Detti & Contraddetti: l'arte di Totò, il teatro, cinema, poesie e musica

Detti e contraddetti Uomo Maschera2


1959 Epoca Comici Toto intro

Chiunque di voi, in qualsiasi città d'Italia, può essere interpellato, passando per la strada, da un nostro cronista, il quale vi chiederà se avete qualche curiosità che ITALIA DOMANDA si affretterrà a soddisfare. La signorina Adriana Alessandrello di Roma ha chiesto: «Vorrei sapere da alcuni dei più noti comici italiani se i loro personaggi sono nati dall'osservazione di tipi veramente esistenti oppure sono frutto della fantasia».

Alcuni personaggi sono effettivamente scaturiti dalla mia fantasia: ad esempio il Totò prima maniera, maschera burattinesca e surreale. Altri personaggi invece cioè i Totò seconda maniera, sono frutto di studio psicologico profondo di tipi veramente esistiti, deformati e resi grotteschi (secondo il sistema della mia comicità), ma che hanno una partenza umana. Ad esempio: Il Gagà di Via Veneto, il Gagà di Capri, il ladruncolo di Guardie e ladri, il succube di Siamo uomini o caporali ecc. ecc.

Totò, «Epoca», 1959


Sono la vocazione ed il mestiere dell'attore che portano naturalmente a improvvisare scena per scena qualche parola. Sono felice quando posso farlo anche se è un rischio. La comicità è musica poiché il fattore principale è il tempo: in teatro tutto questo risulta più facile, perché il pubblico con la sua reazione immediata suggerisce da sé là misura. Comunque l'esperienza mi insegna che anche nel cinema l'improvvisazione il più delle volte funziona.

(«Stampa Sera», 23-24 febbraio 1962)

Io so a memoria la miseria e la miseria è il “copione” della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette mobiliate alla fine di una rappresentazione in un teatrucolo di provincia, la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffè e latte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione, insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita, saltando a piedi pari la staccionata dell’incomprensione e dell’invidia.

("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

lo sono un attore educato. Educato a non dire porcherie e a non giocare coi doppi sensi. Ma la televisione di ciò non tiene conto: fa lavorare con la camicia di forza, impone una censura che è davvero eccessiva. E poi ci sono troppi funzionari responsabili di una trasmissione. Ciascuno trova la mossa o la battuta che gli dà fastidio. E ciascuno richiede il suo bravo taglio, coi risultati che si possono immaginare.

(Liliana Madeo, «Stampa Sera», 6-7 dicembre 1966)

La comicità non ha un’epoca: è sempre la stessa sin dall’epoca dei greci e sempre sarà la stessa sino al Tremila, fino al Quattromila. Dovrebbe essere come l’oro a diciotto carati, che è tale su qualunque pietra lo si analizzi. Comici si nasce, la comicità moderna non esiste. Vi sono dei giovani che una mattina si svegliano e dicono di essere comici: non lo sono. La comicità ha tali componenti: il fisico, l’inflessione della voce, la modulazione, il timbro, il tempo, perché la comicità è furberia e mestiere.

Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame assieme. Io fui, insomma, il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. «Vedrai che il pubblico, alla fine, ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere». Disse proprio il verbo «patire», quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo senza la miseria e le disgrazie non esisterebbe Pulcinella. Diceva infatti Petrolini al suo pubblico: «Vi pare una bella cosa ridermi in faccia? Vi rido in faccia io, a voi altri?». Dopo un brivido di dubbio, il pubblico scoppiava in applausi. E lui, il viso scemo e tonto, proseguiva: «Chi vuol ridere, vada fuori!».

("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

La mia più esilarante caratterizzazione non la ricorda nessuno: fu il primo "burattino” della mia carriera. Imitavo "l’uomo di caucciù”. Avevo 17 anni e guadagnavo tre lire per sera. Più che dare vita a un personaggio dovevo fare il contorsionista. Ebbi l’idea di far sottolineare ogni mossetta dal crepitare della batteria: il mio fantoccio dinoccolato, con le braccia, le gambe e la testa che si muovevano con scatti Isterici, ebbe un successo Incredibile. Tutti i ragazzini delle borgate correvano ad applaudirmi, e a sentire quegli applausi e quelle risate orgogliosamente pensavo: questo è il successo, più di così non si può ottenere.

(Maurizio Chierici, Vorrei sposare Franca in chiesa, “Oggi”, n. 38, Milano, 17 settembre 1964)

Ho rimandato l'appuntamento con il piccolo schermo per dodici ann. Poi ho capitolato. Era quasi doveroso per me che ho fatto di tutto: la commedia dell'arte e il varietà, la prosa e la rivista, il cinema e l'operetta.

(Liliana Madeo, «Stampa Sera», 6-7 dicembre 1966)

Io devo tutto a Totò e se non lo avessi incontrato un giorno, per la strada, e non lo avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio solo sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l’ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è, te lo posso assicurare, un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione.

("Ho nostalgia del pubblico «vivo», Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

Sono infelice e felice per tante altre ragioni: per i brutti film che ho alle spalle dovrei essere malcontento, ma se penso che hanno fatto ridere tanta povera gente, che in quel momento ha dimenticato la bolletta del gas, le cambiali che scadevano, un episodio triste della loro giornata, ecco, i brutti film subito mi piacciono e divento sereno. Ora sto facendo cose grosse: "La mandragola" e tre storie con Pasolini. Ha visto "La mandragola"? Come le sono sembrato? Ho ancora benzina, vero? Ma sono soprattutto contento quando vengono apprezzate le mie poesie. Ne vuole sentire una? Gliela dico subito a memoria...

(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)

Chi parla più oggi di Petrolini? Gli attori, si sa, scrivono sulla sabbia: basta un onda piccola piccola per cancellare la loro opera.

(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)

Io sono un artista, artista al cento per cento. So fare il comico e il drammatico, il patetico e il brillante. Posso fare tutto: è il mio mestiere. Mi ritirerò quando non ne potrò più. Ma ciò non succede subito. Ho ancora tanto spirito in corpo, come diciamo a Napoli.

(Liliana Madeo, «Stampa Sera», 6-7 dicembre 1966)

Chiudo in fallimento, caro amico. Avrei potuto diventare un attore intemazionale. Credo di avere una vis comica naturale, ma non ho fatto niente. Sono un uomo sconfitto.

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Scrivo belle poesie? Ah, in quanto alla bellezza! Sono poesie: uno sente il bisogno di scriverle e lo fa. Non c’è nessuna discrepanza tra la mia professione (che adoro) e il fatto ch’io componga canzoni e butti giù qualche verso pieno di malinconia. Sono napoletano e i napoletani sono bravissimi nel passare dal riso al pianto.

(Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964)

Io scrivo canzoni da oltre trent'anni e l'ho fatto sempre per hobby, il mio unico hobby, e sostengo a spada tratta che le canzoni bisognerebbe scriverle soltanto per hobby, cioè seguendo una passione ed un'ispirazione che non siano minimamente legate a fattori commerciali

(Lyno Giusti, «Sorrisi e Canzoni TV», n.25, 21 giugno 1959)

Non vado al cinema perchè non volendo si casca nell'imitazione. E poi può uno che ha fatto centoquattro film andare anche al cinematografo?

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Grazie a Dio, ritorno a lui che non sono più il poveraccio di una volta. Per farmi riconoscere e per farmi scusare dopo questi sette anni di abbandono è bastato che gli dicessi: «Senti, Totò, alla fine di novembre ritorniamo davanti al pubblico che si vede e che si sente respirare, da vicino»

("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

È un film come tanti altri che ho interpretato (Capriccio all'italiana, n.d.r.). Vale poco. Ma io questi film li ho sempre fatti lo stesso, perché so che piacciono al mio pubblico. La gente, quella che viene a vedere i miei film, ama la risata semplice, la storia banale, senza problemi. E io dò al mio pubblico quello che vuole da me: ho fatto così per tutta la mia carriera. I film di valore che ho interpretato si possono contare sulla punta delle dita. Quelli che mi stanno più a cuore sono Arrangiatevi di Bolognini e, naturalmente, Uccellacci e uccellini. Dico naturalmente, perché è per questo film che ho avuto tanti premi, tantissimi. Sa, finalmente dopo quarantanni di carriera sono stato riconosciuto il migliore attore dell’anno. Sono proprio soddisfatto. Inoltre tutti i mercoledì, per radio, vengono trasmesse le mie canzoni. Perbacco, è importante: io alle mie canzoni ci ho dedicato buona parte della mia vita, nei loro versi si ritrovano la mia felicità, la mia amarezza, i miei ricordi. E proprio un anno fortunato questo per me: fra qualche mese andrà in onda per televisione un mio show, il primo show della mia vita. Poi fra qualche settimana Mina mi inviterà a Sabato sera, per fare l’ospite d’onore. Tutti mi vogliono, perbacco. E io vado, perché per me il lavoro è tutto. Mi fa male lavorare, dovrei starmene in casa buono buono, in silenzio e non pensare a niente. Non sto tanto bene, vede: in questi giorni ho un tremendo raffreddore. Ma io lavoro lo stesso, sennò mi sentirei inutile. Perbacco, se mi togliete questa gioia che cosa mi resta più nella vita? Io ho sessantanove anni, perbacco.

(S.M., "Tutti mi vogliono bene, perbacco", Novella 2000, n.18, 30 aprile 1967)

Le grandi formazioni mi spettavano di diritto a cominciare dalla « Maresca numero due » dove fui il primo attore a fianco di Isa Bluette. Tra i successi più rilevanti di quel tempo c’è anche una commedia di Eduardo Scarpetta, « O balcone ’e Rusinella », che fu replicata per molte settimane al difficile teatro Nuovo di Napoli. Con me, lavorava Titina De Filippo.
Il resto appartiene al teatro di oggi, o quasi, a prescindere - dico - dal cinema. Anzi, qualcuno dice che Totò attore cinematografico ha finito con l'uccidere, poco a poco, Totò attore di rivista. Sono giusto trent’anni da quando ho incominciato: era, infatti, il ’36 quando ho interpretato il mio primo film, « Fermo con le mani ». Da allora, i miei film si sono susseguiti a ritmo vorticoso. Non era difficile il caso che ne girassero due contemporaneamente, la qual cosa mi costringeva a spostarmi rapidamente - in macchina e già truccato - da un teatro di posa all’altro...

(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)

L’attore che cos’è? Non è nessuno, un cantastorie... Che cosa rimane di noi? Niente. Chi siamo noi?... Siamo come una cosa voluttuaria che proprio per questo non è indispensabile... Non si può fare a meno del pane, ma di andare al cinema sì.

Tutto quello che so fare me lo ha insegnato Totò che sapeva l’arte di guardare da vicino la verità della strada. Questo impareggiabile buffone ha uno sguardo come l’obbiettivo di una macchina fotografica.

("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

Se dovessi rinunciare al cinema a causa della vista, penso che morirei di crepacuore. Recitare, lavorare è la mia vita. E quando recito sono paziente: appena terminata una scena corro dal regista per sapere se sono stato bravo. Lo so che non ho fatto dei bei film; alcuni sono addirittura bruttissimi. Ma sono un attore, uno strumento in mano a un regista. E poi penso che i miei personaggi, anche i più semplici, abbiano fatto per un momento dimenticare a gente modesta, come sono io, le preoccupazioni della vita d’ogni giorno. Ridono e si scordano la bolletta del gas, le ore di lavoro, le liti con la moglie. Escono dal cinema più sereni e forse un po' più buoni. Di questo sono contento.

(Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964)

Non credo nei premi. Una volta mi assegnarono una "Grolla d’oro", ma mi fecero sapere che se non fossi andato a ritirarla, non me l’avrebbero data. Io non andai e la Grolla non la presi. I premi non servono a nulla, cosi come non serve la pubblicità eccessiva.

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Fermo con le mani, il mio primo film, è del 1937, quindi vede da allora quanti anni sono di cinematografo. Poi dal 1950 ho fatto soltanto cinematografo. Però ci sono dei motivi. Allora il teatro cominciava un po’ a zoppicare, e poi viaggi e debutti che mi stancavano, mentre invece il cinematografo era più comodo, andavo a lavorare come un impiegato la mattina, la sera ritornavo a casa e mi piaceva; ed anche l’aspetto finanziario era più favorevole. Dei miei film ne salvo una decina al massimo, il resto è tutto da buttar via. Io sono attaccato a Guardie e ladri, a Yvonne la Nuit, Napoli milionaria, L’oro di Napoli con lo sketch del pazzariello, questi sono dei bei film. E in Totò cerca moglie c’era uno sketch che mi riusci molto bene. Poi Siamo uomini o caporali?, Totò Peppino e la malafemmina... E adesso La Mandragola e Uccellacci e Uccellini...

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Io mi ricordo quando giovinotto non conoscevo ancora «a mille lire». Quando io ho cominciato a lavorare la nobiltà era finita da un pezzo e in famiglia erano finiti pure i soldi, non c’erano vestiti. I miei volevano che andassi in Marina, io invece cominciai a frequentare il teatro. Eramo una «chiorma» di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranze, tutti uomini che poi si sono piazzati, io, Eduardo e Peppino de Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio, l’autore di «Come piange Pierrot», che allora faceva i testi delle canzoni cantate dalla Mignonnette. Facevamo le «recite staccate» nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La «recita staccata» era una specie di week-end teatrale, due rappresentazioni, sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra. Eravamo una chiorma...

(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)

Maresca mi offrì di entrare nella sua compagnia ed io accettai, non tanto perchè le condizioni fattemi sono sotto ogni aspetto buone, ma perchè l'operetta mi porta - io spero - in quella via del teatro di prosa che io intendo percorrere. E ci arriverò. Perchè voglio, capisce? Voglio!

(Intervista rilasciata al quotidiano "Il Piccolo", Roma, 16-18 febbraio 1928)

Su centoquattro film interpretati di buoni ne ho fatti quattro. Gli altri cento sono zavorra ma hanno fatto tanti soldi. Così quando un film è una schifezza si chiama Totò e quello deve, povero disgraziato, salvare la baracca...

