Le memorie di Mistinguett sono una lettera d'amore
“Quando penso a Maurice Chevalier” ha detto la vecchia attrice che ha ormai ottantasei anni “provo ancora una stretta al cuore. Allora mi odio, mi odio perché sono invecchiata”
Parigi, maggio
Più che un salotto, pareva una camera ardente. Le persiane erano abbassate e una tenda scura sbarrava la luce dell'unica finestra. Mistinguett era allungata su un divano-letto, le mani congiunte sul seno, la testa affondata in un grande cuscino di seta. Indossava una vestaglia a fiori d’oro, lunghissima. Le mani erano cariche di brillanti grossi come chicchi d’uva. (Troppi, per le undici del mattino.) «Prenda una sedia » disse. In quel momento entrò una ragazza di vent’anni, o giù di li, vestita di chiaro. Mistinguett, muovendo impercettibilmente le labbra, disse: « Mia nipote ». La ragazza sedette ai del letto, tenendo sulle ginocchia un libro dalla copertina lucida. Io lessi il titolo con una certa difficoltà: Toute ma vie. Era il libro di memorie scritto da Mistinguett.
L’aria era pesante, come se da anni non si aprisse più la finestra: odorava di vecchi vestiti, di vecchi profumi, di vecchi libri. Le mensole erano piene di «pose» sorridenti e fatali: Mistinguett a Montecarlo, Mistinguett a Pietroburgo, Mistinguett a Madrid. In ogni ritratto aveva una collana di perle lunga parecchi metri, mezzo chilo di piume sulla testa, e almeno una gamba scoperta fino all’appendice. Gli occhi erano naturalmente iniettati di quella voluttà assassina, di cui si invaghirono, non si capisce bene perché, i monarchi «fin de siède».
«Interviste, ancora interviste» disse Mistinguett con un lungo sospiro «quando mai sarete sazi di me?» Non avevo ancora aperto bocca. Mistinguett alzò finalmente un braccio, sfilò una rosa da un vaso che era sul tappeto, e la portò alle labbra. «La prima intervista che ricordo» continuò «mi fu chiesta da un giovane magro e biondo, si chiamava Jean Cocteau. Dicono che poi si è fatto un nome. Quella sera, nel camerino dell'Eldorado, mi portò un mazzetto di violette. Era bellissimo, ma distante... A proposito, ha letto quello che dico di lui, nel mio libro? Trova un po’ La pagina, chérie.» La ragazza, ai piedi del letto, con un gesto meccanico, accese una fievolissima lampada da cinque candele. Ma Mistinguett si portò le mani agli occhi, con un gesto doloroso: «Mia cara» sospirò «non puoi leggère senza questo sfarzo di luce? Lo sai che mi fa male agli occhi!». La ragazza spense l'interruttore. La stanza tornò buia. Dal boulevard dea Ca~ putirne* giungevano, attutiti, i suoni dei clacson. La nipote lesse la pagina delle memorie che riguardava Cocteau. Suppongo che la sapesse a memoria, perché nessuno avrebbe potuto leggere in quella stanza, «Cocteau»> disse «è un imbianchino. Egli saie su una scala, il pennello nella mano destra e il barattolo della vernice nella sinistra. Infila il pennello nel barattolo, ed è una meraviglia. Solo che non c'è vernice nel barattolo né il muro sotto la scala.»
L’atmosfera era penosa. Mistinguett respirava con un leggero affanno, muoveva dolcemente le mani: un po’ per abitudine, un po' per mettere in mostra gli anelli. Le feci una domanda a caso, una domanda piuttosto banale: «Perché si è messa a scrivere le sue memorie?». Mistinguett pensò qualche istante, come se la risposta, da tempo preparata, non le venisse tempestivamente:
«Sono anni» disse «che tutti mi chiedono le mie memorie. Ho sempre rifiutato, perché un libro del genere si scrive solo quando la vita è alla fine... ma la mia vita, oh, la mia vita, io la ricomincio | ogni giorno. Morirò quando dovrò morire. Ma per il momento non sono ancora morta... Certe volte, anzi, penso e che non morirò mai... Non sente, signore, come fa caldo nel giardino?»
