverso i ricordi di Trottolino, Beniamino Maggio e la collaborazione di Angela Luce che fa rivivere Maria Campi, l'inventrice della «mossa»), il panorama sociale attraverso le testimonianze della scrittrice Maria Luisa D'Aquino e del commediografo Elvio Porta.

«Il Mattino», 25 aprile 1980


ROMA

Stasera Gulliver, la terza pagina del Tg2, riapre il baule teatrale di Totò, a tredici anni dalla sua morte (15 aprile 1967). Del prezioso cimelio si erano perse le tracce. In realtà, esso era ben custodito in casa di Eduardo Clemente, cugino del principe della risata e suo segretario dal '50 al '67.

Gli inviati di Gulliver lo hanno filmato a Pollena Trocchia un paesino dell'hinterland napoletano. Il baule contiene i costumi di scena a cui Totò era più affezionato il famoso tight con i calzoni al saltafosso, la casacca a palline di Pinocchio, una coloratissima zimarra con la quale ironizzò su Otello nella rivista A prescindere; le sue bombette, il cappello di Guardie e ladri e quello di Uccellacci e uccellini (girato con Pasolini). Se a Napoli non dovesse sorgere la Tototeca — com'è nel voti dell'amministrazione comunale — Clemente donerebbe il baule al Museo di S. Martino, dove sono custoditi altri costumi e altre maschere: celebri. Sicché, la bombetta di Totò figurerebbe accanto alla maschera di Pulcinella.

Il servizio di Gulliver, dedicato alle «radici» di Totò, 6 stato realizzato da Antonio Lubrano e dal regista Pino Passalacqua (gli stessi che per Gulliver ricostruirono il volo di Milano del 1930, effettuato dall'antifascista valdostano Bassanesi). Sul clima nel quale si formò la comicità di Antonio De Curtis parlano gli alunni della sua stessa scuola comica, Beniamino Maggio e Trottolino; sul clima sociale di fine Ottocento primi Novecento parlano invece gli scrittori Maria Luisa D'Aquino ed Elvio Porta.

«La Stampa», 13 maggio 1980


1980 05 13 Il Messaggero Toto Gustavo De Marzo intro

L’intervista - Le radici di Totò a Gulliver, rete due, ore 20.40. Parliamone con Antonio Lubrano il realizzatore

Lo spunto è nei dieci anni di revival del personaggio. Totò al cinema: i suoi film («circa 115, ma ne circolano solo un'ottantina») riempiono i cineclub, Totò sul video: i canali privati trasmettono quotidianamente le sue pellicole. Totò sui libri: sul comico nel giro di qualche anno ne sono usciti sei. Insomma Totò è stato esplorato in tutte le dimensioni. Quello però che stasera offre Gulliver, il settimanale del Tg 2, è un aspetto ancora poco conosciuto: il Totò delle origini, dei vicoli del rione Sanità a Napoli, dei teatri di avanspettacolo, delle quinte. Antonio Lubrano e il regista Pino Passalacqua sono andati in quei vicoli e in quei teatri a raccogliere materiale sul principe De Curtis e quello che ne è venuto fuori è stato montato in un servizio di sedici minuti.

Lubrano, che cosa avete messo insieme scavando nei vicoli di Napoli?

«Tanto materiale. E fa rabbia doverlo ridurre a pochi minuti. Eppure questo e il servizio più lungo del Gulliver di questa settimana».

Che ritratto di Totò ne viene fuori?

«C’è prima di tutto un gran rispetto nei suoi confronti da parte dei colleghi. Ci sono comici come Trottolino, 62 anni, magro, magro, della sua stessa scuola, che arriva a dire «non sono nemmeno degno di nominarlo». Lina vera venerazione. Tutti però riconoscono anche che Gustavo De marco (morì nel '42) è stato il suo modello, il suo maestro. Totò gli assomigliava nell'aspetto fisico, ma anche nel modo di muoversi, di gesticolare. Quando era ancora un apprendista andava fra le quinte a seguire gli spettacoli ai De Marco. Era attentissimo. Questa sua capacità di osservare la ricordano anche quelli del quartiere. Totò da ragazzino lo schiamavano ”'O spione”, proprio per questo suo modo di guardare attentamente le cose, di seguire tutto. C’è comunque una parentela artistica tra tutti questi comici della scuola napoletana

Cosa raccontano degli esordi di Totò?

«Il vero debutto fu in una Periodica, le feste che si facevano periodicamente nel quartiere per mettere in mostra le ragazze da marito. C’era fisso il momento del dilettante. A Totò toccò quando aveva 14 anni, fece un imitazione di De Marco, ebbe grandissimo successo e da allora decise di tentare la carriera del comico. Riuscì subito, ma ebbe qualche difficoltà perché piaceva troppo al pubolico. C’erano delle compagnie che non lo volevano perché le sue camminate da marionetta facevano sfondare le scene di carta. Il pubblico le conosceva, le chiedeva e buttava i soldi sul palco rompendo gli scenari, che costavano carissimi».

Avete riaperto il suo baule teatrale...

«Era chiuso da 13 anni, ce l’aveva il cugino Edoardo Clemente. Dentro ci sono i suoi abiti da scena: le bombette, il cappello di "Ucccllacci e uccellini”, il vestito da Moro, di Venezia della rivista ”A prescindere”, il ferro di cavallo che Totò appendeva rigorosamente tutte le volte alla porta del suo camerino. Facciamo vedere per la prima volta anche le foto dei suoi genitori Anna Clemente e Giuseppe De Curtis».

Marco Molendini, «Il Messaggero», 13 maggio 1980


Anche «Gulliver», la «terza pagina» del TG 2 curata da Ettore Masina ed Emilio Ravel, è andata alia scoperta di Totò. E di scoperta bisogna parlare, visto che il servizio che vedremo questa sera ci presenta un Totò poco conosciuto, quello delle origini, del palcoscenici del varietà e della rivista degli inizi degli anni 20. Lì, dietro le quinte, il giovane del rione Sanità si segnava le battute e le scenetta (come rivela Cleo Miranda, in quei tempi canzonettista di vaglia e moglie di Gustavo De Marco.

Il primo, ed unico, «maestro» di Totò). Antonio Lubrano e Pino Passalacqua, i due giornalisti che hanno realizzato il servizio, hanno ficcato il naso anche nel baule-guardaroba di Totò, conservato come una reliquia dal cugino-segretario Eduardo Clemente. Ma quella vis comica da dove nasce? Anche quando il fatto spettacolare è di importazione, come, ad esemplo. Il café-chantant, esso si innesta e si impregna, venendone stravolto, dalle condizioni sociali di una realtà fatta di miseria e di paura. E’ insomma l'antica fame di Pulcinella che fa capolino.

Anche lui è andato alla ricerca di Totò. Ce l'ha confessato mentre parlavamo di questo servizio di Gulliver sulle radici di Totò. Lui è Leopoldo Mastelloni, mimo a fantasista, straordinario interprete in prosa e musica a metà strada tra Brecht e Viviani, di questi tempi vedette televisiva del sabato «era, mentre, sempre di questi giorni, continua a fare il pienone al Teatro San Nazzaro di Napoli con la sua Carnalità.

«Di fronte a tanto revival di Totò — dice Mastelloni — io pensai di affibbiargli una nonna, Partenope Campana, uno del personaggi su cui si regge Carnalità. Era una storia in cui, per unire spettacolo e cultura, questa nonna si presentava ad una casa di produzione cinematografica e proponeva dei reperti archeologici sul proprio nipote. La donna si metteva alla ricerca di quelle cose che avevano creato Totò, guidando una sorta di camion-casa: il café chantant, la rivista del primo Novecento. Doveva essere un telefilm. Poi non se ne è fatto più niente perché i produttori l’hanno ritenuto poco "commerciale”»,

Teatro minore, quello della rivista, dell'avanspettacolo? «Niente affatto! Prima si facevano delle cose forse con molta più ironia, con molta più intelligenza, con molto meno prosopopea, anche con molta più fantasia tra un ballo e una canzone. Prima si prendeva a pretesto una musica popolare e si faceva su un lavoro di critica al potere. E questo discorso di critica era recepito al cento per cento, da tutti, mentre invece negli anni Cinquanta o Sessanta il teatro off lo ha fatto forse in modo più colto, ma molto meno recepibile. Per un eccesso di astrazione culturale si è creato un discorso di élite anche dal punto di vista della comicità: e così oggi si è tornati ad uno spettacolo che io non esito a definire reazionario. Anche a me interessava e interessa parlare ad una platea vasta. Ed allora ho cominciato ad analizzare, non solo per divertire, le cause di tutto ciò chiaramente rapportandole alla realtà degli Anni Ottanta, ho creato quello che poi è oggi il mio tipo di teatro che segue quelli che sono gli iter di costruzione di questo teatro minore di cui si parlava».

Vivendo in una città come Napoli, una città unica anche per la comicità, con le sue contraddizioni tipiche, con quello che sono i dolori, le miserie cosmopolite si fanno i conti con cose originalissime. Dieci cose di Beirut, di Mosca, di Londra, si trovano concentrate a Napoli. Ciò costituisce una spinta tutta particolare per le persone dotale naturalmente nel fare teatro. Si riesce più facilmente a creare una maschera». Una tradizione che oggi vive una grande vena di «riscoperte».

«Questo giusto interesse nel confronti della tradizione comica napoletana è purtroppo diventato preda di intellettuali e di grandi pensatori che hanno scoperto solo ora un fatto che esiste da sempre. E come è morto il canto popolare, così credo che morirà anche questo tipo di teatro, si annullerà perché volutamente diventerà un fatto astruso e non sarà più quello che deve esere. Troppa roba, troppa materia trattata da persone non specifiche, troppe speculazioni». [...]

