Vi racconto la vita di Mario Riva

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Il più famoso impresario teatrale italiano inizia la narrazione della singolare esistenza di Mario Riva. Fu in uno spettacolo di Paone, nel 1943, nel quale lo sconosciuto giovanotto romano appariva come presentatore, che Riva si conquistò i primi applausi di un pubblico pagante. Era il pubblico del Teatro Nuovo di Milano: lo stesso al quale Riva doveva dare pochi giorni dopo dalla ribalta la notizia della caduta di Mussolini. 

Ora, a dieci giorni di distanza, due immagini continuano ad alternarsi nella mia mente. Vedo un giovanotto magro, pallido, dagli occhi castani accesi in un viso dall’aria sarcastica, sullo sfondo del palcoscenico del Teatro Nuovo di Milano; vedo una faccia cianotica, l’occhio semichiuso, scossa da un respiro mozzo, nella camera numero 14 dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona. Le due immagini riguardano il mio amico Mario Riva: come l’avevo visto diciassette anni fa, quando l’ho conosciuto, e come l’ho visto, per l’ultima volta, il giorno prima che morisse.

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Proveniente da Venezia, avevo raggiunto Verona verso le cinque del pomeriggio di mercoledì scorso. Sapevo, per quel che avevo letto sui giornali e per il continuo contatto telefonico che avevo mantenuto con la sua famiglia, che Mario era gravissimo. Lo sfortunato incidente dell’Arena di Verona, che in un primo tempo aveva fatto sorridere gli italiani («Pensate, Riva è caduto di peso in una buca!»), s’andava trasformando in una tragedia che teneva in ansia migliaia di famiglie del nostro Paese che avevano imparato ad amare Mario Riva attraverso la TV. Eppure, come spesso succede, un filo di speranza resta anche quando tutto sembra ormai perduto: a me, come a molti altri, sembrava impossibile che una fine così drammatica incombesse sul destino del mio amico.

Quasi non osavo entrare nella stanza di Mario, quando suo fratello, Aldo, un medico dentista, m’ha preso per un braccio e m’ha portato vicino a lui. Pur nei segni del dolore e della sofferenza, il suo viso era però ancora compatto e sembrava tutto concentrato nello sforzo di portare a termine una dura fatica. Senza dire nulla alla famiglia, poco dopo interrogai i due professori che gli erano vicino. Il filo di speranza che m’aveva condotto a Verona divenne ancora più tenue: i medici mi dissero apertamente che Riva aveva ormai le ore contate. Uno di loro si pronunciò così: «Per il suo amico, purtroppo, è già suonata la campana». Rividi la campana cui alludeva: quella del "Musichiere” che per centinaia di sabati sbatacchiata allegramente dal mio amico, aveva chiamato a raccolta gli italiani davanti al video.

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La sera stessa andai al Lido di Venezia. all’Hotel Excelsior, dove abito da due mesi per ragioni di lavoro. Durante la notte continuai però a chiamare Verona per telefono, informandomi, ora per ora, delle condizioni del malato. La sera dopo, alle otto, ad una mia ennesima chiamata, rispose il fratello Nino, musicista e direttore di orchestra. Per la prima volta c’era una variazione nello stato di Mario: la febbre, che il giorno prima aveva raggiunto 39 gradi e sei decimi, era scesa a trentotto e cinque. Si pensava dunque che il forte nuovo antibiotico giunto da Firenze cominciasse a dare i suoi benefici effetti. Nino mi annunziò che sarebbe ripartito la sera stessa per Roma dove l’orchestra della Rai lo attendeva per una prova del concerto che egli in questi giorni dirigerà al ”Foro Italico”, a chiusura delle Olimpiadi. Nel salutarci, Nino esclamò: «Un momento, dottore, c’è Diana che le vuol parlare». Diana Dei, da undici giorni, eroicamente, umilmente, non si staccava dal capezzale del suo Mario. Nel gesto di venire al telefono per salutarmi, io vidi non tanto l’atto affettuoso nei miei riguardi quanto l’effettivo segno di un miglioramento di Mario. A Verona, il clima doveva essere più disteso: Nino partiva per Roma e Diana usciva, sia pure per qualche attimo, dalla stanza di Mario. Fu allora che mi commossi, mentre l’animo cominciava finalmente ad aprirsi alla speranza. Diana mi disse: «E’ sempre gravissimo, però...». A quel ”però” m’attaccai con tutte le forze dell’anima mia che si ribellava all’idea di un destino così stupidamente tragico.