La ragazza mi guardò, come per supplicarmi di non dire nulla, di lasciare Mistinguett nella sua illusione di caldi giardini. Era sempre distesa sul divano, con la rosa rossa posata sulle labbra. «I treni» disse «non li prendo più. Mi annoiano. I treni di oggi sono pieni di gente volgare. Non restano che gli aerei. Ma mi fanno paura.»
Ormai parlava per conto suo, le sue espressioni non avevano più alcun legame con la realtà. Ogni tanto diceva alla nipote: «Leggi, chérie, leggi». E la ragazza sfogliava il libro di memorie. «Lei non sa» disse a un tratto Mistinguett «non sa com’è diffìcile far diventare più grande il proprio nome sulle affiches. Quando debuttai al Trianon guadagnavo tre franchi a sera, e alla fine dello spettacolo prendevo il treno per rientrare a casa mia, a Enghien. Però era troppo faticoso, e cosi affittai una camera in rue Condorcet.»
«Zia» precisò la ragazza «la tua camera era a boulevard de Clicky.» Mistinguett continuò come se l’altra non avesse parlato.
«La mia camera» disse «era un rifugio per sbandati. Ci venivano tutti i ballerini che non avevano soldi per pagarsi l’albergo. La mattina, per preparare la colazione, rubavano tutte le bottiglie di latte davanti alle porte. Avrebbero rubato non so che cosa per farmi piacere. Era una “banda” di ragazzi simpatici. Però non hanno avuto fortuna. Uno ha fatto delle stupidaggini, qualche anno dopo, ed è finito sotto la ghigliottina. Si chiamava Bébert.»
«Lei ha un’idea» disse Mistinguett «di quello che era Chez Maxim’s verso il 1900?» Io risposi che non ne avevo un’idea precisa. «Chez Maxtm’s» continuò Mistinguett, con la sua voce d’oltretomba «era il luogo d’appuntamento “du monde et surtout du demi-monde". Le “professioniste”, non si distinguevano dalle “signore per bene”. Solo mettevano un po’ più di rosso sulle guance e sulle labbra. Però bisogna dire che avevano, in generale, la "taillé plus fine". Certe volte la Bella Otero, gioielleria ambulante, saliva su un tavolo e ballava la jota. Venivano da ogni parte del mondo, per vedere queste belle signore. Alcune hanno sposato un buon partito, come Liane de Pougy, che è diventata principessa Ghika. Altre, come Emilienne d’Alencon, si sono contentate di un marito fantino.»
Dalla finestra filtrava una luce tenuissima, che bastava a mettere in risalto il pallore di Mistinguett. Immobile nella sua vestaglia dorata, ispirava paura e timore, come una mummia egiziana. Nei suoi racconti, fantasia e realtà, verità e follia si alternavano in maniera sconcertante. A un certo punto si mise a parlare di tramonti, del Bosforo e dei Luna Park, senza alcuna giustificazione plausibile.
I re della sua vita
«Feydeau» disse a un tratto «era un uomo straordinario. Nessuno mi ha fatto mai ridere più di lui. Si figuri che una volta parlava con un signore notoriamente cor-nord, il quale diceva che il suo figlioletto “era sempre sotto le gonne della madre”. Allora Feydeau lo interruppe: “Stia tranquillo, si farà delle relazioni”.»
Mistinguett emise una risata stridula, premendosi il petto con le mani. Io calcolai che, secondo le cronache, non doveva avere meno di ottantasei anni. «Caro signore» diceva ogni tanto «la mia vita comincia ogni giorno. E se mi va bene un certo progetto, è probabile che faccia una tournée in Inghilterra.»