Gianni Cerasuolo, «L'Unità», 13 maggio 1980


«L'Unità», 22 giugno 1980


Ricordate le vecchie arene Italie, o quei cinemini all'aperto di paese, quelle atmosfere felliniane d’«Amarcord», dove la gente si portava le sedie, i bambini passavano davanti allo schermo, qualcuno urlava insulti all’ operatore, per una pellicola vecchia e spezzata? Nostalgia sicuramente, ma notturno cinema è riuscito a rispolverare questa vecchia idea, gustosa e popolare, del cinema all’aperto che tutti ancora, d'estate, rimpiangiamo, come le vecchie giostre dei cavalli della periferia, e le scampanate del ferragosto e tutte quelle vecchie cose dal sapore paesano e popolare, sepolte e abbandonate. Siamo d’estate in una città deserta e spopolata della vacanza obbligatoria, tutti noi superstiti ci ritroviamo felici a bivaccare sull’erba del castello. A parte i compiacimenti, quella di notturno cinema è proprio una buona idea.

Giovedì sera Miseria e nobiltà, nonostante che ognuno di noi se l’è visto; tante volte almeno quante la corazzata Potemkin, ha suscitato risate, ci ha divertiti da matti, gli applausi te li tirava fuori ch’era una bellezza. Totò è ancora tutt’oggi, nel panorama comico italiano nevrotico e surreale dei Benigni, Villaggio e via dicendo, un grande patrimonio collettivo.

Totò è tutti noi, un bagaglio di gesti quotidiani e comici, deformati dalla smorfia del riso «godereccio» e liberatorio. Miseria e nobiltà con il suo spettro della fame assurdo e reale è la miseria e nobiltà delle famiglie napoletane, tuttora presenti, di là dal folklore, nei bassi del quartieri, negli appicichi balconari e plateali.

Forse è un po’ triste riconoscerlo, ma oggi più che mai c’è questo bisogno di comicità, di risate di gioia, di divertimento sano e intelligente. Ma soprattutto c’è li desiderio di quel ritmo incessante e continuo del teatro di varietà, fatto della battuta o no-stop». delle gags che si succedono a più non posso, di un comico basso e viscerale che ci attraversa tutti, come un grande prodotto di rilassa e collettivo.

Il momento è oltretutto felicissimo. Che cosa offre il panorama cinematografico cittadino di questi tempi? i titoli sono raccapriccianti almeno quanto la popolazione strana e «under grond» che occupa le sale oscure e complici dei cinema d’estate.

Imperversano le «professoresse liceali» e di «scienze naturali», con tutto il bestiario sedicente pornografico dalle elementari all'università passando per le caserme e i cimiteri, pieni di zombi torbidi e osceni, di spie che vengono dal nord, di bambolette stupide e fredde come le pupazze di plastica dei più squallidi «porno-shop» svedesi. Le offerte di piacere voyeristico e torbido che le luci rosso e intermittenti promettono dai manifesti ammiccanti sono quanto mai illusorie. .

Quale godimento migliori degli spaghetti nelle tasche di Totò, quali «abissi più invitanti delle sue smorfie, delle sue rigidità clownesche, dei suoi gesti allucinanti e dissociati che dopo quarant'anni fanno ancora ridere a crepapelle, come la prima volta? Non c’è nulla di più eccitante della comicità napoletana, quello dei vecchio stile, del salone Margherita, delle chiassate alla Dolores Palumbo, degli espedienti più assurdi dei finti petti bianchi e inamidati che malcelano la miseria sotto una grande e dignitosa nobiltà.

Totò, Keaton, i fratelli Marx soddisfano questo atavico bisogno di piacere notturno da esaltazione del cinema come ai vecchi tempi, quelli di Breton e dei surrealisti che parlavano di una mitica «Age du cinema», di un’età dal cinema del primi anni del sonoro, quando si entrava ed usciva come i pazzi dalle sale complici davvero: di quando il cinema era un prodigio magico e naif; quando ancora non si era classificato, codificato, massificato come l'immaginario, arte e tecnica del film.

Eppure immaginario lo era serio, se è vero, come è vero che Totò, Keaton, i Marx senza arrivare a Chaplin sono i nostri grandi maestri irrinunciabili, maestri di chiunque oggi voglia produrre delle immagini, di chiunque voglia lavorare su quell'impervio terreno che è il comico.

Luciana Libero, «L'Unità», 17 agosto 1980


«L'Unità», 22 settembre 1980 - Premio "de Curtis"


Il principe De Curtis, in arte Totò, è un uomo sul cui conto i luoghi comuni si sprecano. Per esempio: snobbato dalla critica, è stato rivalutato dopo la morte; il che non è completamente vero, ed è comunque un errore da superare, non un tormentone da ripetere. Oppure: un grande attore che ha fatto solo brutti film; fandonia delle più clamorose, basta rifarsi ai dati per rendersene conto. Dati che parlano chiaro: la filmografia che Goffredo Fofi aggiunge in calce al volume Totò: l'uomo e la maschera, da lui curato insieme a Franca Faldini, comprende 97 titoli. In questo cospicuo elenco, riscontriamo sette regie di Monicelli, tre di Pasolini, una ciascuno di De Sica, Bolognini, Comencini, Rossellini, Blasetti, Greporetti, Lattuada, Eduardo De Filippo; due sceneggiature di Vitaliano Brancati, due di Ennio Flaiano; due adattamenti da Pirandello e uno (Totò e i Re di Roma, 1951) da testi di Cechov. Bellissimi nomi, tutti quanti. Certo sono una minoranza, la massa è rappresentata ai film di Camillo Mastrocinque, di Mario Mattioli, di Sergio Corbuccì, questi sì autentici «mercenari» della sotto-commedia italiana. Ciò non toglie che sarà bene cominciare a distinguere, in questo come in altri campi.

Un’altra cosa da non dimenticare è come Totò, nell’immediato dopoguerra e fino agli inizi degli anni Cinquanta, fu impiegato in film di carattere quasi neo-realista. Merito di Rossellini che lo usò in un film purtroppo poco riuscito, Dov'è la libertà del 1952; merito soprattutto di Mario Monicelli che lo diresse (prima in coppia con Steno, poi da solo) in Totò cerca casa (1949), paradossale film-inchiesta sulla crisi degli alloggi; in un memorabile Guardie e ladri (1951), dove il duetto con Aldo Fabrizi raggiunge vertici sublimi; e, ultimo ma non ultimo, nel film di questa sera, Totò e Carolina (1953), da un soggetto di Ennio Flaiano.

Proprio Totò e Carolina è importante per capire come la maschera di Totò potesse urtare i potenti. Finito nel 1953, il film fu bloccato dalla censura e potè uscire solo nel ’55, impietosamente tagliato. Totò vi interpreta il ruolo di un poliziotto che deve ricondurre al suo paese, con foglio di via, una ragazza che ha tentato il suicidio. Un soggetto difficile, e poi, ma scherziamo, un poliziotto con la faccia di Totò? Monicelli e Flaiano dovettero operare trentacinque tagli.

E’ giusto, quindi, che Totò e Carolina vada in TV, anche venticinque anni dopo. E’ anche un atto di riparazione, perchè la TV, pubblica e privata, ha sfruttato e massacrato Totò come nessun altro: presentando copie macilente, piene di salti, inguardabili, e organizzando centoni che non rendono minimamente giustizia all’attore. Vorremmo finalmente vedere film integri, e soprattutto vogliamo vedere film interi, non raccolto di spezzoni. Per capire come, a volte, Totò fosse veramente costretto a salvare copioni allucinanti con la sola forza della propria mimica e dei proprio nonsense; e anche per capire come, talvolta, questo stralunato Pulcinella si limitasse a scatenarsi in due o tre scene, disinteressandosi del film nel suo complesso. Monicelli stesso ce lo dice: «Totò si compiaceva se chi gli scriveva le sceneggiature erano autori di nome, però credo che sul fondo non gli interessasse molto. La grande passione, la grande nostalgia di Totò era il teatro, il cinema lo ha fatto per ragioni economiche...».

D’altronde, Totò in TV lo amiamo, ma ci fa tristezza; già il cinema è un’arte tecnica, di riproduzione della realtà; il cinema in TV è riproduzione di una riproduzione. La cosa funziona per grandi registi nelle cui mani l’attore è solo materiale narrativo, non può andare bene per Totò. Facciamo allora una proposta: trasmettiamo tutti i film di Totò, uno al giorno, per omaggiarlo; poi chiudiamoli in una stanza, e facciamoli vedere solo a bambini di tre o quattro anni che dimostrino un precoce talento per la mimica e per l’assurdo: impareranno parecchio, e forse, finalmente avremo un nuovo Totò. Perchè non ci servono più fantasmi, ci serve un uomo di carne, che sappia fare a pezzi il buon senso e le convenzioni usando esclusivamente la lingua e le mani.

Ci serve un altro uomo che, come Totò, sappia superare le classi, nutrendo la propria maschera degli spiriti vitali e anarcoidi del sotto proletariato, senza perdere la propria nobiltà, la propria signorilità. Totò era così: era un principe, ed è l’unico luogo comune che ancora gli si attagli bene. Racconta Vittorio De Sica che lo diresse in l'Oro di Napoli: «Il primo giorno che lavorai con lui gli domandai: "Devo chiamarla principe o Totò?”. Ci pensò un attimo, poi mi rispose: “Mi chiami Totò”. Ma tutti gli altri dovevano chiamarlo principe...».

al.c., «L'Unità», 17 novembre 1980


«Due film una lira»: questo slogan pubblicitario inaugurava la nuova gestione della «Sala Umberto», quella dei fratelli Cenci. Si era nell’anno 1933, imperava il fascismo. E questa era un'altra tappa della vita di questo locale umbertino, già famoso alla fine dell'800 passato nel corso della sua storia da cafè chantant a cinema di terza categoria.

Dopo un’ennesima parentesi «teatrale», a ridosso della guerra, con Totò e Anna Magnani indiscussi mattatori, c’è stata una lunga stagione di sala cinematografica con proiezione di pellicole, fino allo scorso anno quando è chiusa per una crisi finanziaria. Adesso la «Sala Umberto» riapre i battenti. si riveste a festa, e apparire di nuovo come teatro, per ospitare un repertorio intenso e drammatico, cosi come si confà alla sua rinnovata struttura.

Dopo molti mesi di restauri si possono riammirare gli stucchi, le ringhiere di metallo che contornano la balconata, le maschere di legno dipinte. Tutt'intorno ai seicento posti, alle seicento comode poltroncine — in origine erano seicentottanta — le colonne di marmo rosato che fanno da contrappunto ai graffiti. In alto il soffitto, impreziosito da rombi colorati e dalle lampadine al tungsteno.