Quattro ore più tardi, a mezzanotte, uscendo dal Palazzo del Cinema, anche per accontentare molti comuni amici che mi chiedevano ansiosamente notizie di lui, richiamai Verona. Per la prima volta dopo tanti giorni, però, ero meno preoccupato e più fiducioso, tanto che avevo stracciato e appallottolato con rabbia un giornale che m’avevano fatto vedere in quel momento, e che, nell’ultima edizione, portava in prima pagina, su tre colonne, il titolo ”Riva in fin di vita”. Questa volta venne al telefono la sorella Adriana che quasi non mi lasciò fare la solita domanda per dirmi, con tono agghiacciante: «Mario è morto mezz’ora fa».

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Così si compiva la tragedia umana di un uomo venuto al teatro perchè l’aveva nel sangue. Il padre, Giuseppe Bonavolontà, notissimo autore di famose canzoni napoletane, non avrebbe mai voluto vedere suo figlio avviarsi in questa direzione. Aveva cercato, senza successo, di costringerlo a seguire gli studi regolari: come tanti padri aveva l’ambizione di portare i propri figli alla laurea. Con Aldo, il maggiore, laureatosi in medicina, e con Nino, diplomatosi al Conservatorio di Roma, ci sarebbe riuscito: con Mario invece non c’era niente da fare. Due sole volte, padre e figlio, che si adoravano (non dimenticherò mai il pianto disperato e silenzioso di Mario, mentre seguiva, due anni fa, il feretro del padre) litigarono: quando Mario insistette per fare del teatro, quando Mario sposò una donna più anziana di lui.

Per molti anni, l’amore di Mario verso il palcoscenico non fu ricambiato: la sua carriera teatrale, a riviverla giorno per giorno, può sembrare un susseguirsi di delusioni e di amare sconfitte. All’inizio, tentò il teatro di prosa, ma senza fortuna. In questi ultimi giorni ho letto con profondo interesse parecchi articoli che riguardavano la sua carriera di attore. M’hanno colpito, fra gli altri, quello di fondo di Giuseppe Longo sul "Gazzettino” di Venezia e l’elzeviro di Indro Montanelli, nella collana ”I protagonisti” della terza pagina del "Corriere della Sera”. Tutti e due gli scrittori sembrano d’accordo nell’affermare che Riva non era stato e non avrebbe mai potuto essere un attore. Io, che l’ho osservato sul palcoscenico per molti anni con l’occhio e dell’amico e dell’uomo di teatro, mi permetto di non essere d’accordo. La verità è invece che Mario non è stato un attore ”di prosa”, soprattutto perchè non ha voluto esserlo. Egli non ha mai voluto rinunziare, pur potendolo certamente fare, al suo così colorito accento romanesco e non si è impiegato, nè avrebbe potuto farlo, al rigore di un testo qualificato. Non era uomo da mettersi sui binari di un copione per giungere tranquillamente al terzo atto; il gusto della improvvisazione faceva parte della sua personalità e Mario preferiva sempre seguire il proprio estro piuttosto che obbedire ad una battuta scritta. A dire delle sue straordinarie qualità di improvvisatore, basterà ricordare il suo ”Berconcisini”, nella scena della cabina telefonica. Per un quarto d’ora Mario riusciva a far torcere dalle risate la platea di un teatro pronunciando, al microfono, soltanto questo nome: "Berconcisini”.

Alla RAI, che allora si chiamava EIAR, era entrato, ventitré anni fa, con una delle mansioni più umili, quella di "rumorista”. Allora la tecnica dell'incisione non era sviluppata come oggi che permette di riprodurre su disco o su nastro ogni tipo di rumore, dal rombo dell’uragano agli applausi di una folla entusiasta: c’era invece Riva che "faceva” il cinguettio degli uccelli, lo scroscio della pioggia, il rantolo dell’assassinato, lo scalpitio dei cavalli. La carica di cavalleria di Mario Riva è ancora oggi famosa negli studi della RAI: i cavalli erano sostituiti da due noci di cocco che il giovane rumorista faceva rullare su un pezzo di legno, sempre più velocemente e chiassosamente, fino a dare l’impressione di un intero squadrone lanciato al galoppo. Questo metodo, noto ad ogni attrezzista di compagnia teatrale, aveva trovato in Riva, così come gli altri rumori, un interprete d’eccezione: frutto d’intelligenza e di passione.