Poi infilò il racconto dei “re della sua vita”. «Ogni volta che incontravo Edoardo VII» disse «mostrava una immensa simpatia e un profondo interesse per tutto quello chi facevo. Qualche sua frase, me la ricordo ancora: "Parigi" disse un giorno "è" nata da una sfumatura. Il resto, non l’ho ancora capito".»
Il tempo passava. Mistinguett seguitava a parlarmi dei suoi re, ma in realtà si capiva chiaramente che di un solo uomo le premeva parlare, son homme, come lei lo chiama : Maurice Chevalier. Chevalier e Mistinguett si incontrarono nel 1904, al tempo della guerra russo-giapponese. Chevalier aveva vent’anni quando si presentò, con la sua aria timida e riservata nel camerino di Mistinguet all’ Eldorado.
«Voi siete Maurice Chevalier?» disse lei, truccando; davanti allo specchio. «Ebbene, continuate.»
Qualche tempo dopo lo rivide in un cabaret di Montmartre, ed è sicuro che ne riportò una forte impressione. I! modo di cantare di Chevalier era nuovo, i suoi goti erano precisi e n suo sorriso felice. Vestiva in un modo louchant: un paio di pantaloni da marinaio, una giacca a quadri e una paglietta. «Fui io a ingaggiare Maurice alle Folies Bergère» disse Mistinguett. «Il direttore dello spettacolo decise che ballassimo insieme la Valse renversante, che allora era di moda. Quel ballo decise del la nostra vita. Presi dalla frenesia" della musica, rovesciavamo per terra sedie e tavolini, e alla fine rotolavamo sul tappeto, allacciati l’uno all’altro.»
Mistinguett si schiari la gola «Questa scena» continuò «la ripetemmo cento volte. Non dimenticherò mai l'odore della polvere, il cattivo profumo delle ballerine. I nostri
occhi si legarono nell’ombra, i nostri corpi palpitarono di gioia... Fu il nostro primo bacio».
Mistinguett teneva gli occhi chiusi, le sue labbra avevano un tremito continuo. «Io non so» disse «che ragioni abbia avuto Maurice di avvilire, di distruggere il nostro amore nel libro di memorie che ha scritto. Non capisco perché abbia voluto “giustificarlo’’ di fronte al pubblico. Forse che gli amori si giustificano? Non è meglio ricordarli soltanto?»
Affettuoso rimprovero
In quel momento capii il senso che avevano le memorie di Mistinguett. Sono una lettera d'amore, l’ultima, che lei scrive all'uomo della sua vita. Sono un rimprovero, un affettuoso rimprovero di una amante delusa, per chi non ha saputo rispettare le regole del gioco.
«Io non voglio pensar male di Maurice» coninuò «ma credo che mi abbia fatto del male. Io l'ho amato perdutamente, e lui, più tardi, lasciandomi, mi ha obbligato a cercare l'amore attraverso il pubblico. Egli mi ha fabbricato tutti i falsi ricordi della terra. Ma di questo non gliene voglio: sono i miei migliori ricordi.»
Adesso parlava con una certa difficoltà; era incapace di seguire il filo del discorso. Disse: «Perché bacia la Patachou ( una cantante che va di moda oggi) in piena avenue dea Champs Elisées? Crede che mi faccia piacere?» Certo, soffriva. Però ne aveva bisogno. Non aveva altro modo di sentirsi viva.
«Quando penso a lui» disse ancora «provo una stretta al cuore... Allora mi odio, mi odio perché sono invecchiata... Dio, la testa mi gira, lo stomaco mi fa male!...»
Era tardi, Mistinguett pregò la nipote di accompagnarmi. Sul boulevard des Capucine il sole faceva male agli occhi.
Nantes Salvalaggio, «Epoca», anno V, n.188, 9 maggio 1954
Nantes Salvalaggio, «Epoca», anno V, n.188, 9 maggio 1954 |