Approfondimenti e rassegna stampa - Peppino De Filippo
Peppino De Filippo è «'nu poco nervioso» (un po’ nervoso) come egli stesso ripete in una sua commedia. Un giorno, a Napoli, improvvisamente schiaffeggiò una donna in autobus, senza che prima di quel momento l'avesse mai vista.
Fu giudicato per direttissima di questo reato. In Tribunale il giudice domandò :
— Per quale ragione ha dato uno schiaffo a quella donna?
Peppino rispose:
— Non ho potuto padroneggiarmi. Quella signora sali sull’uutobus e si sedette di fronte a me. Apri la borsetta, prese il portamonete, chiuse la borsetta, aprì il portamonete, prese un franco, chiuse il portamonete, apri la borsetta, vi rimise il portamonete e chiuse la borsetta. Allora osservò che il bigliettario si trovava in fondo alla vettura, e aprì la borsetta, prese il portamonete, chiuse la borsetta, aprì il portamonete, posò il franco, richiuse il portamonete, apri la borsetta, vi rimise il portamonete e richiuse la borsetta. Quando il bigliettario le fu davanti, apri la borsetta, prese il portamonete, chiuse la borsetta, apri il portamonete, prese un franco, chiuse il portamonete, apri la borsetta, posò il portamonete, chiuse la borsetta e consegnò il franco al bigliettario. Questi le diede il biglietto. Essa aprì la borsetta, vi prese il portamonete, chiuse la borsetta, apri il portamonete, vi mise il biglietto, chiuse il portamonete, apri la borsetta, vi rimise il portamonete e chiuse la borsetta.
— Si fermi, si fermi — ansimò il giudice. — Ne abbiamo udito abbastanza. Lei ci fa impazzire.
L'accusalo rispose:
— Come è accaduto a me. Per questa ragione l’ho schiaffeggiata.
Il giudice sentenziò: — Assolto.
(Naturalmente questa storiella è inventata; ma l'ha inventata Peppino De Filippo).
«Il Dramma», ottobre 1937
Da quando — circa due anni fa — i Fratelli De Filippo interpretarono il loro primo film, la loro fama di attori personali, originali, efficacissimi è enormemente cresciuta nell'estimazione del pubblico, cosi come la loro arte si è irrobustita, approfondita, raffinata. Ecco perchè il loro ritorno allo schermo costituisce un avvenimento che può davvero dirsi sensazionale ed il fatto di poterli vedere tutti e tre — Edoardo, Titilla, Peppino — riuniti in un film, è la maggior garanzia del successo.
Tutti conoscono la fortunata commedia di Paola Riccora «Sarà stato Giovannino! ». In quella chi andava per le peste era... Giovannino, eletto, suo malgrado, a capro espiatorio di tutto quello che succedeva in famiglia! Sullo schermo, e per merito della abilissima versione cinematografica, le cose cambiano un po’, gli intrecci si complicano, le trovate si moltiplicano, gli avvenimenti si succedono con ritmo più accelerato, i personaggi acquistano tutto il loro rilievo. Ed ecco perciò sbocciare la strana vertenza tra i Fratelli De Filippo: durante una festa di fidanzamento, la giovane e graziosa cameriera di Casa Apicella, cade svenuta; chiamato un medico, dopo ima rapida visita, dichiara che la ragazza è in istato interessante... La bomba scoppia con insolito rumore e due uomini, i De Filippo, dichiarano: « Sono stato lo! »...
L’appassionante interesse della trama movimentatissima, la varietà degli ambienti, l’abbondanza dei tipi, la ricchezza delle trovate, il succedersi delle sorprese, lo scoppiettìo di un dialogo vivo, aderente, sintetico, le molte risorse di una regìa sensibile e accuratissima e sopratutto l’incomparabile interpretazione dei Fratelli De Filippo, fanno si che Sono stato io! rappresenti una delle più brillanti affermazioni della cinematografia nazionale che viene cosi ad arricchirsi di un film bene ideato, ben diretto, benissimo interpretato, un film infine che diverte, commuove, convince. .
