Turco Enzo

ENZO_tURCO

(Napoli, 8 giugno 1902 – Roma, 7 luglio 1983) è stato un attore e sceneggiatore italiano.

Biografia

 Iniziò a dedicarsi al teatro a partire dagli anni trenta, imponendosi come uno degli attori dialettali più validi, soprattutto come spalla di Nino Taranto.

La sua stagione migliore nel cinema, in cui aveva debuttato verso la fine degli anni trenta, iniziò alla fine degli anni quaranta, quando cominciò ad impegnarsi in parti di situazioni comiche e farsesche, quasi sempre al fianco di Totò, affermandosi come caratterista disinvolto e brillante. Recita infatti nel film "Miseria e Nobiltà"(1954).
Come sceneggiatore realizzò, anche se non con la cura necessaria, Scapricciatiello di Luigi Capuano (1955) e Ci sposeremo a Capri di Siro Marcellini (1956).
Dalla fine degli anni cinquanta fino ai primi anni settanta, Turco ha lavorato anche in televisione, partecipando a sceneggiati ed a serie televisive di successo (fra le altre cose, Joe Petrosino, fiction diretta da Daniele D'Anza nel 1972).


Le grandi spalle

Riccardo Billi viene dalla paziente “gavetta” dell’avanspettacolo; Mario Riva dalla falange dei “presentatori”. Un bel giorno questi due s’incontrano, e la loro unione — che ricorda quella di certe sostanze chimiche ciascuna delle quali, per proprio conto, è abbastanza innocua, ma mescolata ad altre formano un composto esplosivo — fa deflagrare un clamoroso successo. Questo successo è La bisarca, cui seguono Alta tensione e I fanatici. Ormai la “ditta” è affermata: la sua comicità vince di prepotenza, ed è infatti una comicità prepotente. Non c’è modo di resisterle: fate conto di giocare a poker con un avversario — anzi, due — che abbia costantemente in mano quattro assi. Billi è un parodista di prima forza: la sua imitazione di Anna Magnani ha fatto epoca. Riva è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila: le sue battute rapidissime hanno la persistenza e la suggestività del tam-tam nella foresta: come ne sentite i primi colpi, siete già disposti ad arrendervi; sapete che la vostra resa è inevitabile. In Billi e Riva c’è tutta Roma: la corrosività del Belli, la cordialità di Pascarella, l’ironia di Trilussa. Straordinariamente divertenti, con tutta l’aria di chi sa di esserlo e fa il possibile per non darlo a vedere: un’immodestia che abbassa gli occhi e arrossisce lievemente, come una signorina di famiglia (del secolo scorso). Una cosa è certa: che la loro è una comicità tutta godibile; quando avete finito di saziarvene, vi avvedete che della lauta imbandigione non è avanzata neppure una briciola.

Forse il pubblico non si rende ben conto dell’importanza artistica d’una buona “spalla”. Ma chi abbia intima dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli di tempismo, il preciso istinto umoristico e la sicurezza di scena che occorrono per adempire utilmente ed artisticamente a questo non facile compito. Un passo di più e la buona “spalla” può diventare un buon comico. E se quel passo non viene, a volte, compiuto è forse nella tema di non trovare per se stessi una “spalla” altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di rivista ne conta alcune che sono veri maestri del genere. E per non sapere in coscienza, a chi dare la palma del primato, adotteremo, nel ricordare le tre principali “spalle” del teatro di rivista italiano, il comodo ordine alfabetico.

