Ugo Tognazzi ha fatto tutto: rivista, cinema, teatro, TV

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Ugo Tognazzi ha fatto tutto: rivista, cinema, teatro, TV.

1990 11 17 Radiocorriere TV Ugo Tognazzi introNe avevano fallo quasi uno stereotipo caricaturale. Non solo una sagoma buffa, alla caccia accanita della «joie de vivre», ma un ostinato procacciatore della stessa joie per sé e per gli amici, alla minima occasione, in tutti i campi: nell'amore, nel lavoro, nella convivialità, nello sport, nella corsa al gentil sesso, nel conversare e nel motteggiare fino al l'alba, nello stare e nel mangiare insieme. Ma lui non è mai stato un erotomane o un goliardo o un edonista. È stato un innamorato di quella inconfondibile voracità del vivere che è così tipica in quelli che sono cresciuti nella Lombardia rurale e carnascialesca. E infatti, prima di approdare alla casa bellissima di Piazza dell'Oro, là dove inizia la rinascimentale Via Giulia e ai due casaloni rustici (ma con piscina a tre livelli e galleria di arte moderna) di Velletri. Ugo Tognazzi era ben noto nella godereccia Cremona, «e nella Bassa», aveva confessato una volta, «che ho imparato a parlare, a mangiare, a pensare e ad apprezzare la gnocca».

Certo, se c'era uno cui ripugnava pensare alla morte, era proprio lui. Ancora la sera prima, in clinica, aveva giocato a carte con la Franca Bettoja, sua moglie. Un embolo, avevano minimizzato i medici, che si sarebbe facilmente «riassorbito». Lo avrebbero dimesso il martedì successivo, avevano promesso al degente che già scalpitava. Invece se n'è andato di soppiatto, d'improvviso, tra lo stupore degli ami ci, entrando in coma il sabato mattina. Una bella vita e anche una rapida fine: proprio come lui se l’era sempre augurata. Ammesso che Ugo Tognazzi avesse mai pensato a una cosa cosi astratta, improbabile, remota dalla sua ingordigia di vita.

E stato un formidabile comico? Be', qualcosa di più: un grandissimo attore. Scettico, gaudente e burlone, però mai cinico, e, grazie a Dio, di inflessioni, gusti e cadenze padane. Un interprete, come ogni grande, sempre assillato dai dubbi; anche quando trafficava in mezzo alle salse e ai fornelli. E sempre disposto a correre rischi terribili, come quello di affrontare il satanico intreccio dei Sei personaggi di Pirandello (di cui non aveva mai letto un rigo) sul palcoscenico parigino dell'Odoon. Diceva: «Mi piace giocare senza rete». E la volta che dovette affrontare la parte di Arpagone ne L'Avaro di Molière-Missiroli (e litigò col grande regista) ripetè: «Tutto ciò mi angoscia, ma nello stesso tempo mi stimola». Che cosa, la regia di Missiroli? «Ma no, dover recitare il linguaggio di Arpagone, che è vecchio di 300 anni». È per questo, gli chiedevano gli amici, che da qualche tempo ti senti infelice, depresso? «Ma porca miseria è per chè devo lavorare come un mulo: la mattina intera a studiare la parte, niente pranzo, alle due via al Teatro dei Servi fino alle sette con Missiroli, un brevissimo break di un’ora c via di nuovo fino alle dieci». È dura? «Macché dura. È durissima. Perché non è possibile sfuggire alla drammaticità del personaggio che non è affatto una macchietta». Ma allora, quando hai dovuto recitare in francese e farti accettare da un pubblico straniero?, gli obiettarono. Rispondeva che «quando il rischio è maggiore, io vedo meno nero. E non ho più dubbi e angosce».

Ma forse la verità vera è un'altra. Uno che lo conosceva bene, Tullio Kezich, ha scritto che negli ultimi tempi «sentiva la vita che gli sfuggiva come la sabbia dalla clessidra, che il meglio di tutto fosse ormai passato». E cominciava ad avere qualche problema di memoria, lui vecchio guitto del glorioso varietà anni Quaranta, con quel tanto di cipria, di rimmel, di bruscolini, di soubrettine di coscia tornita, dove tutti recitavano a braccio.

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Dall'avanspettacolo all’Odèon parigino con gli attori mostri della Comédie: quanta strada. Per aver recitato in francese a Parigi gli attribuirono la «Légion d’honneur». Ne era stato contento. Ma avvertiva dentro un rodio: si sentiva vicino, ormai, a quella maledetta linea grigia, oltre la quale ce n'è solo un’altra, più buia.

