Anna Magnani: la mia avventura in America

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In questo indimenticabile diario la nostra grande attrice fa il racconto dei suoi quaranta giorni trascorsi a New York.

Ero partita male dall’Italia, ero partita di malumore più delle altre volte. Io non amo viaggiare, non amo i bagagli, non amo le preoccupazioni che un viaggio ti dà. Nello stesso tempo vorrei vedere tutto il mondo. Non ho ancora trovato la maniera di conciliare queste due cose. Non amo lasciare casa mia. non amo mai lasciare Roma, perciò il mio umore era piuttosto greve, con l’aggiunta di un certo giustificato timore verso un paese la cui sensibilità, e maniera di pensare e di vivere erano a me completamente sconosciute.

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Dopo qualche giorno di navigazione in cui sembravo a me stessa e agli altri un animale preso dal centro della jungla e messo in un giardino di acclimatazione, presi il coraggio a quattro mani, e mi dissi: «Anna, cosi diventi matta». Mi scrollai di dosso tutto, mi vestii un po’ meglio del solito per farmi coraggio; mi feci bella quel tanto che mi è possibile esserlo; e uscii dalla mia cabina.

Eravamo a Lisbona. «Andiamo a trovare il Re», dissi a Renzo Avanzo, mio compagno di viaggio, e. insieme a una nostra comune amica, affittammo ima macchina e ci avviammo verso Cascais. Dopo quaranta minuti ci fermammo davanti a una piccola villa vecchio stile. L’incontro fu patetico. Io non ho idee politiche di nessun genere, ma non posso dimenticare la cordialità affettuosa che Umberto mi aveva dimostrato quando era ancora Luogotenente, invitando me e Fabrizi al Quirinale per visionare "Roma, città aperta”. La proiezione risultò penosa. Era una macchina da campo e il film sembrò una comica alla Ridolini. Mentre ripensavo a tutto questo, si apri la porta e il nostro Re era lì, cordiale e sorridente. Mi sentii di colpo emozionata e imbarazzatissima. «Che faccio mo‘? Je devo fa’ l’inchino? Mamma mia!». Mi aiutò lui: non mi dette il tempo di parlare, mi abbracciò baciandomi sulle guance, e mi disse «cara», s’interessò di tutto, mi chiese del mio lavoro. «Maestà, sono stanca di fare il cinematografo, voglio ritirarmi», dissi. «Per carità, cosa dice? Se sapessero in Italia quanto bene lei fa al nostro paese! Io solo posso dirglielo che vivo all’estero». Ripartimmo tutti con un po’ di malinconia.

Prima di salire a bordo, io e Renzo ci fermammo davanti a un negozio. In vetrina, solo e immalinconito, era esposto un magnifico pappagallo, aveva tutti i colori del grigio, del rosa, del madreperla, era una cosa meravigliosa. «Come è bello! Che famo, Renzo, lo pigliamo?». Tutti e due avevamo gli occhi lucidi dalla voglia, non ci staccavamo più dalla vetrina, ma ahimè dovemmo rinunciarci. «Te pare, arrivo in America pure col pappagallo!». In compenso tornammo a bordo con due chili di fave romanesche che la sera, tra smokings e toilettes, troneggiavano sul mio tavolo.

Il viaggio seguitò: il mare era buono, il commissario di bordo era un vecchio caro amico, Pescarolo, con il quale avevo fatto il mio primo viaggio nel mio primo anno d'arte nella compagnia di Vera Vergani, oggi sua moglie. «Questo mi porterà fortuna», mi disse.

John Ford, anche lui sulla «Andrea Doria», fu con me molto simpatico e amico, cercò di farmi capire cosa sarebbe successo di me in America. Un altro signore, dirigente di una delle più importanti riviste americane. mi dette ancora altri consigli con tal? affettuosa cordialità che io quasi li imparai a memoria, e alla fine aggiunse: «Sono sicuro che vi ameranno molto, gli americani. Saranno felicissimi di avere davanti ai loro occhi, un essere vivo come voi, e poi sono tanti anni che vi aspettano!». «A me? Aspettano me?» pensavo io. «Questo è matto». In fondo in America sono andati soltanto due films miei: «Roma, città aperta» e «Miracolo»: non mi hanno avuto molto sotto gli occhi. «Vi mangeranno però, non potrete fare a meno di fare tutto quello che vorranno loro. Buona fortuna, Anna!». I miei terrori ricominciarono. «Anna sii serena e brava», mi dissi.

