Nascita del café-chantant in Italia: saloni, caffè e teatri
💃 Cafés-Chantants: l'altra Italia (quella col ventaglio e il pizzo nero)
🎭 Totò, Petrolini & Co.: Radici Comiche nel Sottosuolo del Varietà
Ah, l’Italia di fine Ottocento! Un paese che ancora non aveva la televisione, ma che aveva già capito tutto della spettacolarizzazione del nulla. Era l’epoca d’oro dei cafés-chantants, quei luoghi mitologici dove la borghesia cercava emozioni forti senza dover uscire dall’area urbana (e soprattutto senza abbandonare il cappello rigido).
Ce n’erano a decine, anzi a centinaia, da Nord a Sud: ogni città aveva il suo Apollo, il suo Eden, il suo Kursaal — roba che oggi suonerebbe come l’insegna di una pizzeria vintage o di un centro benessere con musica new age, ma che allora significava solo una cosa: il trionfo del varietà.
Il varietà, infatti, era la sintesi perfetta tra arte, scandalo e digestione post-cena. Niente moralismi, solo gambe al vento e comicità da caffè corretto al cognac.
🕯️ Dal Pulcinella alla Cavalieri: Evoluzione (con piume) del Teatro Popolare
Prima del boom del Salone Margherita, a Napoli andavano ancora forti le scenette da retrobottega, con Pulcinella che faceva il verso al re e Tartaglia che, come un Rocco Siffredi d'antan, balbettava con erotismo implicito.
Poi, all'improvviso, fu luce!
Nel 1890, i fratelli Marino inaugurarono il Salone Margherita: un paradiso sotterraneo a metà tra l'inferno dantesco e l'alcova imperiale, sotto la Galleria Umberto I. Posizione strategica: a due passi dal San Carlo e da Palazzo Reale, perché anche il re voleva vedere un po’ di paillettes senza troppo sforzo.
🌟 Sotto il Palco, Sovrani e Spettatori: La Magia del Parterre des Rois
La platea era divisa in due caste, ça va sans dire: davanti il "parterre des rois", i signori eleganti, le dame col ventaglio, e gli intenditori di cosce (artistiche, eh). Dietro, il popolo... quello che poteva permettersi solo un assaggio della grandeur senza mai assaporarne il caviale.
Sopra la scena, invece, si alternavano stelle internazionali che oggi avrebbero milioni di follower su Instagram: la Otéro, la Cavalieri, la De Mérode, la Tortayada… Nomini una e spunta un dramma. Una volta, la Fougère — romanzesca già nel nome — fece scalpore persino fuori scena. Ma si sa: a Napoli, anche un sospiro può diventare notizia da prima pagina.
🧨 Boom! Il Café-Chantant Conquista anche la Provincia
Ma attenzione! Non era solo un fenomeno da grandi città: ogni paesotto aveva il suo varietà, e talvolta persino più bollente di quelli metropolitani. Perché lì, lontano dai moralismi da salotto e dalle vedove reali, l’artista poteva sfogarsi, vivere, conquistare cuori, e magari finire nel letto (non per forza matrimoniale) di qualche commendatore arricchito col chinino.
La provincia italiana era un Eldorado per le chanteuses e le soubrettes: più passione, meno regole. Un paradiso carnale di accenti dialettali e palchetti di legno scricchiolante.
🕳️ Il Teatro? Un Buco Sotto la Città
Il Salone Margherita e l’Olimpia di Milano hanno pure un primato architettonico: i primi locali di spettacolo “sotterranei” in Italia. Il teatro, dunque, scende letteralmente di livello, ma non di qualità. Anzi: si avvicina metaforicamente all’inconscio collettivo, al lato oscuro e godereccio dell’animo borghese, che vuole ridere, piangere e… magari scivolare su una buccia di banana lanciata da Petrolini.
Storia del teatro "leggero" e i suoi personaggi, dal cafè-chantant al varietà, dall'avanspettacolo alla rivista
Contemporaneo, e forse antecedente al Salone Margherita, è il Circo delle Varietà, poi rimodernato e ingrandito: vi sono ospitati, oltre a grandi numeri d’oltralpe, le prime troupes esotiche, acrobati e giocolieri, “famiglie di colore”, attrazioni ciclistiche di fine secolo, fenomeni di fama mondiale in carattere col titolo del teatro, Circo delle Varietà.
Ad un livello inferiore sono l’Eden dei fratelli Resi, la Fenice dell’impresario Musella, il Teatro Umberto dell’ingegner Del Piano, consigliere comunale di Napoli. E, nei periodi estivi, giù a Santa Lucia, si apre sulle acque l’arioso accogliente Eldorado, che è contemporaneamente stabilimento balneare ed è gestito da una delle più popolari figure di esercenti d’ogni tempo: Gabriele Valenzano.