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Alla radio, Riva riuscì a farsi amare ed apprezzare, fino ad entrare come voce di primo piano nelle periodiche trasmissioni di prosa e varietà. Arriviamo così al 1943. Nel luglio di quell'anno io realizzai d’accordo con la "Cetra” (una società del gruppo EIAR), d’accordo con il Consigliere Delegato ing. Chiodelli e con gli altri dirigenti (maestro Razzi prof. Palmieri e dott. Cochetti) una "parata" d’orchestre e di cantanti della radio per il mio Teatro Nuovo di Milano. Chi crede che il tifo popolare delle canzoni sia un prodotto del dopoguerra e della televisione, non ricorda che la canzone è sempre stata nel sangue degli italiani e tutti i tempi hanno avuto i loro divi. La sera del 2 luglio, infatti, per la inaugurazione della mia "parata”, la folla era tale e tanta che, per il suo impeto tutti i vetri delle porte del Teatro Nuovo andarono in frantumi. Nel primo spettacolo era di scena l’orchestra di Cinico Angelini, presentata da Aldo Rubens. Per la prima volta in palcoscenico c’era la già affermata diva cinematografica Vivi Gioi che interpretava alcune scenette con Carlo Dapporto, stella già affermata nel teatro di varietà. Aldo Fabrizi raccontava le sue storielle romanesche, mentre i giovani cantanti di allora erano Nilla Pizzi (non ancora celebre), Gianni Ravera (oggi diventato organizzatore teatrale), Nella Colombo ed alcuni altri.

Allo spettacolo di Angelini, segui, dieci giorni dopo, l’orchestra di Nello Segurini che accompagnava alcuni cantanti in voga fra i quali c’era Leda Gloria, Dea Garbaccio e l’attuale sempre giovane quartetto Cetra. Quella sera, per la prima volta, calcò il palcoscenico di un teatro importante Mario Riva.

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Un uomo senza frak

Me l’avevano proposto da Roma, proprio dall’EIAR, come presentatore dello spettacolo. Non avevo avuto difficoltà nell’accettare, e, quando l’incontrai per la prima volta, fra le quinte del Teatro Nuovo, mi fece una buona impressione. Sembrava un giovanotto aggressivo, dalla lingua tagliente e dalla battuta pronta; qualità indispensabili per chi deve affrontare un pubblico particolarmente vivace (e, già allora, turbolento) come quello della canzone.

Neanche cinque minuti dopo il nostro incontro accadde il primo scontro della nostra vita. Rubens oltre che un buon presentatore già conosciuto é accreditato, era quello che si direbbe oggi un fusto: alla sua splendida figura il frak si attagliava alla perfezione. Riva magrissimo e dinoccolato, dall’andatura un po’ strascicata, non poteva nell’aspetto essere paragonato al presentatore che l’aveva preceduto. In più mi rivelò: «Dottò, io il frak non ce l’ho». «Avrete almeno uno smoking?», gli chiesi, rivolgendomi a lui con quel "voi” che allora era obbligatorio anche nelle conversazioni private. «Manco quello» fu la risposta che sfacciatamente mi buttò sul viso. «Eh no, te lo trovi!» esclamai perentoriamente passando al "tu” di colpo. E aggiunsi: «Altrimenti te ne ritorni a Roma».

Allora, diciassette anni fa, la cornice di un teatro era oggetto di particolari cure di un organizzatore: portare sul palcoscenico del Nuovo un presentatore che non avesse avuto indosso almeno uno smoking di buona fattura, avrebbe significato declassare il locale. Quella sera, invece, Riva diede un colpo alla tradizione. Si presentò infatti alla ribalta con una giacca bianca, certamente tagliata da un buon sarto, ma prevista probabilmente per un uomo dalle proporzioni di Camera e non certo per un uomo della sua taglia. Le maniche giungevano fino alla punta delle sue dita e l’orlo della giacca arrivava quasi ai ginocchi. Quando questa strana figura giunse alla luce dei riflettori, un fremito di stupore e anche di diffidenza percorse la sala. In un attimo, Riva si rese conto della situazione: si trovava di fronte ad un pubblico sconosciuto, che era venuto a Milano per conquistare, senza avere il fascino di un nome famoso, o di un aspetto imponente. Mario capì immediatamente che solo un gesto di aggressione avrebbe potuto salvare se stesso e la serata. Guardando con aria di sfida il palco dove ero seduto io disse: «Vedete un po’ che m’hanno obbligato a mettere». E si strappò violentemente la giacca dalle spalle, aggiungendo: «Con questo affare addosso, non lavoro». E, presentando lo spettacolo in maniche di camicia, si accattivò le simpatie del pubblico.

