Totò non è mai diventato ricco perché non dava valore al denaro
Vi parlo di mio marito Totò
Franca Faldini, la vedova del grande comico, ha concesso soltanto a «Oggi» le sue confidenze: «Volevo dare un erede a mio marito, ma il nostro bimbo visse soltanto poche ore» - «Antonio faceva ridere tutti ed era invece malato e spesso malinconico» - «Rinunciavamo a feste, viaggi e inviti perché amava soltanto la mia compagnia e l’intimità della nostra casa»
Roma, maggio
Dalla notte sul 15 aprile, ossia da quando un male imprevisto e fulmineo stroncò Totò a sessantanove anni, l’elegante appartamento che il principe Antonio de Curtis aveva ai Parioli è chiuso per tutti. Franca Faldini, vedova ad appena trentasei anni, vuole restare sola con il suo dolore.
Signora Franca, perché ha acconsentito a confidarsi con «Oggi», accettando questo dialogo?
Per un'intima ragione sentimentale. Prima non avevo mai parlato perché Antonio difendeva accanitamente la nostra privacy: fu una mia fotografia, pubblicata da Oggi nel gennaio del 1952, a destare l’attenzione di Totò per me. Avevo vent’anni, ero bellissima, dicevano, e facevo notizia: mi avevano appena eletta, negli Stati Uniti, «Miss torta di formaggio», com'era accaduto a Marlene Dietrich e a Rita Hayworth all'inizio della carriera. La torta di formaggio è il dolce di cui gli americani sono più ghiotti: il simbolico premio viene assegnato ogni anno alla starlet più popolare. Avevo battuto le rivali grazie alla valanga di voti mandati dai soldati che combattevano in Corea e dalle truppe dislocate in Germania.
Ero certa che sarei diventata una stella di prima grandezza. Avevo un contratto di sette anni con la Paramount e i giornali di Hollywood scrivevano: «Franca, la bruna strepitosa, è la nuova Dorothy Lamour, più sexy, più romantica». Ebbi una particina in un film con Dean Martin e Jerry Lewis, in attesa di maggiori occasioni. Poi mi vinse la nostalgia per Roma dove sono nata, per i genitori rattristati dalla mia lontananza. Rifiutai una proposta per un film con Mario Lanza e tornai a casa. Ed ecco che un giorno mi arriva un cesto di orchidee, con un biglietto di Antonio de Curtis. Lo conoscevo soltanto come Totò, l'avevo visto in qualche .film. Lo ringraziai, ma borghesemente lo pregai di farsi presentare, perché non era mia abitudine accettare fiori da sconosciuti. Mi secondò nel formalismo, ci incontrammo in un club con alcuni amici. Fui stranamente intimidita: non avevo davanti a me l’attore spregiudicato ed esibizionista che mi aspettavo, ma un gentiluomo all’antica, che faceva l’inchino, mi baciava la mano. Non potei trattenermi dal pensare che c’era una grande differenza d’età fra noi; ma frequentando Antonio me ne accorsi sempre meno. Lavorai al suo fianco nel film di Rossellini Dov'è la libertà, riapparso sul video nei giorni scorsi. Fu l’inizio della nostra vita insieme.
Vi sposaste nel '54, se ben ricordo, col rito civile, in un paese svizzero. Per dieci anni riusciste poi a nascondere le nozze, con un incredibile, ostinato riserbo. Temevate le reazioni della prima moglie di Totò, Diana Rogliani?
Non avevamo motivi di temere qualche reazione da parte della signora Diana. Il primo matrimonio di Antonio era stato annullato civilmente in Ungheria fin dal 1939; la sentenza, delibata dalla corte di Perugia, era pienamente valida in Italia. Restava solo il vincolo religioso. Più volte Totò aveva progettato di avviare le pratiche presso il tribunale ecclesiastico, per ottenere la dichiarazione di nullità, ma alla fine rinunciò. Diana, dal canto suo, si era rifatta una vita prima ancora che io incontrassi Antonio: nel 1951 era passata a seconde nozze, civili, con l'avvocato Michele Tufaroli. La vera ragione per cui Totò mantenne il segreto sul nostro matrimonio fu la forte differenza d’età che esisteva fra noi: lui aveva orrore del ridicolo, temeva che si potesse scherzare sulla nostra unione.
