Processo e condanna di Marziano di Lavarello ed i suoi consulenti

Nobilta

Rassegna stampa da varie testate - Periodo dicembre 1952 - dicembre 1956


1952 12 04 Il Giornale dellEmilia Nobilta intro

Roma, 3 dicembre.

Totò, lo sappiamo tutti, oltre che alla sua gloria artistica tiene molto a quella che gli deriva dall'essere l'unico, vero pretendente al trono di Bisanzio e dall'essere di conseguenza l'unico che abbia il diritto a fregiarsi del titolo di imperatore di Bisanzio. Domani venerdì Totò, ovvero sua altezza Imperiale Angelo Flavio Ducas Focas Comneno di Bisanzio chiederà al tribunale che in maniera sia pure indiretta, gli sia riconosciuto questo diritto.

Sarà meglio riassumere la vicenda: Totò alcuni anni orsono dimostrò ai magistrati napoletani con documenti autentici la legittimità dei suoi titoli. Recentemente Marziano Lascari Lavarello, un giovane che assume d'essere lui il vero pretendente al trono di Bisanzio, denunciò Totò affermando che il noto comico aveva sorpreso la buona fede dei magistrati esibendo loro documenti falsi o apocrifi. Mentre la Procura della Repubblica stava svolgendo le indagini su questa denuncia, Totò, senza attendere la decisione dei giudici (i quali archiviano la pratica ritenendola non fondata) denunciò a sua volta per calunnia Marziano Lascari Lavarello, il suo segretario Luigi Colisi Rossi e Guido jurgens, il consulente araldico della casa di Marziano II.

Qualche mese dopo fu tenuta in un salone dell'albergo Hassler una conferenza stampa dal signor Jurgens, il quale si lasciò andare ad espressioni che Totò ritenne diffamatorie. Da qui un'altra denuncia di Totò per diffamazione.

Conclusione: domani venerdì nell'aula del tribunale il noto comico, difeso dall' Avvocato Eugenio De Simone, si presenterà per accusare i suoi diffamatori e calunniatori (a loro volta difesi dagli avvocati Occhiuto, Ametta, Funaro e Battaglia) Marziano Lascaris Lavarello, Luigi Colisi Rossi e Guido Jurgens e per chiedere al tribunale la loro condanna.

«Il Giornale dell'Emilia», 4 dicembre 1952


Giornale-dell-Emilia
«Il Giornale dell'Emilia», 4 dicembre 1952

1952 12 06 Corriere della Sera Nobilta intro

Roma 5 dicembre, notte.

Una denunzia alla Procura della Repubblica fu presentata nell’aprile 1951 contro il principe Antonio De Curtis, in arte Totò: l’artista venne accusato di essersi servito di mezzi illeciti e di documenti falsi per ottenere dalla magistratura napoletana il riconoscimento del titolo di discendente della stirpe imperlale costantiniana del Focas.

Poco tempo dopo, il 18 giugno dello stesso anno, nella sala di un grande albergo romano fu tenuta una conferenza-stampa per ribadire pubblicamente che il titolo di Antonio De Curtis era illecito perchè ottenuto con subdole azioni; tali affermazioni furono espresse in una specie di «velina» dattilografata, che venne distribuita al giornalisti intervenuti.

Totò sporse querela per calunnia contro gli autori della denuncia e cioè contro Marziano Lavarello, pretendente alla discendenza imperlale bizantina, il suo segretario Luigi Colisi Rossi, il suo consulente araldico Guido Jurgens; questo ultimo fu imputato anche di diffamazione perchè tenne la conferenza-stampa. La vicenda giudiziaria cominciò dopo che la magistratura, in seguito ad istruttoria, ebbe ritenute assolutamente infondate le accuse formulate contro De Curtis e dopo che gli atti relativi furono archiviati.

Oggi Totò si è presentato In Tribunale per sostenere la sua azione contro gli autori della denunzia; l'artista, in cappotto grigio, non ha potuto assistere all'interrogatorio degli imputati da lui querelati; circondato da una piccola folla, è restato negli ambulacri del tribunale in attesa di poter deporre; ogni tanto si passava la mano sui piccoli baffi che si è lasciato crescere.

Marziano Lavarello, il pretendente alla discendenza costantiniana, non era presente al giudizio. Hanno risposto per lui alle contestazioni del giudici e della parte civile, rappresentata dall'avv. Eugenio De Simone, Luigi Colisi Rossi e Guido Jurgens.

«Ammetto di aver presentato l'esposto contro il principe De Curtis — ha detto Colisi Rossi — ma lo feci per incarico di Lavarello, nella mia qualità di «cancelliere della casa di Costantinopoli». Questa mia carica è completamente gratuita; io sono un dirigente industriale; conosco la madre di Marziano Lavarello perchè abito da molti anni nello stesso palazzo. Marziano mi mandò questa lettera su carta intesta ta della casa di Costantinopoli, per darmi l'incarico; non potevo sottrarmi ai miei obblighi».

Colisi Rossi ha aggiunto che potè sbagliare nel firmare la denuncia, ma che agì per «ordini superiori». Ha dichiarato poi di non dubitare che il principe De Curtis sia discendente della stirpe costantiniana dei Focas; secondo lui, però, non è possibile che si tratti dell’unico discendente di tutti i rami della stirpe bizantina.

E’ stato tirato in ballo il Centro storico costantiniano di Firenze; sono stati esibiti vecchissimi documenti che dovrebbero dimostrare come nella famosa discendenza ci possa essere posto per Totò e per Marziano II; si è parlato perfino dell'Ordine della Giarrettiera di cui il padre di Lavarello sarebbe stato insignito, secondo certe pubblicazioni che il patrono di Totò ha bollato con dure parole.

L’altro imputato Guido Jurgens, ex-ufficiale del carabinieri, ha ammesso di aver tenuto la conferenza-stampa per ordine di Lavarello e di aver negato durante la riunione che De Curtis discenda da Nlceforo n Focas, che sarebbe morto senza lasciare eredi. «Come consulente araldico di Lavarello — ha detto Jurgens — ero del parere d’intentare una causa civile al principe. Non fui ascoltato - Marziano II mi comandò di tenere la conferenza-stampa; dovetti obbedire - Non fui io però a battere a macchina i comunicati che vennero distribuiti».

Erano quasi le quattro del pomeriggio, quando l’interrogatorio del due imputati presenti è terminato. Totò aspettava da quasi otto ore il momento di salire sulla pedana. Il presidente ha Invece deciso di rinviare la causa al 20 dicembre.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1952


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1952

1952 12 06 Corriere dell Emilia Nobilta intro

Roma, 5 dicembre.

A chi gli muove le critiche più severe sulle sue qualità di attore comico, Totò risponde invariabilmente con una battuta, una battuta quasi sempre scherzosa. A chi invece si permette di porre in dubbio la legittimità del suo titolo imperiale, Totò il replica con una querela. «La critica è una cosa, la calunnia è un'altra. Contro i calunniatori - egli spiega - io non ho che un arma per difendermi: il tribunale».