Così l'11 aprile alle 6 di mattina fui buttata giù dal letto da Sandro Pallavicini che mi aveva raggiunta a New York in aereo. «Anna, dammi la mano ed esci con me. non ti spaventare, sono in tanti. Segui me». Io sapevo che saremmo sbarcati alle 10 e mezzo. Una motobarca con a bordo giornalisti, fotografi, Sandro Pallavicini, i rappresentanti della LFJE. da cui ero tutelata. avevano raggiunto il piroscafo due ore prima dello sbarco. E cosi cominciò. «Anna, sorridere!» e giù un lampo, tre. quattro, cinque, non ricordo più. «Anna, saluta New York!» e ancora un lampo. «Anna... Anna». Anna-.». Erano ordini, cordiali, «ha ordini. «Anna, ti chiedono di mostrare le gambe», mi tradusse Natalia Danese, una mia vecchia cara amica che vive a New York, e che aveva accettato il difficile compito di starmi vicina durante la mia permanenza laggiù. «Che mi chiedono?» feci io allibita. «Le gambe», Natalia non aveva il coraggio di ripeterlo. «No» feci io. «Questi non me le hanno viste bene, pensai, se no non me lo avrebbero chiesto». Comunque la faccenda non mi piaceva e non lo feci.

In mezzo a questa baraonda di lampi e di domande, una giornalista mi rivolgeva sempre la stessa domanda che io naturalmente non capivo. Gli altri seguitavano: c Miss Magnani, plea-se. Cosa è venuta a fare in America?», c Da dove viene: dal teatro o dalla rivista?»; «Quanto si fermerà in America?»; «Cosa sente lei quando interpreta un suo personaggio?»; «E’ vero che è venuta per lavorare in America?». «No. rispondo io, resterò a New York solo un mese, sono venuta per assistere al gala del mio film "Bellissima”, diretto da Luchino Visconti». «Come!? Non andrà ad Hollywood per lavorare?» chiedevano sorpresi. «No» rispondevo sorpresa anche io. «Natalia, per piacere, dimme che vo’ questa». Alludevo alla giornalista che era tornata alla carica. «Francamente nemmeno io so’ che vo’ questa», mi rispose Natalia che è romana come me. «Vo’ sape’ da te che rapporto c’è fra il sesso e il cinematografo. Che je rispondi?». Io restai senza flato. Gli altri insistevano: «Come trova le donne americane? E gli uomini? Che effetto le fa New York?».

Alle 10 e mezzo saluti; le interviste erano finite. Cominciò l’operazione di sbarco e ci avviammo tutti all'immigration Office. Ma la giornalista non si era data per vinta, era ancora lì. Cominciavo ad allarmarmi. Renzo Avanzo non mi lasciava di un passo. Natalia non sapeva più che fare con quella signora. Jonas Rosenflel, il «public relation man» e vice presidente della I.F.E., al quale ero stata affidata per la tutela di tutto quello che mi riguardava come «relazioni pubbliche» e cioè contatti con la stampa, ricevimenti, ecc., un uomo dal polso forte e dagli occhi chiari e intelligenti, era anche lui impotente di fronte a tanta perseveranza.

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In nostro aiuto si staccò da un tavolo un sorridente funzionario che. battendo amichevolmente una mano sulla spalla della giornalista con il più dolce dei sorrisi e nel tono più cordiale ma deciso del mondo, le disse: «E’ meglio che tu vada via prima che io ti butti fuori». E cosi sbarcammo. All’uscita un gruppo di italo-americani era ad aspettarmi. Avevano scritto «Viva Anna Magnani» su uno striscione di tela che con due bastoni tenevano sollevato in alto. Una piccolissima bambina mi offri un mazzo di fiori Cara, sembrava ima gattina! Mi si strinseil cuore, stetti un po’ con loro. «Anna, com’è l’Italia? Anna, fatti vedere. Anna, dammi la mano». Care e belle facce di casa nostra, avevano quasi tutti dimenticato la nostra lingua. Arrivammo in hotel. «Dò il passaporto?» chiesi. «Non serve, fece Natalia. — Qui ti puoi chiamare anche con un altro nome». «Davvero?» feci voltandomi. La giornalista era ancora li. Mi sentii persa. Jonas mi prese per mano, e ci infilammo tutti di corsa nell’ascensore.

Su, in un confortevole appartamento. la sala da pranzo era piena di ogni ben di Dio. Champagne, whisky, liquori, cesti di frutta, fiori, fiori dappertutto.
«Ma che è Natale?» pensai io. «Questo è Irvin Drutmann». «Questo è Bob Eduard». «Questa è la mia segretaria». E «Questo è Zorgniotti, il presidente della I.F.E.». Tutti erano lì a ricevermi cordiali e amichevoli. A parte un fotografo che volle per forza farmi una fotografia mentre mi lavavo il viso, il resto andò tutto bene.

«Sandro, fammi portare un caffè che non mi reggo più in piedi». Gli occhi cominciavano ad appannarmisi dalla stanchezza. «Beviamo champagne!» tuonò Jonas, l’uomo dal polso rude e dagli occhi celesti. «Ecco, questo mi ci voleva, pensai. Lo champagne alle 11 di mattina, così crollo del tutto».

E così fu. Crollai e mi svegliai alle 9 di sera. Dopo un po’, che ero sveglia, come due spiritati entrarono in camera mia Sandro e Renzo. «Anna» mi dissero con gli occhi fuori dalla testa, «vedessi le bone che ci sono a New York! Vestiti! Usciamo!».

