Un bar sul viale del tramonto

Tiberio-Mitri


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Dopo i suoi recenti insuccessi avuti sul ring, Tiberio Mitri provvede al proprio avvenire acquistando un caffè a Roma.

Un vecchio campione di boxe, Terry McGovern, la sera della conquista del titolo, rientrando negli spogliatoi disse ai giornalisti che lo attorniavano: «E adesso che ho sulla fronte l’alloro più ambito, sapete qual è il mio programma per il futuro?». Tutti stavano con le orecchie tese, mentre il giovane campione lentamente cominciava a sorbirsi una tazza di té caldo. Poi McGovern aggiunse: «Il mio programma è di prendere meno pugni possibile sulla testa, in modo da conservarmi un po’ di cervello intatto per quando dovrò veramente guadagnarmi la vita con un lavoro serio».

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Era la sera del 9 febbraio 1900 e Terry McGovern aveva appena vent'anni. Qualche tempo dopo perdette il titolo e, pur trovandosi ancora nel fiore della giovinezza, non gli fu più possibile emergere sui rivali. Mi è venuto in mente questo curioso aneddoto, guardando le fotografie di Tiberio Mitri impegnato nella sua nuova attività commerciale. La notizia forse giungerà nuova e susciterà una certa sorpresa, ma tant’è: Mitri, il nostro più promettente e dotato campione di boxe, ha aperto un bar a Roma insieme al suocero, signor Aristide Franco: il bar «Colorado» in Largo Arenula. Dal ring al banco di vendita: non c’è che dire, il salto è piuttosto sorprendente. Soprattutto se, con un piccolo sfarzo, cercate di ricordarvi la data di nascita dell’atleta triestino. Tiberio ha soltanto venticinque anni e se tenete conto che Joe Louis a trentasette anni suonati non ha ancora appeso i guantoni al chiodo, dovete convenire che a proposito del nostro campione è forse più eisatto parlare di meteora, piuttosto che di astro. Eppure Mitri ha avuto una carriera inizialmente folgorante. Lasciamo parlare le cifre: da dilettante su 64 incontri, 50 vittorie e 6 pareggi; come professionista ha saputo far piegare le ginocchia al fior fiore dei "medi” europei, da Stock a Dick Turpin, da Delannoi a Kid Marcel, a Dauthuille ecc. Egli è stato campione d’Italia e campione d’Europa.

Ci fu un momento (due anni fa circa) che gli sportivi italiani erano sicuri d’aver trovato nel giovane pugile triestino il "fuoriclasse”, che si sarebbe facilmente imposto all'ammirazione mondiale e avrebbe riportato in Europa quel titolo che purtroppo pare di perenne esclusività americana. Invece, di colpo, il grande castello di speranze ha cominciato a mandare paurosi scricchiolii. Proprio quando il titolo pareva a portata di mano, il viaggio di Mitri negli Stati Uniti si risolse in una dolorosa sconfitta. Ma le quindici riprese perdute ai punti di fronte al! ventottenne Jack La Motta, significavano sì l’addio momentaneo all’alloro mondiale, ma in fondo non costituivano una. irrimediabile condanna per un atleta di ventitré anni e mezzo. Il morale di Mitri però uscì in pezzi dall’avventura d’oltreoceano. L’immediata partenza per l’Italia diede l'impressione di una fuga. Purtroppo ci si mise pure la coda delle accuse e contraccuse con Turiello, ci fu la crisi del manager e Tiberio finì, forse anche per colpa sua, per restare solo, senza il conforto di una voce amica e nello stesso tempo esperta. In tali circostanze si fa presto a passare dal luglio del 1950 all’ottobre dello stesso anno, vale a dire dalla bruciante ma sempre onorevole sconfitta con La Motta alla débàcle parigina davanti a un forte ma modesto pugile quale Claude Ritter.

Il suocero "manager"

I tifosi del triestino cominciarono a guardarsi intorno con una certa circospezione e qualcuno si pose la terribile domanda: «Siamo già arrivati al "viale del tramonto”?». A completare il disastroso scivolone del prestigio dì Mitri provvide, qualche mese dopo, il k. o. di Valdagno. Ve lo figurate un boxeur come Tiberio, in procinto pochi mesi prima di cingere la corona mondiale dei "medi”, restare addormentato sul tappeto durante ima esibizione dimostrativa con Mario Minatelli? Quando il destino si mette ad andar di traverso, anche il diavolo si presta con la sua malevola coda. Infatti, nella caduta per il ben assestato diretto di Minateìli, Mitri batté malamente la testa e l’incidente, già di per sé clamoroso, assunse un aspetto addirittura drammatico. L’indomani il nome del pugile triestino era sulla bocca di tutti gli sportivi.