E così, questa mattina, Totò o meglio Antonio de Curtis imperatore di Bisanzio, ha trascinato sul banco degli imputati quello che è il suo avversario più irriducibile: Marziano II Lascaris Lavarello, il quale non solo gli contesta il diritto a fregiarsi di un titolo così vistoso ma sostiene di essere l'unico a poter pretendere il titolo.

Marziano II non s'è però presentato: ad un "imperatore" come lui anche in tempi repubblicani non si addice il ruolo di accusato punto in sua vece sono venuti coloro che lo hanno aiutato a «diffamare e calunniare» Totò: Luigi Colisi Rossi, un dirigente industriale torinese che ricopre la carica di «cancelliere della casa Imperiale di Marziano II» e Guido Jurgens, un ex ufficiale dei Carabinieri elevato al grado di «consulente araldico» della stessa casa. Ne è venuta fuori ugualmente un'udienza interessante con un pubblico, diremo, d'eccezione. Solo per ascoltare i due imputati presenti si sono fatte le quattro del pomeriggio. Totò ha dovuto rinunciare alle sue spiegazioni e ha passato tutto il tempo misurando a grandi passi i freddi corridoi del «Palazzaccio».

Luigi Colisi Rossi, primo imputato: è un signore molto timido e molto desideroso di cavarsela il meglio possibile da una bega che sembra interessarlo molto poco. L'essere il «cancelliere della casa Imperiale» lo ha costretto ad assumersi l'incarico che lo ha condotto in tribunale: firmare l'esposto alla magistratura, con il quale s'accusava Totò di fregiarsi abusivamente del titolo, gli venne imposto con una lettera categorica da Marziano II. E lui, sembra non abbia potuto ribellarsi all'ordine del suo “imperatore”.
Luigi Colisi Rossi ha parlato ai giudici, cercando di sollevare al massimo dalle sue spalle il peso di tante responsabilità. «Io - ha aggiunto con voce querula Colisi Rossi - non ho mai avuto intenzione di calunniare il principe De Curtis. Mi limitai a firmare l'esposto che altri avevano preparato. E' vero che io non ritengo essere De Curtis l'unico discendente dei principi di Bisanzio, ma in materia la mia parola non conta nulla. Non sono un araldico. Soltanto devo far notare che di fronte alle contrastanti sentenze emesse in proposito dalla magistratura, alcune favorevoli a sua altezza Imperiale, Marziano II e altre a De Curtis, ritenevo che fosse opportuna una chiarificazione. D'altra parte idee con simili alle mi erano state espresse da persone più qualificate di me: il professor Mauro Pignacurti, ad esempio, presidente del Centro storico costantiniano di Firenze, dal professor Temistocle Bertucci, consulente araldico della casa di Marziano II. Comunque io prima di firmare l'esposto, ho chiesto al dottor Jurgens se avrei corso un qualche rischio. Jurgens mi rassicurò dicendo che nell'esposto non vera che la verità dei fatti.»
Il presidente e l'avvocato di parte civile Eugenio De Simone, non hanno concesso vita tranquilla questo imputato che invano, nei momenti più difficoltosi, cercava con lo sguardo dell'aula un aiuto che non veniva. «Ma - ha voluto sapere il presidente - in una lettera che lei hai inviato al signor Lavarello v'è scritto che era giunto il momento di agire penalmente contro Antonio de Curtis. Cosa significa?» L'imputato ha continuato a ripetere: «Era un ordine cui ho obbedito».

L'imputato Guido Jurgens. Su di lui grava una doppia accusa: di calunnia per l'esposto contro Totò, esposto che vende poi archiviato e di diffamazione per una conferenza stampa da lui tenuta in un albergo romano. Le sue spiegazioni ai giudici sono di carattere strettamente tecnico. Jurgens ha cercato di illustrare le ragioni per le quali egli non ritiene che de Curtis abbia diritto al titolo, s'è ingolfato in una disquisizione di natura storica nella quale è risalito fino all'anno 900 dopo Cristo per parlare di Nicefalo II che non lasciò alcun erede da succedergli sul trono di Bisanzio ed infine, pressato dai giudici e dall'accusa, ha finito per scaricare sulle spalle del «suo Imperatore» tutta la responsabilità di quanto è accaduto.

Avrebbe dovuto parlare Totò. Alle sue spiegazioni si è preferito però il pranzo, anche freddo: erano le quattro del pomeriggio. Si tornerà a discutere della questione il giorno 20 e sarà una discussione che andrà per le lunghe. Nessuno poteva mai immaginare che il trono di Bisanzio e i suoi pretendenti avrebbero impiegato l'attenzione di un tribunale, a distanza di quasi 19 secoli.

«Corriere dell'Emilia», 6 dicembre 1952


Corriere-dell-Emilia
«Corriere dell'Emilia», 6 dicembre 1952

1952 12 21 Corriere della Sera Nobilta intro

Roma 20 dicembre, notte.

Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, è salito stasera sulla pedana del tribunale per ribadire le sue accuse di calunnia contro Marziano Lavarello, pretendente alla discendenza imperiale bizantina attribuita dalla magistratura al popolare attore; contro Luigi Colisi Rossi, segretario di Lavarello, ed il suo consulente araldico Guido Jurgens.

Nell'aprile 1951, Lavarello, Colisi Rossi e Jurgens presentarono una denuncia in cui accusarono Totò di essersi servito di mezzi Illeciti per ottenere il suo titolo imperiale, denunzia che venne archiviata; Jurgens tenne, in quell'epoca, una conferenza-stampa in un albergo romano per ribadire «che il principato di De Curtis era illegittimo, incorrendo cosi anche nel reato di diffamazione. Totò, presentandosi al tribunale in cappotto blu, cravatta rossa, anello con grossa pietra al dito, portava sotto il braccio una specie di album azzurro pieno di iscrizioni e di stemmi con aquile e draghi volanti, lune. «Da questo documento rileverete — ha detto con una certa solennità — la mia iscrizione al libro d'oro della nobiltà Italiana. Si tratta, come lor signori sanno, di un atto pubblico. I miei quattro quarti di nobiltà sono in regola; fin da quando, nel 1733, Carlo VI fece nobile del Sacro romano Impero e marchese un mio antenato, la mia famiglia potè' considerarsi ricollegata alla stirpe di Bisanzio».

Il volume azzurro, pieno di fregi d’oro, è stato esaminato dal presidente del Tribunale. Marziano Lavarello, il principale imputato, non era presente. L’aula era gremita di signore. L’attrice Franca Faldlni, in pelliccia di astrakan, si era assicurata uno dei posti migliori.

Pres.: Lei, De Curtis, come ebbe notizie della conferenza-stampa da cui si ritenne diffamato?