Broadway era veramente uno spettacolo allucinante. Luci, luci, réclames luminose lungo le facciate dei grattacieli, dei cinema, dei mille teatri, luci die si accendono, che si spengono continuamente Una réclame, non so più di che, era fatta da una immensa cascata di acqua luminosa che occupava, credo, tre pia-ni di un grattacielo. Tutto questo in un viavai continuo di gente, sembravano le 10 della mattina.

Avevo il capogiro, non avevo mai visto niente di simile. Finimmo al «Morocco», il locale di moda, «Guarda le bone che ci sono in giro», seguitavano a esclamare i miei due compagni in preda a una eccessiva agitazione.

L'indomani domenica, mi riposai, e il lunedi si presentò da me Jonas con il programma delle mie attività. Avrebbe spaventato un capo di governo in visita ufficiale. Mi scoraggiai, cercai di fargli capire che non avrei avuto la forza fisica di adempiere a tutti quei doveri. Mi guardava sbalordito. «Natalì, aiutami!». Lo scontro durò due giorni, dopo di che l’intesa si fece, e il mio uomo dagli occhi celesti e dal polso duro, capì, divenne umano, comprensivo e amico. Al terzo giorno il mio programma era modificato. E cosi cominciai.

Dei più importanti giornalisti, colonnisti, fotografi, ecc., nessuno mi ha mai posto una domanda indiscreta. I nostri colloqui erano cordiali, amichevoli e in buona fede. E’ soprattutto di questo che sono loro oggi veramente grata. «Anna, domani sera, dopo la televisione, Shirley Booth che oggi è la più grande attrice d’America», mi dice Natalia. «offre un cocktail in tuo onore. Jonas ti chiede se vuoi conoscere qualcuno in particolare». «Bette Davis». «E’ malata, ancora convalescente dall’operazione che ha avuto». «Vorrei conoscere Judy Harrison tana piccola grande attrice che avevo visto in un film a bordo). «E’ a Boston, la inviteremo lo stesso», disse Jonas. Sorrisi all’idea e non ci pensai più. La sera del cocktail c’era. Era arrivata in aereo. L’abbracciai forte, la guardai bene. Non mi rendevo conto come in un viso cosi delicato, potesse esserci tanta forza. Shirley Booth, questa grande attrice die con il suo ultimo film «Come bade little Sheba» ha vinto due Oscar, è nella vita di una semplicità che incanta. Fotografi, attori, attrici, eravamo circa trecento persone in un appartamento. «Anna, please una foto con Lilian Gish». «Anna, una con Danny Kaye». «Anna, questa è una delle più grandi scrittrici d’America». «Anna, questo è il regista». «Anna, guarda chi c’è: Dino De Luca». «Please, una foto Miss Magnani!». Baci abbracci, ero stordita e incantata da tanta accoglienza, da tanta affettuosa violenza.

All’una andai via. Renzo e Sandro, che erano in amichevole colloquio con due autentiche bone, vennero via a malincuore. L’indomani si ricominciava. Di giorno ricevevo giornalisti, e la sera si andava tutti in giro.

In una deliziosa commedia musicale trionfa Rosalind Russell; un’opera meravigliosa è «Porgy and Bess» con musica di Gershwin, fatta tutta da attori e cantanti negri. La sera che andammo a vedere quest’opera ci recammo poi tutti ad Harlem. Sapevo che Ray Robinson «Sugar» aveva un piccolo locale, e andammo a mangiare tutti li, insieme ad alcuni attori della compagnia. Sugar fu molto cordiale con noi, mi regalò quattro fotografie. «Ha detto che ne. devi mettere una in ogni tua camera, a Roma», mi tradusse Natalia. Trovai la cosa molto divertente e cercai alla meglio di iniziare una piccola conversazione con lui, dopo un po’ d rinunciai, parlavamo a gesti come due sordomuti, fra il divertimento generale «Ho fame», conclusi. «Chiedigli se posso mangiare qualche cosa». La serata fu molto divertente. Irvin e Natalia erano i miei inseparabili accompagnatori. «Natalia, traducimi, prego», e Natalia traduceva. Io rispondevo in italiano e ld ritraduceva la mia risposta in inglese. Povera Natalia, alla sera tornava a casa a pezzi. In macchina ancora: «Anna, look at it. Questo è il grattacielo più alto di New York». E un altro signore: «Questo grattacielo è tutto di vetro, sono gli uffici del...». «Anna guarda là, quello è il ponte di Brooklyn. Anna, guarda». Mi sentivo un po’ la cugina scema, che si porta a visitare la città.