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Io dico: perché sono arrivato ad essere un beniamino delle platee? Perché sono un comico, e il pubblico ha mostrato di volermi così. L’attore è come il deputato: viene eletto per certe sue determinate qualità, per espletare un particolare mandato. Perché io dovrei ora tradire il mio, volgermi a parti più o meno patetiche o drammatiche nelle quali altri venti attori riuscirebbero bene almeno quanto me?»

(Antonio de Curtis, «Film», 1950)

E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perché è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli, anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Le poesie che preferisco lo ho scritte nel mio dialetto e hanno un’ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è «Malafemmena».

(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)

Il 1940 è un anno capitale per la mia vita artistica: ho cominciato a capire di essere pigro. Sono le prime occasioni che cerco di descrivermi. Una volta dicevo: io beffo la vita. Definizione barocca e adatta a troppa gente. Ora mi sono accorto che io amo la vita: il desiderio di comunicare con tutte le cose. Sarò meno pigro nel concepire lo spettacolo: che è la vita fermata con la fatica nei momenti a noi congeniali.

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Ho deciso di fare il produttore per riconciliarmi con il mio pubblico e con la critica. Io non mi sento un divo, ma piuttosto un lavoratore dello spettacolo. In questi ultimi tempi i critici mi hanno malmenato e con ragione. Ma io dovevo rispettare i contratti: ho fatto il possibile per rifiutare soggetti banali e insulsi, ma alla fine sono stato costretto a girare film mediocri. Ho respinto cinque, dieci, venti proposte, ma alla ventunesima ho dovuto cedere.

Antonio de Curtis, 1954

Vorrei chiudere la mia carriera in bellezza, tornando al mio vecchio amore: il teatro. Formare una mia compagnia di rivista, anzi, di prosa comica, che mi dia l’occasione di interpretare ancora una volta quei personaggi che si adattano alla mia personalità, al mio temperamento: personaggi comici, sì, ma che sfociano poi nel lato umano.

(Totò tornerà a recitare con una compagnia di prosa, “Il Gazzettino”, 21 ottobre 1966)

Lavorando con Roberto Rossellini, (nel film "Dov'è la libertà?") ho fatto una scoperta; come dire ho riconosciuto in me stesso una verità che, fino a ieri, non mi aspettavo potesse offrirmi il cinematografo. E che cioè nella realtà idealizzata è possibile fare arte vera. Per la prima volta infatti, ve lo ripeto, ho sentito che il peso della mia parte non era tutto sulle mie spalle. Siamo in due, stavolta, ad interpretare il film: Rossellini ed io. Ho dovuto purtroppo ripensare in questi giorni a tutto il mio passato lavoro, quando in certi films poco ci mancava che mi dovessi caricare sulle spalle anche la macchina da presa.

(Totò, Una mia breve confessione, “Il Grillo”, n. 1, 28 maggio 1952)

Un regista dovrebbe essere uno che sa tutto, e invece spesso non sanno niente. A me ne capitò uno che, sulla tavola di un pranzo d'ambasciata, fece mettere i tovaglioli dentro i bicchieri, come nelle osterie. Una ambasciata, quello, non doveva averla mai vista neppure col binocolo. E voleva spiegarla agli altri...

(Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)

Non mi sono provato mai a fare il regista, e non mi proverei mai. Fare il regista è tutta un’altra cosa. Si può essere un grande regista e un modesto attore. Abbiamo tanti esempi, il più grandioso è quello di Talli che come attore era un cane, ma era un grande 'metteur en scéne'. Non ci ho mai pensato. E poi c’era un altro motivo: io sono un pigro, sono un uomo pigro, e invece il regista deve alzarsi la mattina presto prima degli altri, poi gli altri vanno a casa a divertirsi o a riposarsi e invece lui deve studiarsi il copione, le inquadrature... Però per il cinema ho scritto qualche sketch, qualche cosa... Ho scritto qualche film, ma non porta il mio nome, perché l’ho sempre ritenuto controproducente. E poi molto spesso il nostro pubblico è cattivo, crede che uno voglia darsi delle arie... Tutti i comici scrivono qualche cosa da sé e sono i migliori autori. Ma anch’io ho fatto qualcosa, senza che il mio nome figuri, ad esempio Totò Peppino e la malafemmina, Siamo uomini o caporali? e altri ancora...

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Perché, guardiamoci in faccia, oggi si deve fare ad ogni costo un umorismo impegnato. E l’attore comico per poco non stramazza sotto un bagaglio che più carico di intenzioni, di allusioni e di ammiccamenti non potrebbe essere. Cosi il pubblico, non di rado, ci resta male, e non ha ancora finito di interpretare il senso di una battuta (ridendo finalmente, se tutto va bene) che già deve ricominciare con la sottile analisi della battuta successiva. Proprio perché è capitato anche a me (l’ultima esperienza è recentissima), vi assicuro che questo bagno in una comicità più immediata, questo mio ritorno alle origini mi fa un immenso piacere.

(La mia vita in dieci serate, “La Settimana Incom”, n.18, 1 maggio 1966)

Per la mia interpretazione ho ottenuto a Cannes la menzione d’onore al Festival, dovrei essere ampiamente soddisfatto; invece non lo sono. L’impegno guasta la comicità.

(Massimo Di Forti, La maschera e il principe, “Telestar”, 18 giugno 1966)

Mi vedrete [...] come gli spettatori mi hanno visto in teatro per tanti anni, con quegli stessi panni che mi cascavano addosso come se fossi stato un manichino e che mi sono serviti come ‘costume’, un tight che mi andava largo, una bombetta due numeri sotto, pantaloni ‘a saltafosso’ e una stringa da scarpe per cravatta. Voglio, insomma, dimostrare di essere diverso da come sono apparso in molti film, anche recenti [...]. E dimostrare anche, se possibile, la validità di una ‘maschera, riportandovi indietro nel tempo fino al punto dal quale sono partito.

(La mia vita in dieci serate, “La Settimana Incom”, n.18, 1 maggio 1966)

Cinquant’anni di teatro comico italiano dal primo novecento ad oggi, un’antologia a puntate, commedia dell’arte, varietà, rivista, avanspettacolo, prosa dialettale, preceduta da una discussione a quattro, attore autore critico impresario, ecco l’idea che mi rimugina ed il lavoro col quale mi presenterei sui teleschermi anche domani.

(Luigi Vaccari, Totò: “La TV non mi ha mai voluto”, “Giornale di Sicilia”, Palermo, 25 aprile 1965)

Il progetto non mi garba: per una questione di correttezza nei riguardi di Gino Cervi, che ha dato un’interpretazione tra le più felici del personaggio e perché un Maigret sia pure in chiave comica non mi permetterebbe di dire nulla.

(Gli fu proposta una serie intitolata "Totò commissario" composta da diverse puntate da un’ora l’una, scritte da Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi)

Stanco di fare film, e perché? Neanche per sogno. Ricomincerei da capo. Quando non lavoro sto male. Sono troppi, lo so, eppure non posso fare altrimenti. Oggi il costo della vita è aumentato notevolmente: io ho bisogno di molti soldi per vivere: ho — fra l’altro — persone a cui devo fare della beneficenza, ho i miei cani, eccetera. Inoltre sono tartassato dalle tasse: proprio come il personaggio di un film che feci alcuni anni fa.

(Ettore Zocaro, Un film con Fellini nelle speranze di Totò, “Il Tempo”, 30 dicembre 1963)

Lei crede proprio che la gente ride? Ride e piange. Il comico è come il giudice istruttore che indaga sui segreti degli indiziati di reato: e, di indiziati di reato, ce ne sono più di quel che si immagina. L’attore comico ha il coraggio di rivelare i reati; e, badi, l’esito dell’indagine e della relativa scoperta risulta, per la voce del comico, più grave di quello che porta alle manette. Sapesse come pesano certe meditazioni e certi rimorsi, mammamia. [...] Ah, di spirito ne ho ad abundantiam: e frizza, sa, oh se frizza sulle piaghe. Lei deve essere un uomo fortunato. Mi dà l’idea che ignori le preoccupazioni e che non sappia quel che si nasconde dietro la maschera del comico. Il comico è un uomo che soffre, profondamente triste. Cerca di dimenticare la sua tristezza, reagendo. Reagisce, imponendosi di ridere e di far ridere. Ah! Ah! Che allegria.

(Luigi Maria Personè, Testimonianza per Totò, “Giornale di Brescia”, 24 aprile 1987 - Totò: “Il comico è un giudice”, “Il Gazzettino”, 23 ottobre 1994)

Giravo quei film pensando che il mio successo sarebbe durato poco: un anno, due, tre. Senonché la cosa è andata avanti parecchio, nonostante tutto, ed io sono rimasto cosi, con il desiderio di aver voluto fare qualcosa di più impegnativo sul piano artistico.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Mò mi incollo sulla spalla un’altra cassa da morto...

(Confidenza a Franca Faldini a proposito dei brutti copioni cinematogrtafici proposti a Totò.)

Con la rivista ho chiuso. Un lavoro massacrante. Prima una compagnia si fermava in una città per molte settimane, ora il gusto del pubblico la costringe invece a tournée impossibili. Io credo che, così com’è, questo genere di spettacolo abbia fatto il suo tempo. Occorrerebbero autori nuovi con idee nuove e attori nuovi anche. Ma non ne vedo. Giulietta Masina mi ha detto che suo marito sta pensando a un film che potrebbe essere interpretato da me. Spero che questo progetto di Fellini si avveri.

(Gianni Canova, "Totò: ottanta film, ma ne ricordo solo uno", Il Giorno, 19 febbraio 1962)

Ora che sto girando, vi assicuro che mi sento un altro [...]. Non sono guarito completamente, ma vado migliorando giorno per giorno, come è confermato dal fatto che i dottori mi hanno permesso di riprendere il lavoro purché lo faccia con moderazione e non mi esponga troppo alle luci dei riflettori [...]. Certe volte mi sembra di essere nato impastato di celluloide e di polvere di palcoscenico e mi dimentico facilmente del periodo della giovinezza in cui sognavo di diventare ufficiale di marina. E come se non fosse mai esistito un tempo in cui non facevo l’attore. Le mie vitamine sono gli applausi della platea, le mie iniezioni ricostituenti sono i riflettori, i ciak, i ‘si gira’, i copioni.

(Sessanta amici mi offrirono gli occhi, “Gente”, n. 8, 19 novembre 1957 - Durante le riprese del film "Totò, Vittorio e la dottoressa")

Il mio fisico porrà anche far ridere al primo sguardo; Ma non si capisce mica bene perchè susciti un sorriso. Non ho la classica linea comica; se guardo le mie fotografie, mi vedo angoloso, angoscioso, come un uomo normale visto in uno specchio deformante. Nei miei lineamenti c'è qualcosa di indefinito; vogliamo dire ima bella frase? che tende all'infinito. E' su questa deformazione delta realtà quotidiana che io devo puntare: e soltanto io questo modo, credo, potrò arrivare ad avere veramente una personalità cinematografica.

("Totò fantasma", U. De Franciscis, «Film», 14 dicembre 1940)

Ho deciso di fare il produttore per riconciliarmi con il mio pubblico e con la critica. Io non mi sento un divo, ma piuttosto un lavoratore dello spettacolo. In questi ultimi tempi i critici mi hanno malmenato e con ragione. Ma io dovevo rispettare i contratti: ho fatto il possibile per rifiutare soggetti banali e insulsi, ma alla fine sono stato costretto a girare film mediocri. Ho respinto cinque, dieci, venti proposte, ma alla ventunesima ho dovuto cedere.

(Augusto Borselli, Totò si è sposato con Franca Faldini, 1955, cit.)

Non voglio più fare film 'Vietati ai minori di sedici anni', come non voglio più interpretare soggetti scadenti e di pessima lega. Quando ho potuto, mi sono rifiutato di lavorare in film non di mio gusto. In questi ultimi tempi ho rifiutato diversi contratti; mi sono state fatte offerte per film come Totò e la balia, Totò-calcio, Pane, burro e marmellata. Dei miei quarantadue film sono rimasto soddisfatto di pochissimi. Giustamente la critica è stata spesso dura con me; se per l’avvenire sbaglierò, reciterò il mea culpa. Ho ‘chiuso’ molto bene con la rivista e intendo fare altrettanto con il cinematografo.

(Totò produttore, “Cine Spettacolo”, n. 8, 30 aprile 1955.)

Lo sa cosa rispondeva Petrolini quando gli dicevano che discendeva dalla Commedia dell’Arte? Io discendo solo tutti i giorni dalle scale di casa mia...

(Antonio de Curtis, 1966)

La comicità è quanto di più irrazionale si possa immaginare. Io so soltanto che Totò fa ridere, non ne conosco la ragione.

(Antonio de Curtis, 1966)

Non è una canzone veramente, è una samba. "La samba di Totò", parole e musiche mie. È importante nel film (Dov'è la libertà?), perché la dico io, non la canto, mentre faccio la corte a una graziosissima cameriera.

Il pubblico è una droga: monta. Ricordo una volta in un finale, al tempo di guerra, al Brancaccio: il pubblico rideva tanto e applaudiva tanto che io mi strappai tutti i vestiti da dosso. Mi fermai alle mutande. Per fortuna.

Non tutte le ciambelle riescono col buco. A mio giudizio, però, San Giovanni decollato, Yvonne La Nuit, Napoli milionaria, Totò cerca casa, Totò sceicco e 47 morto che parla possono considerarsi dei buoni film.

(13 domande indiscrete a Totò, “Epoca”, n. 12, 30 dicembre 1950.)