E’ stata ricreata cosi una atmosfera intima, un po’ decò proprio quella che piaceva al grande Pelrolini, che preferiva la «Sala Umberto» agli altri teatri della città. Un’atmosfera particolarmente adatta ad accogliere delle pièces concentrate, intense che, tuttavia, non escludono per questo una fruizione di massa.

Forse fra la folla anche qualche nostalgico dell’antica Sala Umberto, il 14 gennaio prossimo sarà in via della Mercede per l’inaugurazione. Perché oltre ad essere un avvenimento cultural mondano, sarà un’occasione per rivivere l’atmosfera della città di clnquant’anni fa. Lo spettacolo di partenza sarà una commedia di Luigi Antonelli. «L’uomo che incontrò se stesso», che ricorda, molto da lontano i temi pirandelliani, per risolverli in chiave del tutto leggera. Vi lavorano Domenico Modugno e suo figlio Marcello, Alida Valli, Lisa Gastoni e Raffaele Curi. Ma in seguito, anticipa Luigi Longobardi, direttore commerciale dell’iniziativa di rilancio del teatro, si potrà pensare ad un repertorio più impegnato.

Il cartellone del nuovo teatro prevede per ora una novità per la «piazza» romana: un collage di numeri e canzoni di Paolo Poli.

«L'Unità», 29 novembre 1980


La confraternita dei «Totologi» continua a fare adepti. I libri su Totò stanno diventando una serie prolissa e ripetitiva come le divozioni dei santi. Prima della morte, tredici anni fa, il «principe della risata» conobbe due soli agiografi, Ferraù e Passarelli, i quali raccolsero una sua lunga testimonianza autobiografica sotto il titolo quasi filosofico Siamo uomini o caporali? (1953). Era una grande audacia. In quell'epoca Totò godeva il favore chiassoso del pubblico popolare che sghignazzava nei cinema di periferia e innestava sul linguaggio quotidiano i suoi nonsense, i surrealismi parolai, le invenzioni antiburocratiche e alogiche: «quisquilie, bazzecole, pinzellacchere», «a prescindere», «parli come bada», «eziandio», «io mi scompiscio», «mi faccia il piacere! Se ne vadi!» (che non è una trovata di Paolo Villaggio).

Ma con il mondo della cultura in cattedra non andava troppo d'accordo. Gli intellettuali degli Anni 30, fatte rare eccezioni (Umberto Barbaro), rifiutavano come volgari guitterie le eruzioni verbali e mimiche della, sua comicità cosi inconciliabile ai canoni dell'estetica imperante.

Uguale sfortuna, dopo la guerra, gli toccò con la nuova critica di sinistra (poche le voci a favore, Zavattini, Marotta, De Feo), ultra impegnata e filo-neorealista. Totò era scomodo per tutti: un fenomeno difficile da capire e definire. I ravvedimenti, le riparazioni sono cominciati il giorno dopò la morte. Lo confermarono subito tutti i quotidiani con i loro «coccodrilli» di dogliosa circostanza. Ma è storia che tutti ormai sanno. Cosi come è noto che negli ultimi anni si è sviluppata una vera scienza dell'elogio verso il comico napoletano: libri, saggi, articoli, rassegne, festival, tavole rotonde, convegni, tanta tv, di Stato e soprattutto privata. In principio e durante fu Goffredo Fofi, poi Paliotti, la Faldini, Valdlron. Hanno scritto anche Moravia, Felllni, Bevilacqua insieme con le sacre testate parigine di Positif e dei Cahiers, fino al prestigioso Le Monde.

Arriva ora il volume di Giancarlo Governi (Vita di Totò, Rusconi, lire 12.000). Anticipa di pochi giorni il ciclo televisivo che l'autore ha dedicato al comico (Il pianeta Totò). Governi, che per la tv ha già curato numerosi programmi di successo tra i quali «Alberto Sordi: vita di un italiano», si colloca nel filone agiografico con un'adesione forse meno totale, più controllata, alla monumentalizzazione di Totò. Il nuovo biografo usa la curiosità del detective e si cala nella storia dell'attore provando a sciogliere alcuni nodi complicati della sua vita e della sua carriera.

Primo fra tutti il «giallo» della nascita e della paternità. Antonio Clemente (cognome della madre, popolana del rione Sanità, a Napoli) era veramente figlio dello spiantato ma nobilissimo marchesino De Curtis? O fu invece proprio Totò, già adulto ed affermato, alla ricerca di blasone e padre, a «pagare» letteralmente il matrimonio tra la madre e il titolato? La soluzione del quesito sembra pendere verso la seconda ipotesi. Giancarlo Governi prosegue la sua indagine confrontando le fonti ufficiali con i ricordi di due testimoni poco consultati nella recente Totò-blbliografla: la figlia Liliana e la moglie Diana. L'istruttoria è aperta. I punti da chiarire sono numerosi: il primo modello (Gustavo De Marco) copiato per trovare scritture, l'insopportabile maniacale gelosia che il comico nascondeva nella vita privata, la separazione dalla moglie gli atteggiamenti a favore di Lauro e l'ideologia monarchico-socialista [...] sfortunato debutto sullo schermo («Fermo con le mani!», 1937) propiziato dal produttore Lombardo che cercava in lui il Charlot nostrano; le umiliazioni della carriera cinematografica compresa quella subita da Anna Magnani che ormai regina dell'impegno neo realista non voleva più come partner il guitto' Totò in «Risate di gioia», il dramma della cecità provocata dall'overdose di antibiotici durante le repliche di «A prescindere» nella stagione '56-57, le sofferenze patite negli ultimi anni per l'atteggiamento distaccato e sufficiente della critica sempre incline all'insulto.

Il risultato è un romanzo di gradevole lettura, un contributo ricco di informazioni inedite per sistemare «la veridica storia del verace Totò» va di là delle versioni ufficiali, divulgate qualche volta dallo stesso attore, cosi attento a controllare e costruire la propria immagine pubblica. Ancora una volta, però, si è corso il rischio di aggiungere soltanto lapidi ad un piedistallo, trascurando la qualità e il tipo di materiale con cui il monumento è stato costruito. Sul fenomeno d'arte e di costume rappresentato per più di quarantanni dalla maschera Totò, continua a mancare una vera analisi, scientifica e onesta. Il suo teatro, i suoi 96 film, le sue poesie, sono un terreno fertile, contraddittorio, magmatico e quasi vergine di studi. L'ultimo comico integralmente italiano, per tradizione e cultura popolare , resta in attesa, dopo l'entusiasmo generoso degli affetti, di uscire dal mito ed entrare nella storia dello spettacolo.


Alla tv in 25 puntate

Tutto Totò alla Tv in 25 puntate. Buonasera con Il pianeta Totò', a cura di Giancarlo Governi, è un programma realizzato con 80 spezzoni tratti da film interpretati dal grande comico e integrati con interviste a registi (Bragaglla, Mattioli) e attori (Nino Taranto, Alberto Sordi, Carlo Croccolo, Isa Barzizza, ecc.). Sarà presentato anche il Totò teatrale con serie di brani di spettacoli di rivista e di avanspettacolo che spesso l'attore aveva utilizzato fedelmente suoi film. Il programma (50 minuti a puntata) andrà onda cinque giorni la settimana, dal lunedi al venerdi alle 18,50 prima del Telegiornale sulla Rete 2. L'inizio previsto fra pochi giorni.

Sandro Casazza, «La Stampa», (Tutto Libri), 29 novembre 1980


Una mega-antologia di Totò, per complessive 21 ore di trasmissione, suddivise In 25 puntate di circa 50 minuti ciascuna. è l'omaggio che la seconda Rete Tv renderà, a partire da domani sera, al grande comico napoletano. Sotto il titolo II pianeta Totò, Il programma realizzato da Giancarlo Governi (lo stesso che curò Alberto Sordi: storia di un Italiano) occuperà cinque settimane andando in onda tutti i giorni alle ore 19.05 tranne il sabato e la domenica.

Non è il primo, né sarà l’ultimo recupero postumo di un personaggio e di una maschera straordinari, erede autentico di Pulcinella e «principe» sommo della comicità, titolo assai più prezioso di quello nobiliare al quale Antonio De Curtis Griffo Focas bizzarramente teneva nella sua vita privata. Negli ultimi dieci anni, sulla figura e l'arte di Totò sono piovuti a non finire saggi, libri, convegni di studio, rassegne e antologie cine-televislve. tutti di tono più o meno agiografico e spesso punteggiati di sferzanti polemiche contro quel critici che, quando l'attore era in vita, lo avrebbero considerato con sufficienza o addirittura con disprezzo.

Ma a tale proposito è lecito precisare che ciò avvenne soltanto da parte di qualche «vice» improvvisato e occasionale, mentre la critica provveduta, e con essa molti scrittori di fama, non mancò mai di rilevare il grande talento dell'artista e quanto si nascondeva dietro la maschera dell'irresistibile burattino. C'era soltanto il rimpianto che tanta potenzialità espressiva venisse troppo spesso sacrificata da canovacci dozzinali e indegni, da parodie avvilenti, da registi di mezza tacca. E questo, in coscienza, non ci sentiamo di smentirlo.

Tornando a Il pianeta Totò, si sa che il programma si compone del collage di brani ricavati da una sessantina di film fra i 96 complessivamente interpretati dal comico in trent'anni (1937-1967) di attività cinematografica. Si va dal primissimo Fermo con le mani ('37) di Gero Zambuto a Capriccio all'Italiana ('67) di Steno, non trascurando né i grandi successi popolari come I due orfanelli ('47) e Fifa e arena ('48) di Mattoli né le prestazioni più nobili, fra cui San Giovanni Decollato ('40) di Palermi, Napoli milionaria ('50) di De Filippo e i film di Monicelli, Rossellini e Pasolini.