E la sera, solo nel mio appartamento al 14° piano, dietro ai vetri della mia finestra, finalmente mi gustavo New York. Bella, bella, che spettacolo! Tutti quei grattacieli neri con tutte quelle finestre accese, duecento, ventimila, duecentomila occhi spalancati nella notte, con un fondale di blu scuro, e ancora luci, luci, occhi, occhi insonni, occhi senza palpebre. E con questa visione nella molte andavo a dormire Piano piano, man mano che il sonno arrivava, tutti quegli occhi si spegnevano dolcemente, e come per una dissolvenza cinematografica vedevo, prima confusi e poi sempre più chiari, i tetti di Roma, come la sera li vedo da casa mia. Un mare di tetti, alti, bassi, abbracciati fra loro, stretti fra loro, e in mezzo a questo mare ecco sedere come tante matrone le Cupole della Sapienza, di Sant'Andrea della Valle Castel Sant’Angelo, e più lontano ancora, il Gianicolo. E con Roma negli occhi mi addormentavo.

Bette Davis mi ricevette a letto, ci abbracciammo, parlammo insieme per più di un’ora, sempre con la mia inseparabile Natalia, che quando non capivo mi faceva da interprete il che accadeva molto spesso. Volle sapere tutto di me, parlò della mancanza di libertà artistica che ha un’attrice in America, ne parlò, con rammarico, ma non parlò per se stessa poiché lei non fa che le parti che ama e le fa come le sente Questa grande attrice ha nella vita una vitalità che sconcerta, di fronte a ld mi sentivo un agnello. Seppi più tardi che aveva prestato la sua voce per presentare al pubblico americano «Bellissima». La ringrazio oggi infinitamente dell’onore che mi ha fatto.

Il giorno dopo si ricominciava. Renzo e Sandro li avevo completamente persi di vista. Una mattina a mezzogiorno mi piombarono in camera. «Anna vestiti. guarda die meravigliosa giornata, andiamo sul più alto grattaddo di New York». Sembravano carichi di dettridtà. «Ma non siete stanchi?». «Chi? Noi? Ma noi stiamo benissimo», risposero. Andammo. Per arrivare fin sù, si prendono due ascensori che per la velocità ti mozzano il respiro. Lassù tutto cambiò. Questa città cosi violenta, dove tutto si fa di corsa, dove quasi non è permesso prendere fiato, dove non è permesso perdere tempo, dove la vita si con i denti, tale e tanta è la concorrenza in tutti i campi; bene, questa sconcertante città lassù ti commuoveva. Sembrava un grande giocattolo costruito da bambini grandi. Ti veniva voglia di allungare una mano e toccarla. Restammo incantati in silenzio a guardare Riconobbi il grande grattacielo tutto di vetro sede degli uffici.. Come era piccolo di lassù! Ridiscendemmo, sempre di corsa. «Adesso ti portiamo a mangiare da...» e fecero il nome di un famoso restaurant di New York. «Vedrai le bone che ci sono». «Ah, ah! Ce arifamo co’ le bone? E andiamolo a vede’», feci io per niente divertita.

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Effettivamente il locale ne era pieno. Consumai la mia colazione nel più assoluto stato di abbandona da parte dei miei cavalieri Quando ci alzammo, credo avessero il torcicollo a furia di guardare in giro, ma al ritorno una piccola punizione era loro destinata. Mentre rientravamo a piedi in albergo, dalla finestra di un primo plano di un grattacielo si affacciarono sette od otto belle ragazze, si misero a salutarci con gran cenni e sorrisi «Renzo, salutano te», fece .Sandro. E Renzo tutto ringalluzzito con un gesto chiese loro: «A me?». «No», fecero quelle a gesti «Allora a me?», fece Sandro «No», fecero ancora quelle. «Allora a me?» chiesi io trionfante «Siiii!», fecero salutandomi «Anna, hello!». Scoppiammo tutti e tre in una risata. Finalmente le bone si erano occupate anche di me.

«Avanti!». Una mattina alle dieci bussarono alla mia porta tre studenti entrarono nel mio - appartamento e si infilarono decisi in camera. Ero a letto. «Miss ' Magnani, please autografo». Rimasi impietrita, con gli occhi sbarrati e ferma come un automa. «Ma che so’ matti, qui?». M'ero addormentata tardissimo. New York non mi faceva dormire: c’è nell’aria una tale elettricità, e fin che non ne hai fatto l’abitudine, i primi giorni credi di impazzire. «No, urlai, questa faccenda degli autografi alle dieci di mattina non è per me». E parlai alla direzione. «Metta il cartello fuori della porta col "prego non disturbare”», mi consigliò, gentilissimo, il direttore, «vedrà che nessuno busserà più». Due mattine dopo, alla stessa ora, sento bussare di nuovo. Per maggior precauzione mi ero chiusa anche dentro. «Qui divento matta davvero». Tenni gli occhi chiusi per riacchiappare il sonno, mentre il sangue mi saliva alla testa. «Non rispondo, si stancheranno», e cacciai il viso sotto il cuscino. Seguitarono a bussare. Ero sicura che si trattava ancora della stessa storia, poiché i telegrammi venivano infilati di solito sotto la porta. Seguitarono ancora. Saltai giù dal letto come una furia, e con la faccia stravolta, spalancai la porta. «Voglio dormire», urlai in faccia al primo che mi stava davanti, mentre gli altri erano a qualche passo da lui «Non voglio essere disturbata, andate via!» e sbattei la porta con tutta la forza che avevo ancora a mia disposizione. Mi ricacciai dentro il letto ringhiando come Una belva presa in trappola. Di colpo mi misi a ridere. Nella furia avevo parlato perfettamente inglese «Ho capito», pensai divertita, «pe’ parlà inglese, me devo arrabbia'» Non dormii più, naturalmente Passai la giornata a mettere in ordine le mie cose, ero stanchissima: il sonno per me è il più importante nutrimento. Alle sette e mezzo di sera arrivò Natalia. «Sei pronta, Anna?». Si andava con Renzo, Sandro, Jonas, e l’inseparabile Irvin, prima a cena, e poi a teatro a vedere Danny Kaye «Please, Miss Magnani, autografo», mi fermò una voce mentre uscivo dall'hotel. Lo guardai: era lo studente che si era preso i miei urli e la porta in faccia. Nel darmi il suo piccolo album, vidi che gli tremavano le mani. Lo guardai ancora, era bianco come un fazzoletto. Mi fece una tenerezza infinita. Firmai e stringendogli le mani «Scusatemi per stamani», gli dissi in pessimo inglese. Gli altri erano ancora con lui. Quei ragazzi avevano aspettato la bellezza di nove ore. Ala da quei giorno nessuno più bussò alla mia porta, mi aspettavano all’uscita dell’albergo.