Il successo fu enorme. Per la prima volta il nome di Mario Riva apparve sul Corriere della Sera che annotò, nella recensione dello spettacolo: «La fantasia di cantanti è briosamente presentata da Mario Riva». L’altro giornale milanese, il Popolo d'Italia scriveva: «Con vivacità ed arguzia, Mario Riva ha presentato lo spettacolo». Il successo del giovane romano era stato tale che io fui lieto di riconoscerlo, confermandolo anche per il terzo spettacolo, quello dell’ orchestra di Pippo Barzizza che aveva, fra gli altri cantanti, Silvana Fioresi, Norma Bruni e il Trio Aurora. Lo spettacolo andò in scena il 20 luglio: cinque giorni più tardi, verso le undici di sera fui chiamato al telefono da un parente che si dilettava a fare (...di quei tempi!) scherzi molto pericolosi. M’annunziò infatti che il fascismo era caduto, rivolgendo a Mussolini un epiteto che, se il telefono fosse stato sotto controllo, gli avrebbe procurato almeno il confino. Quando riuscii a rendermi conto che questa volta non scherzava e capii d’essere di fronte alla fine di un mondo e all’inizio di un altro mondo, rimasi per qualche attimo come stordito. Riavutomi mi precipitai in platea per avvertire un amico gerarca, che, in divisa bianca, sedeva nella prima fila. Mi ci volle molta fatica per convincerlo che il tempo suo e dei suoi amici era finito; finalmente, riuscii a tirarlo fuori della sala e a farlo rifugiare all’Hotel Europa, lì vicino, in attesa che gli venisse portato un abito borghese.

Il 25 luglio

Subito dopo salii sul palcoscenico e trovai Riva che aveva aperto la Radio e sentito il comunicato di Badoglio. Gli dissi d’avvertire il pubblico. Mario salì alla ribalta e diede ad un migliaio di milanesi l’annuncio che il fascismo era caduto e che Mussolini s’era dimesso. Ci fu un attimo di smarrimento presto troncato da un applauso fragoroso. Quella sera stessa, il personale di pulizia, raccolse da terra diecine e diecine di distintivi...

Luglio 1943: un periodo cruciale nella storia del nostro paese e importante nella vita di Mario Riva. Non soltanto aveva conosciuto il successo in un locale importante davanti ad un pubblico difficile, ma anche la sua strada sentimentale era giunta ad una svolta decisiva. In quel periodo Riva non aveva una vita intima felice: i dissapori con la moglie, Dema Massoli, cui era già unito da qualche anno, sembravano assumere Erme definitive. Proprio in quel mese di luglio Mario apriva la sua grande pagina d’amore con Diana Dei.

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Agnese Mancinelli, nota in teatro col nome di Diana Dei, era una giovane bionda e flessuosa, anche lei ai primi passi nel cammino della ribalta leggera. Era già stata presentata a Mario Riva a Roma, ma non avevano avuto occasione di scambiare altro che poche parole. A Milano ebbero invece modo di conoscersi meglio. Diana era la soubrette di un’altra rivista che io rappresentavo a Milano, al Teatro Olimpia, con la compagnia "Fratelli De Rege - Tilde Mercandalli”. Il copione, dal titolo ”Borsa Bianca” (...erano invece tempi di borsa nera), era dovuto a Guido di Napoli, lo pseudonimo sotto cui si nascondeva Giulio Trevisani, attuale critico de l'Unità, allora inviso al regime per essere stato il difensore dei dinamitardi dell’eccidio del Teatro Diana di Milano.

Accadeva che le due compagnie, quella del Nuovo e quella dell’Olimpia, si ritrovassero, di notte, dopo lo spettacolo, in un ristorante, allora ritrovo abituale degli artisti come lo è oggi il ”Santa Lucia”. Davanti al pane nero di guerra, ai bollini del razionamento, al surrogato di caffè, nacque il legame fra Mario Riva e Diana Dei che doveva unirli per la vita anche attraverso la nascita del loro Antonello.

Pochi giorni fa, a Verona, accanto al feretro di Mario (non posso nasconderlo) un particolare che ancora più mi ha commosso e mi ha toccato della sensibilità generosa di Diana è stato quando, rievocando, con frasi rotte dal pianto, la sua vita con Mario, ha detto: «Ricordi, Remigio quando dopo il 25 luglio ci aiutasti a superare le difficoltà del momento e riuscisti a farci tornare a Roma?» In realtà, io ero riuscito ad ottenere per loro soltanto i posti in un treno, di cui era certa, non solo la partenza ma anche l’arrivo.