La tematica [...] del burattino era la storia dell’uomo della strada che diventa, per colpa della politica, un burattino. [...] Non potevo ribellarmi apertamente a quella certa forma di vita allora imperante e reagivo come potevo, col mezzo a mia disposizione. E di questo ne sono fiero, non per un gratuito vanto di aver fatto anch’io, e comunque, una ‘resistenza’, ma perché effettivamente sentivo che ‘quel qualcosa politico non doveva andare. Facevo della satira, e con successo, perché l’italiano ama vedere messo in berlina questo o quel personaggio. L’italiano è un po’ come il bambino: ha continuamente bisogno della favola di Cappuccetto rosso, col quale si identifica, come identifica il governante del momento col lupo cattivo. Ma siccome per quest’ultimo personaggio manca sempre il cacciatore buono che lo faccia fuori, allora Cappuccetto rosso ama sentire dire cattiverie sul lupo, sui figli del lupo, sul nipote e sul pronipote del lupo. Il fascismo permetteva che Io si prendesse in giro, e noi lo facevamo con garbo e senza essere mai triviali. Perciò ogni sera facevo divertire il bravo Cappuccetto rosso.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

E' questo il mio decimo film in due anni, un vero record, anche per un uomo con una fibra eccezionale. Voi ridete alle mie disavventure sullo schermo ma non immaginate minimamente le mie disavventure dietro lo schermo. Che cosa non faccio io, quali scuse non trovo, quali storie non invento per riuscire ad avere un mese, una settimana, un giorno almeno di riposo. Niente da fare: i produttori mi assediano, contano e mi rubano le ore di sonno, mi attendono al varco fuori della porta, s’introducono in casa mia con la scusa di essere operai del gas o agenti delle tasse, o amici di mio nonno. Vili espedienti per farmi leggere i loro copioni e per strapparmi un sì. Domandate alla mia cameriera quanti copioni si ammucchiano nel mio studio, che io ho letto e rifiutato per una semplice ragione: tutto ha un limite, anche la mia resistenza fisica.

(Totò sceicco, 1950 - Io, Totò - “Cine Illustrato”, n. 48, 26 novembre 1950)

Sono vittima di una situazione poco simpatica. Produttori senza scrupoli, soggetti decadenti, sceneggiatori improvvisati hanno creato il Totò dalla risposta facile. Quando ho voluto lamentarmene, c’è sempre stata una levata di scudi contro di me. Senta, lasciamo perdere, perché voglio restare amico con tutti... Ma come si può dire che non avevo la buona volontà di fare dei buoni film? Ero il produttore, il regista? Quando Age e Scarpelli hanno scritto Guardie e ladri sono stato ben contento di interpretarlo. La critica dapprima non fu favorevole neanche a quello, e poi dovette cambiare parere.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Gli spettacoli andavano benissimo ma io ci rimettevo ugualmente soldi, perché sa, per fare il capocomico bisogna essere duri, bisogna avere un po’ di cuore duro, mentre io quando vedevo che per un artista la paga era scarsa, gli davo di più, e di più a quello, di più a quello, così non andava avanti.

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Ho fatto il teatro dell'arte in piccole compagnie... e cominciai assieme a Pulcinella, ma non facevo Pulcinella, io facevo il mametto, con poche battute. Ci radunavamo in camerino e il capocomico, che era Pulcinella, era seduto, gli attori principali erano seduti, noi ragazzi in piedi. Allora Pulcinella spiegava la commedia, faceva un canovaccio e diceva: ‘In questo momento io faccio così, esci tu e parli, dici una cosa come ‘la signora non è venuta’ e qui inventi sul perché non è venuta. Dopo questa battuta esci tu che sei Sciosciammocca e parli sull’argomento”. Era un canovaccio sul quale dovevamo ricamare. La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, e tante altre naturalmente. Questa vecchia «arte» fa molto bene a un attore per incominciare, perché l'attore si esercita a improvvisare, a parlare... Ed è stata la prima tappa, a Napoli naturalmente. Poi sono entrato in varietà a fare le macchiette...
Nel 1921 feci un paio d’anni la commedia dell’arte, poi fui nel ’24-’25 nel varietà, e diventai una vedette, e finalmente ebbi il piacere di passare alla Sala Umberto, poi al Maffei di Torino, al Trianon di Milano e in altri locali di prim’ordine. Poi in una compagnia stabile dialettale al Teatro Nuovo di Napoli. Poi entrai nella compagnia Maresca, che era una grande compagnia di riviste e di operette. Dopo feci compagnia per conto mio, nel ’33, ’34, 35... Ero io l’impresario. Gli spettacoli andavano benissimo, ma io rimettevo ugualmente soldi, perché sa, per fare il copocomico bisogna essere duri, bisogna avere un po’ di cuore duro, mentre io quando vedevo che per un artista la paga era scarsa, gli davo di più, e di più a quello e di più a quello, così non andava avanti e quindi ritornai in varietà. Dopo il varietà ho fatto, dal ’40, i grandi spettacoli con il repertorio di Michele Galdieri: Quando meno te l’aspetti, Volumineide, Orlando curioso? Che ti sei messo in testa?, Con un palmo di naso, C’era una volta il mondo, Bada che ti mangio, e questo fu dal ’40 al ’50. Nel ’50 lasciai il teatro per passare definitivamente al cinema. Le riviste erano tutte belle. Bada che ti mangio, era straordinaria, e avevo fatto prima Quando meno te l’aspetti, che aveva tutto un significato politico, cioè «quando meno te l’aspetti la sorte muta», e c’erano delle battute che si riferivano al regime di allora. Le ricordo tutte perché erano veramente belle, tutte belle e piene di significato. Del lato comico m’interessavo io, c’erano molti sketches che erano miei, e quindi c’era una collaborazione magnifica tra me e Galdieri, il quale si interessava, del resto, di tutti i testi e io mi occupavo della parte comica e gli spettacoli riuscivano abbastanza a colpo sicuro. In quegli anni, quando c’era un regime che imponeva di non aprir bocca, noi si apriva bocca, magari con la paura come facevo io... Abbiamo avuto noie terribili, e una bomba sul teatro, il Valle, tutti i giorni richiami dal Ministero della Cultura Popolare... Pochi giorni prima della liberazione di Roma ebbi una telefonata dalla Questura e una voce anonima mi disse: «Si nasconda perché verranno a prenderla». Allora io scappai, volevano portarmi al Nord, infatti. In quei momenti io ce l’avevo un po’ coi tedeschi, e nelle battute delle riviste ci mettevo un po’ di malignità. Vedevo per strada i rastrellamenti, le fucilazioni... certo, ne abbiamo passate...

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Ma che erano gli applausi destinati a me, in confronto agli applausi che riscuoteva Gustavo De Marco? Io lo conobbi a Roma, all'Acquario. Ero uno del pubblico e mi piacque tanto che divenni un suo tifoso, cominciai ad imitarlo. Ho cominciato la carriera proprio imitando quel comico. Perciò non ho frequentato nessuna accademia, nessuna scuola mi ha avuto come discepolo. D’altra parte sarei stato un cattivo scolaro: ho sempre amato crearmi le «mosse» da me. [...] Lo so che dico due cose che sembrano contrarie fra loro. Ma ai capocomici io dovevo presentarmi con qualcosa che già in partenza piacesse al pubblico. E il pubblico allora amava De Marco: col ripetere o imitare un suo numero, il successo era assicurato.. Aggiungo questo, perché qualcuno non possa dire che io non sapevo fare qualcosa di personale: quale giovane attore non imita, nei primi suoi anni di attività, questo o quell’altro suo collega che più gli piace? tutto consiste nel non restare ancorati all’imitazione. Ed io volli e seppi uscire dalla imitazione di De Marco e costruire un «tipo» di comico che col passare del tempo divenne solo mio e che servì al pubblico per identificarmi. Non è vero, perciò, come hanno scritto alcuni critici, che io fino al ’40 ho ricalcato Gustavo De Marco, facendo la marionetta disarticolata. Nel ’25, quando ero il «numero uno» alla Sala Umberto, già le macchiette erano «mie», nel senso che rivestivo con la mia comicità i fatti che vedevo andando per strada.

(Angelo L. Lucano, «Rivista del Cinematografo», n.1, 1 gennaio 1966)

Negli anni trenta io facevo della satira, e con successo, perché all’italiano piace veder preso in giro questo o quel personaggio. L’italiano è un po’ come un bambino: ha continuamente bisogno della favola di Cappuccetto Rosso, con cui s’indentifica, così come identifica il governo del momento col Lupo cattivo. Ma per quest’ultimo personaggio manca sempre il buon cacciatore che lo fa fuori; e,allora Cappuccetto Rosso si diverte a sentir dire cattiverie sul lupo, sui figli del lupo, su tutta la discendenza e la parentela del lupo. Il fascismo permetteva di farsi prendere in giro, e noi lo facevamo con prudenza e senza trivialità. Così ogni sera io divertivo il buon Cappuccetto Rosso.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Fin dal mio debutto mi chiamai Totò, vezzeggiativo di Antonio che è il mio nome. Poiché inizialmente non mi davo soverchia importanza, fui chiamato Totò, come nella mia vita comune.

(Totò in Alessandro Ferrati, Totò. Vicende serie di un attore comico, “Cine Magazzino”, n. 6, 5 febbraio 1942.)

Avevo diciassette anni e guadagnavo tre lire per sera. Più che dare vita a un personaggio dovevo fare il contorsionista. Ebbi l’idea di far sottolineare ogni mossetta dal crepitare della batteria: il mio fantoccio dinoccolato, con le braccia, le gambe e la testa che si muovevano con scatti isterici, ebbe un successo incredibile. Tutti i ragazzini delle borgate accorrevano ad applaudirmi, e a sentire quegli applausi e quelle risate orgogliosamente pensavo: questo è il successo, più di così non si può ottenere.

(Maurizio Chierici, Vorrei sposare Franca in chiesa, “Oggi”, n. 38, Milano, 17 settembre 1964.)

La comicità vera ha sempre un fondo macabro, tragico. La mia comicità è di questo tipo. Non c’è niente che provochi singulti di ilarità, assalti maltrattenuti di fou rire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte.

(Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)

Noi siamo come i camerieri. Il pubblico comanda, e noi lo serviamo. Che altro possiamo fare? La Duse diceva che gli attori scrivono sulla sabbia. Ma per noi comici la sabbia è ancora più sabbia.

Recitare, vede, per me è come una droga. Meglio: un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio, se mi chiede: come fa a esser tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. Non sono mai stato ginnasta, l’ unico sport che ho praticato è stato il ciclismo: quand’ero ragazzo. Ciclismo!... Andavo in bicicletta. Se lei mi chiede: come fa a far le capriole, ad arrampicarsi sui muri come una mosca? Io le rispondo non so: dicono che dipenda dai muscoli allungati, quindi flessibili. Ma cosa voglia dire, boh! Se lei mi chiede: come fa a inventare quelle espressioni buffe, quelle smorfie? Io le rispondo non lo so. Non è una disciplina, non è uno studio. È un istinto. Una roba che succede da sé, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso. Le medesime cose non le faccio: sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’ arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alla rivista, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante, che è un film serio: quindi diverso. Ma che io sia quello e non altro, non v’è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me.

(«Totò, il principe metafisico», Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)

Io non ho il dono della parola e nel caso mio il dialogo smonta e immeschinisce tutto. Sono un comico muto, né antico né moderno perché non esiste la comicità antica o moderna, esiste la comicità, punto e basta. E meglio che con i dialoghi so esprimermi con la mimica.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

(Palermo, quando fu colpito dalla malattia agli occhi)

Strano, vedo ballare le pareti e i tavoli, oscillano come se fossi sbronzo fradicio, eppure non ho bevuto niente.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Per l’attore il palcoscenico è un tempio e non si attraversa un tempio fregandosene da maleducati.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Non è una cosa facile fare il comico. Il comico è la cosa più difficile che esista. Il drammatico è facile. Difatti nel mondo gli attori comici si contano sulla punta delle dita. Mentre attori drammatici ce n'è un'infinità. Molta gente sottovaluta il film comico, ma non è mica vero. È più difficile far ridere che far piangere. A far piangere si fa presto, basta una disgrazia, uno casca e si rompe una gamba... i violini che suonano, un bambino che chiama la mamma, la mamma che muore... Far ridere ah!... il pubblico c'ha la prevenzione!

Anna Magnani era spesso spassosa come poche, con quella esuberanza che ti scaraventava in una situazione da farsa, anche se magari riuscivi a riderci sopra solo dopo un po’, come la volta in cui, per salvare un gatto tormentato dai ragazzini, li prese a schiaffi e calci eppoi, al loro pianto, spuntarono fuori i genitori che volevano linciare me. O quell’altra, quando a piazza di Siena mi fece diventare un campione di scappa-scappa per la fifa. C’era l’oscuramento, il coprifuoco e la Pai che sventagliava i mitra pure sui sorci, e noi della Compagnia circolavamo muniti di un permesso speciale. Io raggiungevo il teatro in bicicletta, Anna su un calessino tirato da Banana, il pony, e scortato da Micia, un pastore tedesco carogna con chiunque e ubbidiente solo a lei, che se ne stava perennemente accucciato in sua adorazione. Una sera, al termine dello spettacolo, mi offri un passaggio. Vieni, disse, cosi vediamo di sostituire le battute censurate. Io abitavo ai Parioli, e prendemmo per Villa Borghese. Stavamo discutendo la scena, mi pare fosse quella del gagà in Volumineide, eravamo giunti nei pressi di Piazza di Siena, quando lei fa scherzando: 'Micia, piglialo questo capoccione che non vuole sentire ragioni!' Non lo avesse mai detto. Micia mi si avventò addosso con un ringhio sordo, io zompai a terra, eppoi fu come un film di Ridolini, mi toccò fare piazza di Siena al gran galoppo quanto un partecipante al concorso ippico. Quando Anna riuscì a riacchiappare la cagna, ci piegammo in due su un muricciolo, prima per il fiatone, poi per le risa!

