Liliana de Curtis: «Totò m'ha fatto piangere»
Un libro della figlia rievoca il grande comico. «Era gelosissimo di me», confida Liliana de Curtis, l’erede dell’indimenticabile artista che la Rai sta celebrando con una serie di film. «Una volta mi affibbiò un sonoro ceffone, l’unico della sua vita, per avermi scoperta con un ragazzo» - «Morì lasciando quattrocento milioni di debiti: aveva un cuore troppo generoso».
Roma, maggio
La Rai ci propone un Totò esilarante in una serie di film che sono ormai consegnati alla storia del nostro cinema (tredici, per l’esattezza, in onda sulla prima rete, il martedì alle 21,40). Alcuni titoli, Totò le Mokò, Totò Story, Totò contro il pirata nero, Totò, Peppino e i fuorilegge , Totò e le donne, La banda degli onesti, Totò Tarzan, Totò cerca moglie.
Il comico napoletano, che è morto a Roma nel 1967 all’età di sessantanove anni, ha lasciato una figlia, Liliana de Curtis, 56 anni, sposata e tre volte madre, che sta per dare alle stampe una voluminosa biografia sul padre nato umile ma divenuto principe e attore. È lei a offrirci un ritratto inedito di Totò, attraverso alcuni aneddoti, sinora sconosciuti, piacevoli quanto le Gli era concessa una sola passeggiata al guinzaglio, la notte, sul ponte. Tuttavia, nonostante le precauzioni, il clandestino fu scoperto; ma grazie alla complicità prezzolata di alcuni marinai non fu gettato fuoribordo. Sbarcò a Barcellona nascosto in una cesta di biancheria».
«Si è parlato molto dell'infanzia povera di Totò a Napoli. Ma quanto povera?»
«SEMPRE UMILIATI»
«Papà veniva da una famiglia poverissima. Era figlio unico ma in casa c'erano, oltre alla mamma, la nonna, gli zìi, i cugini: insomma, era un nucleo familiare numeroso. Il padre era un aristocratico, ma lo riconobbe soltanto molto più tardi: allora pesò molto, sul ragazzino, quella sua condizione degradante di "figlio di NN”. Naturalmente non c’erano soldi per acquistare degli abiti ed era la nonna che, in qualche modo, gli confezionava i vestitini. Un giorno cucì per lui un paio di pantaloncini con la stoffa di un suo vecchio vestito a fiori. Erano fatti anche un po' maluccio. Quando Totò uscì di casa, i ragazzini del rione presero subito a sfotterlo. Papà ci rimase tanto male che si strappò tutto di dosso e tornò a casa in lacrime. Per molti giorni rifiutò di uscire.
«Durante la sua infanzia, papà aveva sofferto molto: ecco perché era così portato a dare importanza ai problemi degli altri. Della miseria aveva sentito il bruciore addosso e questo si coglie anche nei suoi film: in fondo non ne ha fatto uno che non fosse tratto dalla vita vera, con personaggi sempre umiliati. Per esempio, questa faccenda dei caporali: lui diceva che nella vita tutti ne abbiamo uno, magari un capo ufficio, o un marito, insomma qualcuno che si diverte a umiliarci. E spesso è una persona più mediocre di noi, che cerca di ristabilire un equilibrio di valori umani mortificando gli altri, proprio come i caporali.
«Da bambino papà fu mandato in collegio. Ed è proprio lì che nacque, per puro caso, la sua maschera comica. Un giorno, mentre giocava a pallone con altri ragazzi, l'istruttore, senza volerlo, lo colpì con un pugno, rompendogli il setto nasale. Sembrò una disgrazia, invece fu la sua fortuna. Quel giorno il trovatello Antonio, figlio di NN, che solo a ventun anni sarebbe diventato il principe de Curtis, quando il nonno finalmente si decise a sposare la nonna, cessò di esistere. E nacque il grande Totò. Fin da ragazzino ha sempre avuto una grande "vis comica", soprattutto la straordinaria facilità di cambiare rapidamente espressione: si divertiva a muovere i muscoli della faccia davanti allo specchio per ore».
«Come divenne attore?»