La «prima» ha luogo domani al Cinema Moderno.
«Il Messaggero», 21 dicembre 1937
I De Filippo sono tre e uno. (Fors'anche per questo raggiungono spesso la perfezione). Edoardo, Peppino, Titina usano regalare al pubblico innamorato una loro fotografia di gruppo, nella quale i due fratelli bilanciano, l'uno a destra e l'altro a sinistra, il sorriso della sorella, che è nel mezzo. Una specie di saliera. Gruppo familiare onesto, fotografia alquanto provincialotta, simpaticone, che essi distribuiscono a profusione, firmandola ognuno col proprio nome, agli spettatori ammirati. Fotografia borghese, ehe non ha niente che vedere colla loro arte, aristocratica e difficile. Né il pubblico potrà mai intuire, guardando queste tre brave persone in posa dinanzi all'obiettivo del fotografo per famiglia, la « prima qualità » della merce, la natura non comune cioè dei personaggi in questione, i quali hanno appunto questo di buono, che sono rimasti, nonostante il successo e i ditirambi, tre cari «guaglioni ».
Edoardo è alto, magro, olivastro. Una grazia curiosa, una raffinatezza ignota a lui medesimo, un che di mansueto, di grave ne ingentiliscono i tratti. Peppino è piuttosto basso, pallido, irrequieto. Un naso a schizzo fra due occhi fermi, che bucano. Titina è tonda, bionda, serena. Il segno degli anni ne immalinconisce la bontà con un che di spaurito, di schivo negli atteggiamenti e nello sguardo.
Edoardo, uomo, interessa assai meno di Peppino. Titina, donna, non interessa nessuno. Senonché il primo ha qualità misteriosissime e profonde, radici sepolte in una sensibilità che per destarsi ha bisogno del tepore del palcoscenico, della luce delle ribalte, dell'odore delle scene, del fiuto del pubblico. Animale di razza. Conoscete la sua voce? Fumosa, sotterranea, malata. Non ho mai interrogato un sonnambulo, ma penso che debba parlare così.
Ora quella voce acquista in scena vibrazioni, echi, aloni nuovi, struggenti, che non ti sai spiegare. E così il suo volto. Egli recita spesso senza l'ausilio del trucco, e pur non avendo maschera risentita, aborrendo le smorfie artificiose, mantenendosi fedele a una linea di naturalo compostezza, il suo volto assume espressioni di rara bellezza. E' l'anima, che ora gli illumina il pallore delle gote scavate, ora gli scoppia negli occhi, ora lo lascia vuoto, smemorato, senza vita.
Il gioco di Peppino è invece più evidente. Di fronte alla spiritualità del fratello, la sua maniera, il più delle volte sbarazzina e farsesca, ottiene effetti teatrali clamorosi, ma assai meno rari. La sua arte ha più risalto quanto più enigmatico e raffinato gli si contrappone il fratello. Sono due strumenti di natura opposta, il più e il meno, e l'uno è spesso il commento burlesco — in jazz — della frase accorata dell'altro. Peppino, come entra in scena, ha il pubblico dalla sua. anche se non ha niente da dire. Avverti in lui il comico nato e lo senti anche se gli parli fuori del palcoscenico, per quel suo personalissimo modo di non star mai fermo, di sottolineare le tue parole, di impuntarsi negli interrogativi, di figgerti gli occhi in fronte e il naso, che pare che voglia forare. Edoardo no. Edoardo entra in scena quasi sempre inosservato e per molte battute non lo noti. Il suo fascino si sprigiona a poco a poco, per virtù di elementi imponderabili, sfumati. Se vai a trovarlo in camerino t’accoglierà seduto dinanzi allo specchio, affranto. S'accarezza lentamente i capelli, guarda altrove, assorto. La sua anima è pena. E la sua arte anche.
Titina sta fra i due col suo sorriso rappacificatore. Ma sa cogliere in Edoardo i frutti amari per poterne piangere, mentre le lepidezze e gli sberleffi di Peppino trovano in lei, quasi sempre, cembali per il rimbalzo chiassoso. Sono tre e uno, e il loro pregio maggiore è proprio d’aver saputo sintetizzare in unità le ricche e disparate qualità di ognuno.