De Curtis: Lo seppi dai giornalisti intervbenuti. Vidi anche una specie di "velina" distribuita durante la riunione: vi si diceva che il mio titolo di principe era tutto un imbroglio e che il mio antenato Niceforo II della stirpe dei Focas fu un usurpatore del trono di Bisanzio e venne ucciso nell’anno 969 in seguito ad una congiura di palazzo.

Pres.: Al tempo di questa conferenza-stampa vi fu qualche contatto fra lei e Marziano Lavarello? , ,

De Curtis: Come 'no? Nel maggio dell’anno scorso venne a casa mia uno sconosciuto, parlava con accento straniero; si disse appartenente all’Ambasciata britannica; aggiunse di essere amico di «quei signori». Durante il colloquio, il messaggero s'espresse press’a poco cosi: «Sa, Marziano è un bravo ragazzo. Si potrebbe far cessare tutta questa gazzarra; basterebbe un po’ di buona volontà. Lei guadagna tanto! Io posso fare da mediatore». Lo allontanai; - la còsa non mi piacque.

Colisi Rossi: Si trattava di un giornalista inglese molto conosciuto. Propose proprio a me di andare a parlare col principe De Curtis; ma io declinai l'incarico. Ora si trova a Londra: si; chiama . Philips Paneth.

Avv. Ametta (difesa): Il principe De Curtis come mai, nel 1948, dedicò una sua fotografia a «Marziano Lascaris», attribuendogli con tal nome la discendenza bizantina?

De Curtis: venne In teatro; disse di chiamarsi Lascaris; gli diedi la fotografia come faccio con tanti. Avrebbe potuto anche dire di chiamarsi Giuseppe Garibaldi...

Dopo alcune testimonianze l'udienza si è fatta più movimentata con la deposizione del consulente araldico Luciano Pelliccioni Di Poli, che si è scagliato con imperevduta violenza contro Marziano Lavarello.

Pelliccioni: Conosco da molti anni Lavarello; si agitò sempre per farsi credere pretendente al trono di Bisanzio; vendeva onorificenze; posso dimostrare che non è nobile, ma semplicemente il sig. Lavarello.

Avv. De Simone (parte civile): Sul certificato anagrafico c'è soltanto il cognome di Lavarello; non si è trovata alcuna traccia di titoli nobiliari.

Pelliccioni: Tutta la sua genealogia si basa sul matrimonio fra un Filippino Lavarello ed una Gabriella Lascaris, che sarebbe avvenuto nel 1550. Posso dimostrarvi con documenti che quelle nozze non furono mai celebrato e che la povera Gabriella mori nubile.

Avv. De Simone: Durante il tempo in cui frequentò casa Lavarello, il teste si accorse che Marziano faceva giochi telefonici per attribuirsi importanza?

Pelliccioni: Ogni tanto, mentre eravamo in quella specie di sala del trono che Marziano aveva, si presentava un maggiordomo; portava un telefono su di un vassoio d’argento; diceva: «Altezza, la desidera il principe Colonna». Marziano prendeva il microfono e diceva: «Caro Aspreno, come stai?». O, se si trattava del principe Barberini: «Mio buon Urbano, quanto tempo che non ci vediamo». Un giorno mi divertii a staccare il telefono dalla presa; ricordo che la spina s'infilava dietro un finto caminetto su cui stavano due vasi che i Lavarello dicevano un dono dell'Imperatore di tutte le Russie. Quantunque il telefono fosse isolato, il maggiordomo si presentò lo stesso: «Altezza — disse — c'è il principe Del Drago ». Fu in seguito a questi fatti che mi guastai con Lavarello.

Avv. De Simone: Sapeva che Lavarello mostrava un certificato di battesimo con tutti i titoli nobiliari cui aspira, fra cui quello di «basileus» di Bisanzio?

Pelliccioni: Dal certificato anagrafico di nascita richiesto a Genova, mi risultò che Lavarello era semplicemente Lavarello. Poi trovai un attestato di battesimo nella chiesa romana di San Camillo; vi erano aggiunti in calligrafia diversa i titoli; controllai la copia del documento al vicariato di Roma e qui Lavarello risultò col suo semplice cognome. Sporsi allora una denuncia alla procura della Repubblica contro Marziano.

Pres.: Perchè lei ce l’ha tanto con Lavarello?

Pelliccioni: Il mio odio per lui nacque cosi. Fui tenente delle «brigate nere» al tempo della Repubblica Sociale; stetti in carcere sette mesi per tale ragione; Lavarello mi fece attaccare da un mucchio di giornaletti per questo fatto, facendo affermare che ero stato detenuto per rapina. Parlò di me perfino il Gazzettino del ferrotranvieri che si pubblica ogni sei mesi. Per questo non perdono a Lavarello o spero di fargli pagare il male che mi ha fatto.

Il seguito della causa si avrà il 10 gennaio 1953.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 21dicembre 1952


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 21dicembre 1952

1952 12 21 Il Tempo Nobilta intro2

Totò o meglio ad essere più precisi Il Principe Antonio de Curtis si vanta di non aver nemici. «Ad essere generosi e buoni non ci si rimette mai», suole ripetere a quelli che gli stanno vicini per amicizia o per ragioni di lavoro. Ma a tre persone non perdonerà mai di avergli amareggiato le gioie di questi ultimi anni: Marziano Lavarello, Guido Jurgens e Luigi Colisi Rossi.

«Io non ho mai dato loro fastidio - spiega Totò - ma di fronte a quello che mi hanno fatto, adesso voglio la loro condanna». E smessa la veste allegra e scanzonata che lo ha sempre distinto, ha affrontato la battaglia giudiziaria. Pomo della discordia? Il trono di Bisanzio con annessi titoli onorifici che, nonostante i riconoscimenti della magistratura di cui Totò si è munito, Marziano Lavarello, un giovane piuttosto noto nel “bel mondo” di via Veneto, afferma d'essere stato usurpato dal principe De Curtis.
Ragione della vicenda? una querela per calunnia e diffamazione in seguito ad alcune frasi dette durante una conferenza stampa indetta da Marziano secondo Lascaris Lavarello, organizzata da un dirigente industriale, Luigi Colisi Rossi e tenuta dalla araldico della «Casa Imperiale di Marziano II», Guido Jurgens ed in seguito ad un esposto alla Procura, poi archiviato, contro il principe De Curtis.

Per sentire Totò parlare ai giudici si era dato convegno nella piccola aula del tribunale, ieri pomeriggio, una folla come è raro vedere a Palazzo di Giustizia. Un pubblico da ”prima” cinematografica. Belle ed elegantissime signore; distinti signori. E, qualche magistrato in veste di spettatore che giustificava la sua presenza in aula spiegando di essere il solo per motivi di lavoro e facendo finta di non vedere lo sguardo incredulo del suo interlocutore. Da un lato, affascinante, Franca Faldini, la fidanzata di Totò.

