Storie di ordinaria... censura
Esordii quale professionista nel 1923. E precisamente il 5 maggio, anniversario della morte di Napoleone. Da quell’epoca è incominciato il lancio di quelle barzellette che hanno concorso a rendermi noto tra il pubblico italiano e addirittura notissimo nelle varie questure del Regno. Dal 1923 al 1943, ossia nello spazio di vent’anni, collezionai la bellezza di ottantasei diffide, tre arresti, due processi, tre sospensioni, nonché la vigilanza speciale per tre anni. Un vero e proprio... ventennale fascista. L'ultima sospensione fu definitiva; la vigilanza di tre anni durò, in effetti, poche ore, in quanto mi fu comunicata, con una scelta di tempo trionfale, alle ore 15 del 25 luglio 1943. Mentre io mi trovavo in Questura per sentirmi... dichiarare vigilato, Mussolini si trovava a villa Savoia per sentirsi dichiarare scaduto.
Non ero invece abituato alle sospensioni. E la prima mi arrivò, tra capo e collo, nel 1927. Quaranta giorni di inattività per la seguente battuta:
Un contadino, preoccupato che il suo asino non mangia da otto giorni, porta la bestia dal veterinario. Questi lo consiglia di portarlo invece alla casa del fascio: "Bon omo, scolteme a mi; portelo alla casa del fascio: là i magna tuti e magnerà anche lu!”.
La sospensione venne decretata dal questore Schillaci con la motivazione che “la battuta era immorale e poiché tutti gli spettacoli nella provincia di Trieste devono essere a sfondo morale, riteneva opportuno sospendere il comico Cecchelin”. Quaranta giorni dopo lo stesso questore Schillaci veniva ucciso nel proprio ufficio, a colpi di rivoltella da un suo Commissario cui il Questore aveva sedotto ed abbandonato la sorella. Naturalmente, al mio ritorno alle scene, io esordii salutando in musica il nuovo Questore, dichiarandomi inoltre lieto di non avere sorelle.
Risultato: ancora una diffida!
(...) Nel 1923, al Teatro Fenice di Trieste, nel corso della mia serata d’onore, al pubblico che non si stancava d’applaudire e mi chiedeva continuamente il bis, misi le mani sui fianchi, come sovente amava fare Mussolini, e con voce tonante pronunziai la seguente frase: “Sono fiero di voi!”
Vi lascio immaginare lo scoppio d’entusiasmo in teatro e le fragorose risate. Ma il maresciallo di servizio, certo D’Amico, siciliano nel temperamento ed ubriaco in pianta stabile, si precipitò nel mio camerino e, agguantandomi per il petto, mi dichiarò in istato d’arresto. Al mio rifiuto di seguire un brillo, tentò di malmenarmi ed io mi difesi. Un calcio lui, un calcio io, finché, ad evitare il peggio, piombò un Commissario invocato d’urgenza dal direttore del teatro. La situazione diventò delicata perché in un baleno si era sparsa tra il pubblico la voce che Cecchelin era stato bastonato da un agente della Questura. Ed il pubblico cominciò a rumoreggiare. Il Commissario mi pregò di rientrare in scena per calmare gli animi: mi presentai infatti alla ribalta assicurando che nulla era avvenuto di serio e che si trattava di uno scherzo. Per cui ultimai la recita.
Ma la cosa non era finita li. A mezzanotte venni convocato alla presenza del Questore, il quale mi pregò di non dare i particolari della scenata e dello stato d’ubriachezza del maresciallo. Io lo assicurai che, almeno per quanto mi riguardava, nulla sarebbe trapelato... ma ormai era troppo tardi; tutta la città parlava del fattaccio tanto che di li a pochi giorni il maresciallo D’Amico venne trasferito nel Meridione ed io mi sorbii la ennesima sospensione. Che però fu di breve durata.
Da questo incidente presero forma le mie cosiddette disgrazie con i Questori, i Prefetti e, naturalmente, con i Federali. Non facevo a tempo a metter piede in una città che già un brigadiere era in attesa sulla soglia del Teatro con la sacramentale frase: “Il Questore vi desidera: andiamo!”
Dal Questore subivo la consueta paternale. Taluno usava frasi acri che mi umiliavano non poco. Mi si minacciava di inviarmi a casa con il foglio di via. Di schiaffarmi dentro se mi fossi permesso di pronunziare anche una sola allusiva al regime fascista. Il federale di Pola (un veneziano di cui mi sfugge il nome) arrivò al punto di emanare un ordine del giorno diretto al personale della manifattura tabacchi ed alle maestranze operaie del Cantiere Soglio Olivi, diffidando d’assistere alle rappresentazioni ceccheliniane pena l’immediato licenziamento.
I prefetti di Fiume, Gorizia e Udine, abusando del loro potere, chiamavano gli impresari dei teatri dov’ero scritturato e rivolgevano loro il seguente discorsetto: “Caro signore, vogliamo rimanere amici? Allora fatemi il favore: non scritturate Cecchelin!”
