Dodici ore con Lea Padovani: una martellata nel bagno

1950 Lea Padovani h66

1950 10 29 L Europeo Lea Padovani intro

“È la prima volta che amo veramente”, le disse Orson Welles; “finora ho considerato le donne come un bicchiere di vino o come un piatto di carne per quando si ha fame”

Roma, ottobre

Giorni fa, mentre aspettavo Lea Padovani in una sala del suo nuovo appartamento ai Parioli, una maniglia girò pian piano ed una porta si aprì lentamente. La testa di un uomo dai capelli grigi, con grandi occhiali di tartaruga, si affacciò; vidi nei suoi occhi spalancati una espressione di candida meraviglia, ma solo per un istante. La porta si richiuse di scatto ed un'altra contigua si aprì subito dopo, l’uomo entrò aiutandosi con un bastone, si avvicinò al tavolo; aprì un cassetto, prese mezzo sigaro, lo guardò con occhi stupiti e lo rimise nel cassetto. Uscì precipitosamente quando vide entrare una signora alta, dai capelli nerissimi.

Era la madre dell’attrice. «Signore», mi disse con voce severa, che levò strani echi nel salone quasi vuoto, fornito solo di un vecchio tavolo, alcune sedie, molti libri accatastati in un angolo ed una ventina di bottiglie allineate sul pavimento. «Venga che le faccio vedere una cosa». La seguii in cucina, candida di mobili nuovi all’americana, adattati su misura alle pareti. Mi fece osservare che gli armadi erano senza maniglie, e le porte, lisce come specchi, non si potevano aprire: ogni volta che serviva un cucchiaio bisognava mandare a chiamare il falegname. Ciò durava da più di venti giorni. «Lei è amico di Lea? La convinca a comprar subito le maniglie», disse con voce prossima al pianto. In quel momento entrò Lea Padovani. Erano le nove e mezzo del mattino e il suo viso appariva assonnato. Si era appena alzata da letto, indossava una vestaglia scura a pallini, pantofole azzurre; le labbra senza rossetto erano stranamente pallide. «E' una casa che mi fa diventar matta», disse invitandomi a sedere. «Quando sarà piantato l'ultimo chiodo, andrò ad abitare all’ospedale». Prese la bottiglia di Diarsen Fosfer che era sul tavolo, versò alcune gocce in un bicchiere che portò alle labbra, lo posò senza bere. «Caterina, il bicchiere puzza», gridò verso la cucina. Disse che l'appartamento non sarebbe stato pronto prima di due anni perchè aveva dato fondo ai risparmi comperando i muri. «Qui faccio fare una scala a chiocciola», mi informò indicando un punto del pavimento, «che metterà in comunicazione il salone con l'attico».

Lea Padovani cedette al tavolo, fece colazione con alcune banane, cinque o sei formaggini, una fettina di vitello, caffè, marmellata e mezzo bicchiere di marsala. Aperse due lettere, una di Al Parker, agente cinematografico inglese, che le offriva di partecipare ad un film da girarsi a Londra, l'altra di Dorothy di Frasso. Dorothy di Frasso, insieme a Michele Washinsky, Walter Bedoni e Danilo Allegri, appartiene al ristretto gruppo di amici che vede a Roma. La principessa di Frasso prese in simpatia Lea Padovani al tempo che Orson Welles se ne innamorò. Ma la simpatia si trasformò in ammirazione quando la Padovani rifiutò di sposare l'ex-marito di Rita Hayworth, perchè innamorata di un giovane infinitamente meno importante. Da allora la principessa descrisse in tutti i salotti romani la sua «little protégée» come una donna formidabile: «Ha detto», informava gli amici, «che preferisce ridursi a vendere violette in piazza di Spagna piuttosto che sposare senza amore». La frase non era di Lea; la inventò la stessa Dorothy di Frasso il giorno che la sua giovane amica la informò del gran rifiuto. «Mamma», disse Lea, «vorrei sapere perchè comperi le mele più brutte del mercato». Si scusò dicendo che correva a vestirsi.

Rientrò nella stanza pronta per uscire. Indossava un abito di cotone rosa senza maniche, ai polsi brillavano due bracciali d'oro. In quel momento si sentirono alcuni colpi di martello. Lea disse «Mamma mia!» e corse nel bagno. Nel bagno l'uomo dai capelli grigi stava battendo il muro vicino al tubo dello scaldabagno. «Ma che fai, papà», disse Lea. «Lo scaldabagno sta su per miracolo, devono cambiarlo. E' inutile che tu ci metta le mani; questo non va perchè è a pressione, ce ne vuole uno a caduta».