Ma é un collage che fa da supporto a una lunga serie di testimonianze e interviste (con largo spazio riservato alla figlia di Totò, Liliana De Curtis) che promettono di ricostruire l'intera carriera dell'attore, compresi i circa vent'anni di esclusiva militanza teatrale prima di concedersi (più per ragioni economiche che per vero amore) sempre più spesso al cinema. Sulla sua appassionata attività di palcoscenico (varietà, avanspettacolo, rivista) non esistono, purtroppo, documenti filmati; per cui Governi è ricorso a numerosi sketches che, pur compresi nelle pellicole dell'attore, rispecchiano il taglio del gag teatrali e rimandano alla «maschera» delle origini che si snodava e disarticolava come una marionetta.

In questo modo, e mediante i ricordi e le testimonianze di vecchi amici e compagni d'arte di Totò, le prime cinque puntate del programma riguarderanno appunto il comico di teatro, fin da quando una sera, nel glorioso «Jovinelli» di Roma, Antonio De Curtis, già «taglia-biglietti» della sala, si mise a sostituire sul palcoscenico l'«omino di caucciù» Gustavo De Marco, suo più diretto maestro, facendo sbellicare dalle risa la platea.

Il resto del programma pescherà nell'altra miniera senza fondo di personaggi cinematografici, con o senza i caratteristici frac, bombetta e pantaloni a mezz'asta. Ma anche qui il vasto panorama non si esaurirà nell'antologia e cercherà di penetrare il più a fondo possibile, al di là del facili apologismi sull'umanità dell'uomo e del personaggio e sul fenomeno d'arte che ha rappresentato. Per questo si sono intervistati una ventina fra registi, scrittori e attori che gli furono vicini in tanti anni di lavoro.

Ciascuno portando la propria testimonianza (su Totò c'è anche una vecchia intervista di Pasolini e un'altra, originale, effettuata con Mario Mattoli pochi giorni prima della morte del regista più assiduo del comico), si spera di poter ricavare dal programma a lungo elaborato da Giancarlo Governi (con la consulenza di Vittorio Giacci) un contributo di studio non approssimativo, capace di sciogliere più di un interrogativo che ancora rimane sull'ultimo comico autentico della più schietta tradizione popolare italiana

In ogni caso, i 25 appuntamenti con Il pianeta Totò saranno altrettanti sicuri banchetti di risate per i telespettatori d'ogni età.

Leonardo Antera, «Corriere della Sera», 7 dicembre 1980 Rassegna stampa completa «Il pianeta Totò»


— Senta, Totò...

«Mi chiami semplicemente Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Focas Angelo Flaviano Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, d'Illiria. del Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo, eccetera e a prescindere».

— Senta. Altezza. Dopo la sua dipartita...

«Ohibò, giovanotto! Come si permette? Qua si comincia a offendere. Mi guardi bene in faccia: sono un uomo o un dipartito?».

— Un dipartito, mi perdoni Vostra Altezza, che però riappare ogni giorno sui giornali, in cinema, nella Tv di Stato, nei canali canalini e canaloni delle emittenti private. Nei cineclub i più impercettibili fotogrammi dei suoi film vendono analizzati e semanticizzati con la lente d'ingrandimento, senza contare libri, saggi, esegesi, proposte e riproposte dei valori filmico espressivi dell'arte di Vostra Altezza Imperiale, tutte cose che ella merita e stramerita, prima della sua dipartita non era mai accaduto. Vorrei chiederle allora se tutto questo La infastidisce o no; se le va bene il fatto che in Italia si è vivi soltanto da morti; in una parola, se lo piace fare il postumo.

«Giovanotto, ho forse la faccia del postumo io? Postumo sarà lei».

— Un'emittente televisiva napoletana ha raccolto il denaro per farle il monumento. Ne è contento?

«Se riesce bene si. Ma lo vorrei seduto. Stare in piedi per l'eternità mi stanca. E magari con l’ombrello in mano, per quando piove. A patto che riesca un bel monumento. lo resto comunque un attore e, come ho già detto una volta debbo piacere a tutti. A tutti indistintamerrte. Destre e sinistre per me non contano. Non sono ambidestro né mancino, come tutte le Altezze Imperiali io sono graziosamente un po’ qualunquista... Prima piacevo entro certi limiti, oggi piaccio al di fuori d'ogni limite, esorbito, dilago, mi estendo, mi concupisco. Prima ridevano, oggi mi studiano. Da morto, vede, uno tira le somme, e se penso a tutti i film che ho girato me ne piacciono cinque o sei. Da vivo, dicevo sempre che l'attore non è nessuno e che di lui non rimane niente. Da morto, mi hanno fatto cambiare opinione. Di me Altezza Imperiale non rimane niente, di me Totò rimane tutto: le retrospettive, i libri che mi scrivono addosso, il monumento. E io che dico? Dico grazie o a buon rendere. Poi ci sono anche i dibattiti. I dibattiti, amico mio, e le tavole rotonde. Permette che mi faccia una bella risata? Grazie, vedo che lei è molto comprensivo e me ne compiaccio. Allora, col suo permesso mi scompiscio».

— Altezza, lei, in vita, si chiedeva se era uomo o caporale...

«Ora, da morto, mi sento generale di corpo d'armata. Capirà, a furia di onori e di onorarne uno si sente crescere di grado. In altre parole, è il mio sistema metrico decimale che è cresciuto. Da vivo, fedele alla mia formula dell'umorismo teatrale, rifacevo il verso a modi di dire ormai invalsi nell’uso comune e adoperati da certi italiani con un qual tono di saccenteria e di prosopopea: A prescindere, Comunque, Io sono un uomo di mondo, ecc. Ah, dimenticavo: Apoteosi».

— Ma Vostra Altezza i davvero felice dell'apoteosi che oggi la circonda, l'assedia, la illumina?

«Sempre un’apoteosi è».

— In un mio vecchio articolo celebrativo, io una volta ho scritto che Vostra Altezza Imperiale è un eretico della napoletanità...

«E bravo! Poi dice che uno si butta a sinistra. Ma scriva tutto quello che vuole, giovanotto. Ogni giorno ne sento una nuova. Ma lo sa, lei, che quando nei cineclub mi fanno il dibattito addosso, io, non visto in quanto puro spirito, mi metto a origliare? E sa, lei, che cosa ho origliato una colto? Ho origliato che io avrei creato, anzi ho creato, perdindirindina, la Metafisica della Bombetta. Lo vede, giovanotto, lo vede che a questo mondo non si dovrebbe mai origliare?».

— Se Vostra Altezza me lo permette, vorrei citarmi di nuovo e dirle che una volto ho definito la sua arte una tarantella napoletana e surreale, danzata sulla tomba di Buster Keeton.

«Poi dico che uno si scompiscia».

— Quando sarà inaugurato il suo monumento, Vostra Altezza Imperiale verrà anche quel giorno a origliare?

«I morti, giovanotto, origliano sempre. Siamo curiosi, vanitosi, indiscreti, pettegoli. E, a prescindere, anche presaghi. Io, per esempio, già sono presago di quello che diranno. Fui un uomo di mondo e so come vanno queste cose: il più cauto mi darà del genio».

— Ma Vostra Altezza è, un genio. Un genio del riso.

«Sì, oggi molti mi danno del genio. Ma, quando ero vivo, nessuno si è mai permesso di dirmelo m faccia. Forse qualcuno me lo sussurrava alle spalle, a voce alta mai, a viso aperto mai: si metteva paura di compromettersi. Quando poi a babbo morto, lo dicono tutti, bella forza! Bel coraggio. "Totò è un genio". "L’ho detto prima di te". "Sei un fetente, l'ho detto prima io". A momenti si pigliano a boffettoni. E io mi scompiscio. E va bene, il Genio del Riso. Gradisco e apprezzo. Ma sa lei come si chiama il piccolo camposanto, che a tutt'oggi mi ospita? Si chiama il Pianto. Il cimitero del Pianto. Allora, bello mio, come la mettiamo?».

— Oserei dire a Vostra Altezza che non sempre tra il Pianto e il Riso c'è poi questa gran differenza...

«Forse ha ragione lei: sempre una questione di apoteosi è: comunque e a prescindere».

— Ma infine, Vostra Altezza ci tiene o non ci tiene all'immortalità che le stiamo costruendo intorno? E soprattutto: ci crede, Vostra Altezza Imperiale, all’immortalità?

«Ma giovanotto! Siamo uomini o cardinali?».

Luigi Compagnone, «L'Unità», 7 dicembre 1980


1981

«L'Unità», 15 gennaio 1981


ROMA 

Carlo Croccolo sta facendo parlare di sé. In un teatro romano, con la sua comicità casareccia e rumorosa, ma con radici ben piantate nella commedia dell'arte, sta richiamando grande pubblico, magari quello di bocca buona. La critica, anche se con riserva, gli è stata favorevole. Croccolo ha portato sul palcoscenico Charley 's Aunt (la zia di Carlo), commedia che l'inglese Brandon Thomas ha scritto cento anni fa in piena epoca vittoriana. [...]

Carlo Croccolo è senza dubbio un personaggio a sé stante nello zoo teatral-cinematografico. Ha cominciato recitando alla radio e doppiando Oliver Hardy, quindi creò la fortunata macchietta del marmittone, soldato dappoco che pensa solo alla marmitta del rancio. E' poi passato al cinema interpretando ruoli di comicità vagamente surreale, per qualche anno è stato chiamato a sostituire Totò nel doppiaggio della sua voce. Racconta: «Ero molto amico di Totò e lui mi stimava, mi spinse avanti, mi aiutò molto. Poi si accorse che avevamo lo stesso timbro di voce». C'è stato chi lo ha accusato di aspirare a sostituirsi al grande comico napoletano.

Lui naturalmente nega e spiega: «Tutti sanno che Totò era stato colpito da una grave affezione agli occhi e, negli ultimi dieci anni della sua vita (anche se cercava di nasconderlo e se non tutti lo sapevano), praticamente non ci vedeva più. Poteva benissimo continuare a recitare, ma quando si trattava di doppiare se stesso, cioè mettersi davanti allo schermo e, in base alle espressioni e ai movimenti delle labbra del filmato, dire le sue battute, non riusciva ad ottenere la sincronia. Occorreva dunque qualcuno che si sostituisse a lui. Ma non doveva essere un imitatore, altrimenti sarebbe bastato chiamare Noschese. Si voleva un attore che parlasse con la stessa voce. E così fui chiamato io che modificando leggermente il mio naturale timbro potevo benissimo passare per Totò. Cosicché in tutti i film interpretati negli ultimi dieci anni di vita per metà era lui stesso a parlare e per l'altra metà ero io. Naturalmente nessuno se ne accorse, di questa operazione erano a conoscenza pochissime persone».

