Strette di mano: il principe De Curtis
Strette di mano - Il principe de Curtis
Alludo al caro Totò. Al grande comico napoletano Totò che si arrabbiava tanto e seriamente quando non lo si appellava con titolo di «Principe» per il quale ha dato, con attaccamento e tenacia, una vita intera di lavoro. Si può dire che lo scopo vero della sua vita sia stato solamente la preoccupazione di mettere in giusta luce le sue origini nobiliari, e penso — naturalmente è una mia riflessione — che la sua positiva vita teatrale di fronte a questo suo più forte desiderio sia stata, a paragone, quasi nulla. E non sapeva, o non voleva sapere, che la nobiltà originaria della sua grande arte di «comico di teatro» — a mio sincero avviso — era molto, ma molto più importante di un qualsiasi titolo nobiliare. Ma voglio rispettare il suo desiderio. Ognuno ha i suoi «capricci», ognuno è padrone, se lo può, di far rispettare i propri diritti.
Il mio primo incontro con lui risale nientemeno che al 1918 o ’19. In quell’epoca Totò lavorava in varietà nei piccoli locali periferici di Napoli: nei periodi estivi girava la provincia. Lo ascoltai, la prima volta mi pare, al piccolo teatro Mercadante di Via Foria. Fui attratto da un manifesto che diceva così: Questa sera (a caratteri grandi) il comm. Gustavo De Marco e sotto (a caratteri piccolissimi) imitato da Totò. «Totò» in un numero di imitazione insomma. Gustavo De Marco macchiettista, contorsionista, trasformista e «marionetta vivente». Questa ultima qualità gli proveniva dal fatto che sapeva imitare alla perfezione i movimenti dei «pupi». Tanto bene ne imitava i gesti che era davvero impressionante e ammirevole vederlo. Ad un certo punto pareva che si snodasse nelle ossa e nelle membra, fino ad assumere atteggiamenti «marionettistici», così paradossali da suscitare nel pubblico più clamorosi consensi.
Ad un determinato momento della sua esibizione, quando il ritmo si faceva più frenetico che mai, qualcuno dalla platea o dal loggione, gli gridava: «Asso ’e spade...» (asso di spade). Bene, De Marco si fermava di colpo in tutta la persona assumendo improvvisamente, per quanto possibile, la figura geometrica della carta «asso di spade» che fa parte del «mazzo» di carte da gioco napoletane. Progressivamente, poi, si metteva a girare su sé stesso fino a raggiungere un ritmo vertiginoso, tanto da sembrare una trottola.
De Marco era in quei tempi, una «vedette» di primissimo piano artistico che tutte le imprese di «varietà» amavano accaparrarsi. Totò, giovane e bravo imitatore esordiente, si mise ad imitarlo e vi riuscì benissimo. Fisicamente lo rammento benissimo in quel periodo: magro come un chiodo, tutto nervi e ossa, scavato nei lineamenti, gli occhi espressivi ma tanto grandi che quasi sembrava gli uscissero dalle orbite, il mento molto sporgente e buttato tutto da un lato come se avesse ricevuto un pugno bene assestato, i capelli tirati a spazzola lisci, nerissimi e accuratamente impomatati, due folte basette alla «Bonnard» gli ornavano il volto ben rasato e pallido. Affabilissimo di carattere, tutto «bei modi», ricercato nel vestire e... amante delle belle donne. Gli divenni amico quando ci trovammo scritturati assieme al teatro Nuovo di Napoli nella compagnia Molinari, io in qualità di semplice «generico» e lui di «primo attore comico» di un repertorio di riviste e di riduzioni scarpettiane. Passarono alcuni anni, improvvisamente capitò a Totò una grossa fortuna. Gli capitò di potersi scritturare in una delle compagnie di riviste di Achille Maresca e precisamente in quella in cui vi agiva come «prima donna» la bella e brava Angela Ippaviz. Fu scritturato col ruolo di «comico grottesco» (allora era in uso, nelle compagnie di rivista, anche il ruolo di «comico stilé» ) e debuttò nella rivista di Ripp e Bel Amy dai titolo: «Madama Follia».
Ottenne subito un grande successo. Il Maresca, in verità uno dei più importanti impresari teatrali dell'epoca, lo aveva messo in luce come meritava. In poche parole, a lanciarlo seriamente, nel mondo del grande spettacolo di rivista, fu Achille Maresca e non poteva accadere che così. Uomo di di grande intuito e talento teatrale, il Maresca fiutò subito in Totò l’elemento «principe» che gli occorreva per una delle sue formazioni. Il vero titolo di «principe», dunque, potremmo dire che Totò lo ricevette in quella occasione e per merito di Achille Maresca. Da allora Totò ebbe modo di poter passare di successo in successo. In quanto a me, intanto, avevo formato — con mio fratello Eduardo — la «Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo», m'ero messo in giro di serie preoccupazioni e non mi era più possibile seguire come un tempo la carriera artistica del mio amico e collega.