La signora Padovani, come uscimmo, si raccomandò a Lea di portare a casa le maniglie. Per strada l'attrice mi spiegò che aveva adocchiato un tipo bellissimo e che era decisa a comperarle. Poco dopo entrammo in un negozio di oggetti da bagno. Lea Padovani additò un mobile bianco con maniglie cromate e disse: «Ecco, queste mi piacciono. Me ne dia diti otto». «Bisogna ordinarle a Milano, signorina», disse la commessa. «Va bene, le ordini». «Ma non sono pronte. La fabbrica deve farle». «Quanto tempo occorrerà?». «Non meno di un mese». «Va bene». Si avvicinò al telefono, fece un numero. «Gianni, ho ordinato le maniglie»; e spiegò che bisognava aspettare un mese. Posò il ricevitore e disse alla commessa :«Aspetteremmo anche se il metallo fosse ancora in miniera».

Gianni, mi spiegò, era l'uomo di cui era innamorata. «Adesso andiamo a comprare una lepre. A Gianni piacciono molto e nessuno sa scegliere la cacciagione come me». Poi aggiunse: «Farei qualunque cosa per Gianni». Per la strada mi raccontò come era stata sul punto di perdere la parte di Maria in Cristo fra i muratori. La scelta era tra lei, Louise Reiner e Mae Zetter-lin. Quando arrivò a Londra e il regista Dmytryk la vide, disse :«Bene, come va con l'inglese?». Lea rispose che di inglese conosceva assai poco ma che si impegnava ad imparare la parte in brevissimo tempo. Alcuni giorni dopo fu invitata a leggerla davanti a Dmythyk, al produttore Geigher e ad alcuni finanziatori del film. Aveva letto alcuni paragrafi e i presenti si scambiavano occhiate scure. Lea si alzò, buttò il copione sul tavolo e disse: «E' inutile, non va». Prima di lasciarla libera Dmytryk, solo per cortesia, le disse che l'indomani avrebbe fatto un provino. Il provino consisteva in una scena del Cristo. Cominciò tremando e recitò per più di dieci minuti. Alla fine, tutti quelli che stavano a guardarla, avevano le lacrime agli occhi, e si precipitarono verso di lei per darle la mano. «La parte è sua», disse Dmytryk.

Entrando nel negozio di selvaggina Lea si avvicinò ad un animale appeso, guardò nel ventre aperto e disse che era freschissimo. «Vorrei questa lepre», chiese al negoziante. Questi rispose : « La signorina vuole una lepre?». «Sì, questa qui». «Ma questa non è una lepre, è un coniglio, signorina». L'attrice chiese di vederne una. La comperò e disse se poteva telefonare. Fece il numero. «Gianni? Ho comperato una lepre». Dopo alcune parole di saluto mi ripetè: «A Gianni piacciono tanto».

Nel pomeriggio Lea Padovani mi dette appuntamento all’edificio dove in questi giorni doppia se stessa, protagonista di Tre passi a nord, girato in inglese e diretto da William Lee Wilder. L’attrice, quando entrai, stava guardandosi sullo schermo e diceva alcune battute accanto a due doppiatori professionisti. Il direttore della versione, Morandi, non era contento. Fece ripetere la scena tre o quattro volte, poi disse: «Signorina, lei non ha temperamento». La scena fu ripetuta ancora. Alla fine Lea Padovani venne a sedere, in fondo alla sala, vicino a me e a Walter Bedoni che l'accompagnava. Disse di buon umore: «Vede come mi trattano?». «In Italia ti considerano ancora una qualunque», disse Walter Bedoni. «Ma vedremo adesso che si proietta Cristo fra i muratori». «Dmytryk», disse Lea, «ha raccontato a tutti che io sono l’attrice più brava che ha incontrato in vita sua. Durante la lavorazione del film diceva solo: "Lea, in questa scena devo piangere". Finita la scena, mi veniva incontro con le lacrime agli occhi. Dmytryk, in quanto a elogi, è solo secondo a Orson».

Mi raccontò come la sua carriera di attrice in Italia è sempre stata avversata dalla sfortuna. Dopo aver fatto un paio di film insignificanti, la sua notorietà cominciò il giorno che Orson Welles entrò nel suo camerino al teatro Eliseo e le disse: «Lei è una grande attrice. Vuol fare un film con me?». Il regista americano aveva pronto lo «script» di Otello e le offerse di essere Desdemona. Una parte di quel genere accanto a Orson Welles l'avrebbe portata in primo piano nel mondo cinematografico. Le cose si complicarono quando il regista si innamorò di lei. Si innamorò appassionatamente. Una sera all'Harry's Bar di Venezia, dopo una passeggiata in gondola sul Canal Grande, Welles ordinò due whisky, guardò Lea Padovani a lungo senza parlare. Poi abbassò gli occhi e disse: «E' la prima volta che amo veramente. Finora ho considerato le donne solo per il piacere, come un bicchier di vino quando si ha sete, o un piatto di carne quando si ha fame».