Non si possono sentire senza pensare ad un'orchestra in cui tutte le voci si fondono in una sola frase. Ma quando ti sembra ad esempio che Edoardo sia il violoncello. Poppino la tromba e Titina la viola, ecco d'un tratto il primo passare sui toni del contrabbasso, il secondo del violino e la donna virgolare il discorso con strappi di trombetta. Un attimo, e tutto sarà rovesciato daccapo. Ora è Titina che s'abbandona alle languide scivolate del clarino, Peppino contrassegna coi sospiri del trombone ed Edoardo è tutto un fremente galoppante crescendo di timpani.
Non me li so figurare recitare da soli, non sono capace di immaginarmeli uno di qua e l’altro di là. Un De Filippo senza gli altri due ci farebbe forse l’impressione di quelle malinconiche e stonate trombe dì quartiere, che suonano a sera nei silenzi delle caserme vuote. Portavoce ridicole e strazianti della nostalgia dei consegnati.
Eugenio Brunetti, «Il Dramma», anno XIX, 1 marzo 1938
I fratelli De Filippo hanno rotto i piatti
Eduardo rifiutò il cognome, Peppino il dialetto
Peppino De Filippo non ama la critica, o meglio sembra dare la preferenza a un critico solo: il pubblico. E' questo un altro dei tratti che lo distinguono da Eduardo. Quando Eduardo, rappresenta una commedia nuova, scritte da lui stesso (è ormai difficile che rappresenti commedie nuove d’altri autori), tutto è predisposto in modo di creare un avvenimento teatrale anche riguardo alle forme. Eduardo ambisce tutti i crismi; autore e attore, benché la sua origine dialettale e l'indole personale lo portino a tenere nella massima considerazione la sovranità, popolare, non ammetterebbe d’essere giudicato da una diecina di critici secondari. L’anno scorso, alla prima di Filumena Marturano, dopo il secondo atto ebbe il piacere di farsi fotografare nel suo camerino insieme a quasi tutti i critici milanesi Da Simoni a Campanile, quelle fotografie rappresentavano un giudizio avanti lettera. Peppino, invece, da un paio d'anni, rappresenta le sue commedie nuove in serate nelle quali in altro teatro venga rappresentata una novità più importante. Non è difficile rimandare uno spettacolo di ventiquattr'ore, o intendersi con la direzione di un teatro. Evidentemente la coincidenza è creata di proposito.
Peppino sa che le sue commedie non reggono a un vaglio rigoroso, e sa che i sostituti dei critici più che esprimere un giudizio si attengono alla cronaca della serata. E' quel che basta. Il suo pubblico gli è fedele, composto di gente alla buona che va in teatro per veder lui, sicura di vederlo alla ribalta per tre quarti della commedia e disposta ad attenderlo pazientemente ogni volta ch’esce di scena. E' un pubblico che non si domanda nemmeno se la stessa commedia recitata da un altro attore, gli procurerebbe altrettanto diletto. Così è accaduto dall'ultima sua commedia Il bandito sono io. E' una farsa della quale i giornali si sono occupati pochissimo. Andò in scena, annunziata all’ultimo momento all’Olympia di Milano, la stessa sera, in cui all’Odeon andava in scena una novità di Géraldy annunziata da una settimana. Anche ai critici dei settimanali la cosa sembrò di poca importanza, ma la farsa si rappresenta da quindici sere e andrà avanti per un pezzo. C’è dentro di tutto, lazzi antichi, situazioni acquisite, battute nemmeno sempre rivestite a nuovo. Ma la vivezza di Peppino è tanta che nessuno ci pensa. E del resto è ammissibile anche un teatro scacciapensieri.