Ma a Croccolo una volta è anche capitato di doppiare Vittorio De Sica. Lo conferma: «Mi mandò a chiamare la produzione di un film diretto da Corbucci. Il produttore mi disse: tu sai fare benissimo la voce di De Sica, lui è impegnato altrove e non può venire. Ti diamo 600 mila lire per sei giorni di lavoro (e allora erano molte). Non trovai nulla da obiettare, feci la voce di De Sica e nessuno notò la differenza. Tranne naturalmente De Sica stesso. Vado a Napoli per girare Ieri oggi e domani ed appena entro in teatro sento una voce che grida: Disgraziato!... (era De Sica)... Disgraziato, mi hai fregato otto milioni... Io, commendato'?... Si, tu, quel doppiaggio avrei dovuto farlo io stesso, per otto milioni...».

La zia di Carlo è giocato su alcuni studenti di una scuola di navigazione che per poter introdurre le rispettive amiche, ricorrono ad un compiacente amico che finge di essere una ricca zia. [...] Non è entusiasta di Woody Alien. «E'troppo intellettuale, ma mi piace quando suona il clarinetto, è molto bravo. A lui preferisco Mei Brooks». Fra gli italiani ovviamente predilige Totò: «Dopo Petrolini — dice — Totò resterà il più grande comico italiano». [...]

.Lamberto Antonelli, «Stampa Sera», 19 gennaio 1981


Ammirazione per Totò e nostalgia di valori distrutti

Caro direttore,

sono un grande ammiratore di Totò. Dire che a suo tempo Totò non fu compreso è giusto, ma insufficiente (e il fenomeno perdura anche oggi, dato che leggo sull'Unità del 10 gennaio 1981: «Nonostante le interessate celebrazioni postume, si guarda con diffidenza a Totò, come dimostrano anche lettere arrivate al nostro giornale»). Si disse sostanzialmente che Totò era un grande attore adoperato male da registi di scarso valore. Il che non era giusto. Vediamo il perché.

Totò rappresenta attraverso i suoi personaggi il mondo povero, sottoproletario, affamato, soprattutto del Sud del nostro Paese: si pensi solo a suo film «Miseria e nobiltà», con quegli spaghetti sognati e agognati dalla fame secolare. E questo mondo aveva dei «valori» oggi purtroppo scomparsi, e in Totò vi è amore e partecipazione per questo mondo, per questi valori come: la solidarietà, l'amore per la vita nonostante tutto (Totò non è mai disperato), la dignità nella miseria, l'amicizia. E a ben vedere anche la sua aggressività non è una rivalsa, ma un meccanismo di difesa.

E anche quando veste panni opposti, come quelli della Celere in «Totò e Carolina», egli è dalla parte di Carolina, poiché è sempre il popolano che ha indossato una divisa per non aver più paura di quella divisa. E anche la cattiveria che a volte appare in Totò, a ben guardare non è cattiveria, ma solo lotta per la sopravvivenza. E anche quando interpreta personaggi non poveri, essi non sono che immaginazioni sottoproletarie.

Bisogna dire che la sinistra Italiana non comprese appieno negli anni Cinquanta e Sessanta che il sistema voleva distruggere quel mondo popolare con quei valori perché gli erano di impedimento al suo progetto consumistico e omologante. Ne consegue che non aver compreso quel disegno del sistema portava a non capire appieno, da parte della critica cinematografica di sinistra. quello che Totò rappresentava.

Intendiamoci, non è certo quella povertà che va recuperata, ci mancherebbe! Ma quei valori sì, sono da recuperare. Non è un caso che l'interessamento per Totò è esploso all'inizio degli anni Settanta, quando ci si è accorti che il sistema aveva distrutto quei valori popolari che Totò rappresentava e ci si è finalmente accorti di quanto ciò era ed è dannoso per il nostro Paese,

ELIO FALCHINI (Firenze)

«L'Unità», 24 gennaio 1981


«L'Unità», 24 gennaio 1981


NAPOLI

Dicono che Totò è stato riscoperto dappertutto, fuorché in patria, nella sua città. E' vero, ci sono i beatificatori e i celebratori, quelli che propongono attraverso le tv private napoletane di erigere un monumento al grande comico. Ma ci sono anche gli oppositori, quelli che si vergognano di un artista «che non ha saputo fare il balzo» dallo sberleffo alla commedia. Sono gli eduardiani, quelli che identificano ogni napoletanità con la musa patetica e misuratissima di Eduardo.

Adesso è tempo di chiarire che Napoli prende Totò così com'è, è tempo di studiarlo per appropriarselo. Cosi gli enti locali, sollecitati da un gruppo di studiosi, hanno promosso un convegno di tre giorni su Totò che s'è aperto ieri al Circolo della Stampa.

Il titolo Quale Totò per gli Anni Ottanta? ha suscitato qualche apprensione metodologica, quasi il timore di un Totò diverso per ogni decennio; anche qualche critica: ma come? Con tutti i guai che ha Napoli voi i mettete a parlare di Totò? Rispondono: appunto, anche Totò aiuta a capirci.

Per la verità, la prima idea era venuta dalla compagnia di Franco Nico, col progetto di uno spettacolo teatrale incentrato sulle poesie di Totò tradotte in canzoni. Lo spettacolo è stato allestito al San Carluccio, ma l'interesse maggiore se l'è preso il convegno al quale prendono parte totologi poco amanti dell'ufficialità, come Goffredo Fofi, e testimoni attenti e diretti come Franca Faldini.

L'organizzatore del convegno, il critico cinematografico Valerio Caprara, ha raccolto un bel gruppo di studiosi italiani per fare finalmente un confronto dentro Napoli e contro i luoghi comuni. Servirà? Si spera. Le relazioni sono state studiate apposta per fornire una traccia non dispersiva. Orio Caldiron ha avuto l'incarico di liquidare il passato con la rassegna di tutte le posizioni critiche su Totò, dall'entusiasmo alla riserva, dalla conversione sospetta alla stolida indulgenza. Alberto Farassino s'è preso un compito delicato e suggestivo: erano i cattivi registi che costringevano Totò al suo livello «basso» o era Totò che si serviva dei cosiddetti cattivi registi per essere più compiutamente se stesso, cioè la maschera? Due studiosi, Nuccio e Castellano, hanno preparato un confronto articolato fra Totò e tutti i grandi comici, soprattutto quelli americani.

Osserva Caprara: Totò è quello che è, va studiato per quello che rappresenta, la cultura sottoproletaria'. Ma c'è chi distingue, come Luigi Compagnone, che ha preparato per II Mattino un lungo colloquio immaginario. Si dubita ancora che Totò sia stato costretto a una misura che non era la sua, poteva essere più grande.

Son posizioni note ai totologi, ma qui a Napoli si confronteranno per la prima volta col clima della città, cosi teso, vivo, malinconico, distruttivo, come tutti sappiamo. C'è anche chi si spazientisce. E già Fofi, che ha dato un contributo notevole alla riscoperta culturale di Totò. dice che bisogna andare avanti, pensare a Viviani, magari il più grande di tutti.

Non ci sono proiezioni, con il dibattito. In poco tempo si rischiava di portare una documentazione insufficiente o già nota attraverso la tv. Il film di montaggio del francese Comolli ha avuto un veto burocratico, uscirà nelle sale pubbliche. Gli studiosi del convegno debbono accontentarsi degli spezzoni che gli attori del San Carniccio hanno generosamente inserito nello spettacolo dipoesie, per non perdere il contatto con una maschera che fa ancora discutere, soprattutto i napoletani.

s. r., «La Stampa», 7 febbraio 1981


Totò torna a Napoli. Torna nello stupefacente montaggio di smorfie e di sarcasmi napoletani che accompagna ogni sera dallo schermo lo spettacolo su Totò della compagnia del San Carluccio. Torna nell'animo degli studiosi, che, dopo la riscoperta troppo unanimistica e provocatoria del comico nel resto d'Italia e in Francia, fanno i conti con un artista che oggi più che mai sembra legato alla città e alla sua storia sofferente. Totò torna nelle polemiche pubbliche.

Bisogna fargli il monumento o no? Totò maschera popolare, portavoce sottoproletario di Napoli, deve essere ricordato nel marmo o bastano i libri che ormai costituiscono una piccola biblioteca?

Nella Napoli del dopoterremoto, che non ha perso la voglia di mordersi, di rappresentarsi, di celebrarsi, i pareri sono divisi. Il popolo dice: «Facciamo il monumento. Ha bisogno di qualcosa che si veda. Un Totò, collocato magari nei giardini della Villa Comunale, che rivolga ai camorristi e ai profittatori di oggi lo storico interrogativo: "Siamo uomini o caporali?"».

Gli studiosi, gli intellettuali, che pure hanno alimentato il mito postumo di Totò, la sua perdurante forza simbolica, dicono: «No, un monumento sarebbe un'operazione ambigua, una trovata retorica, un modo per privilegiare l'apparenza secondo i peggiori luoghi comuni napoletani».

Una tv privata ha iniziato una raccolta di fondi per il monumento, sono cifre piccolissime, offerte di poveri. Qualcuno si vergogna, dicono che al monumento dovrebbe pensarci il Comune. Il Comune tace. Uno scrittore napoletano, Luigi Compagnone, ha suggerito un compromesso: «Almeno fatelo seduto». Un monumento di Totò seduto sarebbe il contrario della retorica.

Al convegno di studi su Totò, che s'è chiuso domenica, affollatissimo e riuscitissimo, un vecchio compagno dell'attore, Pietro De Vico, ha cercato di rompere l'imbarazzo dei critici: «Per favore, fate una campagna per il monumento a Totò. Lui se lo merita. Ne sarebbe contento». E Franca Faldini, che è stata accanto a Totò negli ultimi anni: «Se lui ci vedesse, come si divertirebbe. Riderebbe delle parole diffìcili, del dibattito sofisticato».