Potevano questi impresari rifiutare l’amicizia prefettizia cosi gentilmente offerta? No, di certo. E allora dovevo attendere mesi e mesi, cioè sino al trasferimento dei Prefetti per poter recitare in quelle città.
Esistevano dei Questori che decretavano persino: “Finché qua ci sono io, non voglio vedere né sentire Cecchelin.” Persino le audizioni dei dischi Columbia da me incisi vennero proibiti in vari locali pubblici!
Nel 1929 non esisteva ancora il Minculpop; allora i copioni dovevano essere vistati dal Ministero della Stampa e Propaganda, il quale usava postillare la motivazione di ogni “taglio”. Quanti tagli! Quanti tagli! I copioni mi ritornavano regolarmente mutilati con motivazioni assai comiche. Peccato non poter leggere al pubblico le motivazioni: sarebbe stato un successo colossale!
Per esempio, nella commedia Rosina la santa (in leggera salsa piccante) la figura del protagonista era un podestà di provincia il quale si chiamava Toni Becco.
I suoi concittadini lo consigliavano di cambiare quello strano cognome che si prestava a molte considerazioni, ma egli rispondeva: “Becco fu mio nonno, Becco era mio padre, Becco voglio essere anch’io.” Ed infatti, nello svolgersi della commedia, quel poveraccio finiva per essere becco di nome e di fatto. L’azione, secondo le mie intenzioni, si svolgeva in una immaginaria cittadina istriana. Ebbene, il Ministero proibì la commedia con la motivazione che “essendo oggi il podestà nominato dal Regime e non eletto dal popolo, è impossibile che possa essere becco”. Protestai, inviando un altro copione, identico al primo ma con una variante: il fatto si svolgeva nel... Congo belga, ed il copione allora fu approvato. Immaginatevi perciò una vicenda che avviene nel Congo dove tutti parlano il dialetto triestino e dove lo sciagurato protagonista aspetta gli ordini della... Prefettura di Trieste!
(...) Il ritorno alle scene coincide con l’incidente che chiamerò del “saluto”. Si recitava una commedia banalissima. Io entro in scena stringendo la mano ad un personaggio. Immediata chiamata in Prefettura dall’addetto ufficio stampa il quale mi dà in visione una circolare del Minculpop che vieta assolutamente la stretta di mano in scena previo ritiro del nullaosta: “Si saluta romanamente!” mi dice, severo, l’ammonitore.“Sta bene.” Il giorno dopo entro in scena salutando romanamente il personaggio. Risata prolungata del pubblico ed applauso ironico. Per cui, il di seguente, chiamata urgente da parte del federale Grazioli il quale, dopo avermene dette di ogni colore con frasario... littoriano, minaccia di spedirmi al confino qualora mi permetta di parodiare il saluto romano. Io gli faccio capire che l’ordine è venuto dalla Prefettura ed aggiungo: “Se voi non siete capaci di mettervi d’accordo, è colpa mia?” e il federale telefona immediatamente all’ufficio stampa prefettizio, ed ha la conferma di quanto asserisco. Il federale bestemmia e grida: “A Roma sono tutti fessi.”
Dall’altro capo del filo viene confermata la sua dichiarazione. È una conferma continua. Intanto sto fermo due giorni, in attesa che da Roma giungano lumi in proposito. E giunge... il permesso, esclusivamente per Cecchelin, di salutare pure con stretta di mano. Comunque mi sono barcamenato sino alla fine del febbraio 1943. Alle calende di marzo, senza alcun precedente a mio carico, ossia senza alcun incidente da me provocato in quei giorni, il Questore mi convoca d’urgenza, mi sequestra i nullaosta capocomicali, mi sospende da ogni attività e mi proibisce persino di mettere piede in teatro. Perché? Ordine del Ministero della Cultura popolare. Mentre la compagnia continua a lavorare per conto suo, recitando le commedie ceccheliane sotto... pseudonimo, io prendo il treno e mi reco personalmente a Roma per vedere un po’ chiaro nella vicenda. Mi presento alla Società degli Autori, la quale però informa: “Ordine della Federazione dello Spettacolo”. Vado alla Federazione, che dice: “Ordine del Minculpop!”. Vado al Minculpop che dice: “Ordine del Ministero degli Interni...”.
Mi precipito al Viminale, sono ricevuto come un cane, nessuno mi vuol vedere. Preparo allora la classica “bustarella” per il classico commendatore e difatti, dopo otto giorni di anticamera, quello mi riceve e mi dice: “Un consiglio: tagliate la corda in velocità perché la vostra situazione è gravissima. La vostra pratica è nelle mani del Tribunale Speciale. Non fatevi pigliare.”
