Dietro le quinte del varietà - Il debutto di Ettore Petrolini
Il teatro a ferro di cavallo — questa fatale calamita — mi attraeva irresistibilmente. E, sotto questa azione, all’età di quindici anni mossi il primo passo verso l'arte, recandomi dall’agente teatrale Giulio Fabi. Il quale, senz'altro, mi giudicò uno scemo, e mi disse: “Portami quattro scudi di mediazione e ti mando subito nella compagnia di Angelo Tabanelli (detto il Panzone) che agisce a Campagnano (presso Roma). Misi in costernazione mia madre; ottenni i quattro scudi, li versai al Fabi e, da esordiente da nido, munito di una trentina di lire e di un vecchio baule di famiglia pieno di cosucce linde e pinte, senza pretensioni, partii in diligenza per Campagnano.
Il teatro di Campagnano era un vecchio granaio municipale ove, la sera stessa dell’arrivo, debuttai con la macchietta: Il bell’Arturo. Al refrain, misi un piede sull’estremità di una tavola dell'improvvisato palcoscenico, fatto di tavolacce male inchiodate e che posavano su due cavalletti. Il mio peso fece sollevare una tavola e andai a finire di sotto con una elegantissima lussazione a un piede.
Il pubblico, regolarmente, si divertì un mondo e chiese il bis, mentre io piangevo dal dolore e dalla rabbia.
Fu l’inizio del mio destino. Mi accorsi che ero veramente votato all'arte comica.
Ogni sera Angelo Tabanelli portava i comici — otto o dieci — a mangiare all’osteria di Panzaliscia e pagava per tutti, tranne che per me. Io pagavo il mio conto; ma, essendo rimasto con tre lirette in tasca, mi misi a pensare: “Ho fatto un buon successo; sono vestito meglio di tutti: perché non mi parla mai della paga? Forse vorrà darmi qualche cosa in più di quel che dà agli altri e aspetterà il momento in cui rimarremo a quattr'occhi, per non mortificare i miei compagni...".
Senonché agli sgoccioli delle tre lire, mi alleonai ed affrontai il capocomico con molta disinvoltura: “A me, poi, quanno me paga?”
Er sor Angelo, con gli occhi strabici, ringhiò: “Pagaaare?!! Pagare cosa? Ma che sei scemo? Ma chi t’ha cercato? Ma non vedi che qui non si va avanti? Io non ho più soldi!!! Anzi, contavo su te!”
E, cosi dicendo, tirò fuori quella indimenticabile cartolina che precedette ed annunziò l’arrivo a Campagnano di Ettore Loris, primo ed unico mio nome di battaglia: “Carissimo Tabanelli, tra qualche giorno arriverà il comico Ettore Loris, un fa-naticone per lavorare sul teatro. Per quello che ti costerà, lo puoi pure scritturare. Xon solo non gli darai nulla, ma all’occasione (che certamente non ti mancherà) potrà anche dare un aiuto alla Compagnia, perché figlio di gente che ha qualche soldarello. Ricordati di me. Voglimi bene. Tuo
Giulio Fabi.”
Il sor Angelo mi lesse questo giulebbino di cartolina con la voce acida. Poi mi guardò — per la prima volta da che ero in compagnia — con gli occhi laschi ed aggiunse seriamente: “Anzi, io avevo pensato di pregarti di scrivere o telegrafare a casa tua per avere un centinaio di lire che t’avrei restituite a Nepi, la nuova piazza, dove faremo certamente affaroni.”
Io non sapevo se ridere, piangere, chiamare aiuto, o prenderlo a sganassoni. Invece non dissi nulla, perché mi venne come una paralisi alla lingua!
Giuro che avrei rubato o fatto di peggio per fornire le cento lire al Tabanelli, se almeno mi avesse esposto le cose diversamente, se si fosse rammentato che io ero un comico, o se avesse capito che io mi illudevo di esserlo. Ma la nessuna considerazione per il mio entusiasmo al palcoscenico creò l’irreparabile tra me e lui.
