Bonnard Mario
Breve biografia
Regista, soggettista, sceneggiatore, produttore, romano di Roma (come lui stesso amava ricordare), dov’era nato il 24 dicembre 1889, dopo aver compiuto gli studi tecnici superiori, e calcato per un breve periodo le scene di prosa, debutta nel cinema nel 1909, interpretando piccoli ruoli nei film diretti da Mario Caserini alla Cines.
Nel 1911, dietro le orme di Caserini, passa a lavorare per l’Ambrosio di Torino, dove interpreta molti lavori, fra i quali, Satana (1912), diretto da Luigi Maggi, un film di grandiose proporzioni e di vastissime linee, il primo tentativo italiano di film «a serie».
Con Satana, Mario Bonnard si rivela come un attore di grande stile, consolidando la sua fama. Quando Mario Caserini lascia l’Ambrosio per fondare la Films Artistica Gloria, lo vuole con sé, per interpretare Ma l’amor mio non muore e La memoria dell’altro, a fianco di Lyda Borelli, che esordiva sullo schermo. Questi film ebbero un grande successo popolare in Italia ed all’estero, e Bonnard diventa il primo “divo” della cinematografia italiana. Il suo ruolo di dandy colto e raffinato ispirerà ad Ettore Petrolini la macchietta di Gastone.
Sorse così nel 1914, la Bonnard Film, prima casa di produzione italiana intestata ad un interprete dello schermo, che produsse una serie di film di genere avventuroso-poliziesco: La bara di vetro, Serpe contro serpe, Titanic (niente a che vedere con la famosa nave), Il Tenente Berth. Ma la Bonnard Film ebbe breve vita: lo scoppio della prima guerra europea e il richiamo sotto le armi di Mario Bonnard costrinsero la giovane casa di produzione a sospendere l’attività.
Licenziato dall’esercito, ritorna brevemente a lavorare per Mario Caserini come interprete accanto a Leda Gys, e firma il primo film come regista nel 1916. Secondo alcune fonti: Catena, interprete Diana Karren (non ancora Karenne) e Umberto Spadaro; secondo altre: Treno di lusso, interpreti Leda Gys e lo stesso Bonnard.
A questo punto, forte di una lunga preparazione, il nostro si cimenta nella messa in scena, senza abbandonare del tutto l’interpretazione. Ritorna a Torino e costituisce, insieme con l’industriale Alfredo Fasola la Electa Film. Tra i primi lavori, L’altro io, ispirato a Lo studente di Praga.
Poi, Mario Bonnard ritorna a Roma, all’Unione Cinematografica Italiana. Sono di questo periodo Le rouge et le noir, Papà Lebonnard, Il Fauno di marmo, Mentre il pubblico ride (quest’ultimo, uno dei pochi film interpretati da Ettore Petrolini).
Dopo una breve interruzione, compose quello che molti ricordano come uno dei più riusciti tentativi di grottesco cinematografico: La Morte ride, piange e poi s’annoia…(1919). Ecco, per esempio, cosa scriveva Alessandro Blasetti nella sua rivista Cinematografo, anno 1927:
«Come attore – viva la faccia della franchezza – Bonnard è stato uno dei migliori fra i primi ma non ci ha mai entusiasmato. Come direttore artistico invece è stato il primo che ci abbia fatto assistere otto volte alla proiezione di un film italiano dopo aver cognito, nella nostra allor ventenne esuberanza goliardica, alcune esercitazioni acrobatiche su una sedia di platea del Corso Cinema a dimostrazione del nostro esplosivo compiacimento. Intendiamo riferirci – lo diciamo per puro dovere giornalistico – ai tempi del primo film “cinemotografico”, del primo film “fantasia-movimento” comparso sugli schermi internazionali: La Morte piange, ride e poi si annoia ideato e messo in scena appunto – oltre che interpretato – dal signor Mario Bonnard, nato in Italia, ivi allora domiciliato ed esercitante di professione. Con quel film Mario Bonnard direttore, allora alle prime armi, superò di mille atmosfere Mario Bonnard attore, allora già veterano e vincitore in molti artistici tornei. Sceneggiatura modernissima: nuovissimi criteri nell’impiego delle luci, taglio magistrale dei quadri, utilizzo intelligente d’ogni risorsa tecnica, trovate originalissime, accuratezza ed eleganza inusitate nella edizione dei titoli, scoperta della vera coreografia cinematografica… Tutto ciò non fu che cornice ai rilievi che la critica – parlata e discussa fra le persone intelligenti (allora meno di oggi esisteva una critica seria sulla grande stampa) – ebbe a fare sul valore artistico del film. Valore artistico del film che fu ben altro; e fu quello cioè di aver respinto in cinematografo e concezioni e sistemi teatrali per iniziare, sia pur con tutti i tentennamenti e le incertezze che inevitabilmente accompagnano ogni primo passo, la vera via della concezione e dei sistemi realizzativi cinematografici. La Morte piange, ride e poi si annoia infatti ci viene ricordata con frequenza anche oggi con gentilissimo e cavalleresco pensiero da molti fra i più quotati direttori artistici d’oltre oceano sia nei criteri di taglio, passaggi e successioni di quadri; sia nella originalità di alcune sue situazioni e trovate, sia sopratutto, nelle grandi linee di concezione-base e di espressione-base».