Forse anche Mario ha ricordato questo dettaglio, che io avevo veramente dimenticato, quando, nel Natale scorso (pur rimanendo inalterati in questi ultimi anni i nostri rapporti di amicizia, non vi erano stati più quelli di lavoro) mi vidi arrivare un suo biglietto d’augurio con un dono di due cravatte. Una di quelle due cravatte volli indossare l’altro giorno quando mi accostai piangendo a lui, finito così assurdamente.


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Cosi si espresse il popolare attore parlando con Remigio Paone, quando questi gli offri di entrare in una grande compagnia. Lo ricorda il suo impresario e amico, che con questa seconda puntata conclude il commosso ritratto di Riva che ha dettato in esclusività per “Tempo”

Una mattina del febbraio 1955, fra la posta che era sul mio scrittoio trovai una lettera che per un organizzatore teatrale non è facile ricevere. Era di Mario Riva, eccone il testo:

 

Caro Remigio, al momento di concludere, definitivamente, con altra ditta capocomicale gli impegni per il prossimo anno teatrale, sento il dovere di ringraziarti per quanto hai fatto per il binomio ”Billi-Riva” nei quattro anni di lavoro comune. Sono stati quattro anni di lotta che hanno procurato, a te ed a noi ansie, preoccupazioni, soddisfazioni e successi; ma al di sopra di tutto questo rimane il senso della lealtà reciproca e della fedeltà della quale ti abbiamo dato prova in ogni momento. Per tutto questo, caro Remigio, al di sopra di ogni rapporto di lavoro rimane la mia vera, profonda amicizia per te, che non può cancellarsi con l’estinguersi di un contratto e che spero rimarrà immutata al di fuori delle alterne vicende di questo nostro teatro che te ed io amiamo dello stesso profondo amore e nel nome del quale ci siamo trovati a battagliare, qualche volta anche su opposte barricate, nella più perfetta buonafede. Ti abbraccio con vera commozione.

Mario Riva.

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In quattro anni di lavoro fra un organizzatore teatrale ed il direttore della sua compagnia si accumulano d’abitudine tali e tante grane che è diffìcile lasciarsi, alla fine della collaborazione, senza, sia pure un velo, di freddezza. In realtà fra me e Riva ci sono state le litigate più violente che mi sia capitato di avere. Riva aveva un temperamento, almeno in parte, simile al mio: era collerico, incapace di discutere senza passione, privo di diplomazia. Gli scontri fra me e lui erano inevitabili e si svolgevano a viso aperto. Alla base però di ogni incidente c’erano la comune passione per il teatro ed il desiderio del successo dello spettacolo che andavamo a creare.

Questi atteggiamenti facevano sì che i momenti burrascosi, anche se estremamente accesi e violenti, fossero soltanto dei "momenti”: subito dopo tornavamo ad abbracciarci ed a lavorare insieme con maggiore lena. Come mi ha commosso Diana, l'altro giorno, quando davanti a lui, irrigidito dalla morte, mi ha ricordato fra i singhiozzi: «Quante litigate facevate... ma quanto ti voleva bene!».

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Avevo cominciato a conoscere Riva più da vicino nell’anno teatrale ’48 - '49. Era d’estate, Riva lavorava al Colle Oppio di Roma. Io andai a trovarlo perchè tanto Totò, per il quale preparavo uno spettacolo, quanto Galdieri, che ne era l'autore, quanto io pensavamo di averlo fra gli elementi migliori. Ma Riva, pur essendo rimasto in quegli anni nell’avanspettacolo, si era già fatto un nome e si sapeva nell’ambiente che la sua quotazione economica non era certamente bassa. Andai, pertanto, al colloquio un po’ prevenuto, perchè temevo l’accordo difficile proprio a cagione delle sue richieste. Non dovetti, invece, lavorare molto per convincerlo. Ricordo, come ora, i suoi occhi illuminarsi di gioia alla mia proposta. E anche quella sera il povero Mario dimostrò di non essere diplomatico perchè mi interruppe esclamando: «Dottore, io devo sfondare, me dia quello che vuole ma mi porti con Totò». Raggiunto l'accordo, dovendo egli ritornare in scena (ripeto, che il colloquio si svolgeva nel suo camerino fra una scena e l’altra dello spettacolo) non potendo redigere il regolare contratto, allo scopo di dare a lui stesso la gioia definitiva della sicurezza ed a me la tranquillità anche nei confronti di Totò e di Galdieri, riempii un assegno per la somma di centomila lire e gli consegnai lo chèque a titolo di anticipo sul contratto. Dopo qualche giorno, nel leggere il contratto stesso, in qualche clausola piuttosto complessa, ma non di carattere economico, Riva si inalberò: credette di sentire che, se da una parte si desiderava la sua presenza in compagnia, dall’altra la fiducia nelle sue possibilità' era piuttosto limitata. Con uno di quei suoi scatti collerici e generosi, tirò di tasca il portafogli, prese il mio assegno che non aveva cambiato e fece il gesto di restituirmelo dicendo: «Dottore, lasciamo andare. Io voglio andare con Totò, voglio venire con lei, ma io sono Mario Riva». In quell'affermazione di orgoglio e di sicurezza in se stesso, c’era qualche cosa di più e di diverso della solita presunzione dell’attore ancora non qualificato: mi piacque. Riuscii a superare in qualche ora ogni difficoltà, il contratto iu firmato, Mario Riva fece parte della Compagnia Totò per le rappresentazioni di "Bada che ti mangio”, e si può affermare che quella fu la vera definitiva pista di lancio del nostro povero Mario nel teatro di rivista.