Cominciamo dunque da Mario Castellani, l’ottima “spalla” di S.A.R.I. Totò. Magro, distinto, piacevole, Castellani — quando ha cominciato — si avviava brillantemente per la carriera di dicitore-danseur. Ha incontrato per via Totò e si è fermato all'insegna del buonumore. Ormai Castellani ha talmente ben compreso la comicità del suo illustre collega che — forse — potrebbero apparire entrambi sulla scena, senza un rigo di copione scritto, senza aver preso il minimo accordo, senza aver ricevuto il più vago suggerimento, e divertire ugualmente il pubblico per mezz’ora. Al contrario della “spalla” tradizionale, Castellani non finge di incollerirsi per le buffe scemenze del proprio interlocutore, ma anzi sembra sforzarsi di comprenderle, con elaborato interesse, e di fraintenderle, poi, con stupore dignitoso. La sua corretta mansuetudine, allora, serve da sprone alla balordaggine dell’altro, che si fa petulante, proterva, aggressiva. Quando Castellani vorrebbe ribellarsi, è troppo tardi: Totò si è ormai impadronito della situazione e ci gioca, ci giostra, sbatacchiandola in ogni senso al suo inimitabile modo. Tutto questo può parere semplice: ma per arrivare alla progressione esilarante della famosa scena del Vagone letto, ad esempio, ci vuole veramente dell’arte. E la parola non è troppo grossa.

Carlo Rizzo — inarrivabile “spalla” di Macario — è, in un certo senso, un figlio d’arte. Suo zio è stato celebre nel campo dell’operetta: Carlo Lombardo. Suo fratello e sua sorella sono ottimi elementi minori della rivista. Corpulento, cordiale, sicuro di sé, egli oppone alle aeree indecisioni, alle astratte timidezze, alle lunari scemenze di “Maca”, un massiccio buon senso, una solida bonomia, una robusta logica. Alla comicissima balbuzie più spirituale che materiale dell’altro, Rizzo va incontro con alluvionale facondia. È inevitabile che Macario finisca per brancolare in quel torrente di parole e si aggrappi a quella che gli passa più vicina, credendo di salvarsi; ed ecco la parola che gli sembrava cosi promettente e sicura, si sgretola nelle sue mani malferme e dalle briciole, da ogni briciola, sprizza una risata, brilla un concetto ameno, rimbalza un sorriso. E allora Rizzo lancia un’occhiata a “Maca”, tra sorpresa e divertita: sembra domandarsi che razza di individuo sia quell’ometto dalla faccia d’uovo pasquale, dalla bocca a spicchio di luna. Da quel momento lo tratta con la rassegnata pazienza che si usa per i bambini, si fa paterno, quasi materno. “Maca” se ne approfitta subito e — là — butta fragoroso, scattante, il più audace dei suoi frizzi, quello che farà veramente andare su tutte le furie il povero Rizzo. Arte, signori miei, arte anche questa, credeteci sulla parola.

Enzo Turco, forse, non era nato per fare la “spalla”. Le sue innegabili doti di comicità e di spontaneità potevano dargli diritto — come ai grandi di Spagna — di tenere il cappello in testa dinnanzi a Sua Maestà La Risata. Ma Turco è napoletano e perciò è filosofo oltre che artista. Egli deve essersi chiesto quanto formaggio gli sarebbe rimasto, visto che tanti “surice” di buona dentatura e di acuti unghioli erano vittoriosamente mossi all'attacco della forma di cacio capocomicale. E allora ha deciso di dedicarsi al lardo, lasciando parmigiano, provolone e pecorino ai sorci più grossi. Dopo tutto anche il lardo, quando lo si scelga ben stagionato e ben salato, è cibo sopraffino. Ecco dunque Turco “spalla” di Taranto. Napoletano l’uno, napoletano l’altro. Si capiscono a occhiate; meglio ancora, a sbatter di palpebra. Dal modo con cui Nino inizia una battuta, Enzo sa come dargli la ribattuta. Dal modo con cui Enzo pone un interrogativo, Nino sa come deve rispondergli. Sentirli recitare assieme è un piacere cordiale e sottile per chi sia appassionato di arte scenica; è un po’ del glorioso San Carlino che si affaccia nei loro dialoghi; è la tradizione classica che si perpetua, insaporita dal più originale modernismo. Il nasetto a patatina, il viso minuto, la fronte stretta di Turco si contrappongono amenissimamente al naso rapace, alla faccia faunesca, alla fronte mascagnana di Taranto. E Mentre Nino ama — col roteare degli occhi da rana, con le smorfie della bocca tumida — sottolineare l’umorismo di certe battute, Enzo affetta di scivolarvi su, con un gesto vago della mano curiosamente piccola e con un tipico moto del capo, uguale a quello delle foche quando acchiappano a volo il pesciolino premio della loro bravura. Chi è assiduo frequentatore della rivista, vada con la mente, per un attimo, al Turco degli sketches: Edipo turistico e II mago di Napoli. Se non è arte quella, saremmo curiosi di sapere che cosa s’intenda per arte.