In questa seconda puntata del suo diario nuovayorkese la grande attrice italiana racconta il successo di “Bellissima” e gli avvenimenti dei suoi ultimi emozionanti giorni di permanenza in America.


Studenti, ragazze, mi aspettavano alla uscita dell'albergo. Qualcuno era munito di una piccola macchina fotografica. < Miss Magnani, una foto! Non tornare più a Roma. Resta qua», mi gridò da un gruppo una ragazza italiana prima che io salissi in macchina. Per la strada mi sentivo ogni tanto chiamare per nome. «Qui te chiamano per nome come a Roma», mi faceva Natalia. Questo proprio non me l’aspettavo. Mi fermò un prete, un pomeriggio. «Anna Magnani, urlò, sapevo dai giornali che lei era a New York». Era italiano. «Che fortuna incontrarla, Anna Magnani!» seguitava a urlare. «Ma perchè urla cosi?» pensavo io. «Anna Magnani, proprio lei in persona, che fortuna, seguitava, io vengo dall'Italia, sono un suo grande ammiratore, sa; lei è la mia attrice preferita, ho visto tutti i suoi films, sa, non ne ho perso uno!». «Ma padre, non è proibito per voi andare al cinema?» azzardai io. «Sarebbe, sarebbe, ma io sono un artista, sono un poeta, ho scritto un libro di poesie, vorrei dedicarglielo!». La mattina dopo bussarono alla porta della mia camera. «Anna, c’è quel prete di ieri, t’ha portato il libro, disse Natalia. Ti vorrebbe salutare». «Natali, dico, so’ in camicia da notte». E padre... se ne andò con una mia foto, e la promessa che per la sera del mio gala gli avrei mandato un biglietto di invito, cosa che poi mantenni.

Il pomeriggio seguente, cocktail per la stampa. In un appartamento del Plaza Savoy ho ricevuto circa cinquecento persone. Jonas era fuori dalla gioia. «DI ad Anna, pregò Natalia di tradurmi che tutti hanno risposto all'invito. Non era mai successo». Natalia, insieme a me, era felice «Dì ad Anna, seguitò Jonas, che a questa stessa ora c’è in un altro albergo di New York, un altro ricevimento per una famosa stella della..., e disse il nome di una grande Casa cinematografica, e d sono settanta persone». Jonas era trionfante, Natalia con gli occhi pieni di gioia aggiunse: «Forza Nannarè!». Non nascondo che mi gonfiai come un pavone.