Aveva lavorato, in quell’anno teatrale, ogni sera con un entusiasmo ed uno spirito di collaborazione più unico che raro: capiva che era il suo momento, e pertanto gli veniva spontaneo, di tanto in tanto, di inventare, di creare una battuta che non era nel copione, ma che lui già "sentiva” che sarebbe arrivata al pubblico e ne avrebbe provocato la risata e l'applauso. Se io come impresario ero soddisfatto della cosa perchè si affermava sempre di più, di sera in sera, lo spettacolo, non potevo non preoccuparmi per le giuste esigenze dello spettacolo stesso, nei confronti di Totò, dell’autore, della censura. E che le mie preoccupazioni fossero fondate, lo dimostrò il fatto che una sera lo stesso Totò preoccupato di questo fuoco pirotecnico che cominciava a diventare Mario Riva in scena, credette di chiamarlo nel suo camerino per dirgli: «Riva, attenetevi al copione, in questo spettacolo devo far ridere soltanto io». Perchè si comprenda il carattere del povero Mario, devo qui aggiungere che non solo egli non se adontò, ma a distanza di dieci anni ricordando, nell’inverno scorso, l’episodio a Mino Caudana mentre con lui preparava il suo "Momento Magico" per la Televisione, confessò l'accaduto, ma per esternare ancora una volta la sua gratitudine, la sua ammirazione al grandissimo Totò, alla cui scuola, nella cui scia, egli si era formato.

Dopo la parentesi, lunga ma assai proficua per lui, degli spettacoli con Riccardo Billi al Bernini di Roma, il cui successo indusse Garinei e Giovannini ad affidare a loro l’ormai famoso spettacolo "La Bisarca" tratta dall’omonima rubrica radiofonica, Mario ritornò alla Spettacoli Errepi, nell’anno teatrale 1951-1952, con Riccardo Billi e per una serie di compagnie il cui successo ancora oggi, a distanza di anni, si ricorda fra le pagine migliori del nostro teatro leggero.

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Io sapevo, per vecchia esperienza, quale era la maggiore aspirazione di un attore, o di una attrice arrivati, o che si credono arrivati: è quella del "nome in Ditta". Cioè dare il proprio nome ad una compagnia. Billi e Riva non avevano ancora raggiunto questo traguardo con la "Bisarca" che si presentava in manifesto come "Compagnia della Bisarca" e dopo indicava: «Per l’interpretazione di Riccardo Billi e Mario Riva».

La prima formazione teatrale Billi-Riva è stata invece una "Errepi" e precisamente per le rappresentazioni della rivista "Alta Tensione”, scritta da Marchesi e Metz, con musiche di Kramer, coreografie di Gisa Geert e figurini e scene di Henri Fost del "Lido” di Parigi.

Dare la "Ditta”, come si dice in gergo, è dare i galloni di maresciallo: questi galloni Billi e Riva li conquistarono definitivamente nell’anno teatrale 1951-1952. Ad "Alta Tensione" seguì nel 1952-1953, la rivista ”I fanatici” sempre di Marchesi e Metz, con musiche originali di Kramer, coreografìe di Donn Arden, costumi di Fost e scene di Gianni Ratto. Nel 1953-1954 segui "Caccia al Tesoro”, rivista che fu realizzata da Garinei e Giovannini, con la collaborazione di un gruppo fra i migliori autori del momento che andava da Ricci a Romano, da Verde a Zapponi, da Calcagno a Falconi e Frattini. Le musiche di quello spettacolo furono anche create da un gruppo di compositori alla testa dei quali vi era il povero ottimo Bonavolontà, padre di Mario Riva. Nel 1954-1955 fu varata ”Siamo tutti dottori” di Age-Scarpelli-Verde, con musiche di Trovajoli. Fu nel corso di questa compagnia, quando io ebbi dichiarato a Mario che avrei, l’anno dopo, sospeso la mia attività capocomicale, che lui spontaneamente ed inaspettatamente mi mandò la lettera da me riportata all’inizio di queste pagine.