Me ne tornai verso casa e, inaspettatamente, trovai un compagno nel duolo. Era un pezzo grosso della Compagnia! Sosteneva la maschera del Pulcinella nelle farse; si chiamava Totonno Lombardo (attualmente fa il cachet cinematografico); deve avere una settantina d’anni. È una figura di uomo che mi è rimasta sempre impressa. Quando mi è dato d’incon-trarlo m’intrattengo con lui molto volentieri; bonariamente mi dice: “Te ricuordi il bel Cocò?” ed io me ne compiaccio. Qualche volta vado a trovarlo perché è una delle poche persone sane che io abbia conosciuto.
Totonno mi disse: “Siente, Etturu! Io nun me fido cchiu ’e sta int’a 'sta fetente cumpagnia. Jammuncenne a Roma a piede, e bona notte!”
Adorabile ed indimenticabile Pulcinella!
Cosi si fece. Misi il baule sotto assegno sulla diligenza, e via da Campagnano a Roma.
Strada facendo, Totonno mi parlava di Pulcinelli celebri: Cammarano, Petito, De Martino, e del piccolo teatro Merca-dante a Foria. Io soffrivo le pene dell’in-ferno perché avevo un paio di scarpe di pelle lucida, piuttosto strettine e non adatte, certamente, per quella... passeggiata. Provai a levarmele, ma fu peggio: perché la strada non era levigata e io non ero abituato a camminare scalzo. A quell’epoca, Vaselli non esisteva: ed io avevo l’impressione di camminare sopra l’ossi de persiche. Però dovetti rinfilarmi le scarpe dopo un chilometro a piedi nudi. Quale inquisizione!
Non fiatai più fino a Roma.
Appena a casa, piombai a letto, stanco morto. Le mie sorelle m’interrogarono, mi supplicarono. Ma io non capivo nulla. Mi aveva preso il solito febbrone da cavallo col delirio dell'uomo. E nel delirio non vedevo che l'agente Fabi il quale, al momento di partire, mi aveva detto: “Tu farai molta strada!”
Infatti avevo mantenuto la promessa. Lo testimoniavano i miei piedi ch’erano diventati come quelli della statua di Ruggero il Normanno.
Durante la notte, sognai il Fabi in uno strano modo: me Vero messo fra li denti e me lo masticavo addirittura!
E cosi, dopo una dormita di dieci ore, con le scarpe di mio padre — quelle della festa — mi precipitai in piazza dei Cinquecento, al concerto Gambrinus dove il Fabi funzionava da tirasti: e mi gli scaraventai addosso come un ossesso.
Il Fabi ebbe un lampo di genio. All’inizio del tafferuglio, mi disse due magiche parole: “Debutterai qui!”
Quelle due parole furono per me un balsamo ed una doccia fredda. Mi calmai; ma, diffidente e non del tutto convinto, volli che me le ripetesse. “Si, si: debutterai qui al Gambrinus come buffo-macchiettista. Ti farò dare sei lire per sera con la mediazione del dieci per cento a me. Sei contento del contratto?”
“E quanti giorni farò?”
“Dieci giorni. E, se vai benino, ti riconfermerò per altri cinque giorni. Sei contento?”
Altro che contento! Debuttare a Roma! Al Gambrinus! Il Gambrinus (ora demolito) era una specie di chalet avanti alla Stazione di Termini. Locale di ter-z’ordine, ma, per me, di primissimo ordine. Per me era la Scala, il Teatro Reale dell’Opera, il Colosseo... Era tutto!
Vi rimasi tre mesi. Solamente, il Fabi mi fece comprendere che, trattandosi di una lunga stagione a Roma, dove avevo la famiglia e perciò meno spese, era ragionevole una riduzione di paga. Mi offri quattro lire serali, aggiungendo che il signor Stern, proprietario del teatro, si sarebbe comportato gentilmente con me. Io accettai con entusiasmo. (E quando non avevo entusiasmo in quel tempo). Il signor Stern, la domenica — nelle doppie rappresentazioni — tra uno spettacolo e l’altro, mandava in camerino il portaceste a domandarmi se desideravo un caffè o un gelato. Io prendevo il gelato perché poi, lo offrivo alle canzonettiste. Cosi mi avvidi anche che, decisamente, ero votato ad essere gentile con le sciantose.