Dino Falconi, Angelo Frattini


Comicità politicamente corretta

(su Enzo Turco e Guglielmo Inglese)

Enzo Turco e Guglielmo Inglese sono stati due comici teatrali assai popolari negli anni Trenta e Quaranta, non sempre (e non tanto) come primattori ma soprattutto come autori; anzi, gli autori più prolifici di testi comici durante il fascismo. Da soli, in coppia o in sodalizio con altri,

Turco e Inglese firmano oltre due decine di testi fra i tanti conservati nell’archivio della censura fascista. Il che testimonia un rigore produttivo e una continuità creativa assolutamente fuori dal comune fra i comici popolari.

Guglielmo Inglese2Guglielmo Inglese e Totò, negli anni '30.

Dopo la guerra, Enzo Turco ha avuto una certa fama anche come spalla cinematografica di Totò: è Pasquale, per esempio, l’amico e rivale di Totò-Felice Sciosciammocca nel celeberrimo Miseria e nobiltà che Mario Mattòli girò in pellicola dalla commedia di Eduardo Scarpetta. Chi ha visto il film, non può aver dimenticato la scena in cui Enzo Turco spedisce Totò a impegnare il suo cappotto per acquistare, con il ricavato, ogni ben di dio e una famosa «mozzarella con la goccia» («Fosse il cappotto di Napoleone!» ribatte magistralmente Totò). Ma altrettanto famosa è la sua caratterizzazione di Car-letto nel Turco napoletano girato sempre per il cinema da Mattòli dalla commedia di Eduardo Scarpetta. Carletto è il gradasso pretendente di Lisetta, la figlia dell’uomo che assume Totò credendolo un eunuco turco. Qui Enzo Turco è bravissimo a interpretare il guappo borioso che scappa di fronte alla forza fisica diTotò-turco-Sciosciammoca.

Enzo TurcoEnzo Turco nel film "Miseria e nobiltà" (1954), con Totò e Franca Faldini

Guglielmo Inglese aveva con Totò un rapporto forse ancora più stretto: di Totò, infatti, Inglese fu coautore di molti successi teatrali tra la fine degli anni Venti e il decennio successivo, cioè fino alla nascita e poi al consolidamento del rapporto fra Totò e Michele Galdieri. Ma al cinema, Inglese non ebbe fortuna. Totò lo volle in un indimenticabile cammeo in Totò a colori: Inglese recita il ruolo di un giardiniere burino che ricama un doppio senso dopo l’altro senza riuscire a spiegare a Totò dove siano i propri padroni. Inglese, del resto, ebbe più successo come autore che come attore: per sé seppe solo ritagliarsi una parte da sciocco provinciale, un ‘burino’ mezzo molisano e mezzo pugliese che infilava una scemenza linguistica dopo l’altra, senza mai intendere a fondo lo sviluppo della situazione e opponendo la sua stolida semplicità alla complessità degli intrecci in cui altri - i protagonisti - si ritrovavano ingarbugliati. Una variante sciocca del già sciocco marno napoletano: con questa caratterizzazione trionfarono in teatro, in quegli anni,Virgilio Riento (nome d’arte di Virgilio D’Armiento, lo incontreremo di nuovo) e Leo Brandi che fu chiamato da Totò e Mattòli a fare la celebre parte del provinciale analfabeta che detta una lettera allo scrivano Totò-Sciosciammocca in un’altra celebre scena del solito Miseria e nobiltà cinematografico; per altro, una scena scritta ex novo proprio per esaltare quella caratterizzazione comica così tipica e di tanto vasto successo nel teatro anteguerra.

