Ugo Tognazzi padre di sé stesso

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Secondo film di Alberto Bevilacqua, Questa specie d'amore conferma le qualità e i difetti dell'autore il quale, scrittore e regista, ha la caratteristica di ispirarsi ai propri romanzi (l'altro fu La Califfa) non per trascriverli ma per riscriverli in linguaggio cinematografico. Egli travalica cioè i limiti dell’adattamento più o meno libero, che è fatto comune, per proporne una nuova stesura, nel tentativo di soddisfare le ambizioni del regista senza tradire quelle dello scrittore.

L’operazione non è senza rischi. Meglio che da La Califfa, emerge da Questa specie d'amore il dualismo di un Bevilacqua che vede cinematograficamente e pensa letterariamente. Alla resa dei conti, l’occhio ci convince più del pensiero - che frena, e talvolta raggela, la carica espressiva dell'immagine. Vi è come la paura di non dire abbastanza o di non dire bene, e ne risente anche il dialogo: levigato, rotondo, disseminato di battute sentenziose tipo « Lei è figlia del mio egoismo e moglie del tuo », « La miseria non te la togli mai di dosso ».

Nonostante le preoccupazioni qualcosa rimane nell’ombra, troppo confuso, o troppo vago, o troppo sfumato. La situazione da cui il racconto prende le mosse è quella del complesso rapporto matrimoniale tra Federico e Giovanna, lui figlio di un artigiano emiliano, lei nobile e ricca. Come e perché si sono sposati? Indipendentemente dalla | differenza di livello sociale e finanziario, che può non avere alcun valore, che cosa Federico (Ugo Tognazzi) ha cercato in Giovanna (Jean Seberg) e, in particolare, Giovanna in Federico? Il film non dà una risposta esauriente, eppure sarebbe necessaria per penetrare il gioco dialettico delle rispettive frustrazioni.

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Questo gioco prende tutta la prima parte della vicenda che si svolge a Roma, non senza l’intenzione di vedere nella città un simbolo di disordine morale, aderente quindi alla condizione psicologica dei personaggi. C’è, fra i due coniugi, un vincolo inconscio che gli impedisce di provocare rotture. Tuttavia ciascuno vive nel proprio isolamento invano aspettando dall'altro un aiuto. Federico rimugina, in una umiliazione autopunitiva, la colpa di avere tradito se stesso e le proprie origini per il benessere di cui gode; Giovanna fra-scheggia, compie frequenti viaggi, fa vita mondana non per convinzione ma per provocare il marito e spingerlo alla rivolta che potrebbe poi dare forza alla propria, piuttosto nebulosa nei moventi e nel fine. Entrambi sono figli degeneri dei loro padri, simboli di opposte concezioni morali.

L'uno, il padre di Giovanna, rappresenta l'egoismo degli abbienti, fantasmi blasonati di felliniana memoria, sordi ai bisogni del popolo, cinici difensori dei propri interessi di casta e della greppia. all'occorrenza intrallazzatori: il che sarà anche vero ma qui ha il suono di una forzatura convenzionale, come convenzionale è del resto il personaggio, sia nel disegno sia nell'interpretazione dell'austero Fernando Rey.

Di ben diversa pasta il padre di Federico, vero protagonista del film. Egli vive nei pressi di Parma, a contatto con madre terra. Coltiva fiori e fabbrica solide sedie. La sua vecchiaia è illuminata dagli stessi ideali democratici e umani che da giovane lo portarono a opporsi al fascismo in patria e nella guerra civile spagnola, mai domo nonostante le sopraffazioni, il carcere, il confino. La colpa del figlio, il suo segreto dolore, è di averne dimenticato l'esempio che a poco a poco, nelle varie fasi della crisi coniugale, riaffiora nella memoria.

Questi ritorni onirici al passato, questi frammenti di vita dolorosa ma integra di cui furono i testimoni gli occhi di Federico ragazzo, sono fra , migliori passi del film. Senza altra esigenza che la rappresentazione dei fatti, Bevilacqua dimostra qua sorprendenti capacità di immediatezza cinematografica, tanto che una figura, la madre, emerga dai frammenti a tutto tondo, con la sua dedizione e le sue ansie, dando modo a un'attrice finora sconosciuta, Anna Orso, di mettersi in luce.

Gli altri momenti buoni del film sono nella seconda parte, quando Federico, presa coscienza del proprio tradimento, lascia moglie e benessere per il mare a casa dal padre, cioè alle origini, in quelle Parma che fa da contraltare a Roma. A Parma si ritrova meglio lo stesso Bevilacqua che vi è nato. L’espressione si fa più genuina, svincolata dal manierismo ambientale che in fondo condiziona la prima parte.

Spesso succede che un regista azzecchi il primo film e fallisca il secondo poiché, nel primo, ha caricato tutto il proprio patrimonio autobiografici, i fermenti personali che lo hanno sollecitato ai affrontare la prova dello schermo. Bevilacqua fa eccezione. La sua semenza autobiografica non è tanto nella Califfo quanto in Questa specie di amore dove il padre di Federico, sebbene non qualificato politicamente, è certo ispirato al deputato comunista parmigiano Guido Picelli di cui nell'infanzia egli senti raccontare le gesta. Se il film si salva è per l’appunto in forza di questa componente, attraverso cui si chiariscono le posizioni sia di Federico sia di Giovanna la quale lo raggiunge per umiliarsi a sua volta. E difatti, alla fine, il padre morirà tranquillo quando figlio e nuora (sofisticata quanto può esserlo la glaciale Jean Seberg) avranno scoperto che non esiste amore senza un ideale da servire nelle tribolazioni. Forse sbagliamo, ma noi abbiamo l'impressione che la vena spontanea e sincera di Bevilacqua sia patetica e crepuscolare a dispetto del suo debole per discorsi impegnati e problematici.

Altra fissazione di Bevilacqua è l'impiego controcorrente di Ugo Tognazzi che nel film è tre personaggi in uno, a configurarne la continuità: Federico, il vecchio padre del presente, il padre giovane dei ricordi. Tognazzi se la cava en souplesse, con molta intelligenza, cambiando modi e atteggiamenti secondo l’età, sebbene come padre vecchio faccia un po’ il mezzo busto fra le glorie patrie del Pincio di Roma.

Domenico Meccoli, «Epoca», anno XXIII, n.1117, 27 febbraio 1972


Epoca
Domenico Meccoli, «Epoca», anno XXIII, n.1117, 27 febbraio 1972