Dopo questo film, Bonnard diresse ancora per l’U.C.I. la messa in scena de I promessi sposi (che vinse una medaglia d’Oro al concorso internazionale di Torino), La gerla di papa Martin e Il tacchino. La crisi del cinema italiano lo porta a lavorare negli studi di Parigi e Berlino.
Nei primi anni del sonoro dirige alcuni film in doppia versione franco-italiana, e nel 1935 ritorna definitivamente in Italia.
Dal ritorno in Italia al 1962, lavora praticamente senza interruzioni. Muore a Roma il 22 marzo 1965.
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Mario Bonnard: un divo contro il divismo
Roma, Marzo 1921
Un divo contro il divismo. Pare impossibile, ma è così. L’ho dovuto constatare ierlaltro, assistendo alla prima visione di un film, proiettato dinanzi ad un pubblico ristretto d’invitati. E sono rimasto meravigliato ed ammirato di questo coraggioso gesto che rivela, nell’artista di eccezione, anche la sensibilità di un acuto conoscitore della psicologia del pubblico nostro e straniero. Il quale pubblico è ormai stufo e arcistufo di films nei quali il soggetto, l’ambiente, lo scenario, la tecnica, le masse, le luci — tutto insomma — debba essere soltanto scusa per far brillar in innumerevoli primi piani gli artificiosi sorrisi, gli svenevoli gusti e le caricaturali toilette delle prima parti…
Il pubblico diserta altresì, e a ragione, le sale dove vengono proiettate pellicole scritte, ridotte o inscenate da gente, che, avendo fallito nell’arte del teatro o in quella del romanzo, si è data al cinema dove, con aria di infinita degnazione e con un enorme corredo di prosopopea, cerca di gabellare per autentico un blasone d’intellettualità sul quale ci sarebbe molto da discutere.
Presa così fra il divismo, l’incompetenza e il pseudo-intellettualismo, l’arte e l’industria del cinematografo corrono in Italia grande pericolo, specialmente per opera delle Case americane le quali, con senso di praticità e mezzi enormi, tentano di sopraffarci su tutti i mercati.
Era quindi ora di reagire. Di reagire dimostrando come anche da noi si sappia — quando si vuole — ideare ed inscenare films che presentino tutto un complesso di elementi atti ad affermare l’attenzione dello spettatore, a farlo sorridere e ridere, a commuoverlo, cogliendo spunti di vita e deformandoli con garbato senso di caricatura o con elegante paradosso. Mario Bonnard ha saputo far questo: bisogna riconoscerlo. Ha segnato una pietra miliare sulla via del progresso nell’arte dello schermo. Ha fatto insomma qualcosa di assolutamente nuovo o di sicuro esito, già affermato nella prima visione dal non facile pubblico che assisteva. C’erano spettatori della produzione, numerosissimi monopolisti e concessionari di vendita di pellicole, per l’Italia e per l’estero. C’erano le notabilità più in vista della critica e c’era anche una numerosa rappresentanza della capitale: dal senatore Pompeo Molmenti al marchese Franco Sacchetti, dal duca Lante al marchese Gerin, al marchese Patrizi.
E il film La morte ride, piange e poi s’annoia ebbe applausi unanimi, schietti entusiastici, non soltanto ad ogni fine di atto, ma anche — come suol dirsi in gergo teatrale — a scena aperta. Perché questo grottesco sensazionale ha in sé una quantità di elementi di irresistibile vis comica, garbata fine, profonda, umana, e nel contempo scevra da ogni volgarità — da allietare grandi e piccini, pubblici raffinati e folle domenicali. C’è un humour così incisivo e tagliente, una caricatura così precisa e originale della vita e… dell’arte — che il sorriso, il migliore, sale alle labbra o il riso prorompe istantaneo , irresistibile. E l’azione, fitta organica, brillantissima per contrasti, si snoda attraverso il prologo e le cinque parti, lasciando il pubblico nella continua ansietà di “saper come vada a finire”, incatenato dall’interesse sempre crescente della favola e avvinto dalle trovate genialissime che si susseguono di quadro in quadro.