Torno allora subito a Trieste..., giro al largo quanto è possibile, e mentre la Compagnia continua a lavorare, io aspetto gli eventi. I quali arrivano il 7 aprile. Venerdì Santo. Il cav. Ricciardelli, un galantuomo che funzionava da Questore e che più tardi doveva essere deportato in Germania (donde poi fortunatamente è ritornato ed ora rioccupa il posto nella Questura di Trieste) mi dice: “Senta Cecchelin: qui c’è una cosa che non avrei voluto. Il mandato di cattura per offese al Capo del Governo. Mi sanguina il cuore doverla fare arrestare. Facciamo però una cosa: passi le feste di Pasqua con la famiglia e si presenti martedì mattina.” E mi stringe ripetutamente la mano, aggiungendo: “Porti pazienza. Portiamo pazienza tutti. Ma non potrà durare.” Faccio Pasqua in famiglia. E martedì mattina, con precisione cronometrica, mi presento, fissando la mia dimora alle carceri di Fiume. Con un agente, a braccetto come fossimo due amici di vecchia data, parto alla volta di Fiume dove arriviamo ambedue... sborniati, tanto che non si sapeva bene se era lui che portava in prigione me o viceversa. Alle carceri di Fiume tutto il personale è in subbuglio. “È arrivato Cecchelin! È qui Cecchelin!”
Il direttore mi stringe calorosamente la mano, mi presenta i suoi subordinati, alcuni detenuti di riguardo, e proclama: “Cecchelin qui non è un prigioniero; è un gradito ospite.” E mi fa scegliere la cella che preferivo. Sembrava un direttore d’albergo! E mi dice: “Preferite il primo piano o il secondo?” Al secondo ci sono italiani con reati comuni; al primo ci sono i “politici” croati. Scelgo il primo piano, cella n. 12, dove trovo tutta gente in gamba, veri fratelli e persone di fegato: il dottor Svalba, il dottor Smodlaca, il dottor Kezulic, l’avv. Andric e altri. Ho passato con loro un periodo indimenticabile. Ed il direttore è stato sempre cortesissimo con me e con gli altri.
Ma il bello fu quando da Fiume dovetti partire per Milano, per il processo. Offese al Capo del Governo. Denunzia da parte di tre miei ex scritturati (voglio ricordarne i nomi: Bianchina Naretich, Nino D’Artena, Giulio Greni) che mi avevano sentito, una volta, dire in camerino che il duce era fratello di Peppino II (Peppino II è un personaggio a quattro zampe, anzi, a quattro zamponi, della commedia Felicita Colombo di Adami). Io avevo licenziato quei tre, e quelli si erano vendicati con la denunzia. Costume dell’epoca.
Bene: dopo 43 giorni di permanenza alle carceri di Fiume, fui tradotto a Milano, accompagnato da due carabinieri, uno di Milano ed uno di Monza, che coglievano l'occasione per una gita a casa. Viaggio squisito; uno dei carabinieri ad un certo momento se ne andava a Monza, l’altro andava a dormire ed io, in istato d’arresto, giravo tutto bello per Milano. Il giorno dopo, comunque, ritornati i miei angeli custodi, feci il mio ingresso a San Vittore: sesto braccio, cella n. 136, insieme con quelli della... borsa nera.
Il processo si celebrò il 30 maggio 1942. E fu un processo umoristico. Capii subito che il presidente era un acceso antifascista e voleva divertirsi. E faceva ripetere a tutti i testimoni la frase incriminata: “Dunque è vero che Cecchelin ha detto che il duce è un...?” “Si”. “Bene: ripetete la frase esatta”. “Mi vergogno”. “Quando avete accusato, non vi siete vergognato. Animo, dunque, e ripetete: il duce è un...!”. “Il duce è un... E lo confermo!”
E cosi per tutti i testimoni. Che ridere!! Ma il grandioso successo fu quando i miei avvocati Kezich e Giannini illustrarono il mio passato patriottico sotto la dominazione austriaca. “Come mai, Cecchelin,” chiese il presidente, “con simile passato non vi siete iscritto al Partito?”
“Non sapevo che dovesse durare cosi a lungo!” questa fu la mia risposta. Risata generale e scampanellata del presidente. Infine la sentenza: un anno di carcere, ma siccome il fatto era avvenuto nel 1939, venne applicata l’amnistia del 1940 e quindi venivo messo in completa libertà.
Ma non potevo egualmente riprendere a recitare. Perciò, all’inizio del 1943, chiesi udienza al prefetto Tamburini (attualmente a Firenze... ma in prigione). Questi mi rifiutò il permesso di recitare avendo avuto una condanna di un anno. “Si, ma non per furto.”
“Magari foste stato condannato per reato comune! Come ladro potreste riprendere l’attività, ma per offese al nostro Duce, mai più” (testuale).
Angelo Cecchelin, «Il Giornale di Torino», 1946 - "Achab", n.516, 1976
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Angelo Cecchelin, «Il Giornale di Torino», 1946 - "Achab", n.516, 1976 |