Insomma, si tratta di due grandi caratteristi la cui memoria è sopravvissuta solo parzialmente al fumo e alla polvere del teatro. Eppure durante il fascismo furono autori assai prolifici e di gran fortuna. E anche gli unici autori che, sugli oltre venti copioni complessivi, si videro tagliare solo due brevissime battute (come vedremo) da parte di Zurlo. Questo, probabilmente, non perché fossero fascisti, ma solo perché più e meglio di altri seppero intuire quel che era politicamente consentito rappresentare a teatro in quegli anni. Detto in breve: erano più furbi degli altri. Perciò, tutti i grandi interpreti li vollero come autori di loro copioni: la loro firma era garanzia di successo e di tranquillità nei rapporti con la censura. Sicché il loro nome compare in tutti gli spettacoli di Totò, fin oltre la metà degli anni Trenta come s’è detto, ma anche in quelli di Nino Taranto, Erminio Macario, dei fratelli De Rege, Virgilio Riento e tanti altri ancora.

Vediamo i due tagli, per cominciare.

E questo che c’entra è un testo scritto da Enzo Turco (busta 247) per Nino Taranto nel 1933. Si parla a un certo punto di una cameriera che in sostanza ha fatto la spia al suo padrone rivelandogli un imbroglio ordito ai suoi danni. Quando la situazione si chiarisce, e ci si chiede chi abbia reso partecipe l’uomo del raggiro, egli spiega che è stata la cameriera: «Le ho rotto la consegna», dice nel copione dattiloscritto (ma «le» è aggiunto a penna). Zurlo, spaventato dal doppio senso di quella rottura che potrebbe effettivamente evocare circostanze sessuali un po’ grevi, taglia la battuta. Tutto qui.

Ne La vera fortuna di Guglielmo Inglese (busta 100), del luglio 1939, Zurlo chiede (non taglia, quindi: segno di estrema stima, come vedremo più avanti in tutt’altre circostanze e con ben altri autori) la modifica di alcune battute che alludono a corteggiamenti troppo serrati. E poi taglia una scena in cui gli attori intonano festosamente l'Inno a Roma, una canzone ufficialmente ritenuta enunciativa dell’impero fascista (per intenderci, è quella che inizia con il verso: «Sole che sorgi libero e giocondo...»). Il commento del censore è scarno ma significativo: «L’Inno a Roma non va in una rivista», come a dire che il fascismo non ha nulla a che fare con la comicità, convinzione e norma che in effetti è ribadita più volte da Zurlo nelle occasioni più disparate. Era fondamentale, infatti, che gli autori teatrali (non solo quelli comici) evitassero ogni riferimento alla quotidianità contemporanea, ossia alla vita comune ai tempi del fascismo.

Dal rovescio di questa semplice legge (mai parlare in scena di fascismo o reale quotidianità ai tempi del fascismo) si evince la prima carta vincente di Enzo Turco e Guglielmo Inglese: nei loro testi non s’allude mai alla realtà di ogni giorno. I riferimenti alla vita di tutti sono edulcorati dalle illusioni private e da una sorta di sentimentalismo collettivo. Raramente s’affaccia la cattiveria in questi copioni (strano a dirsi: tutte le prove cinematografiche di Enzo Turco lo mostrano uno splendido caratterista cattivo) e il lieto fine non manca mai. Si tratta complessivamente di un teatro comico figlio (indiretto, beninteso) del cinema di regime: allo spettatore viene fornito un aggancio fantastico o esotico che gli consenta sempre e comunque di sognare o, al caso, di vagheggiare un lontano passato. Ogni sguardo al presente è bandito o annacquato nell’eccesso, quasi fino al confine con il paradosso. E quando c’era da rappresentare banditi o profittatori, si poteva sempre ricorrere al più banale dei trucchi (benedetto dal fascismo): spostare l’ambientazione in America. Intendiamoci, non si tratta di situazioni false: la fame e la miseria, per esempio, restano pur sempre temi privilegiati da questi autori. Ma nei singoli sviluppi drammaturgici mancano quei reali conflitti (anche sociali) la cui presenza altrove ha saputo caratterizzare, sia pure senza effettiva intenzione critica, la comicità popolare come formidabile strumento di autorappresentazione delle classi subalterne dell’epoca. Spesso l’artificio teatrale sovrasta l’autenticità delle descrizioni d’ambiente: manca quello che vedremo essere il viscerale realismo di Aldo Fabrizi. Insomma: Enzo Turco e Guglielmo Inglese hanno inventato e perseguito l’esotismo dei poveri, al massimo scaricando rabbie e insoddisfazioni su entità vaghe o generiche, dai mariti infedeli alle mogli vanitose, temi ampiamente consentiti dal fascismo.