Delle parole forse si, ma del monumento? Cosi cresce la schiera dei seguaci di De Vico e degli altri monumentisti. Perché non accontentarli? Perché non regalargli il monumento? Se Totò è stato davvero la grande maschera sottoproletaria, l'interprete della ribellione e della pazienza individuali, è giusto che siano i suoi compagni ideali, quelli che ne condividono ancora umorismo e sofferenza, a scegliere il modo per celebrarlo. Gli slanci dei crìtici passano, i monumenti restano. Come resta Napoli, ancora più ferita oggi, ancora più sconvolta, irriducibilmente esposta al sopruso dei caporali, quando vorrebbe essere fatta solo di uomini.

Stefano Reggiani, «La Stampa», 10 febbraio 1981


GENOVA

Nel quindicinale della scomparsa di Totò, il dopolavoro postelegrafonico ha organizzato una rassegna cinematografica retrospettiva che inizierà il prossimo 1 giugno, al cinema «Dante» d'Essai. I film verranno proiettati dal lunedi al giovedì di ciascuna settimana fino al 21 luglio.

Questo il calendario delle opere presentate: «La banda degli onesti» (1 giugno), «Chi si ferma è perduto» (2 giugno), «Il coraggio» (3 giugno), «Fifa e arena» (4 giugno), «Il medico dei pazzi» (8 giugno), «Miseria e nobiltà» (9 giugno), «Il monaco di Monza» (10 giugno), «Le motorizzate» (11 giugno), «47 morto che parla» (15 giugno), «Rita la figlia americana» (16 giugno), «San Giovanni decollato» (17 giugno), «Signori si nasce» (18 giugno), «Lo smemorato di Collegno» (22 giugno), «Sua eccellenza si fermò il mangiare» (23 giugno), «Totò cerca casa» (24 giugno), «Totò cerca moglie» (25 giugno), «Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi» (29 giugno), «Totò le moko» (30 giugno), «Totò nella luna» (1" luglio), «Totò Peppino e le fanatiche» (2 luglio), «Totò, Peppino e i fuorilegge» (6 luglio), «Totò, Peppino e la malafemmina» (7 luglio), «Totò sceicco» (8 luglio), «Totò truffa» (14 luglio), «Un turco napoletano» (15 luglio), «Totò e le donne» (16 luglio), «Totò e i pompieri di Viggiù» (17 luglio), «Totò imperatore di Capri» (20 luglio), «Totò, siamo uomini o caporali» (21 luglio).

«La Stampa», 26 maggio 1981


 

La Rete Uno della RAI dedica a Totò uno dei tanti cicli dei suoi più famosi film, dal titolo «Totò Tredici», a partire dal 9 luglio 1981.
Serie simili si succedevano con cadenza quasi annuale, in particolar modo nel periodo estivo.
 


«Corriere della Sera» - 13 luglio 1981


Dovrebbe essere lo show delle vacanze: comincia infatti stasera (Rete 1, ore 20,40) e finisce giusto in tempo per permettere a «Fantastico 2» di decollare. Lo ha ideato e realizzato Gianni Boncompagni, l'onnipresente videoscout, insieme ad Arbore, attualmente impegnato in «Radio anghe noi».

Il programma, che ha un titolo tipicamente estivo, «Sotto le stelle», sarà diviso in dodici puntate, presenterà sessanta cantanti, un balletto classico e uno moderno, un cast fisso di grande rilievo, di cui la grande vedette è Sgarambona, altrimenti noto come Aristogitone, vale a dire lattore-architetto Mario Marenco.

Quattro ragazze costituiranno il filo conduttore della trasmissione: Isabella Ferrari, diciassettenne, miss teen-ager, Alessandra Story, ventiduenne, Francesca Antoniacci e Diana De Curtis, 23 anni: quest’ultima, attrice, è in un certo senso «figlia d’arte», essendo nipote, per parte di madre, del celebre comico Totò.

«Corriere della Sera», 6 agosto 1981


1982

Con alcuni film della fine degli Anni '40 continua al cinema Argentina il revival Totò: oggi è la volta di «Totò le moko», del ’49, di Bragaglia, con Gianna Maria Canale, Carlo Ninchi e Franca Marzi. Nei prossimi giorni sarà il turno di «Fifa e arena» con la Barzizza, di «Totò cerca casa» con Tieri e la Merlini, di «47 morto che parla» con la Pampanini, Billi e Croccolo e di «Totò al giro d’Italia», cui partecipano anche Badali e Coppi.

«Corriere della Sera», 3 giugno 1982


Continua la storia del grande comico vista attraverso i suoi film. «Il pianeta Totò» è il titolo del programma in onda stasera sulla Rete due. Totò veniva dalla rivista e l'appuntamento odierno è tutto dedicato agli anni in cui l’attore napoletano calcava i palcoscenici. Tra gli sketch, un’imitazione di Pinocchio, gli equivoci che accadono in un appartamento con i vicini di casa e Totò alle prese con il twist. Un modo serio e divertente per avvicinerai alla qualità del comico-poeta, interprete di ben 96 film.

«L'Unità», 21 ottobre 1982


 

1983


Il regime fascista annoverò fra le sue massime pretese quella di incidere nel costume». E forse gli riuscì di incidere, ma solo superficialmente: mai di penetrarlo e condizionarlo realmente, quel pur misero e fragile costume italiano. I giovani, in genere, venivano sollecitati da ispirazioni assai lontane dalle fonti di cultura fascista e più vicine, piuttosto, a quelle che sorgevano dall'ombra delle sale di cinema e di varietà.

Com’era stato impossibile costringerli a preferire le divise di Starace alle giacche di Clark Cable, così non cera verso di far loro accettare parole d'ordine littorie, alle quali preferivano gli apoftegmi di Totò e i suoi neologismi, quelli che poi trasportavano nel loro eloquio quotidiano. A taluno può ancora sembrare poco serio che si rivestano di serietà eventi per loro natura del tutto fatui, ma la storia è tuttavia costellata di buffonerie, poi rivelatesi assai più sagge della tragicità che si sono trovate a contrastare. Non è impossibile capire il significato della predilezione dei giovani, negli ultimi anni del «ventennio» — quelli cupi della preparazione della guerra, e della guerra — per i travolgenti strambotti di Totò. Si può dunque affermare che Totò concorresse a mantenere alla larga il costume fascista? Certo in Germania Totò non c’era: sarebbe difficile immaginare i giovani tedeschi, in quegli anni mostruosi, dediti a ripetere, con esattezza di timbro, frasi corrispondenti a «mi scompiscio» e «alla faccia del bicarbonato di sodio»!

Totò, fra l'altro, proponeva dalla ribalta una complessa gestualità che comportava caparbia applicazione da parte del giovanotto che voleva impadronirsene. Dal proverbiale flettersi ad arco, quasi a sfiorare il piancito con il mento, allo spostamento dell’asse del collo in un macabro, meccanico dondolio, a quel gesto discorsivo, infine incomprensibilmente allusivo, che consisteva nel concludere una frase con un moto a semicerchio della mano socchiusa, come per svitare a metà una lampadina e che veniva compiuto unitamente ad una strizzata d’occhio. Era, quel gesto, una sorta di parodia dell'allusione ironica e la si accompagnava sconvenientemente anche a detti imponenti, attribuendo ad essi una demenziale malizia. «Italia proletaria e fascista, in piedi!*: dopo aver pronunciato questa frase si compiva quel gesto, che. tradotto in battuta, poteva essere inteso così: non sfugga l’occulto significato di queste parole.

Se non questi «scimmiottamenti», che cosa faceva il cinema di quel periodo, invece di filmare fedelmente lo sketch del convegno amoroso fra Totò famelico gagà e Anna Magnani scalcagnata peripatetica? L'aura indecorosa e fiera che ammantava le due striminzite figure; gli spennacchietti di lei e il suo misero disdegno; i capelli di lui, dritti impeciati sulla nuca come una cresta di ferro, e la sua avvilita vanagloria; il comodino da notte in funzione di mobile-bar, il gioco del dialogo. comico, intenso e disperato, che ogni sera edificava se stesso divenendo man mano una cattedrale dell’arte scenica: tutto questo, per chi ha avuto la fortuna di assistere a quell’evento, costituisce un ricordo che è premio costante, saldo perennemente in attivo di fronte a ogni possibile passivo dell’arte teatrale passata, presente e futura. Forse anche a fronte di certe imprese megaregistiche che asciugano i bilanci degli enti promotori mentre dilagano fuori del boccascena e fuori del teatro.

Il pubblico giovanile di quegli anni era consapevole che la comicità di Totò conteneva una inafferrabile carica di preconcetta opposizione verso tutto e tutti? Probabilmente no, così come era generalmente all’oscuro di modi più propri (e rischiosi) di «opporsi». Il ribellismo di Totò del resto rimase sconosciuto allo stesso Totò egli era tanto contrario alle regole che ignorava totalmente anche le proprie. Ed era un radicale anarchismo quello che, muovendo dalla frantumazione della tradizione scenica, trascinava in volo gli spiriti oppressi dal conformismo e dall’ignoranza verso imprecise libertà del tutto inutilizzabili.

Quanti giovani che avrebbero voluto essere uomini anziché caporali, che ritenevano di poter esorcizzare il credere, l’obbedire e il combattere con l’allegro patetico culto dcll’«a prescindere», sono poi morti di là dai monti, di là dai mari? Si riuscì a prescindere dal costume fascista, ma certo non fu, né poteva essere, impresa sufficiente.

Furio Scarpelli, «L'Unità», 29 gennaio 1983


L'attore ha consegnato i Globi d'oro a Comencini, Sordi e Ornella Muti.

ROMA

Invitato a presiedere alla consegna del Globi d'oro e ad assistere alla proiezione di Napoli milionaria (film di recente ristampato dalla Cineteca Nazionale), Eduardo De Filippo è stato il mattatore dell'annuale appuntamento promosso dall'Associazione Stampa Estera.