Non dovrei parlare del film, perché altrimenti cadrei sotto le sanzioni della pubblicità: ma, per una volta tanto, col consenso dell’amico Bommartini, dò uno strappo alla regola: non potrei del resto farne a meno per giustificare dinanzi al pubblico l’intonazione di questo mio scritto.
C’è dunque in questo film, un accuratezza di particolari — non solo — ma di scelta delle persone e degli artisti, che superano quanto abbiamo visto nelle migliori cinematografie d’oltre Alpe e d’oltre Oceano. Ogni tipo è stato scelto con cura: nella scena del Club della Morte, da Van Riel, che funge da presidente, all’ultimo figurante, tutti sono a posto nel fisico del ruolo. Nella scena del Circolo dei nobili spiantati — una mansarde in cui un rigoroso cameriere gallonato serve acqua fresca in vecchie bottiglie di champagne e una sigaretta soddisfa a turno il desiderio di fumare di otto o dieci blasonati decaduti — ogni attore è una persona: non c’è più l’odiosa massa dei cachets scalcinatissimi, con parrucche messe di traverso e con le barbe convenzionali… Ci sono tipi veri scovati chissà dove. Tipi e figure che, messe sullo schermo, equivalgono una precisa descrizione di abile penna o di magistrale pennello, superando anzi, perché sono veramente vivi, perché appartengono a quel realismo di vita che l’arte rappresentativa deve talvolta scolorire per non apparire incredibile e inspirata a esagerazione di fantasia.
Mario Bonnard non ha temuto di circondarsi di autentici elementi di vita nella sua interpretazione d’arte. Autore, sceneggiatore ed attore, ha rinunciato (con modestia alla quale non siamo abituati negli ambienti della scena) ad ogni facile esaltazione della propria personalità. Ha saputo mirabilmente conservare le proporzioni ed i piani della vita reale con una abilità prospettica mirabile per gusto artistico. Ha superato con un mirabile slancio il Bonnard — che pure era stato meritatamente apprezzato in Rouge et noir ed in Papà Lebonnard, nel Rifuggio all’alba e in Mentre il pubblico ride — rivendicando al proprio intuito ed alla propria personalità artistica meriti che lo mettono in primissima linea nel mondo dei creatori di films.
La morte ride, piange e poi s’annoia avrà in Italia e all’estero un successo enorme: sarà veramente uno di quei films che si ricordano a distanza di tempo, come quei rari libri che possono essere considerati i classici dell’umorismo e della satira. Il pubblico inglese che conosce il Bonnard attraverso Rouge et noir, proiettato con grande successo anche in un teatro londinese, comprenderà e gusterà questo film con una espressione di gaio e profondo humour , degno di Twain. Il pubblico parigino gusterà tutta la finezza di questo pince sans rire che possiede quell’arma dinanzi alla quale Napoleone diceva non essere difesa: lo spirito della beffa.
Ma di un’altra cosa bisogna riconoscere il merito di Bonnard: di essere un assiduo, tenace, fervido lavoratore, un appassionato della sua arte e un illuminato e contenzioso direttore artistico. Il quale non infarcisce la sua produzione di zavorra da imporre poi ai concessionari insieme ai films di successo. Egli crea ed esegue soltanto lavori di eccezione che possono essere accettati a scatola chiusa essendo sufficiente per garantirgli l’origine editoriale. Di questa signorilità anche nel ramo industriale dell’arte non potevamo tralasciare di farne cenno. E per ciò siamo fin d’ora sicuri che le nuove pièces in lavorazione alla Bonnard Film: L’amico di Marco Praga, interpretato da Vittoria Lepanto, e L’amor mio non muore, ideato e diretto da Wladimiro Apolloni, riusciranno nobilissime opere d’arte e lavori di grande successo.
Carlo Dall’Ongaro, «Il Piccolo», marzo 1921
Eugenio Giovannetti, con i suoi articoli "senza peli sulla lingua", ha cercato di indicare quali sono — a suo modo di vedere — i difetti dei nostri registi. Ma hanno veramente dei difetti i nostri registi? E sanno di averli? E sono disposti a confessarli? Ecco lo scopo di questa inchiesta che si apro oggi con l'arguta risposta di Mario Bonnard.