Il principe De Curtis non aveva molto da dire ai giudici. Era stato avvertito di quanto contro di lui era stato detto nella conferenza stampa e naturalmente ne voleva un'ampia riparazione. Ma aveva da esibire ai giudici un documento: un volume rilegato in azzurro.
«A prescindere - ha spiegato ai giudici Totò - da quanto vanno dicendo i miei avversati sui titoli che possiedo, io esibisco un volume della consulta araldica nel quale risulta la mia iscrizione al libro d'oro della Nobiltà Italiana con il titolo di Marchese sin dal 1733».

Poi alcuni testimoni. Per primo: un giornalista, un redattore de” Il Tempo”, Sergio Del Bufalo che dopo aver ascoltato la conferenza stampa di Guido Jurgens si recò al principe De Curtis per chiedergli delle dichiarazioni in risposta a quanto era stato detto nell'albergo Hassler. Sentì parlare dello Jurgens di ”illeciti” compiuti da Totò per ottenere i titoli nobiliari e lesse qualcosa del genere soprattutto nella “velina” che gli organizzatori della conferenza stampa avevano distribuita agli intervenuti. Nella ”velina” c'era scritto: «Ogni azione tentata o fatta dal De Curtis per impossessarsi dell'ordine cavalleresco sacro sovrano Imperiale Angelico Costantiniano di San Giorgio Ovvero della Milizia Aurata d'Oriente non può che costituire un illecito penale».

Infine un consulente araldico ha presentato ai giudici la figura di Marziano II Lascaris Lavarello che ha preferito rimanere a casa e non venire in tribunale. Un quadro abbastanza divertente. Lo ha descritto un testimone, Luciano Pelliccioni Di Poli un giovane che si interessa di araldica. Secondo lui, Marziano II, non ha diritto ad alcun titolo nobiliare, ma vende solo onorificenze false.

«Io - ha continuato il testimonio - mi sono voluto sincerare sulla legittimità dei titoli che si arrogava Marziano Lavarello e dopo un'indagine all'anagrafe di Genova e al Vicariato risulta che è solo Marziano Lavarello senza aggiunta di altri nomi. E' vero che sul certificato di battesimo questa aggiunta è stata fatta, ma è apocrifa ed è stata gabbata la buona fede del parroco. Ragion per cui ho denunciato alla Procura della Repubblica il signor Marziano Lavarello che illegittimamente dice di essere un discendente della nobile famiglia dei Lascaris. Posso dirvi di più. E' un megalomane. Faceva finta di telefonare ad alcuni nobili romani come il principe Aspreno Colonna, come il principe Urbano Barberini trattandoli con grande familiarità. Ogni tanto nel suo appartamento mentre si intratteneva con degli amici nella cosiddetta “sala del trono” entrava un cameriere con un telefono sopra un vassoio d'argento dicendo: “altezza Imperiale, c'è il principe Barberini”. E Marziano parlava. Un giorno sfilai da spina del telefono senza che nessuno se ne accorgesse. L'episodio si verificò ugualmente e Marziano continuò a parlare col telefono senza comunicazione. Questo è Marziano Lavarello».

Presidente: «Ma perché ce l'ha tanto con lui?»
Testimonio: «Dopo aver con lui litigato perché gli dissi che era un truffatore o qualcosa del genere, Marziano mi fece attaccare su un'infinità di giornali compreso un bollettino semestrale dei ferrovieri. Diceva che io ero stato in carcere per rapina, quando invece la ragione della mia reclusione era soltanto per aver fatto parte delle Brigate nere.»

Vicino al suo avvocato, Eugenio De Simone, il Principe Antonio de Curtis sorrideva soddisfatto a sentir parlare in tal modo del suo avversario. Il processo è stato rinviato al 10 gennaio.

«Il Tempo», 21 dicembre 1952


Il Tempo
«Il Tempo», 21 dicembre 1952

1953 01 11 Corriere della Sera Nobilta

Roma 10 gennaio, notte

Il re di Francia Luigi XVI, l'imperatore Carlo VI, Maria Teresa d'Austria, il ministro Necker, sovrani di mezza Europa, il conte Benso di Cavour ed uno stuolo di altri personaggi storici sono stati chiamati in causa dal principe Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris de Curtls, in arte Totò, per dar forza alle sue accuse di calunnia contro Marziano Lavarello, pretendente alla discendenza imperlale bizantina attribuita dalla magistratura Italiana al popolare attore, contro Luigi Colisi Rossi, segretario di Lavarello, ed il suo consulente araldico Guido Jurgens

Totò si è presentato puntualissimo in tribunale per la terza udienza del giudizio da lui promosso; portava un cappotto grigio spinato, cappello nero, cravatta rossa, scarpe gialle a punta; non lontana da lui al e seduta l’attrice Franca Faldlni, in cappotto cammello e maglione scuro.

Marziano assente dall'aula

Nell'aprile 1951 Lavarello, Colisi Rossi e Jurgens presentarono una denunzia in cui accusavano De Curtis di essersi servito di mezzi Illeciti per ottenere dal tribunale di Napoli il suo titolo imperlale: la denunzia venne archiviata: Jurgens tenne in quell'epoca in un albergo romano una conferenza-stampa per ribadire che il principato di Totò era inconsistente, incorrendo cosi anche nel reato di diffamazione. Per questi fatti il principe De Curtls sporse querela.

Oggi all'apertura dell’udienza, che ha richiamavo molto pubblico, si è constatato che, come le altre volte, Marziano Lavarello, l'antagonista di Totò, era assente. «Bisogna che l'Imputato compaia assolutamente davanti a noi — ha osservato il presidente — nel suo stesso interesse: non può sottrarsi all’interrogatorio e alle contestazioni!». L'avvocato di Lavarello ha assicurato che, per la prossima seduta, si spera che le «ragioni che impediscono all'Imputato di presentarsi siano rimosse». Era assente anche il principale testimonio citato per la giornata: l'inglese Philip Panetti, giornalista, che un giorno si presentò in casa di Totò per tentare di arrivare a una conciliazione fra l'artista e Lavarello nella disputa dinastica.

Avv. De Simone (parte civile): Questo Paneth fu nomina to «rappresentante di Marziano II Lavarello» a Londra. La sua designazione ad «ambasciatore» venne resa nota il 1 gennaio 1952 dal «decreto numero 7» pubblicato nella «raccolta degli atti ufficiali della casa Imperiale di Costantinopoli», di cui esibisco la copia. E’ una specie di gazzetta ufficiale di Lavarello.

E' salito sulla pedana il perito araldico Temistocle Bertucci, citato come testimone. E' un signore anziano, vestito di scuro; parla lentamente, con una certa solennità.

Bertucci: Nel 1944 stabilii con una perizia che Luigi XVI, re di Francia, nel 1789, due mesi prima della fuga di Varennes, concesse ad un avo di Lavarello il titolo di «signore di Tourgoville»; il decreto fu firmato dal Capo del Governo Necker. Accertai anche che nel 1860 Francesco II re di Napoli, rifugiato a Gaeta, concesse il titolo di marchese al nonno di Marziano; la lettera di concessione portava la firma del Capo del Governo Calà-Ulloa.