E' ammissibile soprattutto per gente che pensi poco, ma intanto la rivalità Eduardo-Peppino continua. Bei tempi, quelli dei primi De Filippo. Non erano Eduardo, nè Peppino nè Titilla, ma tutti insieme. Si sapeva che i tre fratelli avevano caratteri difficili, che fuori del teatro non erano divertenti e allegri come apparivano sulla scena, e per averne conferma bastava incontrarli dopo la recita in qualche casa amica. Peppino stava seduto ore ed ore su un divano, con repressione di uno il quale non si avveda della gente che gli si muove attorno. Eduardo non stava mai fermo, ma era difficile vederlo sorridere, e dai muscoli della sua faccia in continua vibrazione si diffondeva una penosa inquietudine. Titina, o era assente o aveva l’aria aggressiva. Sul palcoscenico, tuttavia, quel trio era perfetto. Tanto perfetto che anche adesso, nelle belle commedie di Eduardo, c’è sempre una parte per Peppino, recitata da altro attore e che invece si vorrebbe vedere interpretata da lui.
Cominciò Titina ad andarsene con Taranto. Lasciò il teatro per la rivista, e la distinzione era più che altro formale. Nelle riviste di Taranto la commedia ha gran parte, e nella recitazione dei De Filippo sono sempre presenti tanto l’eredità di Scarpetta quanto la memoria dei loro inizi che sono legati all’avanspettacolo e al caffè-concerto. Le farse di Peppino, in questo senso, significano appunto un ritorno allo stile dei primi tempi. Dopo un po’ d anni anche Peppino e Eduardo si divisero e gli appassionati del loro teatro pensarono con rammarico che non avrebbero più potuto riascoltare Natale in casa Cupiello. Eduardo si riuniva a Titina e la ricollocava in primo piano, ma l’antagonismo con Peppino s’inasprì, si esasperò, diventò, dicono, cattivo. Entrambi napoletani, entrambi autori di commedie, entrambi portati alle parti comiche (benché la sensibilità di Eduardo sia più ricca e profonda), pur contrastandosi cercarono di distinguersi imo dall’altro. Il dispetto indusse Eduardo a privarsi perfino del cognome che da tempo ha cessato di figurare nei manifesti delle sue compagnie: tanto lo conoscono tutti. Necessità pratiche indussero Peppino a rinunziare al dialetto napoletano e a circondarsi di attori che recitano in lingua. Ma anche questa rinunzia non ha niente di concreto. Le compagnie di Peppino e le sue commedie, sebbene tradotte in lingua italiana, rimangono tipicamente dialettali.
Il dissidio è profondo e non si sa quando nè come potrebbe aver fine. Esso mette a dura prova i rappresentanti del Reame di Napoli che sono numerosi in ogni città d’Italia. Nessuno vorrebbe dare la preferenza a uno dcji due fratelli; tutti si comportano con Eduardo badando di non offendere Peppino, e con Peppino in modo di non urtare la suscettibilità di Eduardo. A Milano, maestri di questa pratica sono don Peppino Somma e i fratelli Petriccione, Per essi vedere i De Filippo riuniti in una sola compagnia sarebbe un grande avvenimento e sicuramente in segreto sperano che ciò accadrà. Ma quando i piatti sono rotti è difficile riaggiustarli.
Raoul Radice, «L'Europeo», anno III, n.50, 14 dicembre 1947
Le Cocu Fantastique
Peppino De Filippo s’è tolta la maschera di Pulcinella ma sotto ce n’era un’altra: la sua
Roma, novembre
Peppino De Filippo legge con molta attenzione tutto ciò che si scrive sul suo conto. Lo spirito polemico non gli fa difetto e di solito la reazione è immediata. Debuttò al Quirino più di un mese fa con la commedia « Gennarino ha fatto il voto », già rappresentata a Milano e a Napoli, ma nuova per il pubblico romano. In quell’occasione i critici di Roma, che per lo più sono larghissimi di elogi per Peppino attore, giudicarono con insolita severità Peppino commediografo. Nel giudizio ebbe peso una certa irriverenza che percorreva la farsa. Nessuno pose problemi confessionali, ma tutti ne fecero una questione di gusto. Peppino De Filippo s’indispettì e il giorno dopo, su tutti i muri in prossimità
del teatro, e altrove, apparvero manifesti di formato elettorale stampati in colori diversi. Ognuno di essi riproduceva con caratteri vistosi i giudizi favorevoli con cui Simoni, Palmieri, Carrieri, Terron ed altri avevano accolto la prima di « Gennarino ». Sia dipeso da ciò, o dal fatto che la prima sera anche il pubblico del Quirino si era divertito, la farsa fu rappresentata senza interruzioni per più di un mese.