Caro Doletti, non ho avuto la possibilità di leggere l'articolo « Senza peli sulla lingua » scritto su di me da Eugenio Giovannetti, perchè in quell'epoca ero in campagna; ma un mio amico, che venne a trovarmi, me ne parlò con un certo riguardo e mi consigliò di non leggerlo. Ero in campagna per ristabilirmi!
Ora tu mi chiedi quali sono i miei difetti di regista; ti rispondo subito e volentieri anche per tranquillizzare Giovannetti che si preoccupa tanto di me e rassicurarlo che almeno non sono un illuso. I miei difetti, come regista, sono tanti che, se dovessi enumerarli, discuterli, sezionarli, dovrei scrivere un articolo talmente lungo che tu rinunceresti a pubblicarlo o forse lo amputeresti a modo tuo. Perciò è meglio parlare di uno solo dei miei difetti: il principale, il più forte, quello che mi nega — ogni volta che vado in proiezione ad assistere ad un mio film — di essere talmente soddisfatto da esclamare: «Questa volta ho fatto un film perfetto! ». Dunque, questo è il mio difetto più importante: il Signor Difetto, che mi perseguita da tanti anni c che io cerco disperatamente. Ma lui è piu furbo di me: non si fa vedere, si nasconde ed appare soltanto quando si accorge che io sonnecchio,
sono distratto e allora, senza pietà, ne approfitta per cambiarmi le carte in tavola e per farmi fare tutto quello che vuole. Ciò mi procura un malessere terribile ed allora, con uno sforzo, cerco di uscire dal mio torpore: ritorno in me, mi sembra di vederlo, di poterlo afferrare, ma lui è già scomparso! Eppure mi è vicino, perchè lo sento ridere e sghignazzare:
— Anche questa volta te l'ho fatta, caro Bonnard, te ne accorgerai in proiezione!
Infatti è così: è sempre lui che vince! Ah, difetto, se potessi trovarti! Ma io non lo potrò mai. Soltanto una terza persona, una che tu non conosci, potrebbe afferrarti per la gola e trascinarti davanti a me. E allora si, ti farei parlare, fi costringerei con la forza a dirmi tutto il male che mi fai... Ma sfa pur tranquillo, signor Diletto, questa terza persona se ne infischia di te e di me. Si, ogni tanto scrive nei giornali e parla dei miei film come gli altri: dice male, troppo male, per dir male o dice bene, troppo bene, per dir bene; ma non si preoccupa di cercare te, che sei la mia rovina. E sono certo, caro Difetto, che quando leggerai quelle critiche, riderai a crepapelle anche di lui e gli dirai: « Non mi trovi! Hai trovalo tanti difetti, ma quelli che vedono tutti: hai detto tante parole, ma di me non hai mai parlato; perciò non hai risolto nulla ».
Ed io sono condannato: non potrò mai liberarmi di te!
Mario Bonnard, «Film», 28 febbraio 1942
Bonnard, il rubacuori sempre in frac e cilindro
Fu il Rodolfo Valentino del cinema italiano, il viveur, il rubacuori impenitente, lo «scettico blu». E per molti anni trasferì nella vita il personaggio che interpretava sullo schermo; girava in frac, e prendeva il caffèlatte la mattina posando sul tavolo cilindro, guanti e bastone, incurante degli sguardi esterrefatti che seguivano ogni suo gesto. Fuori, sulla strada, si raccoglieva immancabilmente un gruppo di ammiratrici che scrutava, al di là del vetro, le sembianze dell'irraggiungibile principe azzurro.
Fu il partner ideale della Borelli e insieme diedero vita a molti eroi dannunziani. Furono loro a inaugurare il «primo piano» con un bacio rimasto famoso nel film «Ma l'amor mio non muore». Affiancò ben presto all'attività di attore quella di regista seguendo le orme di Gallone e di Campogalliani, e in quest’ultima veste ha continuato la sua carriera cinematografica, dopo l'avvento del sonoro.
Film principali: «Ma l’amor mio non muore», «Florette et Patapon», «Rouge et noir», «La stretta», «La pantomima della morte», «Pupille nell'ombra ».
Franco Calderoni, «Corriere d'Informazione», 18 dicembre 1954
Bonnard, l'ultimo personaggio del cinema italiano delle origini
Roma, 23 marzo.