Pres.: All’epoca di tali ricerche, Lavarello le parlò mai della sua discendenza imperlale e del suo nome di Lascaris?

Bertucci: Non mi disse nulla. Se ne avesse saputo qualcosa, penso che avrebbe dovuto parlarmene; che cosa sono gli altri titoli dinanzi a quello Imperlale? Un anno fa ebbi occasione di discutere di ciò con Lavarello, Colisi Rossi e Jurgens. Sostenevano che a Marziano spettava il cognome di Lascaris; secondo loro, nel 1282 i signori di Tenda e Ventlmlglia divennero Lascaris in seguito al matrimonio di uno della loro stirpe con l'unica figlia dell'imperatore di Bisanzio, Teodora. Io non mi mostrai convinto dalla storia, in cui entrava un matrimonio fra un Lavarello ed una Tenda-Ventimiglia Lascaris avvenuto nel 1350, perchè esisteva una discendenza bizantina in linea diretta maschile. Ero sicuro di ciò perchè il principe De Curtls mi aveva precedentemente mostrato documenti e bolle imperlali originali.

De Curtis: Gli feci vedere una bolla di Carlo VI, una dell’Imperatrice Teresa, lettere autografe di sovrani d'Inghilterra, di Danimarca, del Belgio che rimontano a due secoli fa. L'unico discendente riconosciuto dell’imperatore di Bisanzio sono io; lo ha affermato la giustizia italiana in una sentenza del Tribunale, confermata in appello, passata in giudicato. Quanto agli altri pretendenti al titolo, dimostrino i loro diritti, se ci riescono, come ho fatto io.

Vittorio San Martino di Valperga, un giovane vestito di scuro, con lobbia nera, ha dato ragguagli ai giudici sulla conferenza-stampa in cui la nobiltà di Totò fu posta in discussione.

San Martino: Jurgens, seduto in un angolo di una stanza di un albergo alla Trinità dei Monti, fece una lunga dissertazione storica partendo dall'imperatore Niceforo II Focas; disse, fra l'altro, in tono scherzoso, che come costui era stato un usurpatore lo era anche De Curtis...

Avv. De Simone: E’ vero che anche negli ultimi giorni Lavarello ha scritto nel suo bollettino frasi ingiuriose contro la giustizia, a proposito di questo processo?

San Martino: Forse in questo numero del 5 dicembre 1952...

Tira fuori dalla tasca una delle solite «gazzette» della «casa imperlale di Costantinopoli»; in una pagina c'è una specie di medaglione con Lavarello vestito da sovrano bizantino, con corona, scettro, manto d'ermellino; e sotto la scritta: «Marziano II, Basileus di Costantinopoli». In un'altra pagina si esprimono opinioni sprezzami nel confronti della giustizia.

L’ultimo teste è stato il principe Pietro Amoroso D’Aragona: il giorno che Totò ricevette la visita del giornalista inglese Paneth, si trovò a passare per una strada del Parioli, vicino all'abitazione dell’artista. Incontrò Colisi Rossi che stava ad attendere qualcuno; poco dopo sopraggiunse Paneth: «Non son riuscito ad accomodare le cose — disse a Colisi Rossi —, il principe De Curtis non vuol ricevere alcuno»...

La fotografia del Pontefice

De Curtis: Certo, perchè avvertii la stoccata, quando Paneth mi disse: «Lei guadagna tanto: con un po' di buona volontà si può accomodare la faccenda della denuncia sporta da Lavarello »...

Il «finale» della seduta ha veduto una valanga di documenti, esibiti da Totò, scaricarsi sullo scanno del presidente del tribunale: un decreto della consulta araldica, in cut l'attore risulta iscritto dai 1941 nel libro della nobiltà italiana come «nobile dei sacro romano impero»; otto documenti autentici per provar la sua discendenza imperiale; un atto di nascita del comune di Napoli in cui tutti i cognomi di Totò sono citati — quello di De Curtis viene per ultimo dopo Comneno Lascaris eccetera — e, infine, una fotografia del Pontefice Pio XI.

Avv. De Simone: Lavarello ha proclamato che il suo cognome di Lascaris era stato confermato anche dal Papa! Ecco la prova che ha mentito!

Sotto la fotografia del Pontefice si legge: «A.S.A. il principe e diletto figlio D. Prospero Godeardo Lascaris Ventimiglia Lavarello, basileus titolare di Costantinopoli, gran maestro dell'illustre ordine della milizia costantiniana aurata all'augusta sua famiglia e a tutti i cavalieri aurati orientali auguriamo di tutto cuore benedicendo prosperità e gloria». E sotto la firma autografa di «Pius XI».

Avv. De Simone: Si volle far credere che il Pontefice avesse avallato il titolo mandando quella fotografia ai padre di Marziano Lavarello, il 23 aprile 1934. Ecco quanto ne pensa, in un documento ufficiale del 20 novembre 1952, monsignor Diego Venini, arcivescovo di Adona, elemosiniere di Sua Santità, già cameriere segreto partecipante di Pio XI. Il prelato, esaminata la dedica, affermò in una dichiarazione autografa che essa è assolutamente contraria allo stile del defunto Pontefice. Era lui, Venini, a presentare per la firma le fotografie al Santo Padre: «Pio XI non avrebbe mai usato simili espressioni, non essendo mai stato riconosciuto dalla Santa Sede il cosiddetto ordine costantiniano Lascaride della milizia aurata». Il vescovo concluse: «Non si può quindi spiegare simile dedica cosi insolita e di evidente carattere di interessato tornaconto, se non ricorrendo al sistema del fotomontaggio».

Con quest'ultima freccia lanciata dall’avvocato di Totò agli avversari l'udienza si è chiusa e il processo è stato rimandato al 17 gennaio.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 11 gennaio 1953


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 11 gennaio 1953

1953 01 18 Corriere della Sera Nobilta L

Roma 17 gennaio, notte.

Marziano Lavarello, pretendente alla discendenza imperiale bizantina, si è trovato di fronte, in Tribunale, al suo antagonista principe Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris De Curtis, in arte Totò, per attenuare un po’ le accuse scagliate nell'aprile 1951 contro il popolare attore, che venne accusato di essersi servito di mezzi illeciti per ottenere dalla magistratura napoletana il riconoscimento del titolo imperiale.

Lavarello è un giovanotto alto, colorito, con le sopracciglia marcate; un folto ciuffo di capelli biondi gli copre la fronte; si è presentato al giudici con un cappotto scuro, pantaloni strettissimi, scarpe di camoscio color perla.

Pres.: Gli esposti presentati alla procura della Repubblica per contestare il titolo di De Curtis e finiti con un’archiviazione, furono scritti da voi?