Nell'introduzione del suo film Eduardo ha ricordato che per Napoli milionaria i bassi e i vicoli di Napoli vennero ricostruiti negli stabilimenti romani della Farnesina. Per le riprese — sottolinea — avevamo utilizzato 130 abitanti dei vecchi vicoli di Napoli che avevamo scritturato come comparse. Allora il cinema era libero e il regista non era assillato, come accade adesso, dai produttori. Io mi accostai al cinema perché mi dava fastidio vedere come gli attori in teatro aggiungessero ogni sera qualche battuta non prevista dal copione. Io pretendo che il testo venga rispettato: gli attori non vanno sempre d'accordo con il copione. Nel cinema invece una volta girata una scena come voglio io, l'attore non ha più la possibilità d'intervenire».

«Totò — aggiunge Eduardo — dopo aver visto Napoli milionaria mi tolse il saluto perché nel montaggio gli avevo tagliato tutte le mossette che lui era abituato a fare in palcoscenico. Ma quando si accorse del successo, volle che gli fosse regalata una copia del film che ogni sera proiettava agli amici». [...]

e. b., «La Stampa», 18 febbraio 1983


Così ha confidato il grande attore-autore atta cerimonia dei «Globi d'oro» a Roma

ROMA

La consegna dei Globi d'oro, i premi dati dalla Associazione della Stampa estera in Italia per il nostro cinema della stagione 1981/1982, è avvenuta a Roma nell’Aula Magna del Centro Sperimentale di Cinematografia. La cerimonia sotto gli auspici del Ministero del Turismo e dello Spettacolo e con la collaborazione dell’A.N.I.CA. e dell’Ente Autonomo di Gestione per il Cinema, si è svolta in un clima sereno.

Introducendo la cerimonia e sottolineando la forzata assenza del Ministro dello Spettacolo Nicola Signorello, che dal capoluogo piemontese ha inviato un telegramma, il presidente del Centro Sperimentale Giovanni Grazzini ha ricordato gli spettatori giovani e inconsapevoli che credevano nel cinema e che la morie ha colpito mentre, con la scelta di un pomeriggio di svago, testimoniavano «quella sfida contro la morte che è il cinema». Dennis Redmon, il presidente della Stampa Estera, ha poi spiegato che a votare per i Globi d'Oro sono giornalisti di Paesi diversi, corrispondenti da Roma per testate disseminate in tutto il mondo. [...] Il momento più atteso della manifestazione è stato il discorso fatto con accenti partecipi e prodigiosamente memori da Eduardo De Filippo al quale è stata consegnata una pergamena speciale e di cui si è vista, promossa dalla Cineteca Nazionale, la proiezione del film «Napoli milionaria» (1950) tratto dalla sua omonima commedia e interpretato da Leda Glori, Totò, Titina De Filippo.

Abbiamo avvicinato il senatore Eduardo subito attorniato dai giovani allievi del Centro che intendevano sottoporlo a un fuoco di fila di domande, e gli abbiamo chiesto di ricordare la lavorazione come regista del film di cui l’allora direttore di produzione Luigi De Laurentiis aveva in precedenza narrato numerosi aneddoti.

— Qual è stato, Eduardo, il suo rapporto come regista e autore con la cinepresa?

«Desideravo — ha risposto De Filippo con l'arguzia di sempre — fermare sulla pellicola le parole delle mie commedie, che i teatranti mutavano spesso nel corso delle recite. Pensavo: 'Con il cinema nessuno mi potrà gabellare: fisserò per sempre i miei dialoghi'. Per 'Napoli milionaria' lavorai con lo sceneggiatore Pietro Tellini e con Arduino Maturi e i produttori, proprio perche non ero affermato come regista, mi concessero fiducia. In seguito le cose cambiarono e io mi allontanai dalla trappola del cinema»,

— Come si svolse il suo rapporto con Totò attore?

Eduardo, intorno al quale si era nuovamente formato un capannello di studenti, ha imitato i versi e la mimica di Totò e ha detto: «Cercai di frenare i vezzi espressivi del comico e girai sempre due scene: una come la voleva Totò e una come la volevo io. In fase di montaggio eliminai le sue sequenze e scelsi quelle che io gli avevo ordinato. Dopò la proiezione, Totò se ne andò senza salutarmi e me ne volle a lungo, ma in seguito al grande successo della nostra pellicola il suo atteggiamento mutò e forse anche la sua recitazione divenne più controllata. Insieme abbiamo portato Napoli prima a Roma e poi nel mondo. Ricordo i 'si gira’ e i teatri della Farnesina dove avevamo ricostruito i bassi partenopei cosi bene che i 100 napoletani scritturati, vedendoli, decisero che avrebbero voluto abitare tra i fondali e non nelle camere d'affitto».[...].

Giovanna Grassi, «Corriere della Sera», 18 febbraio 1983


Totò a colori, Italia commedia 1952. Nel 1952, quando l'uso imponeva alla critica di parlar male di Totò, uno dei massimi critici di allora relativamente a «Totò a colori» scriveva: «Non si dovrebbe nemmeno citare questo mediocre film, uno dei meno riusciti fra quelli interpretati da Totò, che pure sono già d'un livello alquanto basso, se non fosse il primo film italiano a colori».

Il critico proseguiva parlando di «fretta della realizzazione» di «Ferraniacolor» alquanto piatto e anonimo, a volte anche stucchevole» e concludendo che «stupisce soltanto che dietro alla macchina da presa ci sia un operatore come Tonino Delli Colli», dimenticando che il regista era Stefano Vanzina, in arte Steno, che il soggetto era firmato da Monicelli, Age e Scarpelli, e che il film aveva incassato 774 milioni (di allora) entrando di diritto nella hit dell'anno con una resa eccedente di 17 volte quella del contemporaneo «Sceicco bianco», ma comunque poco più alta della metà di quella di «Don Camillo». La pellicola fu prodotta dal tandem Ponti-De Laurentis, che evidentemente ne usci soddisfatto, e oltre a Mario Castellani, spalla storica di Totò, annoverava nel cast Isa Barzizza e la miss Italia Fulvia Franco, poi rientrata nell'anonimato dopo il matrimonio con il boxeur, allora sulla cresta dell'onda, Tiberio Mitri.

Il destino del simpatico protagonista, direttore d'orchestra che cerca di far pubblicare una sua composizione dagli editori Tiscordi e Sozzogno, ma ha fama solo dopo morto, con tanto di monumento celebrativo, ricalca quello dell'attore napoletano. Nei giorni scorsi, tra il resto, ad un congresso svoltosi nell'austera Montecatini è stata avanzata l'ipotesi di finanziare un monumento a Totò, ipotesi per il momento accantonata ma in grado di conferire un che di profetico e quasi drammatico alla pellicola di oggi pomeriggio.

«La Stampa», 30 aprile 1983


«Roma la dolce», rivisitazione di Via Veneto e dell’epoca in cui questa strada ebbe modo di essere conosciuta in tutto il mondo, non è solo vedere la «dolce vita» come «gusto di vi vere in maniera spensierata e fiduciosa». E' anche motivo di discussione intorno alle realtà tragiche che fecero di Roma una città di palazzinari, baraccopoli e cariche della polizia.

Temi di stasera, infatti, sono «L’illusione del benessere» e «Dal boom economico alla crescita zero, di cui si parlerà all'Hotel Excelsior alle ore 19. Alle 21,30 al Caffè Doney, sempre per i salotti culturali, il tema in discussione sarà «Il mondo come teatro di gioia». Iniziano alle 17, e terminano alle 22, gli spettacoli del cinema Fiamma che programma «Totò e Cleopatra». Con gli stessi orari, ai cinema Barberini, «Totò, Peppino... e la dolce vita».

«Roma la dolce» ha però altri punti di documentazione: al Capriccio è di scena Edoardo Vianello, musiche degli anni '50 e '60 al Club 84 e mambo, calipso, rumba a cha-cha-cha al Veleno.

«L'Unità», 15 luglio 1983


NAPOLI

Una rassegna cinematografica per onorare la memoria di Totò non potrà essere realizzata a Napoli nel cortile del Maschio Angioino perché l'amministrazione comunale non è in condizione di fornire i tubi Innocenti per la realizzazione dello schermo e le sedie per accogliere il pubblico. La mini-rassegna era stata programmata per oggi, domani e domenica in concomitanza con la cerimonia di consegna dei premi «Omaggio a Totò», riservati agli autori cinematografici italiani campioni d'incasso nella stagione '84-'85.

Gli organizzatori della manifestazióne avevano ottenuto l'autorizzazione dall'assessorato al patrimonio del Comune di Napoli nell'agosto scorso. (Agi)

«La Stampa», 27 settembre 1983


1984

Si racconta che Edoardo Clemente, segretario è cugino di Totò, può vicinato dopo la morte del grande attore da un famoso produttore cinematografico che gli offri di lavorare per lui, e che Clemente taglio corto dicendo «Aggio fatto per tanti anni l'attendente del generale, mo' non posso mettermi a fare l'attendente di un capitano». Queste cose ce le ricorda sorridendo sua figlio Federico, a sottolineare uno stile di vita riservato e discreto che Clemente ha sempre voluto mantenere, in omaggio al suo illustre Cugino. E’ presente anche lui, al teatro «Punto Interrogativo» in via San Domenico 69, in occasione dello spettacolo «La Napoli scomparsa di Antonio de Curtis», due tempi con scene da liriche di Totò, che Mario Casotti e Gianni Spataro hanno realizzato con grande impegno con una compagnia di teatro amatoriale che porta proprio il nome del grande artista. in omaggio all'iniziativa, Federico Clemente ha voluto essere più che un semplice spettatore, e dal letto una bella poesia inedita di Totò, «’O matrimonio», che egli conserva tra le sue carte private, assieme ad altri ricordi di cui è molto geloso.

«A parlare di Totò - dice Federico - si corre sempre il rischio di cadere nella retorica. perché dovrei ricordare il suo enorme talento, che tutt'oggi gli riconoscono, ma che allora fu spesso sottovalutato ho sprecato in film commerciali. oppure, finirei per parlare della sua grande bontà, della quale sono stato testimone tante volte». Poi, trascinato dal discorso, si mette a raccontare di quello operaio che fu arrestato perché rubava per comprare un loculo alla figlia dodicenne che gli era morta improvvisamente. «Commosso, incaricò mio padre di mettergli una somma a disposizione, di comprare il loculo, e affidò la causa al suo avvocato personale».