Forse nessuno sapeva a quel tempo che Lea era innamorata di un altro. Il film cominciò subito dopo il festival cinematografico del 1948, cui Welles partecipò con Macbeth. Di Macbeth Lea era entusiasta, diceva: «Orson è il più grande regista del mondo». Intanto la più famosa cronista mondana degli Stati Uniti, Elsa Maxwell, in quei giorni al Lido, descriveva Lea nelle riviste americane come una tipica ragazza italiana, "charming", anche se ancora un po' selvaggia in società. Da principio tutto andò bene con le riprese di Otello. Welles era discreto. Lea si svegliava alla mattina nella propria stanza e trovava sullo specchio, scritte con la matita delle labbra, alcune parole :«Your eyes are too big» (i tuoi occhi sono troppo grandi). Oppure la fotografia di una Buick incollata alla porta e sotto, scritto a matita :«Questa macchina arriverà tra giorni in Italia. Appartiene a Lea Padovani». Lea accettò le frasi scritte allo specchio ma rifiutò la Buick. Dopo qualche settimana il film si fermò.

Questo fu il momento più critico nella carriera della giovane attrice. Tutti avrebbero pensato, e pensarono, che Orson Welles avesse licenziato Lea perchè incapace di interpretare Desdemona. In realtà Welles era entusiasta della prova di Lea come attrice; solo che insisteva per sposarla, mentre la giovane attrice, non innamorata di lui, rifiutava il matrimonio e la parte. L'offerta di interpretare Cristo fra i muratori, venuta quasi un anno dopo da Londra, la tolse dal vicolo cieco in cui si era chiusa.

Nella stanza di doppiaggio entrò William Lee Wilder, baciò Lea sulla fronte e mi disse :«Non è solo una brava attrice, Lea è anche "a fine woman"». Ci invitò al bar di sotto. Disse che alle dieci dovevamo andare alla proiezione privata di Sunset Boulevard, l'ultimo film del fratello Billy, con il grande ritorno di Gipria Swanson. Improvvisamente Lea disse che doveva fare una telefonata importante. Si avvicinò al telefono e fece un numero. «Gianni? Sono con William», disse. «Ho preso un caffè».

Poi propose a tutti di andare a casa sua a cena prima della proiezione. Non si trovò nulla da mangiare perchè qualcuno aveva sbadatamente chiuso le porte degli armadi della cucina, dentro cui le vivande erano state poste nel pomeriggio. «Sarà stato papà», disse Lea tranquillamente. Walter Bedoni disse che ci avrebbe pensato lui. Prese un coltello e provò a forzare. Riuscì solo a rovinare una credenza. La madre di Lea, dicendo di sentirsi male, si ritirò nella sua stanza. In quel momento si udì un forte fracasso nel bagno. Accorremmo tutti. Nel bagno, il signor Padovani, con un martello in mano, guardava dentro la vasca, con grandi occhi pieni di candida meraviglia. Lo scaldabagno era precipitato dentro. Lea disse tranquillamente :«Così finalmente abbiamo lo scaldabagno a caduta».

Oramai era troppo tardi per cenare al ristorante, e andammo direttamente in via Bissolati, dove sono gli uffici di una casa cinematografica americana. Trovammo Gianni, un ragazzo alto e biondo, che aspettava davanti ad un negozio di automobili. Disse che non gli piaceva il tipo di automobile che si vedeva nella vetrina, per la linea posteriore della carrozzeria, poco spezzata. A lui piaceva il tipo Studebaker, con il portabagaglio molto prominente. Walter disse che di automobili non capiva niente, che quella macchina era bellissima. «Anche a me piace il tipo Studebaker», esclamò Lea con entusiasmo. Poi, rivolta a me: «Gianni e io c’intendiamo sempre in tutto».

Vedemmo il film di Wilder e Gloria Swanson nella parte di una grande attrice che, dopo venti anni di inoperosità, desidera tornare agli schermi. Alla fine Lea era entusiasta. Parlò del film per più di un'ora, mentre tornavamo a piedi nella sera tranquilla, del soggetto, dell'interpretazione, dell'atmosfera, della regìa; tutto le sembrava su un altissimo piano d'arte. Ogni tanto chiedeva conferma a Gianni. Gianni non parlava, si limitava a guardarla. Walter Bedoni fece qualche riserva e allora Lea si infervorò ancor più. Disse che chi non apprezzava un lavoro simile integralmente, non capiva nulla di cinema. Si rivolse a Gianni e chiese :«È vero? Non ho ancora sentito il tuo parere». Intanto eravamo arrivati al portone della nuova casa di Lea Padovani. Gianni disse soltanto: «Per me è una mezza bufala», che in gergo cinematografico significa un brutto film.

Alfredo Todisco, «L'Europeo», anno VI, n.44, 29 ottobre 1950


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Alfredo Todisco, «L'Europeo», anno VI, n.44, 29 ottobre 1950