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Ormai ero roso dal tarlo di arrivare,altrimenti non avrei retto alla vita di quei mesi. Campavo di sogni e stringevo la cinghia. Ogni giorno attraversavo mezza città a piedi, andata e ritorno, per raggiungere piazza Risorgimento e il Cinema Teatro Salone Elena, una baracca in legno dove, senza percepire alcuna paga poiché anzi, a sentire loro, era una specie di favore che mi facevano dandomi la possibilità di impratichirmi nell’arte di stare disinvolto in scena, interpretavo piccoli ruoli da marno nella Compagnia di Umberto Capece. Quando chiesi al capocomico un minimo di compenso per pagarmi almeno il biglietto del tram fui cacciato su due piedi. Quei miei esordi romani si sintetizzano cosi:"Ormai ero roso dal tarlo di arrivare,altrimenti non avrei retto alla vita di quei mesi. Campavo di sogni e stringevo la cinghia. Ogni giorno attraversavo mezza città a piedi, andata e ritorno, per raggiungere piazza Risorgimento e il Cinema Teatro Salone Elena, una baracca in legno dove, senza percepire alcuna paga poiché anzi, a sentire loro, era una specie di favore che mi facevano dandomi la possibilità di impratichirmi nell’arte di stare disinvolto in scena, interpretavo piccoli ruoli da marno nella Compagnia di Umberto Capece. Quando chiesi al capocomico un minimo di compenso per pagarmi almeno il biglietto del tram fui cacciato su due piedi. Quei miei esordi romani si sintetizzano cosi:
- Cinema Teatro Salone Elena, Compagnia Umberto Capece = sogni di gloria e fame.
- Teatro Diocleziano, Compagnia De Marco = altri sogni di gloria e altra fame.
Seguì poi una stasi in cui la fame divenne allupata mentre i sogni assumevano l’aria mortificata di un abortino. Non riuscivo a trovare una scrittura, mi vedevo negata persino la speranza di farmi notare su un palcoscenico. Ad accrescere l’allegria di quel periodo mi feci anche una nomea che contribuì parecchio ad urtarmi il già teso sistema nervoso. Il sottobosco artistico, allora come oggi, viveva di inciuci. Gli attori disoccupati, e io con loro, si riunivano attorno a un tavolino di caffè e, ordinando una unica consumazione, trascorrevano la giornata sana a sbranare i colleghi momentaneamente assenti.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

L'attore ha il dovere di essere apolitico poiché campa al servizio del pubblico che, si presume, ha un suo credo, e deve divertirlo sfottendo questo o quello senza urtargli la suscettibilità come accadrebbe fatalmente se, essendo militante in un determinato partito, prendesse per il culo il personaggio di un partito opposto.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Adesso il pubblico è molto più facile. Una volta si sudava sangue sui palcoscenici per strappare un applauso. Oggi mi sembra invece che ci siamo abituati a una certa mediocrità. Quello che è successo in fin dei conti in altri campi dello spettacolo. A molti cantanti attuali venti anni fa non li avrebbero neppure lasciato aprire la bocca, li avrebbero arrestati. Questa facilità, questa mediocrità non sono colpa del pubblico. Siamo noi che l’abbiamo provocata. Prendiamo il mio caso. E’ stato il successo troppo facile a rovinarmi. Sono stati i produttori che hanno incassato un sacco di soldi con i miei film. Non ho mai avuto grandi attrici al mio fianco o buoni soggetti, per anni. Facevano delle porcherie e guadagnavano milioni, quindi non hanno mai pensato a fare meglio. Mi hanno detto che potevo diventare uno Charlot italiano. Li ringrazio. Ma di Charlot ce n’è uno solo. E’ vero però che io sono un mimo nato, lavoro con la faccia senza trucco. Avrei potuto andare per il mondo con la mia faccia, far ridere tanta gente, com’è accaduto con L’oro di Napoli di De Sica o con Napoli Milionaria di Eduardo. Mi hanno ridotto invece al ruolo di attore regionale: copioni creati soltanto per l’Italia, film che non costavano una lira. Sono stato male amministrato, il mio patrimonio di attore mi sembra che sia stato sciupato. Questo è il mio rimpianto.

(Angelo Greco, Totò: non esiste il comico moderno, “Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Pasolini intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me. Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi cosi, cosi, cosi». Ma non so che cosa ci sia prima, e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo, e in un’intervista mi ha chiamato... ha detto che sono come uno stradivario... Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.

Il camerino. Mi basta uno sgabello per sedermi e uno specchio per truccarmi.

L'attore non invecchia mai. Per l'attore la vecchiezza non esiste. Per tanti motivi. Perché l'attore si mantiene su, si mantiene giovane, ha bisogno di essere attivo, col cervello in attività, cerca di vestirsi bene, perché per la strada lo guardano, si alliscia. Tutte queste cose qui... Gli piacciono le belle donne, gli piace piacere alle donne...

Ricordo che a Firenze fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a 200 lire. Ero con la compagnia Maresca: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perchè il pubblico rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti. La sera dopo lo incontrai poco prima che iniziasse lo spettacolo. Vi avevo pregato mi disse, di non monopolizzare il palcoscenico quando non siete in scena, E' vero che voi, ieri sera, non vi muovevate, ma soltanto teoricamente: perchè anche stando fermo eravate tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, fate quello che vi pare.

(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)

Le barzellette sono per Macario e per Dapporto.

(Neera Ferreri, Per far felice Macario ditegli: ma quanto sei stupido stasera!, “Oggi”, n. 29, 17 luglio 1958)

Io le barzellette non ho mai saputo dirle. Se voglio raccontarne qualcuna, mi imbroglio. Ne vien fuori una cosa penosa.

Doveva durare dieci minuti: alla fine eravamo arrivati con Castellani, la mia spalla, a un'ora e forse più. A Foggia uno spettatore si sentì male dal divertimento, dovettero chiamare l'ambulanza. Lo chiamavano sketch, ma era un lungo atto, tutto inventato. Ma, vedi, in teatro era una cosa: l'ho fatto per il cinema e tutto si è infiacchito; forse perché mancava il fiato del pubblico, quel fiato che ti scalda il collo, ti sveglia l'animo.

(La scena del vagone letto in teatro)

Chi mi ha visto in teatro, in « Volumineide » e l’« Orlando curioso », in « Bada che ti mangio » e « Che ti sei messo in testa? », in « C’era una volta il mondo » e « Quando meno te l’aspetti », può esserne testimone. Certi sketches come quello del vagone letto e certe gags come quella del direttore d’orchestra che finisce con la marcia dei bersaglieri sono ormai rimasti nella storia della rivista e hanno scatenato entusiasmi che si ricordano ancora. Quando scrissi lo sketch del vagone letto non durava più di dieci minuti, ma alla fine arrivò a cinquanta, tra le gags che ci aggiungevo e le pause - via una sotto l’altra - per aspettare che il pubblico finisse di ridere.

(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)

E già, noi siamo il varietà. Da noi i professori non vengono. Non abbiamo la critica del «Corriere», solo poche righe piccole piccole.

Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato... il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico... si diventa una cosa sola col pubblico. Infatti quando facevo teatro volevo molta luce, perché mi piaceva vedere la sala, e vedere che il pubblico, la maggioranza del pubblico, faceva le facce secondo quello che dicevo io, secondo la faccia che facevo io... Insomma c'è una comunicazione che si forma, cosa che non accade con il cinema dove c'è solo una macchina, ma non c'è nessuno, ci sono solo uomini che lavorano, che magari mi guardano, ma guardano me superficialmente, come guardano altri.
Poi in teatro, modifichiamo le battute, le intonazioni della voce, e quindi alla seconda, alla terza recita abbiamo già migliorato tante cose. Avevo come spalla Mario Castellani o Eduardo Passarelli, sempre loro, affiatati, mi capivano. La spalla è importante! Segue l’attore comico, si affiata, lo capisce, lo sente. Castellani ha lavorato con me molti anni sia nel teatro che nei film. In teatro era veramente molto bravo. Io poi quando facevo le riviste non andavo mai a provare, perché io non posso provare, e allora lui provava per me. Non posso provare e le dico perché: sono, direi, spontaneo, un istintivo, e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica e il risultato è qualcosa di meccanico, non più spumeggiante. E così io andavo sul palcoscenico gli ultimi due giorni, tre giorni, per vedere solamente le entrate e le uscite, senza sapere una parola del copione, andavo molto a orecchio, a suggeritore, e poi il secondo giorno io toglievo il suggeritore, lo mettevo tra le quinte, e poi dopo tre o quattro giorni spariva del tutto. Quindi all’inizio recitavo sul suggeritore e quello che arrivava era quasi nuovo, e su quel nuovo andavo avanti e recitavo e andavo avanti e fissavo i lazzi. Infatti la prima sera lo spettacolo andava benissimo, la seconda calava, la terza calava ugualmente, la quarta cominciava a salire perché si piazzano tutte le battute, tutte le intonazioni e cosi via... Intanto il suggeritore prendeva appunti, e il copione diventava copione sul serio, non più un canovaccio Lo sketch del vagone-letto durava dieci minuti la prima sera, dopo tre mesi durava un’ora, tutto lazzi e battute.

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Giacomo Gambetti, Garzanti, Milano 1966, p. 233)

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Eduardo: è un uomo difficile, capace di estreme durezze. Però in palcoscenico è un dio. Più lo guardo e più mi piace. Ha una faccia che definirei storica perché riflette tutte le avventure umane: è una carta geografica di emozioni.

Io dico: perché sono arrivato a essere un beniamino delle platee? Perché sono un comico, e il pubblico ha mostrato di volermi così. L'attore è come il deputato: viene eletto per certe sue determinate qualità, per espletare un particolare mandato. Perché io dovrei ora tradire il mio, volgermi a parti più o meno patetiche o drammatiche nelle quali altri venti attori riuscirebbero bene almeno quanto me?

(In un film di Totò l’ombra di Petrolini, Franco Rispoli, “Film”, n. 6, 18 novembre 1950)

Come Dio volle, anche la «ferma» ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi aveva affascinato. La mia famiglia, intanto, si era trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza.
Il Salone Elena era, in realtà, una modesta baracca di legno dove si recitavano soprattutto "La cieca di Sorrento" e "La sepolta viva", "L'ombra del disonore" e "II capo della camorra". Ma io sapevo che da pochi giorni era stata scritturata la «Compagnia comica diretta da Umberto Capece» che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. E fu Capece che mi consentì finalmente di passare «dall'altra parte». Non ero più lo spettatore Antonio de Curtis, ma Totò attore comico.

Qualche volta penso di abbandonare il varietà per il teatro. Non significa nel mio caso sottovalutare il primo rispetto al secondo, poiché lo stesso varietà con il repertorio che sogno diventa automaticamente teatro.

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti, vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze bicchieri vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporaneamente dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutto un fuoco artificiale; sento ancora l’odore della polvere pirica.

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Conosco l’umorismo moderno più nei settimanali che nei libri. Mi pare di essere esattamente dentro al mio secolo. Altri comici risolvono brillantemente il lato dialettico. Io tendo alle figure. Tra una battuta e la mia spada che si allunga, si allunga tenendo cosi a debita distanza l’avversario, io mi commuovo per la spada (e invidio la battuta).

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Anche alcune riviste me le scrivo io. Ma talvolta c’è tra le cose che penso e la loro espressione un velo. In Tarzan quando entro in scena con la camicia bianca e le alette vorrei veramente volare intorno a Lucifero come una farfalla. Invece un lazzo mi tiene incollato sul palcoscenico. Nessuno si accorge che certe sere io combatto una battaglia violentissima: Totò contro il suo repertorio. Sono momenti nei quali mi sembra di soffocare, e allora mi vedete spiccare un salto straordinario — vi assicuro straordinario —, e tento di arrampicarmi su per il sipario. Reagisco alla consuetudine della recitazione. Direi che è un fatto fisico. Vorrei persino precipitarmi nella voragine della platea e correre sulle teste degli spettatori.

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Il miglior regista per un film comico è uno col quale non ho mai lavorato, ma che ritengo, dopo aver visto i suoi film e conoscendo il suo temperamento, il più adatto a dirigere una pellicola comica di alta classe: Federico Fellini. Con lui farei volentieri un film. Molti critici rimproverano ai miei registi di usarmi sempre con la stessa maschera, entro schemi per lo più fissi. C'è da ribattere che Charlot e Musco, per citarne solo due, sono stati sempre uguali grazie alla loro maschera. Perché si dovrebbe cambiare ogni volta? Perché ci si dovrebbe spersonalizzare? Con questa maschera qua ho lavorato nelle farse della commedia dell'arte, nel varietà, nel café-chantant, nella rivista, nelle operette, nella prosa dialettale e nel cinema: le sono affezionato come alla mia cosa più cara.

(Ettore Zocaro, Un film con Fellini nelle speranze di Totò, “Il Tempo”, 30 dicembre 1963)

Far ridere. Questa è una cosa che non mi so spiegare. Credo che sia la faccia, il fisico, non so, una specie di comunicativa che si forma con il pubblico. Non ho mai capito da che cosa dipenda questo. La comicità non si può studiare. Se no, tutti potrebbero farla.

Peppino: forse è meno bravo di Eduardo, ma mi fa più ridere. E poi, prima in teatro e dopo al cinema, ci siamo sempre inventati tutto, fregandocene del copione. Siamo sinceri, solo noi potevamo rischiare una cosa simile e farla franca.

Il teatro è una cosa, il cinema è un'altra. Innanzi tutto c'è il calore del pubblico, che è come un ossigeno, una droga. Io mi ricordo di quando facevo il teatro, a un certo momento non capivo più niente, mi sfrenavo, davo di pazzo in palcoscenico. Il cinema è tutto differente. Al cinema non bisogna studiare la parte... è quasi una improvvisazione. Si imparano quelle due battute lì per lì e si ripetono. Tre, quattro, cinque volte, finché il regista dice «va bene». Il teatro no, bisogna sapere tutto a memoria.

Io posso piangere solo nella vita. In palcoscenico non potrei mai fare un ruolo serio: 'a gente vene a teatro pe' vedé 'a sguescia.

La mia non è una situazione originale, ho intuito che anche i miei simili nascostamente si trasformano con il pensiero - quante volte al giorno! - in un albero, in un gatto, in una lucertola. Io sento nelle vene le parentele più remote, per questo un illustratore mi accontenterebbe cambiandomi di colpo un braccio in un giglio, un occhio in un ranocchio, e petali di girasole per capelli. Vedete quella piccola mensola? La mia Danza del cigno che è un pezzo riuscito, mi sembra, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una grande voglia di volare lassù, di appollaiarmici tra lo stupore dei miei familiari.

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Sto per tornare al teatro. Ho ritirato fuori lo stifelius dall'armadio, ripreso la mia vecchia maschera. A svegliarlo da quel sonno non è stato facile, perché il mio compagno di lavoro credeva addirittura di essere morto come un personaggio della commedia dell'arte, Pulcinella o Arlecchino. Mi ha riso in faccia, come al solito, riconoscendomi, ed è saltato giù dall'armadio, sbadigliando, stiracchiandosi e allungando il collo. «Guarda chi si rivede!» mi ha detto. «Ho saputo in sogno che sei diventato un divo del cinematografo, uno di quelli che non hanno mai bisogno del pubblico vivo che strilla, ride, fischia, applaude.»
È come se Totò, quello del Teatro Jovinelli e del Nuovo, si fosse stancato di aspettarmi. Sono passati sette anni dall'ultimo applauso vivo della ribalta e pare un secolo. Grazie a Dio, ritorno a lui che non sono più il poveraccio di una volta. Per farmi riconoscere e per farmi scusare dopo questi sette anni di abbandono è bastato che dicessi: «Senti, Totò, alla fine di novembre ritorniamo davanti al pubblico che si vede e che si sente respirare da vicino».