Era una rivincita, ma a Peppino il successo non bastò; tant’è vero che alla sua seconda novità « Per me come se fosse », prima che si alzasse il sipario ha sentito il bisogno di venire alla ribalta e dire qualche parola circa la data di nascita della commedia. Tenacia nel sentirsi offeso che è la prova di un impegno che oltrepassa la permalosità. Del resto la testardaggine è tra i motivi dominanti del teatro di Peppino, é il carattere dell'uomo cocciuto è forse tra quelli ch’egli esprime con maggiore ricchezza di particolari. Anche Camillo, protagonista di « Per me come se fosse », entra nel numero. Camillo, dopo una partita a carte con la moglie, un amico e un vicino di casa, ha sognato che la moglie e il vicino lo tradivano. Peppino non si stacca mai troppo dalla propria origine, nè da alcuni temi fondamentali del teatro farsesco! Perciò lascia capire che la cagione del sogno di Camillo potrebbe consistere, non in un legittimo sospetto, ma nell’aver mangiato a cena troppi fagioli.
II sogno, crudele e ossessionante, gli apparve tuttavia con troppa chiarezza per poter dimenticarlo. Di esso Camillo cerca prove concrete, interroga il vicino, la moglie, l’amico (il quale era arrivato con un cocomero che si ingrandiva a vista d’occhio); e non riuscendo a ottenerle si rivolge a un avvocato chiedendo che tutti i particolari dell’incubo siano esposti ai magistrato.
L’avvocato è un imbroglione, lo capiscono tutti; l’antico, il quale non ne dubita, pensa di riportare l’ordine nella mente di Camillo mediante una droga e la recitazione di un secondo sogno riparatore. Intanto la moglie, fino allora fedele, angustiata dalla irragionevolezza del marito incomincia a considerare con occhio diverso l’uomo che nei sogni del marito è il suo amante. Cioè nel momento in cui la realtà sembra aver vinto una allucinazione, il sogno incomincia a farsi reale. Tutto questo è nella regola, va dallo « Sgana-relle cocu immaginaire » di Molière al « Cocu magnifique » di Crommelynck; e prima di Molière c’era già stato nella commedia dell’arte un « Arlecchino cornuto per opinione ».
Ma senza rinunziare all’antico, la farsa spesso è più pronta della commedia ad accogliere idee, atteggiamenti e indagini della vita moderna, e a piegarli ai suoi fini. Ferravilla fu tra i primi a collocare sulla scena un telefono e a servirsene per parlare « con Lucifero in persona »; collegato con l’inferno non domandava cose trascendenti, ma notizie dell’amico Brambilla.
Ora è la volta della metapsichica. Altri se ne occupano con maggiore sussiego, si adoperano a porsi un problema e ad approfondirlo; Peppino, e diciamo pure il teatro napoletano (anche se la sua compagnia recita in lingua ed egli ha sostituito il borghese al povero diavolo che fu per qualche anno la maschera di attualità), è più disinvolto e più vivo. Il problema, anche se esiste, è introdotto nella farsa come notizia di cronaca, nuovo congegno comico o motivo di sorpresa. Diventa il problema di Pulcinella, che è sempre lo stesso, ma che aggiornato ci guadagna.
Di questo tipo, Peppino è erede diretto. Ancora al principio del secolo, a Napoli, quando Pulcinella compariva in casacca bianca, il pubblico invitava l’attore a togliersi per un attimo la maschera. Peppino se l’è levata per sempre, e alla bravura del gesto e delle intonazioni ha aggiunto la mimica della faccia. Le sue farse rispondono bene anche a questo suo gioco eccezionalmente ricco.