Il regista Mario Bonnard, che era stato uno dei più noti attori del cinema muto, è morto nella sua abitazione al quartiere Prati, vittima di un attacco cardiaco. Aveva 76 anni. I funerali si svolgeranno domani, nella chiesa dì San Giovacchino.
Questa volta il cinema italiano è proprio colpito al cuore, giacché con la vita di Mario Bonnard gli s'è spezzato anche l'ultimo legame col suo remoto passato, con Quell'era primaria del mondo di cellu Ioide che si catalizza intorno al titolo d'un film celeberrimo, Ma l'amor mio non muore (1913), interpretato appunto dal nostro, al fianco sinuoso di Lyda Borelli. Diretto da Mario Caserini per la «Giono », e fortunato all'estero non meno che in patria, era un film caratteristicamente liberty ossia d'ispirazione dannunziana; più affascinante (allora) che responsabile.
«A noi attori» dice infatti Bonnard nella Storia del etne- ma di Pietro Bianchì e Franco Berutti, « non importava men te del soggetto, e neanche ce ne facevano saper niente. Il regista ci teneva a conservare il segreto e non rivelava l'intreccio, contentandosi di spiegarci, volta per volta, l'azione che si voleva da noi. Anzi spesso ci dava a intendere frottole sull'andamento logico della vicenda, alla quale poi pensava lui, quando ci pensava, col montaggio ». A quest'azione purissima, bilanciala da scatti e languori, Bonnard s'intonò non meno bene della sua partner, e anche prima del film che gli dette più fuma, con Santarellina dello stesso Caserini » UHI) e con Satana di Luigi Maggi (1912), il cui filo conduttore anticipava la trovata tematica di Intolerance, si pose fra gli attori giovani più raffinatamente fataleggianti.
Coi capelli ondulati che svendevano alle famose basette battezzate col suo nome, il volto pensosamente pallido e oli occhi cerchiati dalle supposte ombre del pensiero, nel fiorire di una filmografia che si lascia giudicare attraverso i titoli (Anima perversa, Il treno degli spettri, Colei che tutto soffre, Fiori d'amore... fiori di morte. La veglia funebre. La pantomima della morte eccetera eccetera), Bonnard tenne testa ai Carminati, Collo, Novelli, Capozzi e altri leoni della recitazione muta, per una qualità tutta sua di ingenuo satanismo, quale Petrolini ebbe poi a scolpire nella famosa e veramente bonnardiana macchietta di « Gastone ».
Si è detto ingenuo, perché l'uomo, a conoscerlo, era d'una semplicità che incantava, e anziché inebriarsi di quelle pose seppe metterle a frutto d'esperienza, togliendone un sicuro mestiere di cineasta ancor prima che questa parola si dicesse. Fondata a Torino nel '15 una propria casa di produzione, la « Bonnard Film », die poi rinacque a Roma dopo hi guerra, dal '17 al '21, attese alla doppia fatica di interprete e di regista, specializzandosi in riduzioni di note opere letterarie e teatrali (Germana. Papà Lebonnard, Le rouge et le noir, Il tacchino), e fra quelle azzeccando la sua pellicola più caratteristica, dal titolo minuettistico « La Morte piange... ride... e poi si annoia ».
Dopo proficue esperienze in Francia e Germania, fu così in grado di sopravvivere almeno per metà al tramonto del muto; e quest'ultimo Bonnard, caparbiamente impianta tosi sulla propria leggenda, (da lui garbatamente ironizzata nel semibiografico Gastone, interpretato da Alberto Sordi) è quello che il grosso del pubblico con più prontezza ricorda: l'autore, anche nella sceneggiatura, di Avanti c'è posto! con Aldo Fabrizi e di Campo de' Fiori con Anna Magnani, l'uno e l'altro così cordiali e bonari, così onestamente popolareschi. Fino al '59, l'anno appunto di Gastone, ini cui cedette al motivo o lui insolito della recherche, fu attivissimo, affidandosi via via a interpreti di cartello, quali Ruggeri, Musco, Meritili, Besozzi. De Sica, Brazzi, Simon, Erminio Spalla e i già ricordati. In tanta spensierata fagocitazione di soggetti belle fatti non ali sfuggirono I Promessi Sposi, da lui ridotti e sceneggiati nel lontano '23. né i motivi di freschissima attualità quali Il feroce Saladino del '37. Uomo di cinema in senso un po' stretto, inteso alla piana comunicazione, conferì non poco alla popolarità dello stesso negli anni delicati della na scita e dello sviluppo; e come divo prima poi come autore, seppe, guardare il pubblico nel bianco degli occhi. Quanttunque nato a Roma nel 18S9, aveva respirato a lungo, per motivi di lavoro, l'aria di Torino; e anche questo avere nel sangue le due città attraverso le quali si è fatto il nostro cinema, conferisce alla sua figura irrevocabile un che di compendioso e patetico.