Lavarello: Io firmai il primo documento e siglai il terzo; non intendevo calunniare il signor De Curtis, alias Totò, come mi si è contestato, ma provocare un'Indagine sulla genuinità storica del documenti di cui si era servito per ottenere il titolo.

Pres.: Si parlò di documenti falsi e apocrifi...

Lavarello: Parlai di carte storicamente non genuine.

Pres.: Insomma, non avevate in mano alcun elemento per suffragare le accuse; si trattò soltanto di congetture. Prima di agire, vi consultaste con Jurgens e con Colisi Rossi?

Lavarello: Proprio non ricordo.

A questo punto Colisi Rossi, anche lui accusato, ha tratto da una busta di cuoio dieci fogli di carta, presentandoli al presidente del Tribunale: «Queste sono le minute degli esposti presentati contro De Curtls; vediamo un po' chi fu a scriverle!». E le carte sono state mostrate a Lavarello, il quale ha detto con distacco: «Si tratta di semplici appunti scritti da me per il mio consulente e di dati storici».

E’ salito sulla pedana il giornalista inglese Philip Panet, giunto da Montreux. Secondo quanto raccontò Totò nella sua deposizione, fu Panet ad andare un giorno da lui per proporgli una rappacificazione con Lavarello, senza riuscire nell’intento. Il teste dichiara di non parlare italiano; si deve ricorrere a un interprete.

Pres.: Che andò a fare dall'attore?

Panet: Dovevo scrivere un libro sull’Italia; mi recai da De Curtis per pura passione giornalistica. Durante il colloquio, siccome conoscevo il Lavarello, Colisi Rossi e Jurgens, volli tentare una riconciliazione.

Pres.: Lei non accennò al forti guadagni dell’attore e non disse: «Con un po’ di buona volontà, tutto si può accomodare »?

Panet: Non è vero che io abbia detto frasi del genere. Respingo coteste insinuazioni! Uscendo da casa De Curtis. mi incontrai con Colisi Rossi; gli avevo precedentemente telefonato; mi aspettava in un caffè; disse di non poter agire di sua iniziativa per la riconciliazione. La causa è stata rimandata al 24 gennaio.

«Corriere della Sera», 18 gennaio 1953


Corriere-della-Sera
«Corriere della Sera», 18 gennaio 1953

1953 01 25 Corriere della Sera Nobilta Lavarello L

Roma 24 gennaio, notte.

Cinque anni e due mesi di reclusione sono stati complessivamente chiesti dal pubblico ministero per le tre persone che, nel giugno 1951, posero in dubbio la discendenza imperiale del principe Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris De Curtis, in arte Totò, incorrendo nei reati di calunnia e di diffamazione. Per Marziano Lavarello, pretendente al titol di imperatore bizantino attribuito a De Curtis da una sentenza del tribunale napoletano, sono stati chiesti dal rappresentante la pubblica accusa 18 mesi di reclusione e 20 mila lire di multa; eguale pena è stata domandata per Luigi Colisi Rossi, un tempo «cancelliere» del primo imputato; due anni e due mesi sono stati chiesti per Guido Jurgens, già «consigliere araldico» del pretendente, che si qualifica Marziano II, ha una «casa imperiale costantiniana» e pubblica un bollettino ufficiale in cui nomina ambasciatori, ministri plenipotenziari e si attribuisce il titolo di «basileus».

La richiesta delle pene è stata formulata dal magistrato Antonio Corrias, dopo una requisitoria serrata ed accesa. Il P. M. ha ricordato come Lavarello, Colisi Rossi e Jurgens presentarono alla procura della Repubblica tre esposti affermando che De Curtis era riuscito ad ottenere il titolo di principe con mezzi illeciti; successivamente i tre organizzarono una conferenza-stampa in cui Jurgens ribadì al giornalisti intervenuti che il titolo nobiliare di Totò non era genuino; infine fu mandato in casa dell’attore un giornalista straniero. Philip Paneth, il quale, col pretesto di fare opera conciliativa, lasciò comprendere che la disputa tra Totò e Lavarello avrebbe potuto aggiustarsi con un po’ di buona volontà, tanto più che Totò «guadagnava molto con la sua arte».

Tutte queste azioni, secondo Il P. M., furono concertate dal tre imputati che, attraverso un plano prestabilito, intendevano intimorire Totò ed indurlo a sborsare una somma per arrivare ad una conciliazione con l’avversarlo.

La discussione di questo processo, che da un mese si sta celebrando, ha richiamato come al solito un’enorme folla nell'aula del tribunale. Totò, in cappotto blu, sedeva vicino al suo patrono, avv. Eugenio De Simone; dietro a lui era l'attrice Franca Faldini; signore e popolane gremivano ogni spazio libero; Lavarello, che nelle passate udienze fu quasi sempre assente dal giudizio, era oggi in prima fila fra gli altri imputati, con un gran ciuffo di capelli sulla fronte, gli occhi cerulei, un'enorme pietra verde al mignolo della mano destra.

Prima del P.M., l’avv. De Simone aveva pronunciato nell'interesse di Totò un’arringa veementissima, piena di strali polemici e di argomentazioni. Aveva delineato le figure dei tre imputati, ricordando i loro precedenti e le loro abitudini e ridicolizzando senza pietà i «gentiluomini della Corte di Bisanzio» che oggi vorrebbero mettere in dubbio la nobiltà di Totò.

«Appena tre giorni fa — ha gridato De Simone — il sig. Lavarello si permise su di un giornale romano di diffamare ancora una volta il più grande attore italiano, che tutto il mondo cinematografico c'invidia. Lunedi Lavarello sarà querelato nuovamente per diffamazione; la disputa con lui non è finita».

Il popolare attore comico si è intenerito e ha pianto qualche lacrima, quando il difensore ha ricordato la giovinezza di Totò, sua madre, suo padre, nobile napoletano, e, alludendo agli apprezzamenti fatti dagli accusati sulle origini di De Curtis e perfino sul rione di Napoli in cui nacque, ha esclamato: «I morti sono sacri; non si offendono i ricordi più cari di un uomo, che sono la sua più grande consolazione!».

Lunedi, nel pomeriggio, si concluderà la discussione e si avrà la sentenza.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 25 gennaio 1953


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 25 gennaio 1953

1953 01 27 Corriere della Sera Marziano Lavarello Nobilta L

Roma 26 gennaio, notte.

Cinque anni di reclusione sono stati complessivamente inflitti dal Tribunale alle tre persone che, nel giugno 1951, misero in dubbio la discendenza imperiale del principe Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris de Curtis, in arte Totò, incorrendo nel reati di calunnia e di diffamazione.

Quando, questa sera, dopo un'ora e tre quarti di camera di consiglio, il presidente del Tribunale ha letto la sentenza, il popolare attore, che fu sempre presente alle altre udienze del giudizio, era lontano dall'aula affollatissima. Il suo patrono, avv. De Simone, aveva spiegato, all'inizio della seduta, che il principe De Curtis era impegnato a girare alcune scene di un film con Viviane Romance; sarebbe intervenuto all’ultimo atto del processo solo se ne avesse avuto il tempo.