Un episodio tra tanti, dice Federico, fondato su quei «Buoni sentimenti» che anche oggi paiono così anacronistici. «Non è vero», dicono Casotto e Spataro, i registi del lavoro. «Totò è attuale più che mai per la sua arte, ma anche per questi suoi comportamenti privati. perché altrimenti piacerebbe tanto i giovani, se non per questa sua incredibile capacità di aver rispecchiato la vita e la cultura più profonda e più vera di questa città?» In polemica con una «napoletanità» concepita spesso come ghetto culturale, Casalotti e Spataro rivendicano la continuità di una tradizione che non si è mai spenta, ed in quest'ottica hanno lavorato per questo spettacolo, come per i precedenti.

Dopo un lavoro sulle quattro giornate di Napoli, «Gennaro Capuozzo», concepito è realizzato per le scuole, hanno messo in scena una rielaborazione dei «Menaechmi» di Plauto, nel chiostro di San Francesco a Montesarchio, e l'atto unico di Salvatore Di Giacomo «Quand l'amor meurt».

Oltre alla ripresa, in forma di filmato, di questo spettacolo, stanno ora allestendo per il teatro «San Giovanni Decollato». «Ma siamo dei Dilettanti - concludono- lavoriamo senza finanziamenti, e si sa che le difficoltà per questo genere di teatro sono infinite».

Sa. di Sa., «Il Mattino», 1984


 

 

 


Altri artisti ed altri temi

Articoli d'epoca, dal 1980 al 1989

1980

26 febbraio 1980, scompare Mario Mattòli, il "regista di Totò" - Tutta la cronaca in rassegna stampa


27 gennaio 1980, scompare Peppino De Filippo - Tutta la cronaca in rassegna stampa


26 marzo 1980, la scomparsa di Erminio Macario - La cronaca in rassegna stampa 

ROMA — Colpito da infarto è morto, a 72 anni, l'attore Memmo Carotenuto, figura tra le più caratteristiche del teatro e del cinema italiano, fratello maggiore del non meno noto Mario e figlio di un non dimenticato interprete del cinema muto, Nello Carotenuto.

E' stato soprattutto il cinema a dare, specie a Roma, giusta popolarità a Memmo Carotenuto, particolarmente esatto e veritiero nel caratterizzare tipi di popolani dai modi bruschi, dalla battuta corrosiva, dall'animo non vile: individui simpatici sempre, anche se ricercati dalla questura per il loro passato, o presente, di ladri, truffatori, bidonisti. Come tale Memmo Carotenuto fu, ne / soliti ignoti di Monicelli, uno di costoro, ossia uno di quei piccoli malfattori, trasteverini e borgatari, assoldati per un «colpo» destinato al fallimento per l'incapacità professionale dei suoi sprovveduti ideatori ed esecutori.

La naturale vivezza dell'eloquio romanesco era sfruttata al massimo, nella sua cadenza dialettale, dal pittore- sco attore scomparso, la cui faccia dai lineamenti marcati e dalla barba trascurata ben si addiceva alle astute figure di plebei Memmo Carotenuto iniziò la carriera come attore del teatro vernacolo, dove fece spicco non solo per la sua alta figura ma per l'istintiva grinta conferita a personaggi non tanto diversi da quelli cui avrebbe, successivamente, affidato il proprio prestigio cinematografico.

A portare Memmo sul set fu Vittorio De Sica, nel 1951. quando occorrendogli per Umberto D, un ossuto degente, veterano degli ospedali e come tale scaltro nell'ingraziarsi le monache, trovò proprio nel più anziano dei due Carotenuto l'interprete che occorreva, ipocritamente servile. Due anni dopo. 1953, un ruolo di estensione maggiore riportò in primissimo piano Carotenuto, che vesti la divisa del carabiniere dapprima in Pane amore e fantasia e poi in Pane amore e gelosia. Come milite della «Benemerita», in alternativa alle figurette di appartenente alla «mala» disegnate altrove.

Carotenuto dimostrò la sua gustosa versatilità ugualmente efficace nell'impersonare non solo i ladri ma pure chi deve ammanettarli. Nel 1956 egli meritò un «Nastro d'argento» come «attore non protagonista» de Il bigamo. La meritata onorificenza gli procurò ruoli di impegno sempre più considerevole in film dai titoli, per cosi dire, «emblematici» come I tre ladri con Totò e J.P. Pascal. Peccato che sia una canaglia con la Loren e Mastroianni. Accadde al penitenziario, La banda degli onesti, Parola di ladro, I dritti ecc.

a. vald., «La Stampa», 27 dicembre 1980


1981


«Corriere della Sera», 16 luglio 1981 «Totò Tredici»


«L'Unità», 19 settembre 1981


ROMA — Si sono svolti stamane a Roma, in un clima di grande riserbo, i funerali di Clelia Matania, morta martedi scorso in un ospedale dov'era ricoverata da tempo per un cancro. L'attrice aveva 63 anni; era nata a Londra dove il padre, il pittore napoletano Fortunino, era considerato l'Annigoni dell'epoca. Recentemente, aveva interpretato in tv la parte di Matilde Serao, uno dei quattro «grandi giornalisti» del programma omonimo di Antonio Ghirelli.

«Clelia — ricorda ora Ghirelli — mi parve commossa all'idea di interpretare la Serao, che per lei, cosi come per me, aveva rappresentato un mito nella prima giovinezza». La sua fu, in realtà, un'interpretazione pregevole poiché riuscì a rendere la dolorosa felicità di Matilde Serao. La commozione per quella che considerava, a ragione, una «rentrée», trovava una giustificazione nel triste destino comune a molte attrici sue coetanee, sulla cresta dell'onda ne¬ gli anni tra il '40 ed il '50, poi dimenticate da cinema e teatro. Clelia Matania andava orgogliosa di aver recitato con Laurence Olivier, dopo avere frequentato l'Accademia d'arte drammatica nella capitale britannica. Un'esperienza apparentemente in contrasto con i ruoli che le sarebbero stati affidati, una volta rientrata in Italia, da produttori e registi del «cinema dei telefoni bianchi», nel quale fu una delle caratteriste più brillanti. Il suo «padrino» fu il regista Amleto Palermi (Partire: 1938), i suoi primi «partners» Vittorio De Sica e Maria Denis, Valentina Cortese e Leonardo Cortese. Fra i suoi film. Primo amore di Gallone, Anni facili di Zampa e Guai ai vinti, di Matarazzo.

«La Stampa», 16 ottobre 1981


1982


PARIGI — L'attrice Estella Blain (47 anni) si è uccisa, la notte di Capodanno, con un colpo di piatola alla testa nel giardino della villa di un amico a Port-Vendres (Pirenei orientali).

Estella Blain, che aveva conservato il cognome del suo primo marito Gerard Blain (l'interprete di molti film della «nouvelle vague), aveva iniziato la carriera in teatro nella compagnia di Jean-Louin Barrault. Poi era apparsa un paio di volte sullo schermo a fianco del marito e aveva interpretato qualche altro film di limitato interesse. Ma le maggiori soddisfazioni gliele aveva date il teatro, recitando, tra l'altro, in «La Mamma» di Roussin e in «Le placard» con Edwige Feuillère. Era anche nota come autrice e interprete di canzoni soprattutto dedicate ai bambini.

«Corriere della Sera», 4 gennaio 1982

1982 03 09 L Unita Giuseppe Porelli morte intro

ROMA — Ancora un lutto del teatro italiano. All’età di 85 anni, è morto Giuseppe Porelli. Nato a Napoli nel 1897, aveva esordito poco più che ventenne, con Emma Gramatica. Nel periodo fra le due guerre, fece parte di importanti compagnie (fu con la Melato, con Talli, con Niccodemi, più tardi con la Tofano-Rissone-De Sica, con la Maltagliati-Cervi, ecc.), affermandosi via via nei ruoli di «brillante». Anche il cinema lo valorizzò, all'epoca, come un caratterista di stilizzata eleganza (sul tipo di Enrico Viarisio o alla lontana di Adolphe Menjou). Occasione di rilievo ebbe nel primo periodo postbellico, sulle scene, comparendo fra l’altro in spettacoli diretti da Ettore Giannini (Fior di pisello di Bourdet, Il voto di Salvatore Di Giacomo). Più oltre, rivista e commedia musicale, allora fiorenti, lo ebbero quasi in esclusiva: si ritrova il suo nome accanto a quelli di Wanda Osiris, di Walter Chiari e Delia Scala, di Domenico Modugno, sotto l'egida della fortunata ditta Garinei e Giovannini.

Poco sfruttato nelle sue potenzialità «dialettali» (con rare eccezioni, come il già citato Voto), Porelli conservava tuttavia, nel gesto e nell'eloquio, una carica di vivacità partenopea, che dava colore e sapore alle sue tante prestazioni, anche minori Da una decina d'anni, ormai anziano, si era ritirato dall'attività professionale. (ag. sa)

«L'Unità», 4 gennaio 1982


1983

1983 01 28 La Stampa Louis De Funes morte intro

27 gennaio 1983, la scomparsa di Louis De Funées - La cronaca in rassegna stampa


23 febbraio 1983, la scomparsa di Elsa Merlini - La cronaca in rassegna stampa

1984

1984 01 31 La Stampa Dolores Palumbo morte intro

30 gennaio 1984, la scomparsa di Dolores Palumbo - La cronaca in rassegna stampa


12 aprile 1984, la scomparsa di Daniele D'Anza - La cronaca in rassegna stampa


«L'Unità», 6 giugno 1984 - Mario Monicelli


25 settembre 1984, la scomparsa di Walter Pidgeon - La cronaca in rassegna stampa


1 novembre 1984, la scomparsa di Eduardo De Filippo- La cronaca in rassegna stampa


5 novembre 1984, la scomparsa di Francesco Mulè - La cronaca in rassegna stampa


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