Giornalisti, proprietari di cinema, distributori, attori, attrici, e donne, una quantità di donne. «Anna, questa è la Anderson, la più grande attrice americana di prosa», «Nel min cinema è stata proiettata per la prima volta "Roma città aperta”». E con queste parole mi sentii abbracciare. «Natali, che dice questa ragazza?». «Dice che il tuo viso è bello». Ufi venne da ridere. «Dille die è la prima volta die me lo sento dire». Ma quella seguitava, mi fece un lungo discorso per spiegarmi che era bello. E Natalia traduceva e ancora traduceva dall’inglese all’italiano e viceversa. Fino alle otto di sera fu un incrociarsi di domande, risposte, strette di mano, abbracci. «Natali, traducimi per favore!». Natalia era a pezzi; Jonas. sempre più soddisfatto, ogni tanto mi abbracciava. «Anna te lo piglieresti un caffè?» fece Natalia con un filo di voce?». «Sì», urlai io. Jonas ci chiuse in una piccola stanza, ci fece prendere fiato e dopo il caffè ricominciammo. Alle nove e-ravamo in hotel sfiniti, ma felici «Anna, quando tornerai a Roma, ti renderai conto di quello che è successo intorno a te?» disse Natalia con quel po’ di fiato che le era rimasto. Oggi lo capisco, ma quella sera m’era venuta addosso una gran voglia di divertirmi. «Andiamo a ballare», feci. Jonas scoppiò insieme a Irvin in ima fragorosa risata. L'unica che non rise fu Natalia. «Nannarè, tu hai deciso d'ammazzarmi», e tutti e quattro andammo a vedere quel fenomeno di Jimjtoy Durante. Quello che è capace di fare durante il suo numero è indescrivibile, non lo dimenticherò mai Di Renzo, nessuna notizia. Sandro lo aveva visto un momento al cocktail, anche lui era felice, ma con un po’ di malinconia. «Parto domani», mi disse. In fondo mi dispiaceva che partisse; in quei suoi pochi giorni di permanenza, insieme a Renzo, ci eravamo fatti un sacco di risate. «Non torni per la sera del gala?». «Magari, se posso, ciao Anna, vuoi niente da Roma?». «No. Salutamela! dissi con una punta di nostalgia. Dille che torno presto». E Roma mi ritornava alla mente, Roma cosi dolce, così maestosamente bella. «La prima cosa che voglio fare quando tomo, è vedè il Campidoglio de notte, e la terrazza del Pincio; io e Micia». Micia che nel frattempo aveva dato alla luce, a mia insaputa, tre cuccioli neri come il carbone, di padre ignoto. Ancora oggi non riesco a capire come e quando simile incidente sia avvenuto. Vigliacca di una Micia!

«Anna, devi venire all’Accademia Musicale di Brooklyn. Gli italiani vogliono vederti, e poi la mia compagnia ci recita il Conte di Montecristo», mi telefonò uno sarà Giorgio Nunes; Brooklyn è il, quartiere italiano e Giorgio un mio caro e vecchio amico. E' un ricchissimo industriale che ha una passione per il teatro maggiore di quella che ha per i suoi affari ha riunito una quindicina di attori italiani fra i quali la moglie Anna adatta, per il teatro, lavoroni come il Conte di Montecristo, e giù a far recite. Spettacoli in nave, dieci quadri, recitati e scritti con una ingenuità e una passione commoventi Ma la cosa che più mi commosse fu il pubblico. Un pubblico di gente semplice, oserei dire primitiva. Piangono, ridono, urlano e fischiano al cattivo. «Vedi Anna, questo pubblico mi commuove», mi diceva Giorgio, in arte Giorgio Mauri, sudando dietro le quinte fra una scena e l'altra. «Dio solo sa se io ho da fare, ma non posso più fare a meno di recitare per loro. Sarebbe un tradimento, se li lasciassi». E giù pistolotti, e giù applausi a scena aperta. Quando, finita la recita, Giorgio annunciò la presenza di una attrice italiana, «E’ venuta per voi. E’ la nostra più...» e giù complimenti, il mio nome fu, prima che mi Vedessero, sulla bocca di tutti. Restai sola davanti al grande velario, sola davanti a quel patetico pubblico. Tentai di far loro un bel discorso; ero come paralizzata. Ci sono due cose che mi mettono in serio imbarazzo: posare per i fotografi e fare discorsi al pubblico, figuratevi poi in una situazione come quella! Dopo ci fu un'invasione di donne in palcoscenico: rendevano omaggio a Giorgio, il loro idolo, e volevano vedere me da vicino, mi si strinsero tutte intorno. «Ce l'hai tua madre?» mi disse in dialetto una vecchia donna. «Sì», risposi «Ti benedico come se fossi lei». Ritornammo a New York.

«Nannarè, hai visto che feste che te fanno?» fece Natalia in macchina stringendomi una mano. Sorrisi ancora stordita. La serata fini con un gruppo di carissimi amici miei italiani, tutti giornalisti, c’era Indro Montanelli, Gianni Granzotto, Colette Rosselli, Gina Raccà con suo marito. Dopo cena, tutti da me in albergo, c Come mai hai il pianoforte e non la televisione?» chiese Indro. «Te dirò, ce l'avevano messa, ma non glielo ho fatta a sopportalla, me faceva diventò nevrastenica, co’ tutte quelle figure sempre sfocate, cosi l'ho cambiata col pianoforte».

I E cantammo fino alle tre di notte. «Qui domani vedrai che me cacceno via». «Qui uno in camera sua po’ fa* tutto quello che je pare». «Pure se fai cagnara?». «Pure se fai cagnara», concluse Natalia. Fu una serata di autentico e schietto buon umore.

La mattina dopo, da Leoni, un famoso ristorante italiano, ero a colazione con circa venti critici americani. Era il mio ultimo impegno ufficiale. Cinque giorni dopo, avrei avuto il gala di «Bellissima», ma i critici in America non intervengono mai, nè ai gala, nè alle visioni private.

