L'anima nomade di Gianna Maria Canale
Nessuna ambizione, un poco di cinismo, un segreto amore per il suo mestiere: cicala intelligente e sensibile Gianna Maria Canale guadagna per spendere, spende per muoversi, si muove per trovare nella sua anima il senso vero della sua vita.
Dieci anni or sono fu inaugurata in in via Archimede (dove si stava stipando tutto il cinema romano) una palazzina di cinque piani contrassegnata dal numero civico 149. Il piano superiore era di Silvana Mangano e Dino De Laurentiis, sotto di loro abitavano il regista Lionello De Felice e Carlo Dapporto. Al secondo piano il regista Mario Monicelli, al primo lo sceneggiatore Sandro Continenza e al pianterreno abitavano il regista Riccardo Fre-da e una delle promesse più sicure del cinema italiano: Gianna Maria Canale. Aveva debuttato nel cinema direttamente come protagonista e aveva investito i suoi primi guadagni in quell'appartamentino. Ventenne, taciturna e bellissima sembrava la conturbante reclame di una gioventù ambiziosa e riservata che allora non era di moda.
I suoi coinquilini prevedevano per lei un avvenire radioso anche se era entrata nel cinema col piede sinistro: interpretando, cioè, un film di cappa e spada. Poche settimane dopo il primo incontro la rividi impegnata in una partita a biliardo in casa dello sceneggiatore Ennio De Concini. Lei e Riccardo Freda contro il padrone di casa e Pier Paolo Pasolini. Quella sera seppi che aveva firmato un contratto con la Metro Goldwyn Mayer e che sarebbe partita per Hollywood. Ma cinque mesi dopo era di nuovo fra noi. Aveva interpretato con Van Johnson un film che, ancor prima di essere visto fu definito una "bufala” dagli amici romani. Gianna, delusa ma non doma ritrovò subito il suo posto di eroina nei film avventurosi di Freda. Poi cominciò a viaggiare e la persi di vista.
«L’ho ritrovata in questi giorni più bella di allora, raffinata, elegante, sicura ma anche un po’ delusa».
«Un po’? io direi tanto. Enormemente delusa».
La sua voce risuona nel silenzio di un caffè di via Veneto immerso nella penombra del pomeriggio.
«Ho degli amici intellettuali, o pseudo intellettuali, che quando sto per iniziare un altro dei miei film di cappa e spada, romani greci o teutonici cominciano a dire: ma no, smetti, rifiuta. Bene — rispondo — quando arriva la rata delle tasse la mando a voi perchè qualcuno deve pur pagarle no? Io se non faccio quei film le tasse non me le pago. E loro: ma tu hai delle possibilità enormi... Io alle possibilità non ci credo. Intanto non credo nel cinema...».
«Non ci crede?»
«No. Al cinema come arte no. Mi dispiace, ma non ci credo. L’arte è un prodotto individuale, non collettivo. Il cinema, come il teatro, è spettacolo. Quindi quando mi rimproverano i film che faccio io li difendo perchè soddisfano un gusto del pubblico... un gusto cattivo perchè non c’è dubbio che è indice di cattivo gusto andare a vedere i film che faccio io... e non solo io. Ma cosa vuole?, a un certo momento bisogna dare da mangiare al pubblico quello che chiede. E’ vero o non è vero? Se un giorno il gusto del pubblico seguirà un’altra direzione, va bene... lo accontenteremo. Io purtroppo sarò troppo vecchia per fare quello che il pubblico vorrà...».
Rotea quegli straordinari occhi da polena profana, mentre le domando:
«Film diversi da questi non le sono mai capitati?»
«Certo — risponde divertita — ma sempre boiate... Non c’è niente da fare. Non ho avuto fortuna. I produttori e i registi non hanno fiducia in me: mi hanno vista talmente tante volte nei film in costume che ormai mi immaginano solo vestita da regina o da sacerdotessa. Mai che mi diano un ruolo da duchessina... in Italia inscatolano. Anche all’estero, ma meno. Guardi per esempio Susan Haywàrd che è passata dai ruoli biblici a "Piangerò domani”...».
«Perchè ha avuto il coraggio di rifiutare i film biblici»
«Lei lo può fare, evidentemente. Io no: il giorno in cui mi fermo sono perduta».
«Ma le piace il suo mestiere?»
«Si, purtroppo sì... l’ho adorato da quando avevo cinque anni, cioè da quando vidi il primo film. Era "Habanera” con Zarah Leander. Andai a casa e dissi a mia madre: "Diventerò un’attrice”. Lei rispose: ”Tu sei scema”. E’ sempre stata una passione per me il cinema».
«Una passione corrisposta?»
«No, non direi... anzi il contrario. Come tutte le passioni del resto: c’è sempre uno che ama e l’altro che si lascia amare o scappa. Anzi le dirò che mi meraviglio di essere riuscita a farmi un nome con questi film. Arrivo a non crederci, qualche volta... sono disgustata... Mi disprezzo quando sono obbligata ad accettare. Ma non ci posso fare niente. Del resto questo serve a darmi altre soddisfazioni... Quando riesco a comperarmi un quadro o un mobile... questo mi ripaga».
Vendendo al momento buono l’appartamentino di via Archimede, la Canale aveva acquistato un terreno sul quale ha poi costruito una bella villa piena di mobili antichi e di quadri d’autore: due Brueghel, una Madonna del Guardi, due del Bellotto, un Magnasco...