l.p. (Leo Pestelli), «La Stampa», 24 marzo 1965
Filmografia
Regista
Treno di lusso (1917)
L'altro io (1917)
Mentre il pubblico ride (1919)
Papà Lebonnard (1920)
Il fauno di marmo (1920)
Il milione (1920)
Il rosso e il nero (1920)
L'amica (1920)
I promessi sposi (1922)
La maschera che ride (1924)
Die Sünderin (1928)
I cavalieri della montagna (Der Sohn der weißen Berge) - condiretto con Luis Trenker (1929)
Legione bianca (Der Ruf des Nordens), regia di Nunzio Malasomma - Mario Bonnard supervisore (1929)
Fra Diavolo (1931)
Cinque a zero (1932)
Il trattato scomparso (1933)
La marcia nuziale (1934)
Milizia territoriale (1935)
L'albero di Adamo (1936)
Il feroce Saladino (1937)
Il conte di Bréchard (1938)
Jeanne Doré (1938)
Trenta secondi d'amore (1938)
Frenesia (1939)
Papà per una notte (1939)
Io suo padre (1939)
La fanciulla di Portici (1940)
La gerla di papà Martin (1940)
Il ponte dei sospiri (1940)
Il re si diverte (1941)
L'uomo del romanzo (1941)
Marco Visconti (1941)
Avanti c'è posto... (1942)
Rossini (1942)
Campo de' fiori (1943)
Che distinta famiglia! (1943)
Il ratto delle Sabine (1945)
Addio, mia bella Napoli! (1945)
La città dolente (1948)
Margherita da Cortona (1950)
Il voto (1950)
Stasera sciopero (1951)
L'ultima sentenza (1951)
I figli non si vendono (1952)
Tormento del passato (1952)
Frine, cortigiana d'Oriente (1953)
Tradita (1953)
La ladra (1955)
Mi permette, babbo! (1956)
Afrodite, dea dell'amore (1958)
Gastone (1959)
Gli ultimi giorni di Pompei (1959)
I masnadieri (1961)
Attore
Otello, regia di Gerolamo Lo Savio (1909)
Parsifal, regia di Mario Caserini (1912)
Santarellina, regia di Mario Caserini (1912)
Satana, regia di Luigi Maggi (1912)
Florette e Patapon, regia di Mario Caserini (1913)
Ma l'amor mio non muore, regia di Mario Caserini (1913)
Titanic, regia di Pier Angelo Mazzolotti (1915)
La pantomima della morte, regia di Mario Caserini (1915)
Don Giovanni, regia di Edoardo Bencivenga (1916)
Passano gli Unni, regia di Mario Caserini (1916)
Ferréol, regia di Edoardo Bencivenga (1916)
La figlia di Jorio, regia di Edoardo Bencivenga (1917)
La maschera che ride, regia di Mario Bonnard (1924)
Otello, regia di Gerolamo Lo Savio (1909)
Parsifal, regia di Mario Caserini (1912)
Santarellina, regia di Mario Caserini (1912)
Satana, regia di Luigi Maggi (1912)
Florette e Patapon, regia di Mario Caserini (1913)
Ma l'amor mio non muore, regia di Mario Caserini (1913)
Titanic, regia di Pier Angelo Mazzolotti (1915)
La pantomima della morte, regia di Mario Caserini (1915)
Don Giovanni, regia di Edoardo Bencivenga (1916)
Passano gli Unni, regia di Mario Caserini (1916)
Ferréol, regia di Edoardo Bencivenga (1916)
La figlia di Jorio, regia di Edoardo Bencivenga (1917)
La maschera che ride, regia di Mario Bonnard (1924)
Riferimenti e bibliografie:
- Fonte: https://sempreinpenombra.com
- Carlo Dall’Ongaro, «Il Piccolo», marzo 1921
- Mario Bonnard, «Film», 28 febbraio 1942
- Franco Calderoni, «Corriere d'Informazione», 18 dicembre 1954
- l.p. (Leo Pestelli), «La Stampa», 24 marzo 1965