In questi quattro anni, Riva ed io siamo stati in contatto quasi tutti i giorni nella stagione teatrale, anche durante l’estate, quando preparavamo lo spettacolo della nuova stagione. Il nostro rapporto come ho detto, si risolveva soprattutto in burrasche, in scontri a base di urli che terrorizzavano gli altri membri della compagnia e facevano tremare le pareti del teatro. In verità, Riva aveva delle idee precise su quel che doveva succedere in palcoscenico e non era capace di rinunciarci, anche quando si trovava in contrasto con me. La realtà è che Riva andava molto al di là dei suoi compiti di attore e di direttore di compagnia, per diventare addirittura coautore e coregista, in una sola parola animatore dello spettacolo. Avrebbe meritato un supplemento di paga per la somma di energie che profondeva in teatro.

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Il suo modello d’attore comico era Totò, verso cui provava una grande ammirazione. Alla fine dello spettacolo, per esempio, Totò era solito eseguire una passerella speciale, al suono della marcia dei bersaglieri. Anche Riva non volle che la presentazione in passerella della sua compagnia seguisse le forme tradizionali e quasi rituali del teatro di rivista. Inventò quindi ”la passerella a soggetto”: ogni membro della compagnia, cioè, si presentava al pubblico secondo una propria maniera. Era Riva stesso, in un angolo del palcoscenico, a dare il via agli applausi o ai dissensi a seconda che il modo di presentarsi di chi stava in quel momento in passerella gli piacesse o no.

Era Riva stesso a chiamare: «Diana, vediamo un po’ quello che sai fare». E la Dei si esibiva in passerella, per esempio, in una imitazione di Marilyn Monroe, ricavata dal personaggio che l’attrice aveva interpretato nel film "Niagara” Poi chiamava: «Bettarini!», e Cesare Bettarini, attore di prosa, si produceva in una parodia di Renzo Ricci, che Riva illustrava al pubblico. Una sera, a Roma, un giovanotto che era in galleria gridò con aria sprezzante: «E chi sarebbe, questo Ricci!». Mario andò subito in collera e rivolgendosi all’incauto spettatore lo apostrofò: «Pezzo d’ignorante! Non sai chi è Ricci! Esci fuori, burino rifatto!».

Quella di prendersela con il pubblico era uno dei tratti più salienti della personalità di Riva attore e, lo confesso, uno dei motivi di maggiore preoccupazione per me. Una volta, al "Nuovo” di Milano, Riva era appena entrato in scena, quando s’accorse che in prima fila sedeva un signore dalla testa completamente calva: quasi una boccia lucida. Mario allora avanzò fino al bordo del palcoscenico esclamando: «E 'sta cosa che sarebbe? Vedi che bigliardo! Ma come, signore, lei con una testa del genere, vuol pure venire a teatro? Ma che, è matto?» Il signore, per quanto piuttosto imbarazzato, la prese con abbastanza spirito limitandosi a sorridere. Ma Mario insistette fino a infastidire lo spettatore. Dovetti passare il quarto d’ora dell’intervallo a cercare di scusarmi e a calmare quel poveretto.

Certi assalti, scatti, impennate erano, per Mario, limitati al suo mondo d’attore. Fuori del palcoscenico era un uomo pieno d’affetto e di generosità.

Il suo attaccamento alla famiglia sarebbe sufficiente a dare un ritratto del suo comportamento nella vita intima. Di fronte al padre e alia madre Mario si è sempre comportato come un ragazzino. Anche quando era al culmine del successo, e il lavoro e le cure della famiglia che s’era formato gli prendevano la maggior parte del tempo, non venne mai meno a quelle forme di rispetto verso i genitori che prendevano giornalmente la forma di una visita, se si trovava a Roma, o d’una telefonata se ne era lontano.

Dove Mario rivelava soprattutto la sua essenza di uomo appassionato era però nei riguardi dei figli. Ne desiderava tanto uno, da riconoscere il bambino che sua moglie Dema Massoli aveva avuto prima del matrimonio: un gesto generoso, che pochi sarebbero forse disposti a fare. Quando Analmente Diana Dei gli diede il piccolo Antonello, Mario sembrò impazzire dalla gioia. In quel periodo, otto anni fa, lavorava con me e io mi trovai improvvisamente di fronte, dopo la nascita, ad un uomo trasformato. Certe punte del suo carattere si smussarono di colpo, certe asperità scomparvero: era un uomo felice che desiderava render partecipi gli altri della propria felicità.