«Ci fu la guerra, quella del ’15-’18. Papà era del ’98 e fu richiamato. Sapete come succede, in guerra si organizzano anche gli spettacoli per la truppa, e papà fu messo su un palcoscenico con una platea piena di marmittoni, libero di improvvisare. Fu un successo travolgente. Subito dopo la guerra, a vent’anni, si trasferì a Roma, e il suo nascente amore per il teatro lo portò a cercare lavoro allo Jovinelii. Gli offrirono un incarico da maschera.
«Accettò. Allora lo Jovinelli metteva in scena delle ottime riviste. Un giorno il protagonista si ammalò poco prima della rappresentazione. Allora papà si presentò al capocomico e gli disse: ”Posso sostituirlo io”. ’’E tu chi sei?". "Sono la maschera del teatro”. ”Ma sei matto? Non conosci neppure la parte”. "Invece la conosco benissimo. Standomene in platea l’ho sentita decine di volte”. Fu così che il capocomico accettò quella soluzione di ripiego. E non se ne pentì. Quella sera il teatro impazzì dalle risate, l’attore ammalato fu immediatamente licenziato e sostituito con papà, ed ebbe inizio la carriera di Totò.
«Molto teatro, prima, e poi il passaggio al cinema. Mio padre ha interpretato almeno un centinaio di film, guadagnando una fortuna, che però ha speso donando a piene mani. Quando è morto ha lasciato quattrocento milioni di debiti con il fisco, uno scoperto che siamo riusciti a saldare solo di recente, con i diritti d’autore».
«Che padre era Totò?»
«Era molto protettivo e, come si direbbe oggi, all’antica. Aveva conosciuto proprio la vita da marciapiede; praticamente, a Napoli, era cresciuto per strada. Perciò aveva paura, per me, del contatto con la gente. Temeva che il mondo potesse contaminarmi. Non mi ha mai mandata a scuola perché diceva che lì c era troppa gente, si conoscevano ragazzi e ragazze e si imparavano brutte cose; perciò mi ha fatto studiare privatamente, dopodiché andavo a sostenere gli esami nelle scuole pubbliche.
«Anche quando diventai una signorinella, dovetti subire la soffocante compagnia di istitutrici che non mi lasciavano sola un momento. D’estate eravamo soliti recarci in vacanza a Capri, dove papà prendeva in affitto una casa molto vicina al mare, dalla quale si poteva vedere lo stabilimento a occhio nudo. In più, si era munito di un potente binocolo da marina e mi seguiva passo passo quando andavo in spiaggia. Fu così che, io avevo 14 o 15 anni, incontrai l’uomo che avrei poi sposato, allora anche lui un ragazzino.
«BACIO INNOCENTE»
«Parlammo, poi lui volle accompagnarmi verso casa. Dal suo posto di avvistamento, come il guardiano di un faro, papà vide tutto. Il nostro incontro, i nostri giochi sulla spiaggia, e poi seguì il nostro lento avvicinarsi a casa, sempre seguiti a breve distanza dalla mia accompagnatrice. Forse ci fu il tentativo di un innocente bacetto. E certamente papà vide anche questo, perché, non appena misi piede in casa, mi affibbiò un ceffone. Era il primo che ricevevo e sarebbe stato anche l’ultimo. In seguito mi disse che ne aveva in serbo un secondo, ma si trattenne a causa della mia fierezza. “Sembravi Giovanna d’Arco”, mi disse, "pronta al sacrificio".
«Da uomo di spettacolo e napoletano verace papà era molto superstizioso. Detestava il 13, il 17, i gatti neri e gli iettatori. Questi, secondo lui, si riconoscevano dal naso all'ingiù, che lui chiamava "naso pisciambocca”. Ma in proposito papà aveva elaborato tutta una serie di tattiche difensive che, secondo lui, funzionavano a meraviglia. Non erano i soliti amuleti, ma semplicemente dei santini. Dopo la sua morte ne ho trovati a decine. Ne teneva dappertutto: nei cassetti, nelle tasche, nel portafogli, nei libri, sul comodino, attaccati al muro. Chissà dove andava a procurarseli».
Cesare Carassiti, «Oggi», anno XLVI, n.23, 6 giugno 1990
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Cesare Carassiti, «Oggi», anno XLVI, n.23, 6 giugno 1990 |