("Ho nostalgia del pubblico «vivo», Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)

Riassumiamo: scrivere una commedia con il coraggio del varietà (es. Sei personaggi in cerca d’autore, La piccola città. Questa affermazione può far inorridire, ma provate a pensare a Petrolini con il genio di Pirandello).

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

Il cinema non ha polvere: se la trova, scappa. Il teatro vive nella polvere, se ne incipria. Io là vorrei morire, come Molière, sorretto dal trovarobe, con il suggeritore che mi passa le ultime battute, quelle da consegnare ai posteri: sopra un letto di cartapesta e contro un cielo inzuppato di stelle dipinte. Poi la polvere sale, sale e mi porta tra gli angeli di terracotta.

Alle tre del pomeriggio, il caffè era ancora pieno di gente. Il cameriere li conosceva tutti uno per uno: acrobati e illusionisti, cantanti e ballerinette di fila. Qualcuno azzardava la richiesta di un bicchiere d'acqua, gli altri seguitavano a discutere di impossibili scritture. Saltare i pasti, per quella gente, era diventato il fatto più naturale.
Quel pomeriggio, a un tavolo sulla piazzetta, c'era persino Peppino Villani. Si era seduto in disparte, ordinando un caffè lungo (lui, questo lusso poteva permetterselo). Perché don Peppino, nel varietà, era una specie di padreterno. Qualcuno si staccò dal gruppo e facendo finta di niente gli passò davanti con un lungo saluto: che avesse bisogno, per caso, di gente da scritturare?
«Lasciate fare a me» disse un giovanotto piuttosto smilzo che aveva già avuto qualche piccolo successo nelle sale di periferia. Don Peppino lo conosceva di vista e gli disse subito, senza troppi preamboli, che anche iui in quei giorni era senza lavoro.
«Giovanotto» gli propose quindi, «vogliamo farla noi una formazione? Bene. Sedete e scrivete: Peppino Villani, settecento lire. Una cantante, centocinquanta. Un'attrazione, cento. Un primo e un secondo numero, ottanta lire. E venticinque per voi. Quanto fa in tutto?» «Mille e cinquantacinque lire.» «Bene, datevi da fare e domani ci vediamo.»
Il giorno dopo, alla stessa ora. «Don Peppì, hanno detto che la formazione è bella assai, ma costa troppo.» «Questo è tutto» risponde Villani. «E allora noi caliamo. Prendete un pezzo di carta: Peppino Villani settecento lire. Cento alla cantante e settanta all'attrazione. I due numeri, cinquantacinque. E voi... voi dovete contentarvi: ventitré lire. Giovanotto, ditemi il totale.» «Novecentoquarantotto.» «E chi volete che rifiuti un affare del genere?» «Speriamo bene, don Peppino.»
Ventiquattr'ore più tardi. «Don Peppì, che v'ho da dire? Sono tutti entusiasti, ma vogliono spendere di meno.» «E va bene, noi caliamo ancora. Peppino Villani, settecento lire...» «Eh, no» scattò l'altro, «se qui non "cala" Peppino Villani, l'affare non si combina.» E l'affare, infatti, andò a monte.
Di Peppino Villani abbiamo detto: un asso di quei tempi. L'altro era Antonio de Curtis, un giovanottello ricco soltanto di molte speranze. Sì, insomma, ero io. Nato a Napoli in via Santa Maria Antesaecula, avevo trascorso la mia adolescenza più nelle strade del popolare rione Sanità che sui banchi di scuola. Come abbia fatto a prendere la licenza elementare e a iscrivermi al ginnasio, soltanto mia madre potrebbe dirlo. Scelsero il collegio Cimino, nel palazzo dei principi di Santobuono, ma io per la scuola non ero tagliato proprio. Le mie avventure di ginnasiale finirono assai presto, e ingloriosamente.

Andreotti: nella vita precedente Andreotti dev'essere stato un granduca oppure un alto prelato, che so, il cardinale Ri-chelieu.

Se la gente ride alle mie battute mi sento felice, mi diverto anch'io. L'ilarità fa bene al sangue e distende i nervi: perciò far ridere è come compiere un'opera buona.

I miei personaggi credo di averli tutti amati. Un artista non può avere più affetto per questo o quel personaggio. Dirò comunque che ho più affetto per quelli che mi hanno permesso di proiettarmi fuori della realtà di tutti i giorni, insomma per quei personaggi che già facevo trent'anni fa. Girando ultimamente con Alberto Lattuada, l'ho sentito dire ai giornalisti che sono un comico classico. So che era un complimento, ma direi semplicemente di essere un comico. Il comico deve essere fuori del tempo. La sua forza, che i latini chiamavano, se non erro, «vis comica», consiste nel sapere inserirsi nello spirito di Aristofane o di Molière come in quello di un autore moderno. Non esiste che un tipo di comico, dai Greci fino a noi. Esiste imo stile, ima carica interiore che è sempre la stessa. Ma inoltre, se il comico agisce anche col desiderio di dare un senso umano alle cose che fa, che egli offre alla gente, per aiutarli a vivere, allora sarà permesso di aggiungere al suo nome l'appellativo di «grande» o di «eccellente».

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Recitare, lavorare è la mia vita. E quando recito sono paziente: appena terminata una scena corro dal regista per sapere se sono stato bravo. Lo so che non ho fatto dei bei film; alcuni sono addirittura bruttissimi. Ma sono un attore, uno strumento in mano al regista.

(Vorrei sposare Franca in chiesa, “Oggi”, n. 38, 17 settembre 1964)

E' vero, sono un comico triste, se mi fate parlare invece di recitare tutti lo siamo. L’amarezza, la malinconia sono una reazione naturale dopo i lazzi e le risate. Ma adesso sento anche la vecchiaia. Il tramonto di un comico deve essere tristissimo. Penso con terrore a questo.

(Totò: non esiste il comico moderno, “La Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Giulietta Masina mi ha detto che suo marito sta pensando a un film che potrebbe essere interpretato da me. Spero che questo progetto di Fellini si avveri... Vede, gli attori devono accettare le cose che vengono loro offerte, che non sono necessariamente quelle che vorrebbero fare. Io, per esempio, vorrei interpretare tutti i personaggi umani e tristi, appunto come era quello del ladruncolo in "Guardie e ladri". Quello che invece mi è capitato durante tanti anni di lavoro lo sapete meglio di me.

(Gianni Canova, "Totò: ottanta film, ma ne ricordo solo uno", Il Giorno, 19 febbraio 1962)

Le lacrime per un comico sono quello che la Rolls-Royce è per un povero: un lusso che non ci si può permettere.

Adopero spesso le parole «surreale, metafisico». Qualche amico mi ha messo in guardia, sono un po' troppo usate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, per me vogliono dire fantastico come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po' ingenuo: per questo vorrei essere, come Maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare: io rido in due modi, e proprio da cartone animato. Questa mia preferenza dovrebbe far capire l'urgenza di una regia che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive.

II fatto è che io, arrivato a questo punto della mia carriera, piuttosto che in televisione avrei preferito lavorare nel teatro di prosa. Proprio qualche settimana fa, Giuseppe Patroni Griffi mi aveva proposto di esordire in Napoli notte e giorno di Raffaele Viviani; ho dovuto rifiutare perché i personaggi di Viviani, umili e dimessi, non sono adatti alla mia comicità aggressiva. Che peccato!

Vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare (...). Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara qual'è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.

(Alfonso Madeo, Totò a scatola chiusa, Corriere della Sera, 20 settembre 1964)

È difficile da spiegare, ma io non ho mai nulla di preparato prima di andare in scena. Non studio nulla di prestabilito. Io improvviso. Affronto il pubblico, vado in scena e poi la comicità viene da sé, spontanea. Prima dell'entrata, ho sempre mille paure. Temo di non divertire il pubblico. Invece, puntualmente, si verifica una radicale trasformazione. De Curtis diventa Totò. Perché io e Totò siamo del tutto diversi.
Agli inizi della mia carriera, la comicità della mia maschera era incontenibile, straripante, e io ne approfittai dandole libertà completa e sfruttandone al massimo le risorse. In un secondo tempo, intervenne il mestiere. Per andare in scena, io ho bisogno soltanto di un canovaccio, di una vicenda sottile, appena accennata per consentire poi a Totò di dar sfogo alla sua comicità. È strano, soprattutto se si tiene conto del mio carattere.
Io sono in realtà triste, solitario. Lo sono sempre stato. Da piccolo non ho mai cercato compagnia, amicizie. Insomma, ho fatto tutto il contrario di quello che fa Totò sulla scena. I comici tristi: dicono sia una leggenda. Io credo che sia, invece, una grande verità.

Se copiassi integralmente De Marco sarei uno sfruttatore del talento altrui, un ladro (...). io, invece, mi ispiro a lui, che è una cosa diversa. E in questo senso il mio lavoro può considerarsi un omaggio alla sua arte.

E’ ancora da scoprire se in Italia esiste un regista che sappia raccontare storie comiche. Io non saprei accettare responsabilità così pesanti come quelle del regista, ma se fossi un regista vorrei far imparare le parti a memoria come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nelle fasi delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare: dopo averlo scomposto in teatro di prosa, lo ricomporrei in montaggio.

(Alfonso Madeo, Totò a scatola chiusa, Corriere della Sera, 20 settembre 1964)

Il comico deve essere antico e «lazziatore», cioè capace di inventare ogni volta lazzi e macchiette inedite e imprevedibili. Per un comico vero il copione non deve contare nulla.

(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)

La mia tecnica è l'istinto. Il comico nasce, non diventa comico. Si può diventare anche comico per forza, ma allora si è leziosi, si è falsi, mentre il comico è quello istintivo, non c'è niente da fare. Lavorando si apprende il mestiere, ma questa è un'altra cosa. Io ho una comicità istintiva che porto nel mio lavoro e che all'inizio può non far ridere, ma poi, piano piano... come lo scultore che ha un pezzo di creta che plasma piano piano...

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Gli inizi miei del cinema a differenza di quelli del teatro furono leggermente scabrosi. Fui chiamato alla Cines di Pittaluga ed esegui il regolare «provino». Soltanto, un regista ebbe la brillante idea di dirmi che sarebbe stato bene che, con la faccia che Iddio mi aveva data, facessi tutto il possibile per imitare... Buster Keaton. Presi cappello in senso proprio ed in senso figurato, dichiarando che mi sentivo soltanto di fare... il Totò. Così ripresi il mio fardello di Pellegrino e tornai al mio varietà, formando la compagnia di riviste che agisce ormai da cinque anni.

(Fermo con le mani! Erzsi Paal intervista Totò - «Cinema Illustrazione», 3 febbraio 1937)

La macchina da presa nei miei primi film io l’ignoravo. Recitavo come se fossi stato in scena. Certo, lo so, ero meno cinematografico di oggi, ero più teatrale. Ma non mi emozionavo durante le riprese. Mi impressiona il microfono: mi mette a disagio, mi viene la pelle d’oca, insomma mi fa paura.

(Neera Ferreri, Per far felice Macario ditegli: ma quanto sei stupido stasera!, “Oggi”, n. 29, 17 luglio 1958)

La sequenza di "Totò a colori" la girai in un piccolo teatro e fui allietato dalle risate di tanti bambini che mi applaudivano. Pensai a tutti gli altri piccoli spettatori che si sarebbero divertiti nelle sale cinematografiche e mi sentii contentissimo. Se la vita degli adulti, in genere piuttosto grigia, simile a un film in bianco e nero, avesse come colonna sonora un coro di bambini, diventerebbe subito un fantastico technicolor.

Mi hanno ridotto al ruolo di attore regionale: copioni creati soltanto per l’Italia, film che non costavano una lira. Sono stato male amministrato, il mio patrimonio di attore mi sembra che sia stato sciupato. Questo è il mio rimpianto.

(Angelo Greco, Totò: non esiste il comico moderno, “Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Totò è venuto al mondo originale. non mi ha ispirato nessuno. L’unico comico che ammirassi, ai miei tempi di ragazzo, si chiamava De Marco Gustavo, un macchiettista, di cui non si ricorda nessuno. Il frac di Totò era di mio nonno. I calzoni a mezz’asta erano di mio padre. Ero costretto a tirarli su per camminare. Il nome, Totò, è il diminutivo napoletano del mio nome, Antonio. Aggiunsi una bombetta e fu fatta. Non c'era alcun riferimento, alcuna ispirazione. A recitare avevo cominciato per caso: perché mi ero innamorato, a diciannove anni, di una macchiettista. Quello fu il pretesto...

(Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)

Vedete quella mensola? Un mio pezzo che mi sembra riuscito, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una gran voglia di volare lassù, di appollaiarmi tra lo stupore dei miei familiari. Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti! Vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze, bicchieri, vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporaneamente dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutta un fuoco artificiale; sento ancora l'odore della polvere pirica.

Mi ricordo la prima risata che feci fare in teatro. Recitavo in una compagnia di commedia dell’arte, quelle farse con Pulcinella e le maschere classiche del teatro napoletano. Il primo attore era un certo Marco ’Nfru, un nome che era tutto un programma. Ero stato scritturato in una parte minore, stavo di fianco sul palcoscenico, senza parlare e facendo qualche mossa soltanto. La gente rideva e Marco ’Nfru non riusciva a dire la battuta. Siccome si recitava a soggetto, a un certo punto sbottò: «O esce questo, o me ne vado io». E giù un uragano di risate tra gli spettatori. Ma io me ne dovetti andare.

