«Eduà, stai ccà!» mi disse 50 anni fa al primo incontro

Totò

Era un mio compagno sedicenne, che lavorava al Teatro Orfeo: un piccolo, tetro e lurido locale di periferia che tuttavia mi sembrò sontuoso.


Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate e di chioschi di acquaioli, più affollate dì gente aperta ai sorriso allora, quando alle dieci di mattina le attraversavo a passo lesto — avevo quattordici anni — per trovarmi puntuale al Teatro Orfeo, un piccolo, tetro e lurido locale periferico, dove, in un bugigattolo di camerino dalle pareti gonfie di umidità, per fare quattro chiacchiere tra uno spettacolo e l'altro. mi aspettava un mio compagno sedicenne che lavorava là.

Oggi è morto Totò. E io, quattordicenne di nuovo, a passo lesto risalgo la via Chiaia, e giù per Il Rettifilo, attraverso Piazza Ferrovia... Entro per la porta del palcoscenico di quello sporco locale che a me pare bello e sontuoso, raggiungo il camerino, mi siedo e mentre aspetto ascolto a distanza la Sua voce, le note della misera orchestrina che lo accompagna e l'uragano di applausi c'he parte da quella platea esigente e implacabile a ogni gesto, ogni salto, ogni contorsione, ogni ammiccamento del « guitto ». Do' una occhiata attorno: il fracchettino verde, striminzito, è li, appeso a un chiodo: accanto c’è quello nero. Quello rosso glielo vedrò indosso tra poco, quando avrà terminato il suo numero. I ridicoli cappellini... A barchetta, a tondino... e nero, marrone e grigio... sono tutti allineati sulla parete di fronte. Manca li tubino: lo vedrò tra poco, il bastoncino di bambù non c'è: lo avrà portato in scena. E li, sulla tavoletta del trucco? Cosa c'è in quel pacchetto fatto con la carta del giornale? E' la merenda: pane e frittata.

E la miserabile musica continua, e la Sua voce diventa via via ansiosa di trasportare altrove quell’orchestrina e di moltiplicarla. Dal bugigattolo dove mi trovo non mi è dato di vederlo lavorare, ma di sentirlo e immaginarlo come, come io lo vedo, come vorrei che lo vedessero gli altri. Non come una curiosità da teatro, ma come una luce che miracolosamente assume le fattezze di una creatura irreale che ha facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, e va, e poi torna sulla Luna di dove è discesa.

Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di entusiasmo di quel pubblico: il numero è finito. Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina, la porticina del bugigattolo viene spinta dall'esterno. Egli deve aprire e chiudere più volte le palpebre e sbatterle per liberarle dalle gocce di sudore che gli scorrono già dalla fronte per potermi vedere e riconoscere, e finalmente dirmi: «Eduà, stai ccà». E un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa.

Eduardo De Filippo, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967


Eduardo De Filippo, «Paese Sera», domenica 16 aprile 1967