Guglielmo IngleseGuglielmo Inglese

Quel che conta in questi intrecci è solo il meccanismo comico, la lenta costruzione delle battute: un reticolo di attese scritte che forniva agli interpreti perfetti strumenti da risata. E, a questo proposito, è utile ripetere ancora una considerazione importante che va estesa a tutto quanto si è detto e si dirà circa i copioni del teatro comico popolare conservati nell’archivio della censura fascista o dovunque. Sono canovacci: strutture aperte, imperfette, sovente poco più che abbozzi sconclusionati (è il caso di Cecchelin, per esempio) cui manca del tutto la vitalità dell’attore. La cattiveria di cui sono privi i dattiloscritti di Enzo Turco e Guglielmo Inglese, per esempio, è certo che fosse completamente in carico agli interpreti. Quelle stesse paginette lette o recitate cambiavano radicalmente. Sulla pagina non ci sono le intenzioni, non ci sono le facce, non ci sono i tempi comici, c’è solo (o soprattutto) un’intelaiatura di situazioni sulle quali gli attori sapevano di potersi appoggiare per calibrare un’improvvisazione dopo l’altra (ci sono copioni dei De Rege, per esempio, in cui le battute di riferimento sono riportate una di seguito all’altra senza punteggiatura e senza distinzione dialogica). Ma pure nel caso di Turco e Inglese colpisce la fitta presenza di battute scritte: segno che la loro fervida arte teatrale era di ferreo supporto ai singoli trucchi degli interpreti. Anche in quelle battute, dunque, oltre che nell’esotismo povero, nelle metafore spicciole, è possibile ravvisare il loro stile. Ma, seppure un certo stile di scrittura comica fosse apprezzata da Zurlo, il compito della censura era davvero ingrato, se non del tutto impossibile, dal punto di vista delle improvvisazioni d’attore. Le Prefetture avevano le loro copie dei testi approvati e dovevano inviare in platea qualche funzionario a controllare la rispondenza tra la battuta autorizzata e quella effettivamente detta dall’attore. Ma come controllare il modo in cui gli attori dicevano le parole? Come valutare se un’intonazione, un gesto, una smorfia cambiavano o no il senso della battuta vistata a Roma nelle stanze del ministero? Sicché, i funzionari locali troppo zelanti vietavano tutto, col risultato che le compagnie protestavano, il pubblico non apprezzava le loro recite purgate e i piccoli o grandi gerarchi finivano per vedere così incrinata la loro buona immagine di uomini d’ordine che non scadevano mai nel liberticidio. E allora sovente quei gerarchi inducevano gli stessi zelanti funzionari a chiudere un occhio sì da consentire ai comici di strappare una risata in più. I comici, poi, sentita-mente ringraziavano vuoi con qualche regalo, vuoi con qualche orpello di propaganda a metà spettacolo, vuoi con la forzata condiscendenza delle ballerine o della soubrette alle feste in onore delle compagnie: tra i torti maggiori del fascismo, anche in quest’àmbito, c’è sempre stato quello di alimentare la parte peggiore degli italiani.