Naturalmente il morale dell’ipersensibile atleta era sottoterra. Ci volle del bello e del buono per ricondurre lo sfiduciato Tiberio sulla via del ring. Cure, isolamenti e iniezioni di buona volontà. In tutto, otto mesi circa di preparazione. Alla fine le speranze cominciarono timidamente a rinverdire. «Questa volta ci siamo!» si sentiva mormorare nei circoli competenti. E le prime esibizioni, per quanto gli avversari fossero elementi piuttosto modesti, non affievolirono le nascenti illusioni. Anzi. Qualcuno con un pizzico di sale in testa si permise però di far notare che Mitri a tutto aveva pensato fuorché alla scelta di un manager di vaglia. La trovata di, chiedere la tessera di manager per il suocero (un uomo ancor giovane e pieno di iniziative, ma non certo navigato nel difficile mare del pugilato) cadeva proprio a proposito per far spuntare i risolini sulla bocca dei maligni.

Si arrivò così alla vittoria riportata al Vigorelli di Milano su Gaston Chambraud (già vincitore in un fortunato incontro di Livio Monelli). Infine, dopo la mediocre esibizione con lo stesso Minelli terminata alla pari, cominciò a prender consistenza la notizia d’un ritorno di Mitri al «Palais des Sports» di Parigi. Stava per scoccare l’anniversario dell’infausta serata contro Ritter. Questa volta il pugile da battere era addirittura un medio-leggero. Sarebbe stato facile comprendere che chi aveva tutto da perdere era proprio Mitri. Invece il triestino accettò senza discutere l’offerta francese e si avviò verso la più umiliante esibizione della sua carriera. L’avvenimento è troppo vicino, perché non lo possiate ricordare. Fu nell’ultima settimana dell’ottobre scorso (una settimana catastrofica per il nostro pugilato, perché quasi contemporaneamente alla disfatta di Mitri, Gino Buon-vino a New York veniva messo fuori combattimento in 54” dall’anziano Joe Baksi, e Alvaro Cesarani a Londra, si faceva squalificare in maniera poco edificante nell’incontro con Roy Ankarah).

Avrete certo presenti le fotografie sui nostri giornali che mostravano Tiherio Mitri, l’orgoglio della nuova generazione pugilistica italiana, al tappeto davanti all’esterrefatto Charles Humez. Il quale quasi non credeva ai propri occhi. Evidentemente il «Palais des Sports» stava diventando una specie di sarcofago per la gloria pugilistica di Mitri. Se il nostro atleta non provò l’amarezza del k. o., lo si dovette alla compiacenza del gong. In dieci riprese, cinque volte a terra! La fase iniziale poi assunse addirittura una tensione drammatica: l’ex campione d’Europa, che qualche anno prima aveva mandato in delirio i parigini con l’eleganza della scherma, con l’agilità delle schivate e con l’intelligenza delle finte, adesso era costretto tre volte al tappeto in una sola ripresa! Subito dopo il disastro con Humez, Mitri rientrò a Trieste e negli ambienti sportivi si, diffuse la voce che il campione aveva emesso il canto del cigno. Ora la Federazione ha accordato al nostro pugile un lungo periodo di riposo e lui se n’è servito per aprire un bar nella capitale.

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Forse Mitri, senza saperlo, ha fatto suo il ragionamento di Terry McGovern: «E’ meglio piantarla coi pugni, finché il cervello è ancora nel miglior stato per servire ad un lavoro che può durare tutta la vita». Qualcuno, apprendendo della nuova attività dell’ex campione, ha assunto l’aspetto dell’accompagnatore funebre. Tenuto conto che far funzionare bene un bar può essere altrettanto difficile quanto sostenere un match sul ring, non vedo perché debba suscitar meraviglia Mitri, quando da noi abbiamo esempi di cento altri campioni proprietari di bar e locali pubblici. Forse perché Mitri ha aperto il bar a venticinque anni, senza aspettare la. classica età dell’atleta in pensione, vale a dire dei trentaquattro anni? Questo significa soltanto che egli, sui suoi colleghi ha un vantaggio di nove anni di esperienza in fatto di attività commerciale.

Accuse maliziose

Esistono poi i tifosi che attribuiscono tutte le disgrazie sportive di Mitri al matrimonio con Fulvia Franco, sua concittadina e Miss Italia 1948. E’ vero che subito dopo le nozze si verificò il malaugurato viaggio in America con tutto quel che sapete. E forse può anche essere vero che fa. felicità coniugale abbia chiuso la porta in faccia alla "forma” sportiva. I sostenitori, di questa tesi inoltre rispolverano le velleità cinematografiche della bella Fulvia (ricordate di averla vista in una piccola parte nel film «Romanticismo» con Nazzari e Tamara Lees?) e aggiungono che lo stesso Mitri non esitò a tener dietro alla moglie, interpretando un foto-romanzo per un settimanale a fumetti. Ma ammesso pure che vi siano stati degli errori, come non si può umanamente chiudere un occhio e comprendere certe esuberanze di due sposini poco più che ventenni? Adesso, però, tutto pare sistemato: al bar «Colorado», la giovane signora Mitri siede dietro alla cassa, mentre il marito è sempre alle prese con gli ammiratori che sono diventati i migliori, e i più fedeli frequentatori del suo bar.

Ezio Colombo, «Settimo Giorno», anno V, n.2, 10 gennaio 1952


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Ezio Colombo, «Settimo Giorno», anno V, n.2, 10 gennaio 1952