La guerra sulla gente che voleva ridere - Totò ricercato dai tedeschi
Il fascismo dedicò sempre molta attenzione al teatro. Di proclami epocali per il sostegno o la rinascita del teatro italiano sono pieni gli atti dei governi presieduti da Mussolini. E oltre a inventare il celebre sabato fascista (sarebbe a dire, ricordiamolo ancora, che gli italiani al sabato non dovevano lavorare ma dedicarsi alla cura del corpo e dell’anima, anche frequentando i teatri a prezzi scontati), il regime introdusse presto una struttura governativa, l’Ispettorato del teatro, che doveva provvedere a sovvenzionare le attività teatrali. Gli investimenti furono ingenti e non fatti solo a scopo benefico o per amore dell’arte: l’apertura o la chiusura di linee di credito alle compagnie, agli autori e ai capocomici significava anche governare lo sviluppo e, più ancora, le scelte artistiche e di repertorio. In un certo senso, l’intervento economico pubblico nel teatro ebbe più peso, nell’indirizzario verso l’ideologia e la propaganda fascista, di quanto non ne ebbe la censura in senso stretto.
Il Varietà e l’Avanspettacolo, per legge, non ebbero mai sovvenzioni pubbliche né furono ammessi a beneficiare della mobilitazione generale del sabato fascista. Nel caso della Rivista, il trattamento era più elastico: avere in compagnia un divo della prosa, per esempio, era garanzia di sovvenzione pubblica. Questa circostanza ha fatto sì che il Varietà e l’Avanspettacolo abbiano risentito solo marginalmente del complesso clima propagandistico imposto dal regime al teatro: ogni sforzo per fascistizzare questi spettacoli ricadeva solo sull’operato del censore.
Durante la guerra alcuni avvenimenti modificarono questa situazione consolidata. Intanto, il pubblico preferiva ridere: di drammi ne viveva già abbastanza nella vita reale per accettare di conoscerne altri dalla platea. Sicché l’Avanspettacolo e la Rivista, nel 1942, risultarono essere i generi teatrali più frequentati dagli italiani mentre nei due decenni precedenti erano sempre stati dietro alla prosa e alla lirica. Inoltre, la prosa si trovava a non poter disporre di un repertorio sufficiente per garantire un’offerta degna: erano ovviamente vietati testi (anche antichi) provenienti da ciascuno dei paesi nemici, mentre i maggiori drammaturghi, da Bracco a Benelli a Lopez, erano per vari motivi osteggiati dal regime. Quindi, concretamente, a parte le ennesime riproposizioni di classici italiani, greci e latini (oppure shakespeariani, essendo Shakespeare l’unico autore di un paese nemico ufficialmente consentito), le compagnie erano a corto di testi drammatici. Infine la produzione cinematografica era praticamente ferma, per mancanza di fondi, e dunque molti attori assai popolari della prosa e del cinema si rivolsero alle compagnie comiche per essere scritturati ed evitare la disoccupazione.
Queste le ragioni dell’irresistibile successo, durante la guerra, dell’Avanspettacolo e della Rivista. Che disponevano di buoni autori abituati a sfornare copioni a getto continuo; che potevano contare sull’innesto di divi cinematografici e cantanti di successo; che andavano incontro al bisogno di evasione del pubblico; che non costavano allo Stato il quale, malgrado l’apparente ostilità, vedeva di buono occhio la diminuzione degli spettacoli di prosa e l’aumento di quelli comici.
In questo contesto, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1945 un singolare problema si inserì fra i mille, assai più drammatici che accompagnarono la difficile transizione dell’Italia dal fascismo alla libertà: ossia la necessità di convincere i comici più amati a recitare nel territorio della Repubblica sociale. Questa necessità era dettata sia dal bisogno di comunicare al pubblico del Nord Italia i segni di un’apparente normalità, sia dalla voglia di usare i comici come strumenti di propaganda più o meno inconsapevoli. A questo fine le autorità tedesche, prima della liberazione della Capitale da parte degli americani, studiarono un piano dettagliato per rapire alcuni attori di fama, residenti a Roma, e trasferirli al Nord. La vicenda è raccontata anche da Peppino De Filippo con la sua solita, amabile vanità.
«Eravamo nel 1944 quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l’avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al Teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente non si sa come, perché e da chi, Totò avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere “prelevati” e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci. Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica ai Parioli.Totò ne venne a conoscenza. In quella bella e accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni. L’eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio non mi faceva dormire sonni tranquilli. Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c’era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di “raccomandazione”. Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo “bigliettino”. Su questo era scritto: “Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo autografo, il mio gliel’ho dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala. Antonio”. “Antonio” era semplicemente Totò».
[...] L’ambiguità del racconto di Peppino De Filippo è quella che vorremmo desse il segno alla strada che si è fatta. Perché oltre le carte bollate e i timbri, oltre i segni a matita rossa e le firme, la storia dei comici si è sempre riflessa in modo ambiguo in quella del loro pubblico. E ciò che di falso e fantastico è stato vero per gli uni, alla fine è risultato vero anche per gli altri: adesso c’è la televisione a certificare la verità ma a quell’epoca c’erano solo i comici. Contro questa egemonia il fascismo si è sempre battuto: se abbia davvero perduto o no la sua battaglia (e perché), lo dirà ognuno nelle sue considerazioni personali alla fine di tutto quanto abbiamo rievocato in queste pagine. Si può solo suggerire di tenere bene a mente che, visto l’ostacolo, il regime tentò di aggirarlo affidandosi al cinema: la mediazione dello schermo consentiva raggiri che le smorfie dei comici non potevano garantire. Eppure...
E non è un caso che proprio nel momento più drammatico della contesa, il pubblico mostrò di preferire i comici. La gente vuole ridere: questa, anche, era l’Italia fascista sotto la guerra. Un paese ambiguo e incoerente, capace di mutare faccia e identità dalla sera a mattina. Capace di rinnegare il fascismo dopo averlo servito per anni. Capace di saltare i pasti per accantonare i soldi necessari a comprare lo sberleffo vano di un comico. Capace di ridere sotto alle bombe, capace di inventare storie magnifiche mentre fuori infuria la peste.
Roma, 1998/1999
"Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista", Nicola Fano, Liberal Libri, Firenze 1999