Vedono il film alla prima insieme al pubblico. Tutto andò bene, in un'atmosfera amichevole e cordiale. Verso la fine della colazione, nella grande sala da pranzo, ci fu un'invasione di camici bianchi, di cappelli da cuoco: era il personale del locale. Tutti italiani. «Viva Anna Magnani!» gridarono. Saranno stati quaranta, uomini e donne. «Di' loro qualcosa», mi sussurrò Natalia. Io guardavo i loro volti con tenerezza, gli occhi delle donne erano lucidi. Si fece un gran silenzio, chinai la testa per non commuovermi per non piangere, ma gli occhi si riempirono ugualmente di lagrime, e piansi coprendomi il viso con le mani, piansi silenziosamente, impressionata dal silenzio che mi circondava. Quando alzai la testa non credetti ai miei occhi. Anche i critici, i duri critici americani. erano emozionati, e qualcuno di loro aveva gli occhi lucidi. «Siete una meravigliosa creatura». disse il più impor-
tante che sedeva alla mia destra. Baciai tutti i miei italiani. «Anna, salutaci l'Italia!» disse una donna con le lagrime sulle gote «Anna, tu hai regalato la capra al paese mio, lo sai, quella del "Miracolo"». Un ragazzo, avrà avuto diciotto anni, si fece prima rosso in viso, poi mi baciò quasi sulla bocca. Tutti scoppiarono in una fragorosa risata.

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Renzo lo vedevo sempre più raramente. Di tanto in tanto si presentava da me e: «Hai preso le vitamine?» mi diceva, tanto per dire qualcosa, oppure: «Anna, stasera c’è un party divertente». Un pomeriggio alle tre venne in camera mia, s'infilò di corsa dentro il mio bagno. «Ma 'ndo ’va, questo? Non ce l'ha il bagno suo?» pensai Andò di fronte al grande specchio, si fece un balletto da fermo muovendo solamente il bacino. «Ciao, Anna», disse, infilò la porta e scomparve. Rimasi senza fiato. «Questo non me lo riporto mica sano a Roma», pensai, seriamente preoccupata.

Si avvicinava il giorno del gala. Il film sarebbe stato visionato nella sala del «Museo d'Arte Moderna», avvenimento, mi dissero poi, molto importante. Una notte alle due squillò il telefono. Risposi. Avevo lasciato Natalia da poco, pensai che fosse lei «Pronto?». Una voce timorosa e dolce era all’altro capo del filo «Signora Magnani, lei non mi conosce». Non potei arrabbiarmi: la voce era cosi garbata. «Io sono una vecchia attrice italiana, lavoro da molti anni a New York, mi chiamo Rossana Sammarco, ho avuto anch’io il mio momento di gloria a Roma». Stetti al telefono con lei a lungo, come fosse stata una vecchia conoscenza. Sentii una profonda tenerezza per questa signora che, sola, era finita quaggiù. «Non mi vuol vedere?» le chiesi. «Non importa, non voglio disturbarla, mi basta aver sentito la sua voce». «Le manderò un biglietto per la sera de) mio gala». Sentii la voce commuoversi nel ringraziarmi.

La sera della prima mantenni la mia promessa. Mai sono stata cosi contenta di aver fatto questo gesto verso una mia sconosciuta collega. Gli ultimi quattro giorni mi ammazzai di stanchezza in giro per i negozi. Ero incantata. Se avessi% potuto avrei comprato tutta New York. Tornavo la sera a casa morta, e Natalia più morta di me. Povera Natalia, aveva pensato che, finiti i miei impegni ufficiali, si sarebbe finalmente riposata, ma io a-vevo preso il via e non mi fermava più nessuno. Il mio appartamento era diventato una specie di deposito per merci in partenza. Scatole, pacchi, valigie vecchie e nuove. Io giravo in mezzo a questa specie di mercato con le mani nei capelli. Arrivava per me il momento più tragico: rifare le valigie. «Taiuto io», diceva Natalia dandomi e dandosi coraggio, ma con l’espressione di chi ha perso ogni speranza. Quella sera alle otto il telefono squillò. «Sono Marlon Brando. Parlate inglese, miss Magnani?». «Poco. Parlate francese, voi?». «Poco», rispose. «Andiamo bene», pensai. Natalia era andata a cambiarsi, mi sentivo perduta. Alla meglio cercammo di capirci. «Vorrei vedervi Cosa fate domani sera?». «Purtroppo non potrò venire al vostro gala, ho già un impegno preso da parecchi giorni, ma cosa fate domani sera?». «I bauli — risposi io — ma potete venire ugualmente alle otto a bere un whisky da me». E l’indomani sera Brando arrivò con un viso dolce e timido, e con una rosa rossa infilata in un piccolo strumento africano. Ci guardavamo incuriositi. Pensavo di veder arrivare il Brando delle grosse interpretazioni, violento e profondo. E lui guardava me «Pensavo d'incontrare una donna alta e fatale, con una grande vestaglia», disse. Mi sentii imbarazzata. Ero tutta il contrario. «Lovely» aggiunse, prendendomi le mani. E cosi, dopo il whisky, con me e Natalia al limite delle nostre forze, tutti e tre finimmo a cena al quartiere cinese in un piccolo restaurant. Brando era adorabile. «Buono, Anna?». «Buono», rispondevo io senza avere la più lontana idea di quello che stavo mangiando. «Adesso vi porto a fare una gita sul battello, scendiamo all’altro capo di New York». Io e Natalia ci guardammo terrorizzate, e sempre di corsa ci incamminammo a prendere il battello. Stava quasi partendo quando arrivammo. «Corri, Natalia, se no lo perdiamo», facevo io ormai divertitissima e con una ruzza addosso come una gatta impazzita. Cominciò a piovere. «Mo’ piove pure!» agonizzava Natalia. «Che jé fa? Cammina!» incalzavo io. Il tutto per incanto divenne meraviglioso. New York si allontanava imbrillantata, non sentivamo nemmeno freddo, i nostri nervi cominciarono a rilasciarsi. e ci godemmo l'incantevole spettacolo di una serata in verità diversa dalle altre. Sembravamo tre ragazzi che avevano marinato la scuola. La stanchezza passò d'incanto. Rientrammo all'una. Fu quella una delle più belle serate passate a New York!