(Angelo Greco, Totò: non esiste il comico moderno, “Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Certi frizzi all'interno di una comunità per mesi a stretto contatto di gomito nuocciono. Creano zizzanie, rivalità. Eppoi sono il capocomico. Avrei sempre la sensazione che acconsentano solo per il timore di contrariarmi, di essere prese sul naso. Faticano per guadagnarsi il pane, no? E allora debbono sentirsi libere di seguire il loro ghiribizzo. Ma quante ne vengono durante l'intervallo, signore o popolane che magari lasciano la famiglia o il fidanzato in platea e, tra una risatina, un Sa sono una sua ammiratrice, Mi darebbe un autografo, Ma no, Via, Su, Cosa combina, quando ne vale la pena finisco là sopra. E magari subito dopo essersi rassettate l'abito sgualcito, quelle schifose tornano tra il pubblico e si scandalizzano per la nudità delle ballerine. Eh, l'attore. Sapeste quanto sono più facili certe cose per l'attore.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto e invece, vede, ho fallito per aver fatto film troppo dozzinali, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. Io con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di poter diventare internazionale. E ho fatto male. Un po’ per pigrizia, un po’ per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre perché rientravano bene nei costi. Quindi siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un’altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hanno gli americani, i quali fanno film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono aver fortuna all’estero perché nella traduzione il significato si perde. E siccome il film deve durare un’ora e mezzo, e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e Ollio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l’aeroplano cadeva quando uno era sopra e l’atro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte queste cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono che sia sufficiente buttar giù delle pagine.

(Totò, uomo di due secoli, in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Io non prendo i cento, i settanta, i cinquanta milioni che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso seicento milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre, perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po’ alla volta falliscono tutti, dopo che faccio? I film dove recito io, di conseguenza, sono commerciali, sono filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco anche come film. Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va. Sarebbe scorretto, scortese. Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e sono morto.

(«Totò, il principe metafisico», Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)

La televisione brucia l'attore che ha un nome. Può giovare a uno sconosciuto. Non c'è libertà alla nostra televisione. A «Studio Uno» mi hanno tolto una battuta perché ironizzavo sugli onorevoli... In Francia, in cui dicono ci sia la dittatura, i comici si divertono alle spalle di De Gaulle. L'Italia è un paese di gente permalosa. Se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira, che gli resta? Al film migliore che ho interpretato, «Totò e Carolina», hanno fatto ottantadue tagli... Hanno persino voluto la soppressione del nome del mio personaggio, che si presentava dicendo: «Salvatore Caccavallo, agente dell’Urbe».

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Quante ne vengono durante l'intervallo. Signore o popolane che magari lasciano la famiglia o il fidanzato in platea e, tra una risatina e un 'Sa, sono una sua ammiratrice, mi piacerebbe un autografo, ma no, via, su, cosa mi combina...', quando ne vale la pena finiscono là sopra.

Io il pubblico so come farlo patire di piacere.

Nel mio pessimismo professionale influisce certo l'atteggiamento negativo dei critici, che mi hanno sempre stroncato. Non posso fare a meno di notare che questi signori si limitano a distruggere, mentre dovrebbero consigliare per il meglio noi attori. Se uno entra in casa mia, osserva che l'arredamento è brutto e mi sfascia i mobili a martellate, non agisce in modo sensato. Meglio sarebbe se esponesse i motivi del suo dissenso, per affinare il mio gusto e farmi capire i miei errori. Ma, alla fine di tutti questi discorsi, rimane la constatazione che io rispetto i critici, mentre loro non rispettano me. Mi rimproverano perché, secondo loro, faccio sempre le stesse cose. Non è vero. Sono passato dalla Commedia dell'Arte alla prosa, dal varietà al cinema, dalla poesia alla musica. Certo, rimango sempre Totò, perché non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.

Luchino Visconti: questo regista, oltre tutto, è un uomo bellissimo: sembra uscito da un quadro. Sono rimasto incantato da Senso. Che finezza! Che gusto squisito, dalla ricostruzione dell'ambiente alle acconciature di Alida Valli... Sì, Visconti è un genio e anche un vero aristocratico. Sai che ti dico? Io sono principe, ma se avessi la fortuna di lavorare con lui mi sentirei un re.

Quando io ho cominciato a lavorare, la nobiltà era finita da un pezzo e in famiglia erano finiti pure i soldi, non c'erano vestiti. I miei volevano che andassi in marina, io invece cominciai a frequentare il teatro. Eravamo una chiorma di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranza, tutti uomini che si sono poi piazzati: io, Eduardo e Peppino De Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio, l'autore di Come piange Pierrot, che allora faceva i testi delle canzoni cantate dalla Mistiguette. Facevamo le recite staccate nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La recita staccata era una specie di fine settimana teatrale: due rappresentazioni sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra.

Per mia natura amo la quiete. Il suono delle risate del pubblico, quindi, mi disturba perché è troppo rumoroso. Eppure quel suono è la mia droga, la mia linfa vitale. Se ne fossi privato, avrei la sensazione che mi manca l'ossigeno per respirare.

Io non prendo i 100, i 70, i 50 milioni di lire che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso 600 milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po’ alla volta falliscono un po’ tutti, dopo che faccio? I film dove recito io son commerciali, son filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco: anche come film.

(«Totò, il principe metafisico», Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)

Sono nato un 15 febbraio: acquariano, porta buono. Ma l'anno, che importanza può avere? Un attore non lo deve sapere mai. L'importante è sentirsi giovani. E io mi sento giovane e sempre pronto - se dovesse presentarsi un'occasione favorevole - a tornare ancora una volta sul palcoscenico e a togliere dal "cassetto dei ricordi" quel piumetto che un bersagliere del Terzo mi gettò una sera dal loggione ai tempi di "Eravamo sette sorelle". Quel piumetto che diede vita alla mia più felice e sfrenata improvvisazione.

(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)

Embè, e vabbè, quando c'è la salute ... C'agg' a fa' mo'?

[il primo provino di Totò]

Il comico deve saper fare di tutto, e se no che comico è? Ogni tanto mi saltate addosso, non fare questo, non fare quello, fai solo i film con Fellini, con De Sica, con Pasolini, con Monicelli, lascia stare i filmetti girati in pochi giorni... eh no, signori, uno ha bisogno di sentire il meccanismo che ha dentro funzionargli sempre, ha bisogno di imparare, di continuare a vivere, perché noi viviamo solo per questo: tac, si accende un riflettore, tac, si accendono le luci della ribalta.
Noi attori viviamo solo per questo, e non bisogna fare troppe distinzioni. Per me l'impegno è sempre stato quello di fare allo stesso modo un personaggio importante e una macchietta: di farli con la stessa intensità. Perché io, poi, in fondo sono uno di quegli attori che improvvisano sempre. Guai se non mi abbandonassi all'improvvisazione, mi sentirei un burattino, un uomo finito, un guitto da mettere in un ripostiglio, insieme con gli arnesi del trovarobato.

Adesso scordatevi tutto, quando si gira state attenti solo a me.

Vede, quelli che vengono dal teatro vanno bene in cinema, perché hanno esperienza; noi abbiamo una carrriera, abbiamo le fondamenta.

Dite al pubblico che gliene sono infinitamente riconoscente. Io so che, per andare a vedere un mio film, la gente esce appositamente di casa, lascia le pantofole e la giacca del pigiama per uno scomodo paio di scarpe e un vestito e paghi il biglietto. Ci penso spesso e mi commuovo. Umilmente ringrazio il mio pubblico, con la promessa che cercherò di fare sempre meglio.

(Maria Benussi, Il gioco dei perché: Totò, “Annabella”, 21 aprile 1966)

Oggi si è persa l'arte di far ridere. Oggi si tenta di divertire la gente con le barzellette, con le battute. Io le barzellette non ho mai saputo dirle. Se voglio raccontarne qualcuna, mi imbroglio. Ne vien fuori una cosa penosa. Io non so cosa raccontare. Sono un comico muto. Io sono sempre andato in scena con canovacci di dieci minuti, che sviluppavo sul momento, fino a farli durare anche tre quarti d'ora.
Dicono che ho la faccia triste. Non ce l'ho triste, ce l'ho storta, perché mi sono rotto il naso. Ma con questa faccia triste ho fatto ridere per tanti anni, risate vere, e la gente ride anche oggi, modestia a parte. Glielo dico io perché. Perché la comicità vera ha sempre un fondo macabro, tragico. La mia comicità è di questo tipo. Non c'è niente che provochi singulti di ilarità, assalti di fou rire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte.

(Riflessione di Totò raccolta da Silvio Bertoldi, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)

Brindo alla mia salute e anche alla vostra. Qualcuno può domandarmi: «Perché questo brindisi?». Perché oggi compio venticinque anni eh... non di età, per carità!... venticinque anni di cinematografo. Quindi festeggio le mie nozze d'argento col cinema. Venticinque anni fa, proprio in questo giorno, mi recavo a piazza Goldoni dal produttore Gustavo Lombardo per firmare il mio primo contratto cinematografico. Il film si chiamava "Fermo con le mani!", alla paga nientepopodimeno che di quattrocento lire giornaliere. In venticinque anni, ottanta film. Qualche maligno potrà dire: so' troppi. E lo so! Quando c'è la salute, che vuo' 'ffà? Ci vuole un po' di pazienza... Io non lasciai il teatro per il cinema. Dal '37 al '50 alternavo cinema e teatro, teatro e cinema. Dal '50 mi sono dedicato esclusivamente al cinematografo, preso dalla celluloide!

La sceneggiatura: voi mettete solo frizzi e lazzi. Al resto penso io.

Se fossi regista vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare. Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev' essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.

Faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto; il mattino arrivo sul set e trovo che non c'è niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero.

Titina: è una grande interprete. Sembra un uomo vestito da donna, eppure riesce credibile nella parte di Filumena Marturano che gli amanti se li rigirava come voleva: potenza dell'arte!

Il pubblico è come se fosse una droga. Ti pende dalle labbra. Lei ha notato che il pubblico fa le boccacce, i versacci come l'attore sul palcoscenico? Io l'ho notato quando stavo a teatro.

Alcuni produttori, per risparmiare, basavano i film comici sul dialogo. Fiumi di parole, parole. Ecco perché il film comico italiano all' estero non attacca. Perché traducendo alla lettera questo film, queste battute, perdono il significato originale, il nostro idioma, e spesso non dice niente. lo, per esempio, mi ricordo che un giorno mi trovavo a Nizza e passando per la strada vidi che in un cinematografo davano un mio film, Totò sceicco. Sono entrato per vedere. Era tradotto in francese, naturalmente. lo ero uno sceicco e avevo una ragazza vicino, un'odalisca, che mi diceva: «Omar! Quanto sei bello!». A me!! In francese la ragazza diceva: «Omar, comme tu es joli.» E io rispondevo: «Vedi Omar qunt'è bello...». Invece in francese, doppiato, rispondevo con «Oui, mon amour, regardez le mer camme est joli...». Che c'azzecca?

Molti miei film vengono proiettati nell'America del Sud, in Portogallo, in Egitto, in Svizzera e ora, anche in Francia. L'America del Nord, purtroppo, costituisce un circuito chiuso. Un po' di pazienza: chi va piano, va sano e va lontano.

Ognuno di noi ha un ciclo. Chiuso quello non c’è niente da fare. I cicli degli attori non si ripetono. E quello che non vuol capire il fisco; quelli delle tasse credono che gli attori siano sempre sulla cresta dell’onda.

(Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)

Chi parla oggi di Petrolini? Gli attori si sa, scrivono sulla sabbia: basta un'onda piccola piccola per cancellare la loro opera.

Non è esatto che io abbia querelato Alighiero Noschese. Querelai la ditta per reclamizzare il prodotto della quale sui teleschermi veniva presentato un «Carosello». Non trovavo giusto che, senza chiedermene l'autorizzazione, Noschese, con la sua bravura per le imitazioni a tutti nota, avesse dato la mia voce a uno dei pupazzi nel «Carosello» stesso.

Ho una carica brevissima, riesco a essere in forma non più dì due o tre ore al giorno. La comicità è come lo champagne: frizzante soltanto appena stappato.

Non so perché faccio ridere la gente. Per me la comicità è un fatto istintivo che trova riscontro nella cattiveria umana. L'uomo in sé può anche essere buono, ma se si unisce alla massa diventa crudele. Fateci caso, quando per strada una persona cade e si fa male, i passanti ridono come a una comica di Ridolini.

Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio da capo a piedi. «Signor Capece» gli dissi, «mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno». «Andate un po' a far del bene alla gente!» brontolò Capece. E mi indicò la porta.

Jacques Tati: certo un film con Totò e Tati sarebbe stato bello, ma io a Parigi non ci vado. 'A Francia mi sta 'ccà.

Poi in teatro modifichiamo le battute, le intonazioni della voce, e quindi alla seconda, alla terza recita abbiamo già migliorato tante cose. Avevo come spalla Mario Castellani o Eduardo Passarelli, sempre loro, affiatati, mi capivano. La spalla è importante! Segue l'attore comico, si affiata, lo capisce, lo sente. Castellani ha lavorato con me molti anni sia nel teatro che nei film. In teatro era veramente molto bravo. Io poi quando facevo le riviste non andavo mai a provare, perché non posso provare, e allora lui lo faceva per me. Non posso provare e le dico perché: sono, direi, spontaneo, un istintivo, e la prova mi raffredda, mi stanca, mi scarica; il risultato è qualcosa di meccanico, di non più spumeggiante. E così io andavo sul palcoscenico gli ultimi due, tre giorni, per vedere solamente le entrate e le uscite, senza sapere una parola del copione; andavo molto a orecchio, a suggeritore; il secondo giorno toglievo il suggeritore, lo mettevo tra le quinte e poi, dopo tre o quattro giorni, spariva del tutto. Quindi all'inizio recitavo sul suggeritore e quello che arrivava era quasi nuovo, e su quel nuovo andavo avanti e recitavo e andavo avanti e fissavo i lazzi. Infatti la prima sera lo spettacolo andava benissimo, la seconda calava, la terza calava ugualmente, poi la quarta cominciava a salire, perché si piazzavano tutte le battute, tutte le intonazioni e così via... Intanto il suggeritore prendeva appunti, e il copione diventava un copione sul serio, non più un canovaccio. Lo sketch del wagon-lit durava dieci minuti la prima sera, dopo tre mesi durava un'ora, tutta lazzi e battute.