Torniamo a Enzo Turco e Guglielmo Inglese. A nome del primo risulta un testo presentato alla censura nell’agosto 1937 (busta 106) e intitolato Questo è poco ma è sicuro ovvero Non ci perdiamo in chiacchiere. A nome del secondo risulta un copione presentato alla censura nell’ottobre del 1940 (busta 84) e intitolato Non ci perdiamo in chiacchiere ovvero Questo è poco ma è sicuro. In tutta evidenza si tratta di materiali per lo stesso spettacolo, uno spettacolo di tenitura record (oltre tre anni): è ragionevole supporre che i due con la loro compagnia battessero tutti i teatri minori della Penisola e che, tornando in una città o in un paese da un anno all’altro, cambiassero il titolo dello spettacolo: prima Questo è poco ma sicuro e poi Non ci perdiamo in chiacchiere. Un trucco ricorrente: la quasi totalità dei copioni comici conservati all’Archivio di Stato ha due o anche tre titoli perché con lo stesso testo (e soprattutto con la stessa autorizzazione della censura) si poteva andare avanti due o tre stagioni.

La rivista in questione è composta da vari quadri ed è possibile che almeno per alcune piazze più importanti il ruolo di protagonista fosse riservato a Nino Taranto. Nell’edizione del 1937 compare un personaggio un po’ ridicolo, un boss della malavita (di nome Al Terrore, ma è facile presumere che in scena si giocasse sull’equivoco con Al Terrone) che raccomanda un comico generico al proprietario di un circo, che elargisce interviste a giornalisti improbabili e che deve tenere a bada un figlio scemo che vorrebbe sparare a chiunque. Si tratta di figurette appena abbozzate che per far ridere ricorrono soprattutto al trucco del tormentone (il ragazzino che vuole sparare a tutti, per esempio). Poi ci sono diversi quadri - che tornano anche nell’edizione del 1940 - dove sono in scena dei disoccupati in cerca di lavoro. C’è un tale Orchestrino che s’offre al solito proprietario del circo (si chiama Natale Sansilve-stro e questo nome produce immaginabili equivoci), affermando che la sua specialità è suonare da solo: «Lo scrivo sul contratto. Il comico Orchestrino lavora da solo. Adesso ho terminato di lavorare all’Apollo». «Successo?», chiede l’interlocutore. «Trionfo», risponde Orchestrino. «Affari?», incalza Natale Sansilvestro. «Niente», «No, dicevo, molto pubblico?», «Nessuno, teatro vuoto», «E allora?», «Ce l’avevo sul contratto: il comico Orchestrino lavora da solo. Più solo di cosi!», è la battuta finale.

Natale Sansilvestro, con il nome di Natale Capodanno, appare anche nell’edizione del 1940. In margine: l’analisi dei nomi usati in quegli anni in Varietà, Avanspettacolo e Rivista meriterebbe una riflessione a sé, tanto i comici seppero inventare appellativi pazzi e equivoci, sia nel riprodurre scioglilingua (fin dal mitico «Sciosciammocca» di Eduardo Scarpetta), sia nel generare confusione o doppi sensi nel dialogo (dal Natale Sansilvestro in questione, fino a una celebre coppia di sposi narrati dai De Rege e chiamati Dopodomani e Domenica), sia nel parodiare personaggi celebri. Insomma, nello sketch di Guglielmo Inglese, due poveracci vanno dal solito impresario a chiedere lavoro. In realtà i due, proprio come Orchestrino, non vogliono lavorare: piuttosto vorrebbero prendere qualche soldo senza fare niente. E così, quando Natale Capodanno offre loro un lavoro pesante e senza paga per i primi giorni di prova, essi preferiscono arraffare un avanzo di pranzo e andarsene. Una situazione simile capita in uno studio medico dove un uomo porta in cura la moglie la cui malattia è quella di tradirlo con chiunque. Ovviamente la moglie, una volta spogliata e distesa sul lettino del medico (il marito nel frattempo è uscito dallo studio), seduce il medico e lo fa impietosire fino a farsi regalare i soldi lasciati sul tavolo dal paziente della visita precedente.