La sera della prima arrivò. Durante tutto il giorno mi ero preparata quattro, cinque frasi in inglese. Le ripetevo continua-mente, in bagno, facendo le valigie. Ero proprio soddisfatta di me. «Che ce vo' a parla' inglese, quando uno sa quello che deve di'?». «Sentite», feci a Natalia e a Jonas quando vennero a prendermi «No!» urlarono veramente sorpresi e divertiti. Erano felici di questa mia improvvisata e mi guardavano con una certa tenerezza. Io dal canto mio mi sentivo un po' come le "ragazzine" quando dicono la poesia a Natale.

Un'ora dopo, sul palcoscenico del Museo d'Arte Moderna, dopo il perfetto discorso del direttore al pubblico per presentare me e il film» io feci la più bella figura da cane barbone che una attrice possa fare. Cominciai in inglese, seguitai in francese e finii in italiano. Ma il film fu un successo, un vero successo. Non credo di peccare di immodestia se faccio questa dichiarazione. Reputo sia un dovere verso me stessa, verso Visconti, mia regista e caro compagno di lavoro, e verso tutti quelli che hanno lavorato e collaborato nel film stesso. Penso sia un dovere soprattutto verso il mio pubblico, dare la cronaca esatta di quanto mi è successo in America.

Il giorno dopo partii. «Anna good-bye!» mi gridò un autista dal suo taxi. Non dimenticherò molto facilmente tutte le emozioni che ho provato a New York; non dimenticherò mai quello che ho ricevuto da questa sconcertante città, così dura, , e nello stesso tempo così umana.

1953 07 Tempo Anna Magnani f13

Renzino, vicino a me sul ponte, mentre il piroscafo si allontanava, era crollato. «Ti dispiace di lasciare New York?». Usci dalla sua bocca una specie di ruggito. «Be’, almeno per sette giorni dormi, non vedi come te sei ridotto!». Alle otto di sera bussò alla mia cabina, era in smoking. «Questo è matto, vo* mori»t pensai. «Ma dove vai adesso?». Era triste da morire. «A/ma. ho fatto un giro nel salone». «Be’?» feci io. «Non ci sono che vecchie su questo piroscafo». Scoppiai in una risata. «Meno male, allora siccome l'unica bona so' io, mo' te calmi pe' forza». Cosi, dopo esattamente un mese e dieci giorni, rientravo a Roma.

«Aho corri, annamo a pija' le valigie della Magnani. Corri!». Mi si allargò il cuore. «Qui non me sbaglio a parlà'», pensai. Sandro, Gemini, Di Sarlo, la Radio, erano tutti a ricevermi. I facchini tutti intorno a me incuriositi e festosi. Mi accompagnarono alla macchina. «Anna, dimme un po', come stanno gli italiani in America?» mi chiese uno di loro col viso quasi preoccupato; poi con un largo sorriso aggiunse: c Se sta mejo a Roma, da’ retta, Nannarè!». Arrivai a casa mia: Micia mi divorò dalle feste, quasi impazzita, urlava, piangeva, rideva, mi deve aver raccontato tutti i suoi guai nel suo linguaggio, non l'avevo ‘mai lasciata per tanto tempo. Spalancai subito le porte e dal mio terrazzo salutai Roma. Micia era vicina a me, anche lei guardava Roma, anche lei sembrava dalla espressione dei suoi occhi che la rivedesse dopo tanto tempo. Roma! Roma cosi diversa! Cosi maestosa, cosi dolce! La guardai bene a lungo, guardai tutti i suoi tetti* tutte le sue cupole, e più lontano ancora, il Gianicolo; tutto guardai.

Non avevo dimenticato nemmeno il più piccolo tetto, le sere che mi addormentavo a New York con Roma negli occhi.

Anna Magnani,«Tempo», anno XV, n. 29 e 30, 9-16 luglio 1953


Tempo
Anna Magnani, «Tempo», anno XV, n. 29 e 30, 9-16 luglio 1953