Negli ultimi anni Mario, che non era mai stato avaro, diventò perfino più attento alla propria amministrazione finanziaria. Cominciò a risparmiare, proprio in vista del futuro di Antonello. Non che abbia mai presentito l’appressarsi della propria fine, ma cercava di non sprecare quell’abbondanza che gli era portata da un periodo di successo, di cui non poteva immaginare la durata.

In realtà, al momento della ingiusta fine, Mario aveva raggiunto tutto quello che un attore può desiderare: la sicurezza economica, la popolarità nazionale. Il successo nella vita familiare completava un arco che faceva di Riva un uomo felice. La sua vita intima era fatta soprattutto d’allegria e di affetto. Le uniche arrabbiature erano provocate dalla sua passione sportiva. Tifoso della squadra romana di calcio della Lazio, era incapace di sopportarne le sconfìtte. Lui, che era un uomo spiritoso, era incapace di sopportare la minima ironia diretta alla sua passione di tifoso. L’ho visto, in casi del genere, buttarsi a capofitto in baruffe interminabili che lo
rendevano rosso in viso e con la voce roca. Devo dire che lo sport è stato l’unico argomento su cui Mario e io non ci siamo mai trovati in disaccordo, per la buona ragione che io, non avendo mai visto una partita di calcio, non potevo punzecchiarlo nel suo lato debole.

Mario era capace di irritarsi violentemente anche per piccole provocazioni: non l’ho però mai visto abbattuto. Dotato di una tenacia ferrea, il mio amico, anche nei momenti difficili, faceva ricorso alla propria energia e, quando gli altri membri della compagnia erano avviliti perchè lo spettacolo andava male o non aveva il concorso del pubblico, Mario era l’unico a non perdere la fiducia, e lavorare con raddoppiata lena.

Una delle qualità più eccezionali nel mondo, quello teatrale, in cui vivo, è senza dubbio la lealtà. Vicino al palcoscenico ho visto troppo spesso trionfare la gelosia, l’invidia e la grettezza per non accogliere sempre con sorpresa l’atteggiamento leale in ogni sua forma di Mario Riva. Per due volte, la nostra soubrette ci ha abbandonato: prima Isa Barzizza, passata a compagnia di prosa, e poi Flora Lillo, insoddisfatta del contratto. Furono defezioni che ebbero uno strascico in tribunale: tutte e due le volte, Mario si presentò davanti al magistrato per testimoniare in mio favore. Un gesto che io non gli avevo chiesto e che fu tanto più prezioso, dunque.

Finito il periodo della nostra collaborazione, vidi più raramente Mario. Incontravo lui e Diana alle prime teatrali del Sistina, dove si trovava ad avere la poltrona accanto alla mia. Quando mi vedeva si rivolgeva a me con un appellativo affettuoso, coniato durante gli anni di lavoro comune. «A’ dittatore!...», diceva. E, quando voleva fare dell’ironia, interrompeva il mio discorso dicendo: «A’ dottò, a me nun me freghi...».

Oggi, dopo la sua scomparsa, io piango la sua morte non soltanto come amico, ma anche come uomo di teatro. Sono certo infatti che Mario, il cui successo durava da pochi anni, aveva ancora molto da dare al pubblico. La sua parentesi televisiva non sarebbe certo stata ancora lunga: e Mario sarebbe ritornato di nuovo sul palcoscenico. Amava troppo il pubblico, amava il dialogo diretto con gli spettatori: per questo, gli invitati in uno studio televisivo non gli erano sufficienti. Una fine crudele ha invece impedito al mio amico di dare una grande sorpresa al pubblico italiano: un Riva capace addirittura di superare il Riva che già conoscevamo. Una fine che l’ha colto con crudeltà sul lavoro: lui, che aveva fatto il successo del "Musichiere” è rimasto ucciso all’Arena di Verona, in uno spettacolo organizzato dal "Musichiere”. Si può dire di lui quel che sarebbe l’epitaffio completo d’un attore: è morto nello spettacolo e per lo spettacolo.

1960 09 17 Tempo Mario Riva f15

Remigio Paone, «Tempo», anno XXII, n. 38 e 39, 17 e 24 settembre 1960


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Remigio Paone, «Tempo», anno XXII, n. 38 e 39, 17 e 24 settembre 1960