Enzo Turco Eduardo De Filippo Amedeo Girard Titina De Filippo 02

Enzo Turco con la compagnia De Filippo

Enzo Turco Eduardo De Filippo Titina De Filippo 05 logo

Come si vede, si tratta di situazioni semplicissime. Gli autori indicano spesso in didascalia la presenza di lazzi improvvisati e probabilmente a questi (oltre che ai giochi di parole) era demandato tutto l’onere comico delle vicende. Da questo punto di vista, si tratta di copioni preziosissimi quanto a purezza teatrale (nulla è scritto) e a totale assenza di velleità drammaturgiche o tanto meno letterarie.

Il gangster Al Terrore compare in un altro copione firmato da Guglielmo Inglese, Cinquanta milioni. .. c’è da impazzire, presentato alla censura nel maggio del 1938 e conservato nella busta 295. Ma tra le varie pagine del medesimo copione c’è una piccola rarità: è uno sketch firmato da Antonio De Curtis e intitolato Covo Al Gallina. Si tratta, inequivocabilmente, di un testo di Totò, in cui il celebre attore napoletano recita la parte del gangster del titolo. Al Gallina, infatti, è una parodia dichiarata di Al Capone (la scena si svolge negli Stati Uniti) e spicca per la sua geniale idiozia, proprio come molti personaggi resi celebri, poi, da Totò al cinema. Ma qui c’è una certa arguzia drammaturgica in più, rispetto ai quadri che abbiamo già visto di Turco e Inglese: il gangster è uno scemo all’ennesima potenza, come s’è detto, e racconta una rapina maldestra. Il ritratto intrecciato della sua banda e della sua famiglia mette in luce una situazione di normale miseria nella quale finisce per affogare il mito di Al Capone. Per altro, Al Gallina storpia tutte le parole pronunciando solo la vocale ‘o’ e provocando equivoci e doppi sensi in quantità dal momento che alla fine tutti i personaggi, contagiati, finiranno per parlare qui e là solo con le ‘e’, le ‘a’ e via di seguito.

Enzo Turco Eduardo De Filippo Amedeo Girard Titina De Filippo 02

Enzo Turco non era alto ed era piuttosto secco: a ogni battuta il collo gli si tendeva un po’ troppo e le vene si gonfiavano che sembrava sarebbero scoppiate da un momento all’altro. Guglielmo Inglese era massiccio; volendo poteva anche incutere paura con quel suo corpaccione largo, ma in scena faceva solo lo stupido, quindi erano gli altri, semmai, a metterlo in soggezione. La loro peculiarità d’attori non fu quella d’essere ‘spalle’ in senso pieno, facevano la ‘spalla-comico’, un ruolo non troppo diffuso e piuttosto ingrato. Perché in questi ruoli gli attori non potevano mai prendere il proscenio pienamente né come ‘spalle’ né come comici. E, se il motore del teatro è sempre stata l’invidia per il successo degli altri, ebbene, la ‘spalla-comico’ era il più invidioso di tutti perché non poteva neanche contare nel conforto della propria piena identità. L’invidia di Enzo Turco e Guglielmo Inglese fu la loro grande forza di autori: seppero rubare trucchi e segreti a chiunque, erano osservatori acutissimi. E dalla loro osservazione continua anche delle convenzioni fasciste derivò la loro fortuna di autori. L’invidioso, quando era un grande teatrante, riusciva sempre almeno una volta nella carriera a infilare una controscena alle spalle del comico, ad approfittare di un difetto del primattore. Allo stesso modo, Enzo Turco e Guglielmo Inglese approfittavano dei difetti delle convenzioni fasciste e costruivano marchingegni perfetti per allestire controscene al regime. Non pare di poter intravedere antifascismo di sorta nei loro copioni, ma certo nemmeno fedeltà al regime.

I due costruivano mondi paralleli - esotici o irreali che fossero - eppure il pubblico percepiva bene come al cuore delle vicende ci fossero sempre ricchi e potenti (troppo fessi e disgraziati per essere autenticamente ricchi e potenti) che immancabilmente riuscivano a districarsi in un dedalo di miserie e privilegi. Il tutto, ovviamente, senza la minima coscienza sociale o politica, ma solo con la forza dei trucchi teatrali.