A Milano, al vecchio Stabilini, al vecchissimo Bottegone (che ricordano i fasti serali della scapigliatura, quando gli scapigliati andavano a fare baldoria cont i donnett de teater accettando compagni di tavolo non propriamente in guanti gialli), sopravvive, fino al primo decennio del Novecento, il famigeratissimo Morisetti, a Porta Venezia, confinante coi Giardini. Questo locale famoso ha una storia che in parte si riallaccia a quella delle giornate milanesi del Novantotto, alle barricate, alle cannonate, e alle fucilate di cui l’ingresso del teatrino, come tanta parte delle mura di corso Venezia per tanti anni portano il segno. Il Morisetti (locale e proprietario) visse tutte quelle giornate infauste: chiusi i battenti durante il periodo della “Operazione Bava-Beccaris”, appena abolito lo stato d’assedio, il Morisetti riapre le “porte insanguinate” (parole del titolare) per “tenere su il morale della cittadinanza” (sic) con del buon champagne della vecchia riserva. A codesta riserva di spumante Morisetti, si dà fondo grazie alle “signorine del locale”, ossia le artiste della quindicina, alle quali è fatto obbligo per contratto (i sindacati di categoria sono di là da venire) di trattenersi nel locale dopo lo spettacolo, per contribuire alla consumazione della riserva di spumante. L’antisala del teatrino, disposta a tabarin vent’anni prima della creazione del tabarin, è fornita di speciali lampadine colorate, le quali si accendono una dopo l’altra a mano a mano che una bottiglia è stappata. Le lampadine sono venticinque; e, quando si sono accese tutte, gli accessi al teatro da corso Venezia vengono sbarrati, per concedere maggiori libertà alla clientela del dopo teatro.
A ben diversi concetti si ispirano, in questi stessi anni, i veri teatri di varietà milanesi. L’Eden di piazza Cairoli è gestito dalla Società Suvini-Zerboni, e per essa dall’avveduto, geniale, autoritario, intelligentissimo Luigi Zerboni che col socio Emilio Suvini controlla otto teatri sugli undici della città, otto teatri di prosa, lirica, operetta, varietà. In un primo tempo, l’Eden è collegato, con un passaggio sotterraneo, al teatro Olimpia che sorge all’altro lato della piazza: è il tempo che nel sottosuolo dell’Eden si svolgono gare di pattinaggio, lo sport che col primo ciclismo (Ganna, Gaietti, ecc.) crea il primo pubblico di appassionati. Gare di pattinaggio nel sottosuolo, e spettacoli di caffè-concerto nella sala del teatro che, giusta la moda dei cafés-chantants parigini, è sistemata a posti distinti, con tavolini per le consumazioni durante lo spettacolo. Il servizio di consumazioni è praticato anche di giorno, durante le prove dei numeri nuovi o di quelli già in programma e attira una particolare categoria di spettatori.
Del San Martino, sul corso Vittorio Emanuele, ma al quale si accede in un primo tempo da via Pattari, è fondatore l’industriale Desiderio Pavoni. A lui succede presto il socio Bernardo Papa, poi proprietario del teatro Odeon. Bernardo Papa, fin da allora, vive una buona metà della sua esistenza a Parigi, dove ha casa e cavalli da corsa: al teatrino riserba ogni sua attività nel settore artistico che ben conosce e segue da vicino nella capitale francese. I programmi del San Martino brillano presto di luce propria, che non tarda ad attirare la élite di Milano, l’ufficialità del Terzo Savoia, l’alta borghesia, i soci dei Club con gli ospiti di passaggio, e i principi reali residenti a Milano. Il San Martino è il primo teatro italiano di varietà che tenta la rivista.