«Io tengo più alla casa che alle cose personali dice. — La prima pelliccia di visone me la sono comperata quando avevo finito di pagare e di arredare la casa. Cioè quattro anni fa. Non ho mai lavorato tanto come in quel periodo. Poi ho rallentato. Adesso lavoro solo quando ne ho bisogno. Per il mese di luglio mi hanno offerto quattro film. Li ho rifiutati. Io in luglio vado al mare, vogliamo scherzare? E la mia vita se no a che mi serve? Un giorno una nostra famosa attrice mi incontra all’aeroporto e mi dice: beh, dove vai? sei di partenza? Dico: sì cara mia, si è giovani una volta sola. Che cosa si pretende? Che faccia un film dopo l’altro? Per guadagnarci che cosa? Ah no! Io me ne vado e quando non ho più soldi ritorno, rilavoro per poi rispendere tutto immediatamente. Io voglio fare come la cicala: canta, canta, canta finché scoppia. Che importa? Apres moi le deluge. Lo so che bisognerebbe essere abbastanza saggi: non dico mettere tutto da parte, ma essere leggermente previdenti. Finché si è giovani, carini, ricchi la gente è tutta panna con noi. Poi ci danno certi calci... Guardi, io non credo nell’umanità. Mi dispiace di doverlo dire... La nostra vita è abbastanza difficile e allora tanto vale fare come faccio io: vado avanti finché mi troverò davanti a un muro con sópra scritto: fine. Se avessi incominciato in un’altra maniera...».
Si ferma. Accende una sigaretta. Beve il caffè doppio. Si aggiusta il foulard che le copre i capelli. Prende tempo. Vale la pena di iniziare il rosario dei ”se” dei ”ma”?
«...se avessi incominciato in un’altra maniera — riprende — avrei fatto molto meglio perchè tendenzialmente credo di essere fatta per questo mestiere. Così come sono convinta che se facessi del teatro lo farei bene. Non lo faccio perchè sono pigra: mi piace fare una sfacchinata tutta insieme e poi chiudere. Temo proprio di essere molto volubile. Ecco perchè amo il cinema: perchè è volubile, vario; troupes nuove, attori nuovi, soggetti nuovi, posti nuovi. Io sono una nomade: non riesco a stare tre settimane nello stesso posto. Questo lavoro mi piace ma, per riuscire bene, ci vuole l’ambizione e io non l’ho. Faccio tutto con molta coscienza professionale, ma nessuna ambizione... non solo nel lavoro ma anche nella vita... Forse quella che avevo all'inizio è stata stroncata. Quando ho cominciato credevo moltissimo di poter fare delle cose... poi ho visto che non quagliava, che mi arenavo e ho cercato di spegnerla. E non invidio quelli che ce l’hanno. Capisco un Gauguin che pianta tutto e se ne va per fare delle cose formidabili... ma nel nostro mestiere! A che cosa mi servirebbe l’ambizione? Per essere un po’ più conosciuta? Per guadagnare di più? Non ne vale la pena. Io non credo nel mio mestiere, pur amandolo immensamente... Mi viene da ridere quando vedo quelli che fanno i salti mortali per arrivare... a fare che cosa? gli stessi film che faccio io su un piano internazionale. Non mi vengano a dire che fanno dell’arte! Sono un po’ cinica di fronte al lavoro? Ma questo non vuol dire, che se trovassi l’occasione buona l’ambizione non risusciterebbe... forse è fuoco sotto la cenere. Ma non credo che avrò mai l’occasione».
Le chiedo se ricomincerebbe da capo sapendo di arrivare a questo stesso punto.
«Ah, no! Non ci sono soldi che tengano. Se io lavorassi soltanto per il denaro... avrei potuto trovare mille occasioni per avere quello che ho. Un marito ricco, per esempio. Non mi sarebbe stato difficile trovarlo. Ma io amo il mio mestiere e non so se lo lascerò mai. Ogni tanto mi dico: sono stufa... vorrei essere una moglie con dei figli... Poi ci ripenso e so che non ci riuscirei. Gli attori... brutta stirpe. Nasciamo così: buoni e cattivi. Anche cattivi attori si nasce, sissignore. Siamo degli istrioni e lo sappiamo, lo sentiamo. In ognuno di noi ci sono almeno venticinque persone diverse che lottano per venire fuori e avere la meglio sulle altre. L’attore si abbandona a tutte; gli altri invece imparano a soffocarle, a comprimerle. Sarebbe interessante analizzare i personaggi dominanti che si agitano dentro di noi».
«Quali sono i suoi?»
«La ragazzina e là donna fatale... Certo anche la donna fatale se no come farei a combattere la timidezza? Come vede sono senza mezze misure. Proprio a me doveva capitare di essere un’attrice di mezza misura! Ecco perchè se ritornassi indietro non farei più questo mestiere. Ma se dovessi ricominciare arriverei a mille compromessi, cosa che non ho fatto questa volta. La mancanza di ambizione è stata la mia rovina... E pensare che credevo di averne tanta! Forse mi sono sbagliata a misurarla».
Pronuncia la requisitoria contro se stessa con voce ferma e alta; con un tono distaccato come chi parla di un’altra persona. Ma c’è anche un po’ di compiacenza e di ironia nella sua voce: la compiacenza che deriva dal sentirsi privi di complessi, dal vedere che i piatti della bilancia sulla quale abbiamo depositato il bene e il male rimangono ancora in equilibrio.
«Credo di essere una delle poche persone soddisfatte di quello che hanno — dice sorridendo. — Se anche fossi, come si dice, "arrivata” che cosa avrei di più? Noie, solo noie». Fra i venticinque personaggi che, si agitano istrionescamente dentro Gianna Maria Canale, ci deve essere anche quello di un saggio con la barba bianca.
Gianfranco Calderoni, «Successo», maggio 1960
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Gianfranco Calderoni, «Successo», maggio 1960 |