Per un quarto di secolo è stato un mattatore del cinema italiano. Centocinquanta film (più o meno) filtrati attraverso un mestiere fatto di vulcanica ma, tutto sommato, equilibrata sensibilità. Gli ultimi campioni di incasso furono Venga a prendere il caffè con noi (Lattuada), Amici miei (Monicelli), Il vizietto (Molinaro). La palma di miglior attore l'aveva conquistata a Cannes, ne,,' '81, con La tragedia di un uomo difficile (Bertolucci).

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Aveva iniziato la carriera teatrale con un successo strepitoso: una cosetta di Metz che si chiamava Il frolloccone. Sul piccolo schermo aveva sfondato nel 1954 insieme a Raimondo Vianello, con Un, due tre. rimasto un classico della Rai di tutti i tempi Una lunga carrellata di mille facce, una galleria sterminata di estrose maschere del costume in bilico tra il tragico, l'afflitto c il farsesco. Insieme a Manfredi, Mastroianni e Gassman, Ugo è stato uno degli alfieri della risata all'italiana. La sua carriera artistica (iniziata a 14 anni, mentre era impiegato in un salumificio) e quella sentimentale (iniziata poco più in là) hanno proceduto di pari passo: convulsa e senza pause la prima, agitatissima e senza fine la seconda: dall'inglese Pat O’Hara, alla spagnola Eslava Nieves, dalle francesi Helène Chanel e Capricc Chantal alla norvegese Margarethe Robsbahm e all’italiana Franca Bettoja (da cui Ugo ha avuto gli ultimi due dei suoi quattro figli: Gianmarco e Maria Sole).

1990 11 17 Radiocorriere TV Ugo Tognazzi f2Ugo Tognazzi impegnato in una partita di tennis. Ogni anno organizzava nella sua villa, a Torvaianica, un torneo con gli amici attori e registi. In premio lo «scolapasta» d'oro.

Certo non sono tutte gemme di luce purissima quelle che ci ha lasciato. Qualche film di gusto meno azzeccato avrebbe potuto anche risparmiarcelo. Sparso qua e là nel grande forziere di Tognazzi c’è anche dell'oro di Bologna. Ma, nel bello e nel meno bello, rimane incontaminato quell'incredibile, caleidoscopico specchio dell'Italia fine millennio che Ugo ci ha lasciato in consegna. Il suo rimpianto più lancinante è stato sempre per la stagione errabonda, c a lui in fondo più congeniale, della rivista, quando andava alla scoperta di trattorie e di piatti paesani in compagnia di altri guitti ridanciani come lui.

Con Sordi, Mastroianni e Manfredi è stato uno dei «quatros generales» della risata all'italiana. Eppure negli ultimi due anni gli amici avevano cominciato ad avvertire un retrogusto di stanchezza, un accenno di ripiegamento, una punta di amarognolo nella sua sanguigna ingordigia di vitalismo. Come gli altri «generales». spiazzati dai nuovi gusti di un pubblico giovane, il cinema non lo cercava più con la foga di una volta e Ugo preferiva la malinconia al disdoro. Amori, figli, infedeltà, abbuffate? Si, ma Tognazzi è stato anche un signore che aveva sobrietà di linea; anche

1990 11 17 Radiocorriere TV Ugo Tognazzi f5Nelle vesti di gastronomo. Sopra, a sinistra, L'Avaro di Molière, in teatro nel 1968

Quando sognava di fare una comincia su Rossini: «Altroché Tartufo. Pensa, recitare davanti a tavole imbandite, schidionate di polli e selvaggina». Tramontati gli anni ruggenti del villaggio Tognazzi, del torneo di tennis, dello scolapasta d'oro al vincitore. «Torvaianica? Adesso è diventata una Miami per bottegai». Gli piaceva la cioccolata: se n'è mangiato un pezzo prima di morire. E odiava invecchiare. Il figlio Gianmarco, il più sereno di tutti ai funerali, diceva: «Papà dev’essere contento di esser vissuto così. Si, morire è tremendo. Ma morire senza aver vissuto dev'essere ancor più insopportabile».

1990 11 17 Radiocorriere TV Ugo Tognazzi f6Franca Bettoja con la figlia Maria Sola e Ricky Tognazzi, il primo figlio dall’attore, il 30 ottobre, giorno dal funerale di Ugo Tognazzi

Mino Monicelli, «Radiocorriere TV», 17 novembre 1990


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Mino Monicelli, «Radiocorriere TV», 17 novembre 1990