Terzo, è il vecchio Trianon, che nasce nei primi giorni del Novecento, dalle ceneri di un teatrino per marionette. Questo, a sua volta, aveva sostituito un antico Teatro Milanese, caro al ricordo di quanti videro i trionfi della commedia dialettale degli Sbodio e dei Carnaghi, sotterrata dal Ferravilla. Le sette lettere del nome Trianon brillano sul fronte della bizzarra costruzione in stile floreale. Il richiamo ai regali Livertissements di Versailles risulta efficacissimo; il Trianon si allinea subito con i maggiori cafés-chantants nazionali. Ha, in più, un Pavillon dorè, cioè un’appendice allo spettacolo, che dalla mezzanotte in poi si svolge nel piano sottostante alla sala del teatro, dove passano talune stelle di minore grandezza applaudite al piano di sopra. Il creatore del Trianon, per conto di una società romana che gestisce anche teatri nella capitale, è Achille Mauri. A lui è dovuta anche una trovata per allettare i clienti che scendono nel Pavillon. Sugli specchi attorno alle pareti un pittore improvvisa ogni sera ritratti e caricature di signore e signori presenti, grandi due o tre volte il vero. Questo diversivo costituisce spesso il numero più interessante dello spettacolo notturno. Il vecchio Trianon, che durante l’estate trasporta gli spettacoli in giardino, diventando il Trianon Giardino, adotterà in seguito, d’ordine superiore, il nome di Mediolanum. Oltre al varietà, ospita compagnie di prosa anche importanti e spettacoli di rivista. Ma il suo periodo migliore è quello del caffè-concerto, la cui direzione artistica è passata dal maggiore Raimondi ed Edoardo Indelicato (il secondo fra sette fratelli siciliani tutti teatranti dal primo all’ultimo), all’ingegner Guido Cellè, ad Arturo Boccassini con Alfredo Bracchi, il noto poeta e scrittore milanese, poi al solo Boccassini, patron espertissimo dell’ultimo Mediolanum, sacrificato poi alle esigenze del piano regolatore.
L’Orfeo di Roma, in un primo tempo Grande Orfeo, è tra i più antichi locali della capitale: divide, con il contemporaneo Concerto delle Varietà, il dominio dell’arte varia dagli ultimi anni dell’Ottocento ai primi del nostro secolo. Numeri italiani che un giorno faranno parlare di sé il mondo (si può leggere, in un manifesto del Concerto delle Varietà, in data 8 aprile 1894: “N. 1: orchestra; n. 2: orchestra; n. 3: Josefine (sic) Jager, cantante tedesca; n. 4: Signorina Lina Cavalieri, cantante italiana...”), si alternano a partecipazioni straniere più o meno autentiche.
I napoletani fratelli Marino, dei quali si è detto, gestiscono anche nella capitale un loro Salone Margherita, gemello del Margherita di Napoli, come il Mauri del milanese Trianon è già da vari anni proprietario e gestore del romano Apollo di via Nazionale. Compagna di questi è la fortunatissima Sala Umberto. I fondatori dei varietà intitolano ai Reali d’Italia dell’epoca, Margherita e Umberto, i migliori palcoscenici minori dell’Otto-Novecento.
La Sala Umberto, a pochi metri dal Corso, è il solo sopravvissuto dei teatri romani di varietà d’un tempo. Per quarant’anni è il dominio di Wolfango Cavaniglia, arcinoto negli ambienti teatrali col semplice nome di Wolfango. Il lungo, meritato successo del suo locale, oggi cinema, è dovuto a lui, alle sue personali e romanissime doti d’abilità e simpatia, alla sua conoscenza di uomini e cose d’ogni teatro, al suo fiuto proverbiale, alle sue relazioni infinite.
Ma due nomi romani vanno inseriti in questa piccola rassegna del varietà nostrano: oggi non sono che fra i lontani ricordi di un tempo, anche precedente a quello fin qui rievocato: l’antichissimo teatro Jovinelli, e l’altrettanto antico teatro Esedra. Sui manifesti, e sulle pagine della vecchia “Tribuna”, portano il nome di teatro, ma sono autentici cafés-chantants dell’epoca di Gabriele D’Annunzio chroniqueur mondano, di Carlo Rudinf, brillante figlio di papà Eccellenza, e di Trilussa delle prime favole. Lo Jovinelli prende il nome dal suo turbolento fondatore; l’Esedra, dalla piazza omonima, è creatura dell’impresario e direttore Cruciani, ed è il centro serale, fra l’altro, dei parlamentari ai giorni di Crispi, di Pelloux, del Marchese di Rudini: le promozioni cavalleresche del Cruciani si succedono di ministero in ministero, come di quindicina in quindicina i programmi sul minuscolo palco che ha per scena fissa un giardino.
Rassegna stampa
«Gazzetta di Mantova», 18 agosto 1960
Artisti e intellettuali insieme al "cafè chantant"
CAFFÈ’ E COSTUME La Belle Epoque francese ha visto nascere e diffondersi i locali che sono divenuti crocevia della bella gente. Van Gogh e Cezanne, Braquese Modigliani erano tutti frequentatori del “café chantant”
“Più lo mandi giù, più ti tira su" è uno slogan pubblicitario fra i più conosciuti, nonostante dati ormai parecchi anni da quando il compianto Nino Manfredi ha iniziato a delcamarlo dallo schermo, allora ancora in bianco e nero, della televisione di stato, esaltando i poteri di questa miscela calda, nera, pura.