E' disposta a parlare di quel periodo difficile, di quando attendeva un bimbo?
Speravo appassionatamente di dare un figlio a Totò, che ci teneva moltissimo. Dalle sue prime nozze era nata Liliana, che lui adorava ma che non aveva assicurato la continuità; a lei, evidentemente, non poteva essere trasmesso il titolo principesco. Giunta all’ottavo mese di gravidanza, io fui ricoverata d’urgenza in una clinica romana, dove diedi alla luce in circostanze drammatiche il nostro Massenzio. Fu il 12 ottobre del 1954. Il bimbo morì lo stesso giorno ed io, colpita da un’albuminosi gravidica acutissima, mi salvai per miracolo. Da allora mi è rimasta una profonda amarezza per la delusione che procurai a mio marito. Lui ha sempre cercato di nascondermi il suo vero stato d’animo. Posso dire in coscienza di esser stata per Antonio una buona moglie; ma purtroppo sono una madre mancata.
Anche dopo l’unione con Antonio de Curtis, lei continuò saltuariamente a recitare. Sostenne alcune parti in qualche film di Totò («Miseria e nobiltà», «Il turco napoletano», «L’uomo, la bestia e la virtù»): eppure Il principe, che si definiva uomo all’antica, le aveva fatto promettere di ritirarsi a vita privata.
Antonio non mi aveva imposto una promessa formale. Detestava di costringere chicchessia, e tanto più la sua donna, a piegarsi alla sua volontà. Ma è verissimo che soffriva per le mie superstiti velleità di attrice. Che vuole, ero molto giovane, avevo la smania di rifarmi dello scacco americano. L'atteggiamento scettico e riservato di mio marito bastò a spegnere i miei ultimi «furori». Pensavo: è mai possibile che tu ti ostini a recitare così male anche ora che sei diventata la compagna di un grande attore?
Tuttavia lei si ripresentò al pubblico nei come soubrette nella compagnia di Totò, che lanciava la rivista «A prescindere».
Questa storia ha tutt’altra dimensione. Fu una tournée drammatica quella che iniziammo nel febbraio '56, costellata di penosi retroscena. Accompagnavo sempre mio marito nel viaggi di lavoro. Mentre recitava a Milano con la compagnia, Totò fu assalito da una polmonite virale. I medici, che lo curarono in albergo, gli raccomandarono una lunga convalescenza. Totò non volle saperne: «Dovrei sciogliere la compagnia, mettere sul lastrico tutti i collaboratori? Non ho mai fatto in vita mia una cattiva azione». Si imbottì di antibiotici e dopo tre giorni tornò in palcoscenico. A Genova, seconda tappa della tournée, ebbe i primi segni di indebolimento della vista; fu una conseguenza della malattia trascurala a Milano. Mi confidò: «Ho delle macchie nel campo visivo, e certe strane contorsioni di immagini». La prima diagnosi rivelò soltanto una debolezza retinica. Fu confermata con maggiore allarme a Firenze, dove ci eravamo trasferiti con la troupe. Totò continuava tuttavia a recitare. Un giorno una soubrette si ruppe una gamba. Mio marito era esasperato: «Qualcuno ci ha gettato una iettatura terribile!». Molto superstizioso come la grande maggioranza dei napoletani, ricorreva ai più complicati scongiuri, ma non trovava un’altra soubrette. Mi offrii di sostituirla e quella fu l’unica volta che Totò mi fu grato per una mia prestazione più o meno artistica.
Palermo fu, mi pare, l'ultima tappa della contrastata tournée. Quale epilogo ebbe?