Il mio incontro con il cinema avvenne in un ristorante. Due signori e una signora mi guardavano ridendo da un altro tavolo. Stavo per alzarmi e litigare quando seppi che uno di quei signori era Gustavo Lombardo. Mi stava studiando per portarmi nel cinema. Il mio primo film era intitolato Fermo con le mani! Da allora ho interpretato una cinquantina di film. A questo punto una cosa vorrei proprio dire. Fatte le debite eccezioni, i giornalisti non sanno fare che della critica distruttiva. Giravo i primi film, ero bravino, e scrivevano: potrebbe fare. Poi, per diciotto anni hanno scritto: durerà poco. Ora stroncano tutti i miei film dicendo: fa sempre le stesse mosse. Che devo fare, quella è la mia personalità, non si può cambiare la faccia, la personalità come si cambia la camicia. A prescindere ... Siamo uomini o caporali?

(Neera Ferreri, Per far felice Macario ditegli: ma quanto sei stupido stasera!, “Oggi”, n. 29, 17 luglio 1958)

Qualche volta penso di abbandonare il varietà per il teatro, [il che] non significa nel mio caso sottovalutare il primo rispetto al secondo, poiché lo stesso varietà con il repertorio che sogno diventa automaticamente teatro. Riassumiamo: scrivere una commedia con il coraggio del varietà (Sei personaggi in cerca d'autore, La piccola città. Questa affermazione può far inorridire, ma provate a pensare a Petrolini con il genio di Pirandello).

(Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)

A proposito di dittature, durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.

Viviani a teatro con Giuseppe Patroni Griffi? È impossibile, è un bel lavoro, Viviani era un grande, rimango onorato: ma io non sono adatto a questi personaggi così umili, la mia comicità è aggressiva. Vorrei fare tanto del teatro, del buon teatro. Ho in mente una commedia, manca solo il terzo atto. Il finale è sempre il più difficile.

Marlene Dietrich: ha un solo difetto: è compaesana di Hitler. Ma passiamoci sopra, in fondo nessuno è perfetto.

In definitiva, neanch'io sono molto soddisfatto di questo mio primo lavoro [Fermo con le mani!, 1937]. Il pubblico si è però tanto divertito e ciò mi è di grande inncoraggiamento. Sono certo di poter fare di più, di poter dare di più al cinematografo, in cui credo fervidamente, sinceramente perché, specie con i mezzi attuali, ha un vasto campo di realizzazione e, per quanto mi riguarda, nel campo comico c'è ancora molto da fare. Per conto mio, e non vorrei, dicendo ciò, essere accusato di troppa presunzione, sono certo di riuscire, perché ho avuto la sensazione che in me c'è da tagliare la stoffa per un lavoro organico e il mio primo esperimento, quantunque abbbia suscitato un po' di contrasti, ha rinfocolato la mia arrdente passione per il cinematografo.

Voi avete visto l'altro mio film "Fermo con le mani!"? Mi dispiace! Quello per me ha semplicemente il valore di un provino. Può fornire solo indicazioni generiche su di me. Credo, invece, che questo nuovo film (Animali pazzi, 1939) sarà qualche cosa di nuovo, forse (e non lo dico io) anche la creazione di un tipo comico diverso dagli altri esistenti nella cinematografia internazionale. Io, tutto io, in un doppio ruolo, in cui avrò la possibilità di impiegare quelle che sono le mie risorse interrpretative, non esclusa la mimica e non esclusa la mia bazza. (...) Ne risulterà un film comico-lirico chef nella letteratura, potrebbe avere un esempio in Chiarastella proprio di Achille Campanile. Il racconto procede con una serratissima logica di immagini e di azioni, col dialogo ridotto al minimo necessario, quasi a creare un' arrmonia mimica di valore musicale.

II 1966 è un anno storico, una pietra «emiliana» della mia carriera. Il Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici, molti dei quali probabilmente sono gli stessi che mi hanno denigrato per anni, mi assegna il «Nastro d'argento» per la mia interpretazione di "Uccellaci e uccellini". Qualcuno arriva a definirmi un grande attore e io quasi non ci credo. Forse in un caso così clamoroso di pentimento tardivo, bisognerebbe dire «meglio tardi che mai», ma lasciamo correre. Per l'occasione, ho composto una breve dichiarazione in cui esprimo la mia soddisfazione, ma anche altri sentimenti che ognuno potrà intendere a modo suo. Si tratta di quisquilie, pinzellacchere, buone per un epitaffio che in fondo è soltanto uno sberleffo finale: «Sono veramente lusingato e, perché no, un po' commosso, per questo ambito premio che mi arriva così, come si usa dire a Napoli, fra la capa e il cuollo, cioè tra testa e collo. Ringrazio sentitamente la giuria dei critici cinematografici che hanno avuto la bontà di assegnarmelo, ringrazio le autorità intervenute, ringrazio ancora S.E. l'onorevole Andreotti e, a prescindere da tutto quello che ho detto io, mi auguro che questo argenteo nastro mi sia di sprone a far meglio, se mi riesce. Ringrazio ancora una volta, faccio a tutti tanti auguri per il prossimo Natale e il Capodanno, auguri estensibili anche a tutto il Ferragosto.»

La macchina da presa nei miei primi film io l'ignoravo. Recitavo come se fossi stato in scena. Certo, lo so, ero meno cinematografico di oggi, ero più teatrale. Ma non mi emozionavo durante le riprese. Mi impressiona il microfono: mi mette a disagio, mi viene la pelle d'oca, insomma mi fa paura.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Le mie vitamine sono gli applausi della platea, le mie iniezioni ricostituenti sono i riflettori, i ciak, i «si gira», i copioni.

Conosco l'umorismo moderno più nei settimanali che nei libri. Mi pare di essere esattamente dentro al mio secolo. Altri comici risolvono brillantemente il lato dialettico. Io tengo alle figure. Tra una battuta e la mia spada che si allunga, si allunga tenendo così a debita distanza l'avversario, io mi commuovo per la spada (e invidio la battuta).

Capece si sedeva in camerino con tutti i comici attorno. E diceva: «Tu, quando faccio così, esci e dici "È venuto il vinaio, il vino era cattivo", insomma dici delle cose e vieni cacciato via a calci. Quando invece faccio così, esci tu e dici: "Mia moglie è scappata" e fai tutta la storia...».

La tematica del «manichino» era quella del teatro delle marionette. Era la storia dell'uomo della strada che, per colpa della politica, diventa una marionetta. Il personaggio funziona ancora, perché è cambiata la realtà della politica, non quella dell'italiano!

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

San Giovanni decollato (1940) è riuscito assai meglio di quello che speravo. Fino a oggi le mie prove in cinematografo non sono state eccessivamente fortunate. Ma questa volta, spero, il pubblico mi vedrà con un volto nuovo.

(Angelo L. Lucano, Serio discorso d’un attore comico, “Rivista del cinematografo”, n. 1, 1 gennaio 1966)

Il personaggio di San Giovanni Decollato mi intimorì molto, tanto più che era il cavallo di battaglia di Angelo Musco e farlo, io, al cinema, poteva sembrare presunzione. Sono andato a vedere Musco a Milano e, durante la lavorazione, ho cercato di evitare ogni imitazione dell’attore siciliano. Non so se il film fu artisticamente riuscito; in ogni modo ho superato la paura di non essere capace di dare allo spettatore un San Giovanni Decollato diverso da quello di Musco.

La comicità è un fatto assolutamente irrazionale. Una sera in teatro, improvvisando come sempre, dissi: «A prescindere», e il pubblico scoppiò a ridere, chissà perché. Forse per la mia faccia, per il tono della mia voce. È inutile indagare: la comicità è mistero e magia.

Ava Gardner: questa Ava potrebbe anche essere nata a Napoli.

Recitavo in una compagnia di commedia dell’arte, quelle farse con Pulcinella e le maschere classiche del teatro napoletano. Il primo attore era un certo [De] Marco ’Nfrù, un nome che era tutto un programma. Ero stato scritturato in una parte minore, stavo di fianco sul palcoscenico, senza parlare e facendo qualche mossa soltanto. La gente rideva e [De] Marco ’Nfrù non riusciva a dire la battuta. Siccome si recitava a soggetto, a un certo punto sbottò ‘O esce questo, o me ne vado io’. E giù un uragano di risate tra gli spettatori. Ma io me ne dovetti andare.

(Angelo Greco, Totò: non esiste il comico moderno, “Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Non sono mai stato un umorista, ma un comico. Quello che provocavo in platea erano risate grasse. Dicevano che ero soltanto un clown. Eppure la mia comicità nasceva sempre da un'osservazione della vita, e da una satira. Certi numeri nelle mie riviste li imparavo e li costruivo guardandomi in giro. Naturalmente era una realtà deformata, grottesca. Come nello sketch del cane con il braccialetto: avevo visto un episodio quasi identico a Capri, all'epoca degli eccentrici che giravano con un gallo in testa. O nella scenetta dell'onorevole in vagone letto, che si trova come terzo incomodo in cabina una signora. Mi era accaduto qualcosa di simile proprio in treno, anche se era finita in modo diverso. A questo ci tengo molto. Anche nei film più brutti, il personaggio di Totò cercavo di costruirlo con una parvenza di realtà. Perché faceva ridere di più, così. Che altro voleva essere quella maschera con la bombetta e i calzoni larghi, se non la rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo?

(Angelo Greco, Totò: non esiste il comico moderno, “Settimana Incom”, n. 43, 24 ottobre 1965)

Non ci vedo, è buio pesto. (Totò sulle scene durante l'ultima rappresentazione di "A prescindere")

Questi critici sono tutti cattivi, incompetenti e, diciamolo pure, stronzi. Il peggiore di tutti è un tale che si chiama Vice. Tu per caso lo conosci?

Il personaggio di San Giovanna decollato mi intimorì molto, tanto più che era il cavallo di battaglia di Angelo Musco e darlo, io, al cinema, poteva sembrare presunzione. Sono andato a vedere Musco a Milano e, durante la lavorazione, ho cercato di evitare ogni imitazione dell'attore siciliano. Non so se il film è artisticamente riuscito; in ogni modo ho superato la paura di non essere capace di dare allo spettatore un San Giovanni decollato diverso da quello di Musco.

Zacconi... io ho avuto il piacere di conoscerlo quando aveva ottantaquattro anni, a Viareggio. Lui aveva la debolezza di togliersene due e diceva ottantadue. Poverino, poi è morto perché è cascato, se no, Zacconi non sarebbe morto più!

Clark Gable: io nun capisco che ce truovano 'e ferrimene in questo Gable. Si io tenesse 'e 'recchie ca' tiene isso, me mettesse scuorno 'e me levà 'o cappiello.

Al suo imitatore Mario Di Gilio: Mario, facciamola finita. Restituisci la mia identità, se no ti taglio i viveri. Me so' scassato 'o cazzo di essere te.

Ho letto delle sue opere, ma di persona l'ho conosciuto soltanto in occasione di questo film (Uccellacci e uccellini, 1965). So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema... penso che sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile.

Con la tv ci si brucia, mio caro, ci si brucia. È un rogo: e poi che si fa, eh?

Io non voglio lavorare per la tv. Non ho alcuna intenzione di bruciare la mia carriera in poche ore di trasmissione televisiva. Il video è una buona cosa soltanto per i giovani che devono farsi conoscere.

(Ettore Zocaro, «Il Tempo», 30 dicembre 1963)

Prendendo il coraggio a due mani, anche per non dover ascoltare mia madre che invariabilmente mi rimproverava di non essere diventato ufficiale di Marina, decisi allora di presentarmi a don Peppe Jovinelli che era uno degli impresari più esigenti e più temuti di quel tempo. Peppe Jovinelli, a Roma, lo ricordano ancora oggi: una specie di gigante che, arrivato a Roma da un paese del napoletano, si era fermato in piazza Gu-gliemo Pepe, ripulendola dalla giungla dei «bulli» e costruendovi, cinquantanni fa, un teatro cui diede il suo nome. Fu Jovinelli a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini, e a valorizzare attori come Armando Gill, Alfredo Bambi, Pasquariello e Gustavo De Marco.
Erano appunto le macchiette di De Marco che io conoscevo a memoria: soprattutto «Il bel Ciccillo» e «Il Paraguay». Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più propizio perché don Peppe aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto più di quanto potessi sperare.
«Ah, siete napoletano?» chiese Jovinelli. «A me piacciono i napoletani. E, ditemi, siete bravo?» «Mah, dicono». «Dicono, dicono, e chissà poi se è vero. Comunque. Vi aspetto domani per le prove.»
Il giorno dell'esordio, mentre il pubblico batteva ancora le mani, don Peppe si precipitò sul palcoscenico contrariamente alle sue abitudini. «Giovanotto, siete stato veramente bravo» mi disse stampandomi sulla schiena una pesante manata. La settimana dopo, Jovinelli mi «riconfermava» (come si dice nel gergo del teatro), mentre il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni dove il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo metro. Sapete che effetto mi facevano! Mi sembrava di sognare.

Due cuori fra le belve (1943). Siamo proprio due cuori che - io ardentemente lo spero - si vogliono bene, e la «Venere bianca», che vedi al mio fianco, e io, mai ci lasceremo. Ci sono io a difenderla dalle bramosie del gigante e vedrai che scherzetto che gli combino. Ha voglia il gigante, capo della tribù rivale della mia, a fare la faccia feroce, me lo giuocherò come una cannuccia di pipa! La sua forza e la sua faccia feroce sono pinzellaccchere!

Si cambia il costume, si cambiano i fatti, ma i canoni della comicità sono sempre gli stessi, non esiste il comico moderno. Quello che dice di essere un comico moderno è uno che non fa ridere. Ha imparato a dire delle cose, magari ha lo sciolinguagnolo, ma non è un vero comico. Il comico è d'istinto e deve avere tutto comico: la faccia, le orecchie, il naso, le mani, tutto, deve essere perfetto. Come uno nasce comico, ha l'istinto del comico, ed è tragico e serio, è triste e malinconico insieme. Se io vado in scena e dico: «Mia moglie mi ha fatto le corna ed è scappata di casa, sono tre giorni che non mangio, sono andato sotto un tram e mi sono spezzato una gamba», il pubblico ride. Nell'umanità c'è in fondo un briciolo di cattiveria: si gode delle disgrazie degli altri.