Ci ritrovavamo di tanto in tanto, per caso, quando ci capitava di lavorare sulla stessa «piazza», naturalmente, non mancavamo di riabbracciarci. Un breve periodo da trascorrere insieme, molto vicini, lo avemmo durante la seconda guerra mondiale. Ci trovavamo spesso in un caffè di piazza Ungheria in Roma, durante le pause di lavoro forzate che il periodo bellico d imponeva e spesso si parlava (sommessamente) della incresciosa e tragica situazione politica che si viveva in quei giorni. Eravamo nel 1944 quando i tedeschi si preparavano a lasciare Roma per l'avanzare delle truppe alleate dal Sud. Io mi trovavo al teatro Eliseo a svolgere una stagione teatrale con la mia compagnia. Improvvisamente non si sa come, perché e da chi Totò, avendo saputo che tanto io quanto mio fratello Eduardo dovevamo essere «prelevati» dai tedeschi e condotti al Nord, si preoccupò di inviarci, in segreto, un amico ad avvertirci.
Io e mio fratello interrompemmo le recite e trovammo sicuro rifugio presso la casa di una nostra cara amica nel rione Parioli. Totò ne venne a conoscenza. In quella bella accogliente dimora vi rimasi ben trattato e foraggiato con tutti i riguardi una quindicina di giorni ma sempre cercando nel mio cervello la ragione vera per cui ero stato costretto a tenermi nascosto. «Forse pensavo — mi sarò lasciato sfuggire qualche frase pericolosa... ma Totò come ha fatto a sapere? Che gli avranno riferito? Che sia stato uno scherzo...?». Il tempo passava in questa atmosfera di dubbio e sempre impaurito e preoccupatissimo. L’eventualità che qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio non mi faceva dormire sonni tranquilli. Un giorno la cameriera di casa venne a dirmi che fuori, in sala, c’era una ragazza che chiedeva un mio autografo e che per ottenerlo poteva mostrarmi un biglietto di «raccomandazione». Impensierito accettai di ricevere la ragazza e questa mi diede a leggere il suo «bigliettino». Su questo era scritto:
«Caro Peppino, questa bella ragazza desidera un tuo "autografo", il mio l'ho già dato, le ho detto il tuo indirizzo, accontentala, Antonio». «Antonio» era semplicemente Totò. Si può immaginare il mio disappunto. Andavo gridando per tutta la casa: «Ma Totò è scemo? Mi vuole fare fucilare? Ma come? Mi fa nascondere e poi va dicendo in giro dove sono nascosto? Ma è pazzo?». Nondimeno accontentai la ragazza che ridendo ironicamente... se ne andò. In casa si dettero tutti da fare per calmarmi. Avessi avuto Totò nelle mani, in quel momento, lo avrei maltrattato seriamente. Fu tanto il mio «nervoso» che decisi di non partecipare alla cena. Avevo i nervi fino alla cima dei capelli. Ma poi... i pensieri, le preoccupazioni... mi fecero cambiare idea e... «poscia più che il dolor potè il digiuno». Mi presentai in camera da pranzo e... dovetti subire lo «sfottò» di tutti i presenti.
A guerra finita, tornata la calma e la serenità negli animi di tutti, quando ebbi l’occasione di rivedermi con Toto gli domandai: «Ma Antò? Chi venne a dirti che i tedeschi ci volevano al Nord? Fu uno scherzo? Dimmi la verità!». Rispose: «Uno scherzo? Fossi matto. Tutti gli artisti dovevano essere portati in alta Italia. Io pure. Ringrazia Dio che venni a saperlo da persona sicura». «E la ragazza — soggiunsi io — quella dell'autografo?».