Una sera, sul palcoscenico, Totò si voltò verso di me, che gli sgambettavo accanto, e mormorò, angosciato: «Franca mia, proprio non vedo più niente». Rientrati in albergo subito dopo lo spettacolo, chiamammo d’urgenza un oculista. I successivi controlli dimostrarono che Totò era stato colpito da una grave emorragia retinica. Le recite furono interrotte, la compagnia sciolta. A Roma, Totò si affidò alle cure del professore Gianbattista Bietti. Per tutto il '57 vivemmo sotto l’incubo della sua completa cecità. Mio marito fu curato meravigliosamente: innumerevoli iniezioni antiemorragiche, immobilità, buio assoluto. Mentre lottava con disperata volontà, Antonio doveva anche difendersi dalla curiosità dei reporter. Eravamo tempestati da telefonate e visite non richieste. Totò è diventato cieco? Si ritira per sempre a vita privata? Si aggrappa ai pretesti di salute per scomparire in silenzio dalle scene, convinto che la sua popolarità è agli sgoccioli? Benché aggredito da tutte le parti, mio marito si manteneva abbastanza sereno. «Vedi, Franca», mi diceva, «chi mi dà tutta questa forza è il mio protettore sant'Antonio. Gli sono sempre stato devoto, l’ho preferito a san Gennaro e lui lo sa. Guai a lui se non mi aiuta. Sta sicura che potrò riprendere a lavorare. Ma bisogna evitare che si sparga l'allarme, altrimenti ho chiuso. Nessun produttore impegna milioni in un film per far recitare un cieco, basterebbe il sospetto a distruggermi».
Già alla fine del 1957 suo marito tornò a lavorare nel cinema. Fingeva di vedere? Eduardo, il cugino-segretario, gli era sempre accanto, indispensabile.
La zona centrale del suo campo visivo era diventata opaca in conseguenza delle emorragie, ma l’area periferica era illesa. Benché il professor Bietti avesse salvato tutto il salvabile, la menomazione era per Totò molto avvilente. Evitava di parlarne non tanto per calcolo, quanto perché gli ripugnava suscitare compassione. «Fare invidia non mi piace», diceva, «ma nemmeno pietà». Nell’intimo si era rassegnato ai suoi guai, che accettava come «un fenomeno naturale, al pari della pioggia, del vento e della morte». Non era molto allegra la vita dell'uomo che faceva ridere tutto il mondo. Quanto a me, avevo messo da parte ogni desiderio di mondanità, rinunciando a tutto ciò che avevo prediletto in passato, balli, villeggiature, crociere. Grazie ad Antonio ero molto cambiata, senza rimpianti. Ero felice di tenere compagnia a mio marito la sera, quando tornava a casa affaticato dal lavoro. Misantropo per natura, si rifugiava fra queste pareti con un sospiro di sollievo. Amava la casa con un istinto quasi femminile. Il suo primo saluto era riservato a Peppe, il nostro barboncino, il secondo a me. Mi diceva: «Scusami, ma Peppe si offende se non gli do la precedenza». Si liberava dal trucco, indossava vestaglia e pantofole, pranzava con estrema frugalità. Sono una pessima cuoca, ma lui era facilissimo da accontentare. Ci sedevamo per un’oretta davanti al video; mio marito preferiva i film e le commedie. Appena mi accorgevo che si premeva con la mano gli occhi sofferenti, cominciavo a leggergli i giornali e la corrispondenza. Ogni giorno centinaia di persone gli scrivevano da ogni angolo d’Italia e dall’estero. Moltissimi. conoscendo la sua proverbiale generosità, gli chiedevano aiuto. Io e suo cugino Eduardo abbiamo compilato un numero incalcolabile di vaglia. Totò era assediato dai bisognosi anche in ogni suo spostamento; dava tutto ciò che aveva con gioia, vergognandosi di non poter fare di più. Talvolta mi dettava le sue poesie in dialetto, man mano che affioravano. Erano temi delicati, patetici o romantici. «Roba d’altri tempi». commentava con una smorfia. «Ma almeno quando scrivo e quando recito devo esser sincero». Le sue canzoni di solito le affidava al registratore. Ne parlava come di un hobby senza importanza, però gli davano fastidio certi critici che lo bollavano come «passatista». La nostra vita era certo molto borghese, ma piaceva a lui e anche a me, da quando i nostri caratteri discordanti si erano fusi per l’affetto.
Totò sosteneva che vivergli accanto era scomodo. «Ho un carattere difficile», diceva, «sono così solitario che talvolta stento a sopportare la presenza dei familiari, perfino la compagnia di mia moglie». Lei se ne era resa conto?