Raoul Radice, «L'Europeo», anno VI, n. 49, 3 dicembre 1950
Peppino De Filippo gira cortometraggi
PEPPINO de Filippo ha finito di girare un cortometraggio che verrà proiettato entro gennaio. Il cortometraggio si intitola « Partire è un po’ morire » ed è stato immaginato dal pittore Giaci Mondaini che se ne è assunta anche la regìa. Esso è concepito come una farsa finale e dovrebbe essere il primo di una serie di film brevi la cui programmazione è prevista in aggiunta agli spettacoli normali. « Partire è un po’ morire » ha per argomento gli Stati Uniti d’Europa, ma è soprattutto una satira delle lungaggini burocratiche e del fiscalismo d'oggi. Il film breve si presta a questo genere di satire. Un tempo come quello che viviamo è ricco di motivi che non bastano per essere materia di un film di lunghezza normale, mentre in breve possono contribuire al ringiovanimento della cinematografia'. Anche l'arte narrativa francese e russa del secolo scorso, dopo Balzac, Stendhal, Flaubert, Gogol, Dostoievski, Tolstoi, fu rinvigorita dalle novelle di Maupassant e di Cecov.
Accanto a Peppino De Filippo figura come prima attrice Margit Seever. E’ una ragazza dell’Alto Adige che non aveva mai visto una macchina da presa. Per poter partecipare al film la Seever venne a Roma con un pellegrinaggio guidato dal parroco del suo paese, ma si accorse di non aver portato con sè il costume tirolese. Ritornò al convento in cui erano alloggiati i pellegrini, vi rimase dee giorni e ne usci con il costume prestatole da una compaesana.
«L'Europeo», 7 gennaio 1951
I romani ridono è tornato Peppino
Vorrei che chiedeste al noto attore Peppino De Filippo di rispondere alle seguenti domande : «Qual è il suo pensiero sull’attuale “crisi” del teatro? Crede che attualmente esista in Italia, un autore della forza di Pirandello? Preferisce recitare in cinema o in teatro? Quale delle sue ultime applaudite commedie gli è più cara? É vera la notizia apparsa su aualohe giornale circa un suo probabile viaggio a Parigi per tenervi un corso di recito? (MARCELLO SOFFI, ROMA)
Per dare una risposta esauriente al signor Soffi e a tanti altri lettori di EPOCA, fra cui Maria Panigatto, e Enza Dossena, che ci chiedono notizie e indiscrezioni sui popolare attore dialettale Peppino De Filippo, il nostro redattore Enzo di Guida l'ha intervistato, ricavando le seguenti impressioni e informazioni.
De Filippo è uno dei pochi attori che non vuole essere intervistato nel suo camerino e in mutande, «Te lo giuro, non posso! In queste condizioni» dice «mi viene una specie di complesso che potrei superare solo se anche tu ti mettessi in mutande. Ma dovresti metterti anche il cerone sul viso, così sembreremmo della stessa razza: due indiani che stanno per scendere sul gran sentiero.»
Rinunzio all’idea di mettermi in mutande sul palcoscenico dell’Olimpia e accetto di parlargli più tardi, a cena, in uno di quei ristoranti che Milano possiede nel sottosuolo, proprio per la gioia degli affamati signori attori, che non hanno tempo di mangiare a orario normale.
Alle tre, quando le bottiglie di Valpolicella vuote creano sulla tovaglia bianca una specie di natura morta alla Morandi, a Peppino De Filippo non devo più chiedere niente, perché gli si è sciolta la lingua ed è lui stesso che mi parla, mentre una petulante chitarra, arpeggia il motivo: «Che ce dicimme a fa’ parole amare».