Due giorni prima di terminare il mio contratto, il signor Stern mi accordò una serata d'onore: in quell’occasione eseguii un duetto con Diana Paoli, la stella del programma. Applausi, bis, ed una medaglietta di argento dorato con la scritta: “La direzione della Birreria Gambrinus a Petrolini”.
Si, Petrolini. Perché al Gambrinus volli debuttare con il mio vero nome. Gongolavo dalla gioia. E in casa, presso la mia famiglia, faceva compassione a tutti!
Un mio zio, persona integerrima, morale e di buona lega — di quelli che non derogano e dicono sempre: a prescindere, ovvio, effimero, ecc. — dichiarò a mia madre che avrebbe preferito vedermi in un riformatorio (difatti più tardi ci andai) piuttosto che al Gambrinus, buffo di caffè-concerto!
Io, invece, ilare e giulivo, giravo tutta Roma per mostrare la medaglietta della serata d’onore... È cosi difficile avere l’onore, almeno per una serata.
Finiti i miei impegni al Gambrinus, mi sentivo talmente maturo ed esperto della vita teatrale, che cominciai subito a parlare di formare una compagnia stabile e movibile di arte varia.
Anche in questa presunzione sono stato un precursore.
Ettore Petrolini
Non esitiamo a richiamare l’attenzione dei nostri lettori su questo eccezionalissimo artista che da vari anni delizia i pubblici d’Italia. Petrolini è nato dal Caffè-Concerto e del Caffè-Concerto è il dominatore. Ma la sua arte è molto più in alto. In questi ultimi tempi le sue creazioni, e sarebbe più esatto dire le sue scoperte, hanno raggiunto una potenza smisurata.
Un nuovo elemento è stato portato da Ettore Petrolini nel Teatro: il grottesco su cui egli raggiunge altitudini supreme. La maggioranza dei nostri pubblici incatenata da una comicità continuamente rinnovata ed imprevista, percepisce soltanto, diremo cosi, le linee più buffonesche o più salaci della sua arte critica. Abituata a considerare il teatro di varietà con indulgente compatimento non ha ancora accordato a Petrolini una soverchia attenzione. Ebbene noi — dopo di avere assiduamente seguito il ciclo di rappresentazioni svoltesi in questi giorni al Filodrammatici di Milano — non esitiamo a proclamare Petrolini il più grande artista italiano contemporaneo.
Massimo Bontempelli
Petrolini, fino e lungo, si ripresenta da solo alla fine della serata, con un trotterello da scemo; si ferma sul palcoscenico, stende nell'aria le mani in fuori all’altezza delle spalle, e, cosi, fermo e impassibile come un pinguino, comincia a rovesciare la filastrocca delle idiozie su tutta una platea di faccie che si divertono. C’è della gente, più tardi, che fa le boccucce: “ma questa non è arte, non è umorismo, non è neppure buffoneria: è appena volgarità”.
Ma qualcun altro, forse per progetto afferma proprio l’opposto. Un critico vago va persino raccontando che c’è in Italia un letterato di buon nome che, di recente, ha infilato in libreria il testo che raccoglie il fior fiore delle facezie petroliniane, tra un “Ariosto” e un testo che non si sa. Segni, anche questi, dei tempi (Caro Baldini).
Diceva Flaubert — salv’errore — che ogni artista di teatro oltre al valore teatrale, ha un significato letterario e sociale. E quanto a Petrolini, è certo che egli ha ormai il suo posto, non solo alla luce elettrica della ribalta, ma anche al solicello della patria letteratura.
Più di cinque anni fa, in una rassegna di poesia moderna — proprio nella “Voce” “Nerone”. di Firenze — m’avvenne di ricordare Petrolini, tra Palazzeschi e Govoni: e quello, anzi, fu l'unico avvenimento letterario di cui, poi, non mi dovessi pentire. Cosi, più tardi, senza meraviglia, ho potuto vedere Petrolini entrare ufficialmente nella gaia schiera dei futuristi: recitare produzioni di loro: esser ricordato con onori, nelle loro illuminazioni critiche e nelle esegesi.
Insomma, queste cose difficili per un così facile uomo come Petrolini!