Qualcuno, uscendo dall'aula, ha osservato che Totò, restando lontano, non aveva voluto stravincere nella battaglia giudiziaria impegnata contro Marziano Lavarello, pretendente alla discendenza bizantina attribuita all'attore, nel 1945, dal Tribunale di Napoli; altri hanno detto che De Curtis non aveva avuto il coraggio di assistere ad una distribuzione di pene cosi severe, anche se i condannati erano suoi fieri avversari

Il tribunale ha ritenuto Marziano Lavarello, il suo ex «cancelliere» Luigi Colisi Rossi e il suo ex «consulente araldico» Guido Jurgens, colpevoli di calunnia e di diffamazione In danno del De Curtis, condannando i primi due a 18 mesi di reclusione ed il terzo, recidivo, a due anni. Oltre alle spese di giudizio, Lavarello. Colisi Rossi e Jurgens dovranno liquidare a Totò i danni subiti.

I tre incorsero nel reato di calunnia affermando, in alcuni esposti alla Procura della Repubblica, che il titolo del principe De Curtis non era genuino perchè ottenuto con mezzi illeciti; quanto alla diffamazione, essa si manifestò durante una conferenza-stampa tenuta in un albergo della Trinità del Monti, allorché si affermò che era stata Iniziata un'azione per dimostrare che il principato di Totò non era genuino.

L'attore aspettò che la magistratura archiviasse le denunce di Marziano e dei componenti la sua «Corte imperiale» perchè prive di elementi concreti; poi sporse contro i tre querela, concedendo ampia facoltà di prova. Gli avvocati del tre condannati ricorreranno domani in Corte d’appello.

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 27 gennaio 1953


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», 27 gennaio 1953

1953 03 22 Marziano Lavarello Nobilta L

Roma 21 marzo, notte.

E' stata resa pubblica la sentenza con la quale il Tribunale di Roma, il 26 gennaio 1953, condannò per diffamazione, in seguito a querela sporta da Antonio Angelo Flavio Comneno Lascaris De Curtis, in arte «Totò», Marziano Lavarello, Luigi Colisi Rossi e Guido Jurgens: i primi due a 18 mesi e il terzo, recidivo, a due anni.

Il Tribunale si è valso di numerosi argomenti per dimostrare che i tre condannati incorsero nei reati di calunnia e di diffamazione, allorché affermarono in esposti alla Procura della Repubblica che il titolo di principe attribuito a De Curtis nel 1946 dal Tribunale di Napoli era stato ottenuto con mezzi illeciti; ciò venne ribadito in una conferenza-stampa tenuta in un albergo romano della Trinità dei Monti, ove si affermò e si scrisse in una «velina» distribuita ai giornalisti che era stata iniziata un'azione per dimostrare che il principio di Totò non era genuino.

«Va messo in rilievo — afferma la sentenza — che gli esposti presentati da Lavarello all'autorità giudiziaria ebbero una chiara finalità per far sì che, a carico di De Curtis. fosse iniziato un procedimento penale». In essi si accenna all'epoca di particolare turbamento degli animi in cui sarebbe stata emessa a Napoli la sentenza che attribuì il titolo all'attore turbamento al quale, si disse testualmente, esso De Curtis non dovette essere estraneo in quanto «non si sa con quali elementi e con quale documentazione egli ha ottenuto di far risalire la sua origine al Focas». Frase allusiva senza eccessivi veli ad un'attività delittuosa di De Curtis. Da questa premessa prende le mosse il lungo ragionamento:

«Il più imprudente di tutti — dice testualmente la sentenza — è stato Lavarello, che col suo comportamento processuale ha dato prova di una davvero poco invidiabile rettilinearità di carattere; egli, per tacere d’altro, si è attribuito disinvoltamente negli atti del presente processo il cognome «Lascaris», che non risulta affatto nel suo atto di nascita».

Quanto agli scopi che si prefisse l'azione di Lavarello contro Totò, il Tribunale esprime l'opinione che deve credersi all'attore, quando questi lasciò intendere che si volle tentare un ricatto al suoi danni, allorché gli avversari si videro toccati negli interessi patrimoniali con la creazione da parte di De Curtls di un ordine cavalleresco.

«Su quali basi — si chiedono i magistrati — poggiarono le accuse formulate contro l'attore, che fu definito un usurpatore?». La risposta la lasciamo dare a Lavarello, che dichiarò: « Nel momento in cui presentai gli esposti alla Procura della Repubblica non ero in possesso di elementi concreti che potessero fornire il convincimento che documenti falsi e apocrifi fossero stati esibiti in giudizio da De Curtis per ottenere il titolo». Il che porta il Tribunale a concludere che le accuse scagliate con tanto accanimento contro Totò poggiarono su di «un vuoto barometrico», che i reati di calunnia e di diffamazione sussistono, che «negare l'esistenza dell'elemento intenzionale significherebbe incoraggiare ogni delittuosa impresa del genere al danni della libertà, della tranquillità, della reputazione del cittadino».

Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», Roma, 22 marzo 1953


Corriere-della-Sera
Arnaldo Geraldini, «Corriere della Sera», Roma, 22 marzo 1953

1954 10 07 La Stampa Toto Nobilta titolo

Napoli, 6 ottobre.

In Corte di Appello come In Tribunale, il principe Antonio De Curtis, o meglio l'attore Totò, ha sconfitto i suoi avversari. I magistrati della Corte d’Appello, infatti ieri sera, dopo essere stati in Camera di consiglio per quasi due ore, hanno deciso di confermare la sentenza del Tribunale: come dire cioè la condanna a Marziano Lavarello e al suo amico Guido Jurgens*

E’ questa una storia di vecchia data. Marziano Lavarello aveva sempre sostenuto che Totò era un usurpatore del titolo nobiliare di cui è molto fiero, e che non aveva alcun diritto a ritenersi discendente di Costantino, imperatore di Bisanzio. Nel giugno del '51 colui che si faceva chiamare Marziano II diede incarico al suo «cancelliere» Luigi Colisi Rossi e all'esperto di araldica, Guido Jurgens, di redigere un esposto alla Procura della Repubblica nei quale si sosteneva che Totò aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale del suo titolo daila magistratura napoletana con documenti falsi. Successivamente, in una conferenza stampa ideata da Marziano II, organizzata da Luigi Colisi Rossi e tenuta da Guido Jurgens vennero Iilustrate le ragioni per le quali era stata dichiarata guerra a colui che si fregiava dei titolo di imperatore di Bisanzio, ovvero il principe Antonio De Curtis, il noto comico Totò. Da qui la querela per diffamazione e calunnia e la condanna di Marziano Lavareilo a 18 mesi, di Guido Jurgens (perchè recidivo) a due anni di reclusione.