Peppino allarga le braccia come per dirmi: «Hai sentito la canzone? È inutile parlare di teatro, di crisi, di aspirazioni! Sono tutte parole amare». Poi improvvisamente, in uno di quei suoi scatti che delineano il suo carattere di attore umorista, cambia faccia; si mette a ridere ed esclama: «Mi piace il teatro; adoro la musica; per Napoli, vado pazzo; vorrei andare a cavallo; credo nel cinema e voglio bene a Edoardo e a Titi-na. Fai un bell’articolo e beviamoci sopra un’altra bottiglia di spumante». Si volta a guardare la signora Lidia Maresca che è l’attuale prima donna della sua compagnia e le sorride, ridiventa triste e con gli occhi che guardano malinconicamente lontano, riprende a parlare seriamente: «Va bene, la crisi teatrale può anche esistere. Ma che c’entro io con la crisi teatrale? Caro mio, oggi non c’è tempo per interessarsi del nostro vicino di casa. La mattina ciascuno esce dal proprio appartamento e la sera deve portare a casa il "paniere” con la spesa. La sera io porto sempre a casa il “paniere” con la spesa. Cosa è questa crisi del teatro di cui parli?»
«Un lettore di EPOCA», gli chiedo «vorrebbe sapere da te se pensi che ci possa essere oggi in Italia un autore che stia alla pari con Pirandello.» «Beh, sinceramente no» dice Peppino. «Però, se oggi io metto in scena una commedia di Pirandello, ho il teatro mezzo vuoto, ma se metto in scena una commedia di mio fratello... accidenti» dice subito mettendosi la mano dinanzi alla bocca, come se si fosse lasciato sfuggire un segreto «no, no questo non lo devi scrivere, altrimenti tutti penserebbero che parlo cosi, per interesse... insomma hai capito? Queste sono solo constatazioni.» Poi leva la mano dalla bocca e coraggiosamente esclama : «Del resto a me non importa niente. Forse, solo perché Edoardo è mio fratello, non dovrei dire che lo stimo molto? Io stimo molto Edoardo, io stimo molto Edoardo» si mette a urlare con ritmo sempre più deciso.
«Lo stesso lettore di EPOCA» gli chiedo «vuole sapere qual è la commedia scritta da te, che ti è più cara.»
Peppino tamburella un po’ con le dita sul tavolo poi mi guarda spaurito:
«Mi piacciono tutte» dice titubante «comunque, la più cara, è quella che scriverò.»
«È vero che sei stato a Parigi?»
«Mai stato a Parigi ! Ma mi raccomando di scrivere che ci sono stato. Il pubblico oggi vuole attori che siano stati a Parigi, che abbiano frequentato la riva sinistra e ballato la samba con Cocteau. Rassicurali. Puoi dire che ho ballato la samba con Sarfre e ho fatto un bagno nella Senna insieme con Cécile Aubry.»
«Voglio farti un’ultima domanda e poi passeremo alla seconda bottiglia. Una lettrice, Maria Panigatto, vuole sapere da dove il tuo estro di scrittore attinga per creare certi personaggi così umani.»
«Oh no» risponde Peppino «io mi guardo in giro! Io, i miei personaggi, li copio pari pari dalla vita. Hai visto stasera "Si gira”? È la vita del cinema che mi ha ispirato.»
In quel momento arriva il regista Mondaini che in questi ultimi tempi ha realizzato lui uno dei suoi filmetti, «Partire è un po’ morire».
«Ecco», dice Peppino «mi piace lavorare con lui, perché posso fare quello che voglio. Oggi sono pochi i registi non contaminati dalle esigenze dei produttori. Amo il cinema, ma lo farò solo a patto che mi facciano fare quello che voglio.»
«Progetti ?»
«Non dico niente» risponde Peppino afferrando una bottiglia di spumante. «Non scrivere niente. Io sono sfortunato. Se dico qualcosa, finisce che va tutto a monte.» Guarda Mondaini e ammicca. «Vedremo chi avrà ragione, vedremo se mi riuscirà di fare in Italia un film umoristico che non sia uno dei soliti polpettoni, vedremo se mi riuscirà di creare un "genere”.»
La chitarra si è accostata al nostro tavolo e Peppino si tuffa in un mare di ricordi. «Scali na tei la longa longa...»
«Teatro, cinema, poesia, letteratura e pittura, la vera arte insomma, è proprio così, come nella canzone,» commenta Peppino «è una scalinatella lunga lunga, dura a percorrere. Ma chi lo sa ! Ho fatto passi da gigante, dal tempo in cui recitavo in avanspettacolo al cinema Reale di Napoli.»