(Riflessione di Totò raccolta da Giacomo Gambetti, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)

Nel cinema la cosa scocciante sono i riflettori. Perché i riflettori, vedete, i riflettori incocciano, e io, io ho i capelli neri e lucidi e allora è un disastro. Poi l'attesa è snervante: quando si fa del cinema sembra che l'attesa - e il bello è che non si sa che cosa si attenda - rappresenti la parte più importante e necessaria del lavoro.

Si immagini che tre anni fa, mandai una mia canzone (L'ammore avess' a essere) al Festival di Napoli. Io sono napoletano. Sono qualcuno a Napoli. La canzone me la protestarono. Questa canzone la mandai a Zurigo, prese il primo premio.

Io sono entusiasta del cinematografo, purtroppo non cosÌ dei miei film. Allora, secondo me, dei ritocchi anndrebbero fatti all' organizzazione per guadagnare temmpo e col tempo tante altre belle cose. Vedete, in fondo, il mio grande amore è ancora il teatro. Mi dovete credere, le più grandi soddisfazioni è stato il teatro a darmele e sapete perché? Perché il teatro è molto ma molto più difficile del cinematografo e quassù, su queste tavole, giochetti e finzioni non se ne possono fare.

Io i critici li rispetto. Ma i critici devono consigliare; non distruggere. Se lei entra qui, dice, che brutta stanza e poi mi sfascia la finestra, mi spacca l'armadio, mi rompe il lavandino, non è mica giusto. Ma se lei entra qui e dice che brutta stanza, io a quell'armadio ci metterei un pannello, quella finestra la tingerei di rosso, quel lavandino lo attaccherei al soffitto, ecco che si comincia a ragionare. Io rispetto ma voglio essere anche rispettato.

(«Totò, il principe metafisico», Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)

A me la televisione fa paura. Io la vedo sempre e rido poco. Voi pensate che la gente si divertirà con me?

(Totò a Sandro Bolchi e a Mario Lanfranchi, produttori di Tutto Totò)

L'attore che cos'è? Non è nessuno, un cantastorie... Che cosa rimane di noi? Niente. Chi siamo noi?... Siamo come una cosa voluttuaria che proprio per questo non è indispensabile... Non si può fare a meno del pane, ma di andare al cinema sì.

(«Totò, uomo di due secoli», in Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini - Giacomo Gambetti - Garzanti, Milano 1966)

Totò sceicco (1950). È questo il mio decimo film in due anni, un vero record, anche per un uomo con una fibra eccezionale. Non trovate? Voi ridete alle mie disavventure sullo schermo ma non immaginate minimamente le mie disavventure dietro lo schermo. Che cosa non faccio io, quali scuse non trovo, quali storie non invento per riuscire ad avere un mese, una settimana, un giorno almeno di riposo. Niente da fare: i produttori mi assediano, conntano e mi rubano le ore di sonno, mi attendono al varco fuori della porta, s'introducono in casa mia con la scusa di essere operai del gas o agenti delle tasse, o amici di mio nonno. Vili espedienti per farmi leggere i loro copioni e per strapparmi un sì. Domandate alla mia cameriera quanti copioni si ammucchiano nel mio studio, che io ho letto e rifiutato per una semplice ragione: tutto ha un limite, anche la mia resistenza fisica. (. .. ) Ancora lavoro, sempre lavoro, eternamente lavoro, per far ridere il mio pubblico, senza sosta. Sono dunque divenuto una vittima della società? lo, Totò, principe Antonio de Curtis dei Griffo-Focas? Perdinci, e anche perbacco!

Forse gli altri miei film erano più divertenti, ma questo lo preferisco. Era il cosiddetto film d'arte, si rideva di meno, ma si soffriva di più.

(A proposito di 'Guardie e ladri, 1951)

Sono commosso, veramente sono lusingato e, come si dice a Napoli, questo premio che mi viene tra 'o capo e 'o cuollo cioè fra la testa e il collo, mi ha un po' commosso Sono veramente riconoscente alla critica cinematografica che me lo ha assegnato e a tutta la gente che è intervenuta.

(Dopo aver ricevuto il «Nastro d'argento» per il migliore attore in 'Guardie e ladri')

Io posso far ridere, ma se ho vicino a me uno che fa ridere più di me, anch'io faccio ridere di più.

Mina: Mina, Minona, sei brava, sei bella, sei tanta: tu sei l'Italia e vicino a te, sai che ti dico?, io mi sento un patriota!

I messaggi contenuti nelle parole di un comico sono controproducenti, perché inducono la gente a pensare per capirli. E mentre pensano... non ridono più.

Una delle scene che preferisco è quella in cui faccio Pinocchio, nel film Totò a colori (1952). La girai in un picccolo teatro e fui allietato dalle risate dei tanti bambini che mi applaudivano. Pensai a tutti gli altri piccoli spetttatori che si sarebbero divertiti nelle sale cinematografiche e mi senti contentissimo. Se la vita degli adulti, in genere piuttosto grigia, simile a un film in bianco e nero, avesse come colonna sonora un coro di bambini, diventerebbe subito in Technicolor.

Ho letto delle sue opere, ma di persona l'ho conosciuto soltanto in occasione di questo film. So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema... penso che sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile.

(A proposito di Pierpaolo Pasolini)

Sicuramente è un genio, io non so bene quello che vuole, però lo faccio perché sento che va bene.

(A proposito di Pierpaolo Pasolini)

Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi così, così e così». Ma non so che cosa ci sia prima e dopo non so cosa viene. (...) Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.

(A proposito di Pierpaolo Pasolini)

Questo Pasolini, pasolineggia un po' troppo. Stiamo a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film, stiamo facendo. Certe volte io gli prendo la mano, faccio a modo mio. Insomma, capisci, cerco di forzare la situazione. Ma lui urla, mi sgrida, mi strapazza, come se fossi un ragazzino. No, questo non lo devi fare, mi dice, ma io lo faccio lo stesso.

La regia di Pasolini è differente da tutte le altre. Pasolini, innanzi tutto, è un uomo intelligente, ma è anche un uomo pieno di fantasia, ha un metodo tutto suo per lavorare.

No, non mi lascia libero di recitare... Io ho sempre recitato per conto mio, improvvisando, dicendo cose che non erano scritte nel copione... alle volte sono state le migliori quelle battute così... Pasolini vuole che si faccia quello che dice lui.

Sono state scene faticose, molto faticose, camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili (Uccellacci e uccellini). Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui perché poi i risultati son molto belli, non sono comuni. (...) Pensi che in una scena avevo soltanto un paio di zoccoli, un saio di sacco che lasciava passare vento e freddo con la tessitura così rada. Gli zoccoli sono duri e pesanti, e poi l'altro giorno, con la melma, ogni zoccolo pesava venti chili, impregnato di fango, di creta...

(A proposito del film 'Uccellacci e uccellini')

Per la mia interpretazione ho ottenuto a Cannes la menzione d'onore al Festival, dovrei essere ampiamente soddisfatto; invece non lo sono. L'impegno guasta la comicità, la battuta non è più spontanea, nasconde sempre un secondo o un terzo o addirittura un quarto scopo e allora lo spettatore è costretto a pensare, a individuare il messaggio, a intendere il secondo o il terzo scopo... e non si diverte più. I moli drammatici sono piaciuti molto di più alla critica che al pubblico. Il pubblico ama Totò perché Totò fa ridere, perché lo aiuta a dimenticare i guai, le amarezze di tutti i giorni. Non vuole vedere Totò serio, impegnato in vicende drammatiche.

(A proposito del film 'Uccellacci e uccellini')

La censura in tv. Non si può dire niente nel teleschermo. Il gesto più innocente è temuto come uno scandalo.

Ora sono attore sul serio, ma non abbandono la comicità.

(Dopo il «Nastro d'argento» per Uccellacci e uccellini)

Io sono un po' riluttante ai premi. A questo qui, questo del «Nastro d'argento», ci sono venuto volentieri, perché è un premio serio. È il secondo che prendo. L'altro l'ho vinto per "Guardie e ladri", un film che oggi classificano un classico.

(Dopo il «Nastro d'argento» per Uccellacci e uccellini)

Io mi trovo benissimo. Infatti lui è contento di me. È la terza volta che lavoro con lui [Che cosa sono le nuvole, 1967]. (...) È un regista impegnato... è il suo genere, il suo stile. Io lo capisco, mi piace. Con gli altri registi è tutto più calmo, si corre meno, è più ordinaria amministrazione. Con lui no, con lui è un po' differente, perché lui è dinamico, pieno di vitalità, pieno di improvvisazione. È un uomo molto intelligente, un intellettuale, un poeta. Non credo di aver modificato il mio personaggio con lui. Io interpreto. Siccome credo di essere un attore quasi completo, quel che mi fa fare, faccio. La parte bisogna sentirla dentro, neH'animo, nello spirito, secondo quello che hai da fare. Un attore deve essere completo. Non deve saper fare solo una cosa. Non crede che sia così?

(A proposito di Pierpaolo Pasolini)

I critici si scagliano contro il soggetto, contro la sceneggiatura, la regia, le luci, la fotografia: ma io ne esco sempre intatto. A me mi rispettano. Anche per questo i film brutti mi sono cari come gli altri. Ogni bacarozzo è sempre bello a sua madre, si dice a Napoli.

(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)

Certo, alla massa non può piacere, la massa va per divertirsi, va per ridere, quindi non vuol pensare, non vuole approfondire.

(A proposito del film 'Uccellacci e uccellini')

E me lo chiamano neorealismo. Altro che neo, è una atmosfera vecchia almeno quanto me, questa schifezza di odore è stato lo Chanel N. 5 di tutta la mia infanzia. Ci sono giorni che me lo sento ancora addosso, e allora mi riprende una paura e la smania di arraffare, arraffare contratti, buoni o cattivi, denaro, perché oggi mi vogliono, domani chi lo sa e io di un realismo cosi ne ho avuto a iosa! Quanto può durare il successo di uno come me? Noi vendiamo chiacchiere. Non è che abbiamo in mano qualcosa di concreto, che so, come un medico, un ingegnere, con la loro brava laurea incorniciata nello studio, che possono faticare all'infinito perché i malati ci saranno sempre e le case mica smettono di costruirle... Il pubblico è una bestia ingrata. Oggi sei sulla cresta dell’onda, ti porta alle stelle, qualsiasi puttanata fai lo diverti, poi magari domattina ti svegli ed è il gelo, non sei più niente, un pallone sgonfiato, e a chi fai ridere, chi ti conosce più? E allora non alzi più una lira. Eh, no, i soldi ci vogliono. I soldi sono necessari, eccome. Entrano ed escono. Bisogna avere soggezione dei soldi. Trattarli con rispetto, non sputarci sopra, altroché.

(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)

Da Capece ho cominciato a fare delle particine. Mi è servito moltissimo come apprendistato... perché ho imparato tante cose. Poi sono passato al varietà. Facevo delle macchiette e sono diventato una grande vedette; pigliavo delle paghe enormi; pensi che io nel '34-35 sono arrivato a prendere fino a mille lire per sera, a quell'epoca era tanto. Coi soldi mi piaceva vivere bene, alberghi, vestiti, sa... non si pagavano le tasse. Dilapidavo tutto. Difatti quando finiva la stagione, mi dovevo far dare l'anticipo per quella prossima, perché non avevo più una lira. Non solo a me, a tutti succedeva questa cosa.

Buster Keaton: a differenza di Charlot, Keaton non ha bisogno di fare niente per divertire. Basta che mostri la sua faccia straordinaria. È bellissima perché lascia trasparire una grande tristezza e non c'è risata che non nasca da una lacrima. Mi piace molto Buster Keaton, amo la sua magrezza inventiva, la genialità asciutta che elimina ogni frangia sentimentale. Mi ricordo di aver sentito parlare di una vecchia scenetta che faceva da bimbo: «Lo straccio umano». Il padre e gli altri attori se lo buttavano da un angolo all'altro del palcoscenico. Lo strusciavano per terra quasi fosse uno strofinaccio per pulire i pavimenti. O lo caricavano di pedate e di schiaffi, come in quel genere di pantomime da cui, anni appresso, nacquero dal cinema le prime comiche... Io mi sento a volte come quello straccio, che qualcuno scaraventa addosso a un altro per farlo ridere. Forse sarei stato il più profondamente muto dei comici muti, se Napoli non mi avesse dato una mano...

Petito e Pulcinella: per capire la grandezza di Petito basta guardare la sua creatura: quella maschera nera sul vestito bianchissimo, le movenze da damerino beffardo, le sentenze lapidarie, miste di ironia, di rancore represso e di rassegnazione. Chi ha inventato Pulcinella meriterebbe un monumento.

I critici mi rimproverano perché, secondo loro, faccio sempre le stesse cose. Non è vero. Sono passato dalla commedia dell'arte alla prosa, dal varietà al cinema, dalla poesia alla musica. Certo, rimango sempre Totò, perché non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.

La comicità è musica, nel senso che è basata sul «tempo». Sono la vocazione e il mestiere che portano l'attore a improvvisare scena per scena qualche parola. E io lo faccio ogni volta che posso, anche se è un rischio. In teatro è più facile e meno pericoloso perché la reazione immediata del pubblico suggerisce all'attore la giusta misura. Ma anche nel cinema, il più delle volte almeno, l'improvvisazione funziona.

E' pericoloso contemplare certi panorami alle due del pomeriggio. Tra promontori e insenature mi si è bloccata la digestione...

(A proposito di Sophia Loren)

Ho sempre lavorato molto, e ancora oggi - nonostante i disturbi alla vista - non mi risparmio. Anche quando potevo servirmi di un Galdieri in piena forma, gli sketch più sostanziosi li elaboravo pazientemente sino al momento in cui li sentivo «su misura»: come facevano, del resto, Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini. Ricordo che a Firenze, dopo dieci giorni di esauriti, fui riconfermato con un aumento di paga da settantacinque a duecento lire. Ero con la «Compagnia Maresca»: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perché il pubblico vedendomi rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti. La sera dopo, lo incontrai poco prima che si iniziasse lo spettacolo. «L'avevo pregata» mi disse «di non monopolizzare il palcoscenico quando non è di scena. È vero che lei, ieri sera, non si muoveva, ma soltanto teoricamente: perché anche stando fermo, era tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, faccia quello che le pare.»