«Quello si — rispose lui — quello fu uno scherzo!». Uno scherzo! Cosa da pazzi. In quell’epoca! Roba da «infarto». Finalmente, come Dio volle, Roma vide le truppe alleate per le sue antiche vie fino allora tenute sotto il pesante tallone tedesco. Col passare del tempo i miei incontri con Totò si fecero sempre più rari. Ognuno aveva preso la sua strada. Un giorno dell’inverno del 1956, Totò mi fece sapere che gli avrebbe fatto tanto piacere se avessi accettato di girare un film con lui. Trovai l'offerta interessante e cominciò, così, la serie di films «Totò, Peppino...». Io ho amato l'«arte» cinematografica di Totò, l'ho apprezzata, assecondata, e, per quanto ho potuto, in alcuni momenti posso dire di avere sempre cercato di collocarla su di un piano di chiara umanità, preoccupandomi essenzialmente di fare in modo che insieme l'uno potesse servire all’altro, in perfetta intesa e collaborazione artistica, come due bravi colleghi che si stimano e si rispettano a vicenda. Totò è stato l’unico comico che mi abbia deliziato sinceramente lo spirito. In ogni, suo gesto, in ogni suo movimento, in ogni atteggiamento, io ci intravedevo quel tanto di «maniera» scoperta e schietta che, rasentando la donchisciottesca spavalderia, era a stretto contatto con il più sfacciato tono pulcinellesco. E questo mi interessava molto e mi piaceva tanto. Posso affermare che tutti i films che abbiamo girato assieme, spesso li abbiamo recitati «a soggetto». Creati lì per lì, scena per scena, al momento di «girare». Un «maligno» potrà dire: «... si capiva benissimo!» e gli si deve dare ragione a mio parere, perché i miei films con Totò peccavano, sopra ogni cosa, «di impreparazione» e si notava, si capiva, gli «intenditori» lo deploravano e questa fu la ragione per la quale, ad un certo momento decisi di abbandonare il cinema e dedicarmi, invece, interamente al mio teatro. Mi permetto, molto umilmente, di affermare che, se i miei films con Totò fossero stati «girati» — come io sempre consigliavo — solamente dopo un'attenta e scrupolosa preparazione, l'Italia cinematografica avrebbe potuto vantare, in quanto al genere comico-farsesco, una produzione di ottimo livello artistico ineguagliabile in casa sua e, forse, fuori. Caro mio amico Totò. Mi diceva sempre di voler recitare in prosa con me. Con me solo, diceva, avrebbe voluto tentarlo. Ma come era possibile? Che avrebbe guadagnato economicamente, lui che, soprattutto tartassato dal fisco, più di ogni altra cosa, in fatto di lavoro, doveva mirare solo al guadagno del momento? Infatti, ogni volta che cominciavamo un film, se ne usciva con questa frase: «Basta ... sono stufo, Peppì, di questa fatica ... altri quindici film e poi... basta: mi ritiro e faccio teatro!». A volte, ora che non c’è più, mi pare di sentirmelo vicino come quando insieme si girava un episodio del film «La cambiale». In quel periodo il povero Totò quasi non vedeva più ed io ero costretto (Dio sa con quanta tenerezza ed amicizia) a girare le nostre scene portandomelo sottobraccio, accompagnandolo così... naturalmente, senza dare a capire, e lui recitando, mi seguiva fiducioso, tranquillamente nello spazio stabilito nel quale si svolgeva la vicenda.
Una delle volte che mi recai a casa sua, alcuni anni fa, mi espresse il desiderio di venite a visitare la mia villetta sulla Nomentana, e dopo pochi giorni ci riunimmo nella mia casa. Dopo colazione andammo a sorbire una tazzina di caffè in giardino. Ad un certo punto, passeggiando, portò la mano destra sugli occhi e tenendola curva a schermo contro il sole il cui riverbero troppo forte non gli faceva ben distinguere qualcosa che aveva attirato sua attenzione, fissò un punto e disse: «Che d'è là?». «E' il cimitero dei miei cani» risposi. Si fermò all’istante. Guardò meglio, chiuse ancora meglio la mano sull’occhio destro a guisa di cannocchiale per meglio diaframmare la vista (quel poco di vista che gli era rimasta) e lesse, lentamente decifrando ogni parola, una scritta, composta da me, scolpita su una delle dodici lapidette: «Tanto ti fui fedele o mio padrone / tanto t’ho amato e t’ho voluto bene / che son felice in qesta eterna cuccia / come a dormir tra le tue care braccia». Finito di leggere si girò verso di me e tenendomi le braccia disse: «Damme 'nu bacio... m’’e fatto chiagnere!». Mi baciò. Ricambiai il gesto senza immaginare che quell'abbraccio caro ed affettuoso tra noi due sarebbe stato l’ultimo.
Peppino De Filippo («Strette di mano», Alberto Marotta Editore, Napoli, 1974)
Questa è una delle tante "strette di mano" che Peppino De Filippo pubblicò sull'omonimo libro «Strette di mano», Alberto Marotta Editore, Napoli, 1974 |