Conoscevo le pieghe della sua personalità e la mutevolezza degli umori. Sapevo ritirarmi, credo, al momento opportuno. A una certa ora della notte, per esempio, la mia parte di devota compagna finiva. Mi congedavo, lasciandolo all’ascolto di remote stazioni radiofoniche fino alle ore piccole. Lui giurava in buona fede di non essere geloso, né suscettibile, né irascibile. In realtà di me era gelosissimo, pur avendo molto rispetto. Bastava una mia risata squillante nel corso del dialogo con un ospite, perché Antonio facesse la faccia tetra, bastava il timido progetto di un viaggio da sola, benché giustificato in ogni dettaglio. Evitavo, per quanto mi era possibile, ogni motivo che potesse turbarlo, ma la sua suscettibilità s’accendeva per sfumature di parole e situazioni: erano le inezie che lo offendevano. Reagiva subito senza tenere il broncio e pretendeva che anch'io facessi altrettanto. Talvolta si irritava a livello clamoroso; erano sfuriate senza conseguenze. Temevo di più le arrabbiature a freddo. Si risolvevano con qualche frase tagliente che lasciava il segno. Ma al di sopra di tutto c’erano la sua filosofia della vita, tollerante e umana, e la sua intatta ingenuità sotto la .scorza scettica.
Era autentico lo scetticismo di Totò sulla sua produzione artistica, sul suo stesso personaggio, sui troppi film girati?
La modestia di Antonio confinava addirittura con un complesso d’inferiorità. Del personaggio Totò, diceva: «Ma davvero vi è simpatico? Con quella faccia storta, quei monotoni gesti da burattino? Non riesco a capire perché faccia ridere». Nella vita privata il principe de Curtis non si sarebbe mai permesso un lazzo di Totò. Quanto ai suoi film, Antonio di solito si rifiutava di vederli. «Si sa», commentava, «io sono la mascheretta salvatutto, che porta soldi in cassa anche se la storia è stupida». La sua disponibilità era praticamente indifesa. Non faceva mai questione di denaro, inorridiva sentendo le cifre iperboliche pagate ad altri attori. «Se lavoro io», diceva, «lavora un mucchio di gente; questo conta e nient’altro». Negli ultimi tempi però ripeteva: «Il cinema mi ha stancato, gli avrei già voltato le spalle se non avessi incontrato un'anima libera e geniale come Pasolini. Se ci fossimo conosciuti prima, avremmo fatto insieme molte cose buone». Voleva concludere la carriera nel teatro di prosa, che adorava come una meta rimasta irraggiungibile. Aveva scritto un canovaccio in bilico tra comico e surreale. Vi puntava come sul l’ultima carta. Ho frugato In ni sa senza trovarlo.
Ha però trovato il testamento, affermano alcuni giornali. Il notaio sta veramente assegnando le quote patrimoniali a lei, alla figlia di primo letto, all’ex-moglie?
Ho letto anch'io queste notizie completamente false. Il testamento non esiste e non esistono i miliardi. Non è vero neppure che Totò abbia destinato cinquecento milioni ai poveri di Napoli. Mio marito diceva: «Fare testamento porta una scalogna tremenda, lo firmi e crolli a terra stecchito». Le nostre ricerche in casa e presso il notaio sono state infruttuose, come previsto. Totò d’altronde non aveva la minima vocazione al risparmio. «I quattrini servono finché si spendono», ripeteva, «magari per aiutare i cani, i soli gentiluomini che io abbia conosciuto». Aveva organizzato, si sa, un costoso canile, dove manteneva più di duecento cani. Antonio non ha lasciato un patrimonio ai poveri perché non lo aveva: la sua fu una beneficenza fatta giorno per giorno, troncata dalla morte. Quanto alla prima moglie, si dimentica che quel matrimonio fu annullato. Comunque, gli argomenti patrimoniali hanno un significato effimero nel nostro caso. Nemmeno l’appartamento in cui abbiamo vissuto finora è nostro.
Totò, tradito talvolta dalla vita, s’aspettava d’essere colto a tradimento dalla morte?
«Ho un torace e un cuore di atleta», affermava mio marito allegramente. Non aveva mai sofferto di mali cardiaci. Solo pochi giorni prima della morte aveva avuto una crisi, che non aveva preoccupato i medici. Sopravvenne l’infarto, la sera del quattordici aprile. Sei ore di atroce agonia e la fine prima dell’alba. Antonio ebbe appena la forza di dirmi: «Portatemi a Napoli». L’abbiamo sepolto nella cappella gentilizia al cimitero di Santa Maria del Pianto.
Ezio Saini, «Oggi», anno XXIII, n.19, 11 maggio 1967
Ezio Saini, «Oggi», anno XXIII, n.19, 11 maggio 1967 |