Ieri la battaglia «per il trono di Bisanzio» è continuata in Corte d’Appello. S’è cominciato con una scaramuccia: Il prof. Carnelutti ha chiesto, infatti, la rinnovazione del dlbattimento facendo presente che la magistratura napoletana nella sua sentenza non aveva riconosciuto chiaramente il diritto a Totò di fregiarsi del titolo. Non si è opposto l'avvocato di Parte civile, Eugenio
De Simone, che tutela gli interessi di Totò. Lo ha fatto, invece il Procuratore generale Pedote, osservando come la Corte d’Appello di Napoli abbia riconosciuto la discendenza di Totò e rilevando comunque che la questione delle origini del principe De Curtis interessa questa vicenda giudiziaria.

Poi si è passati subito alla discussione: gli imputati, infatti hanno dichiarato di rimettersi a quanto avevano detto nel precedente processo. Solo a sera tarda hanno terminato di parlare gli avvocati. Il Procuratore generale ha chiesto la conferma della sentenza. I magistrati si sono riuniti in Camera di consiglio e Totò, che aveva assistito al dibattito, ha preferito attendere in casa la notizia di come era andata la sua seconda battaglia per il titolo. Dopo aver discusso due ore, i giudici hanno annunciato che Totò aveva vinto anche questa volta.

«La Stampa», 7 ottobre 1954


La Stampa
«La Stampa», 7 ottobre 1954

1956 11 22 La Stampa Nobilta

Roma, mercoledi sera.

Marziano Lascaris Lavarello, che per anni nelle aule giudiziarie ha contrastato il trono di Bisanzio al Principe Antonio de Curtis, alias Totò, è passato all'offensiva; e incurante delle molte sentenze della magistratura si è fatto incoronare imperatore nel corso di una fastosa cerimonia svoltasi domenica pomeriggio nella chiesa evangelica metodista di via XX Settembre.

Per l'occasione, Marziano Lascaris Lavarello vestiva un abito regale, in testa per una splendida corona e mentre nella mano destra teneva lo scettro, con la sinistra regge una palla raffigurante il mondo. Un pubblico numeroso e sceltissimo assisteva al rito.

Il pretendente all'impero sedeva in trono (una grande poltrona dai molti fregi dorati e ricoperta di damasco color vermiglione). E, accanto a lui sedevano i ”fedelissimi” con emblemi e stendardi e l'imperatrice madre che indossava un magnifico ermellino. Officiava un pastore metodista che aveva gentilmente accondisceso a venire da Parigi.

La notizia dell'incoronazione è stata per tre giorni mantenuta scrupolosamente segreta, ma ora che è stata ugualmente conosciuta è logico chiedersi quale serata reazione del Popolare comico Totò, o meglio del Principe Antonio de Curtis, che la magistratura ha ritenuto essere il legittimo erede del trono dell'antica Bisanzio.

«La Stampa», 21 novembre 1956


La Stampa
«La Stampa», 21 novembre 1956

1956 11 22 La Stampa Toto Nobilta Marziano L

Roma, giovedi sera.

Le prime reazioni all'incoronazione di Marziano Lascaris Lavarello a Imperatore di Bisanzio non sono state del Principe Antonio de Curtis, in arte Totò, che per anni ha contestato al rivale l'ambito titolo ottenendo infine dalla magistratura un verdetto in base al quale deve ritenersi legittimo erede del trono dell'antica Bisanzio, bensì dal signor Mario Sbaffi, pastore della chiesa metodista di Roma, nel cui tempio di via XX settembre si è svolta la cerimonia.

«La Stampa», 22 novembre 1956


La Stampa
«La Stampa», 22 novembre 1956

1956 12 05 Corriere della Sera Nobilta L intro

L'annosa questione relativa a chi possa, con pieno diritto, fregiarsl del titolo di Imperatore di Bisanzio, che pareva risolta col riconoscimento, da parte del Tribunale, al principe Antonio De Curtis, meglio noto col nome d'arte di Totò, di aggiungere al propri cognomi anche quello che gli permette di proclamarsi l'ultimo discendente degli Imperatori di Bisanzio, minaccia di avere altri strascichi. Contro la recente messa in scena, in una chiesa metodista romana, della cerimonia dell'Incoronazione di Marziano II a «Imperatore di Bisanzio» da parte del pittore Marziano Lavarello, è Insorto non solo il De Curtis, ma anche il principe e conte del Canavese, Vittorio Emanuele di San Martino Valperga Làscaris Ventimiglia.

Quest'ultimo, nel corso di una conferenza stampa da lui stesso convocata ieri sera, ha detto che la cerimonia romana è stata una mascherata con costumi presi a nolo a Cinecittà. Il principe di San Martino ha rivendicato a sé il diritto di fregiarsi, eventualmente, del titolo di effettivo discendente degli Imperatori di Bisanzio, aggiungendo tuttavia di non avere ora intenzione di iniziare nuove polemiche o beghe giudiziarie al proposito. Egli ha tuttavia pubblicamente invitato il principe De Curtis, ora che una sentenza di tribunale gli ha riconosciuto la aggiunta del nuovi cognomi al suo originarlo, di esibire tutti i documenti che confermino storicamente il suo inoppugnabile diritto a proclamarsi Imperatore di Bisanzio.

Quale azione Immediata, il principe di San Martino ha intanto indirizzato al Pontefice e al Presidente della Repubblica due lettere in cui, «quale erede legittimo di Casa Làscaris e come cittadino Italiano e studioso di storia», protesta vibratamente per l'assurda «incoronazione» del pittore Lavarello, che ha offeso, oltre che la sua famiglia, anche l'Italia e la Chiesa cattolica. Alla riunione sono intervenute anche personalità dell'aristocrazia.

«Corriere della Sera», 5 dicembre 1956


Corriere-della-Sera
«Corriere della Sera», 5 dicembre 1956

Note

Nel 1951 fu presentata una denunzia alla Procura della Repubblica contro Antonio de Curtis per essersi servito di mezzi illeciti e di documenti falsi per ottenere dalla magistratura napoletana, nel 1945, il riconoscimento del titolo di discendente della stirpe imperiale costantiniana dei Focas.

Marziano Lascari Lavarello, un giovane che assume d'essere lui il vero pretendente al trono di Bisanzio, denunciò Totò affermando che il noto comico aveva sorpreso la buona fede dei magistrati esibendo loro documenti falsi o apocrifi. Mentre la Procura della Repubblica stava svolgendo le indagini su questa denuncia, Totò, senza attendere la decisione dei giudici (i quali archiviano la pratica ritenendola non fondata) denunciò a sua volta per calunnia Marziano Lascari Lavarello, il suo segretario Luigi Colisi Rossi e Guido Jurgens, il consulente araldico della casa di Marziano II. In questo articolo la cronaca, dal dibattimento alla condanna finale di Marziano & C.