Perché il segreto di Petrolini, come tutti i grandi segreti, è stato assai semplice.
Petrolini ha avuto il coraggio di essere idiota; apertamente, liberamente e allegramente idiota; più idiota che poteva. E c’era in realtà — e forse c’è ancora — tutta una letteratura che tende segretamente all'idiozia, quasi per suprema aspirazione, senza tuttavia avere il coraggio delle ultime risoluzioni. Petrolini invece, questo coraggio, l’ha avuto; e, per ciò, egli ha potuto in realtà rimanere come un modello e un maestro, tra quelli che forse credevano di nobilitarlo accogliendolo come compagno. È invece ancora lui, che può insegnare agli altri!
Volendo alzare il tono, potremmo dire che Petrolini rappresenta un momento dell’umorismo: forse l’ultimo estremo momento.
— Lasciatemi divertire! — domanda, solo, Palazzeschi.
Altri, più mediocremente, e incapaci forse di chiarire a se stessi il male di cui soffrono, vi si assuefanno e si limitano a dedurne un qualche effetto di letteratura.
È impossibile capire spiritualmente il futurismo senza tener conto dell’idiozia umana: e soprattutto del senso umoristico che l’uomo, abbandonato a sé e sul punto di perdersi, riesce ad avere dalla sua propria idiozia. E d'altronde, in alcune più mobili e consumate intelligenze moderne, non c’è oggi la tendenza a considerare con serietà, e quasi con apprensione lirica e tragica, le cose e gli aspetti più elementari, più poveri, più decaduti della vita?
Il balbettio di un pazzo, la nenia di un bimbo, la combinazione causale di tre colori di affiches, l’elementarità di quattro freghi osceni su un muro, più di una volta ci hanno turbato col dubbio di una impressione d’arte, o di una superiore attestazione di intelligenza. Dalla testa di un idiota ci è sembrato che dovesse, a ogni momento, scaturire una sorgente di riso. Le facezie di un pazzo, o il riso bianco di uno scemo, hanno attratto la nostra attenzione con la stessa intensità lirica delle massime di Epitteto. Un po’ alla volta noi abbiamo imparato a ridere giustamente delie cose più sceme; col sottinteso, quasi con l’ammiccamento, di una intelligenza più alta e lontana. Niente ci è sembrato cosi irresistibilmente spiritoso, quanto i segni della più integrale imbecillità.
E allora battiamo pure le mani a Petrolini, poeta e interprete insuperabile.
Petrolini ha tutta l’aria di avere un’esatta coscienza critica della sua posizione. Tutte le vecchie e più scadute risorse buffonesche di un comico, che gli venivano dalla stessa tradizione dell’arte sua, egli le ha sapute riprendere e rinnovare, stilizzandole in un senso di completa cretineria. Invece di accentuarne e sfruttarne ancora il lato spiritoso, egli, per primo, ha saputo rilevarne e renderne solo l’aspetto cretino. Ed è stato, in ciò, conseguente e geniale fino all’estremo. I tre o quattro numeri più veramente personali del suo programma fanno di lui un maestro e quasi un profeta. Tutta la creazione dei salamini; le filastrocche dei s’io fossi; gli infiniti interrogativi dei t’ha piaciato?; sono pagine del vangelo di una religione che era nell’aria. E l’interpretazione di Amleto o di altri eroi apre al senso umoristico del cretino orizzonti critici non previsti.
Ma Petrolini, da gran signore, non ci bada; si ripresenta ogni sera alla ribalta, stringe occhi e bocca, con ermetismo sornione, allunga in fuori la testa, come per una suprema degustazione dell'imbecillità e ricomincia la filastrocca.
C’è tutto un teatro di faccie che ride e sorride; solo qualche volta, nel sorriso di qualcuno, passa come lo scontento e il disagio di un dubbio: (ciò è molto pericoloso). — Ma che si stia qui diventando tutti cretini? Non è niente. Finito il numero, riaccesi i lumi, le faccie si rischiarano, e Petrolini, chiamato dagli applausi si ripresenta. Questa volta è lui che, guardando in giù, ride e ringrazia.
Pietro Pancrazi
"Follie del Varietà" - Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè, Feltrinelli, Milano, 1980