Caffè, niente di più, e pensare che questa bevanda, entrata nella nostra quotidianità, fu al centro di accesi dibattiti religiosi prima di imporsi, affascinando artisti e uomini d’affari. Navigatori e mercanti nel 1640, diffusero a Venezia la notizia dell’apertura di locali dedicati alla degustazione di caffè, già al Cairo sul finire del secolo XVI, quindi in Siria e a Costantinopoli. Marsiglia, Vienna, Parigi, Londra e Lisbona ne seguirono l'esempio. In Italia vennero inaugurati il Caffè Pedrocchi di Padova, il Campari a Milano, Il Caffè Greco a Roma, il Gambrinus a Napoli.
Anche Pietro Verri esaltò le proprietà della tazzina di caffè: "Ravviva le attività intellettuali con la sua virtù risvegliativa degli spiriti animati”. Forse proprio per questo particolare potere della bevanda, i caffè, nel senso dei locali, divennero punto di ritrovo per politici, letterati, uomini d’affari. Il Caffè Florian di Venezia annovera tra i frequentatori i Gozzi, By-ron, Rousseau, Canova, Pellico. Sembra che Voltaire gustasse circa cinquanta tazzine di caffè al giorno, seduto al tavolo del parigino Procope. A Roma Goethe, Baudelaire, Leopardi, Keats si intrattenevano al Caffè Greco in Via Condotti.
Con la Belle Epoque, il caffè si fa spettacolo: nascono i "café chantant". Il primo si inaugura a Parigi nel 1750, vi si avvicendano cantanti e attori, specializzati in un genere ora comico, ora grottesco, satirico e sentimentale. Trionfano le folies, tra tavoli e tazzine si ballano il can can e il tango. Artisti di grande fama, del calibro di Vincent Van Gogh, George Braques, Cezanne e Modigliani, prendono a decorare tali locali. Il caffè chantant decade negli anni che seguono la prima guerra mondiale a favore di altri generi di spettacolo, si trasforma in cinematografo, arrivando a confondersi con il genere della rivista. “I caffè sono anche manifatture dello spirito, sia buone che cattive” si scrisse nell’enciclopedia, in pieno Illuminismo, forse può servire per recuperare il fascino di questa miscela, cuccagna del nuovo mondo.
Nella grande stagione del cinema western americano, il caffè, la cui preparazione veniva eseguita per bollitura, viene consumato al crepuscolo, davanti ad un fuoco acceso nella prateria quasi come fosse una liberazione, dopo una giornata di scorribande contro gli indiani. Il connubio John Ford -John Wayne lo dimostra piu’ volte.
Lo si consuma all'alba a Fort Apache (ne "I Cavalieri del Nord Ovest"), lo si consuma per smaltire una sbornia (in "Ombre Rosse"), lo si consuma semplicemente come bevanda in "Un Dollaro D'Onore", dove prende il posto del whisky; lo si consuma, ancora, per spegnere un falò, come accade in "Cowboy". Oppure in un altro grande classico, quale "Johnny Guitar", Sterling Hayden sembra realizzare il primo spot pubblicitario quando recita "Niente di meglio che una fumata ed una tazza di caffè". Al contrario di Kevin Costner ne fa merce di scambio in "Balla Coi Lupi".
Nella filmografia italiana, risalendo al neorealismo, si mette in luce la moka ottenendo, al contrario che nelle pellicole a-mericane, una bevanda corposa, profumata e consistente.
Testimonianze evidenti si hanno soprattutto nel dopoguerra con Totò in "Totò Terzo Uomo" in cui il principe De Curtis ordina un caffè corretto al cognac. In "Miseria e Nobiltà" si parla di “caffelatte senza caffè ...e senza latte”. In "La Banda degli Onesti" c’è un'intera scena dedicata al caffè; ne "I Tartassati" con Totò che sostiene "Prendo tre caffè alla volta per risparmiare due mance".
La tazzina domina ancora la scena in "Sua Eccellenza si fermò a mangiare", "Toto, Peppino e la dolce vita", "Guardie e Ladri", in cui il protagonista sorseggia il caffè direttamente dalla moka e ne "I Due Marescialli", nel quale ne contesta alla cameriera il sapore.
«Tribuna Novarese», 28 gennaio 2008
Riferimenti e bibliografie:
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
- "Café-Chantant" 1900-1928 - "Varietà" 1929-1932
- Bibliothéque Nationale de France - www.gallica.bnf.fr
- «Gazzetta di Mantova», 18 agosto 1960
- «Tribuna Novarese», 28 gennaio 2008
- «Comoedia», agosto 1934 - Il fratello minore
- «Il Dramma», 1 settembre 1936 - Caffè Concerto fine 800, di Luciano Molinari - Parte 1
- «Il Dramma», 15 settembre 1936 - Caffè Concerto fine 800, di Luciano Molinari - Parte 2