Ammesso che il fascismo capisse il valore eversivo di questo continuo parlare di fame e disoccupazione (e almeno Zurlo è probabile che di tutto ciò avesse qualche percezione, a differenza della grandissima parte dei funzionari e intellettuali di regime), non era facile intervenire. Sicché si optò per una sorta di libertà condizionata, come se la comicità fosse un grande carnevale di popolo senza limiti di calendario, ma che non poteva far risuonare i suoi effetti dirompenti oltre il confine preciso dei teatri: già nei foyer le risate dovevano spegnersi per poi consentire a tutti, attori e spettatori, di tornare in silenzio nei tram affollati o nelle strade vuote fino a casa, dimenticando l’ubriacatura di una sera.

Nicola Fano


Galleria fotografica

Foto: Archivi di Teatro, Napoli


Teatro di rivista

  • Mondo allegro, di Ripp (Luigi Miaglia) e Bel Ami con Erminio Macario, Hilda Springher, Bianca Rizzo, Enzo Turco, regia di Erminio Macario 1935.
  • A prescindere, di Nelli e Mangini, con Totò, 1956-1957

Filmografia

Abuna Messias, regia di Goffredo Alessandrini (1939)
Retroscena, regia di Alessandro Blasetti (1939)
Partenza ore 7, regia di Mario Mattoli (1946)
Cuore, regia di Duilio Coletti e Vittorio De Sica (1948)
Fifa e arena, regia di Mario Mattoli (1948)
Il barone Carlo Mazza, regia di Guido Brignone (1948)
Accidenti alla guerra!..., regia di Giorgio Simonelli (1948)
Se fossi deputato, regia di Giorgio Simonelli (1949)
La cintura di castità, regia di Camillo Mastrocinque (1949)
I pompieri di Viggiù, regia di Mario Mattoli (1949)
Il padrone del vapore, regia di Mario Mattoli (1951)
Un ladro in Paradiso, regia di Domenico Paolella (1952)
Un turco napoletano, regia di Mario Mattoli (1953)
Villa Borghese, regia di Vittorio De Sica e Gianni Franciolini (1953)
Miseria e nobiltà, regia di Mario Mattoli (1954)
Totò cerca pace, regia di Mario Mattoli (1954)
Milanesi a Napoli, regia di Enzo Di Gianni (1954)
Scapricciatiello, regia di Luigi Capuano (1955)
Napoli sole mio, regia di Giorgio Simonelli (1956)
Ci sposeremo a Capri, regia di Siro Marcellini (1956)
Guaglione, regia di Giorgio Simonelli (1956)
A sud niente di nuovo, regia di Giorgio Simonelli (1957)
Ricordati di Napoli, regia di Pino Mercanti (1958)
Il bacio del sole, regia di Siro Marcellini (1958)
I ragazzi dei Parioli, regia di Sergio Corbucci (1959)
Vacanze d'inverno, regia di Camillo Mastrocinque e Giuliano Carnimeo (1959)
I ladri, regia di Lucio Fulci (1959)
Caravan petrol, regia di Mario Amendola (1960)
Un giorno da leoni, regia di Nanni Loy (1961)
Le quattro giornate di Napoli, regia di Nanni Loy (1962)
...e la donna creò l'uomo, regia di Camillo Mastrocinque (1964)
Letti sbagliati, episodio La seconda moglie, regia di Steno (1965)
Scaramouche, regia di Daniele D'Anza (1965)
Addio, mamma!, regia di Mario Amendola (1967)
Lo sbarco di Anzio, regia di Duilio Coletti ed Edward Dmytryk (1968)
Mazzabubù... Quante corna stanno quaggiù?, regia di Mariano Laurenti (1971)
Camorra, regia di Pasquale Squitieri (1972)

Televisione

 Serie televisiva Tuttototò - Ep. Il latitante (1966)

Prosa televisiva

RAI

La bella avventura, con Tino Bianchi, Laura Solari, Enzo Turco, Sandro Merli, Tatiana Farnese, Gilberto Mazzi, Franco Volpi, regia di Mario Landi, trasmessa il 27 aprile 1962.


Riferimenti e bibliografie:

  • "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980