«Epoca», 1951
Peppino De Filippo è sceso in campo contro i critici teatrali dei quotidiani fiorentini e lo scandalo ha avuto momenti di divertente assurdità. Peppino De Filippo si è presentato al teatro della Pergola con una sua novità: «Gennarino ha fatto il voto». Il teatro era pieno; prima che si alzasse il sipario, però, esce fuori Peppino, fa un inchino al pubblico e inizia un discorso pieno di lodi per se stesso e per il lavoro. La malizia dei fiorentini salta fuori con qualche risatina sommessa ma Peppino continua e, a conclusione e riprova del capolavoro, legge una lunghissima critica apparsa su un giornale romano. A metà lettura uno dal loggióne gli domanda: «Che giornale è?». «Il Paese» dice Peppino. «Mai sentito nominare» borbotta l’altro. L'indomani «Gennarino ha fatto il voto» è severamente criticata.
Giulio Bucciolini, critico de «La Nazione» è quello che dice le cose con maggiore chiarezza. Il teatro, la sera, è semivuoto. Peppino De Filippo è del diavolo. Nel secondo atto, mentre dice a una donna «Tu non capisci niente», aggiunge «...come il critico della Nazione». Al termine della farsa si leva qualche fischio. Peppino commenta: «Fischiate perché avete letto le critiche dei giornali. Perché non avete fischiato ieri sera?». Poi va nel suo camerino, s’infila il cappotto e insieme al suo amministratore fila come un razzo dal direttore de «La Nazione» Sandro Volta. Protesta e si rammarica con lui che la critica di Giulio Bucciolini gli abbia dimezzato l'incasso. Sandro Volta si stringe nelle spalle. L'indomani, alle 9, cioè un quarto d’ora prima che inizi lo spettacolo, «Gennarino ha fatto il voto» ha fatto vendere sette poltrone. Lo spettacolo si rialza un po' il sabato e la domenica, poi ricade nel nulla.
Peppino De Filippo concede una intervista alla Radio e a chiusura di questa rammenta di aver distribuito agli spettatori un ricco opuscolo dove si parla di se stesso e che gli è costato duecento lire. «Io voglio bene ai miei spettatori» finisce. (In questo opuscolo, tra l’altro, è citata una terzina di Dante. Sotto si legge: da «La lingua italiana» di E. Bianchi pag. prima. I cap.) «Gennarino ha fatto il voto» non è piaciuta ai fiorentini. La figura di un santo, S. Rocco, che fa le corna in scena e chiama becco un personaggio, non li ha fatti ridere.
Renato Venturini, «Epoca», 1951
Napoli è la città della Protesta. Quella, celeberrima, di Luigi Settembrini, a suo tempo, contribuì alla caduta del Borbone più d’una guerra perduta. Il cittadino che protesta a Napoli è un’istituzione quasi sacra, davanti la quale finirono sempre con lo spuntarsi la prepotenza e lo zelo dei birri e dei loro solerti nipoti di epoche più recenti. La poesia e il teatro napoletani sono pieni di patetici personaggi che, in un modo o nell’altro, levano un grido di rivolta contro il destino in genere, contro la società, contro la stagione inclemente, contro il fisco assillante, contro tutto e tutti compresi se stessi.
Non di rado la rivolta è contenuta in una finta sottomissione, in un ironico abbandonarsi alla sorte, in una mortificata rassegna dei propri «guai».
Ed ecco le coppie strazianti di amanti che solo l’abitudine quotidiana tiene legati sotto lo stesso tetto, e di cui certe accorate liriche di Bovio rispecchiano la sarcastica malinconia. Ecco gli arruffapopolo, che uno sguardo della moglie tiene, però, a bada; ecco i poveri cristi dall’aria dimessa che trovano, di tanto in tanto la forza di emulare Capaneo, non senza, tuttavia, farsi il segno della croce ; ecco le vittime di strani sogni e di sinistre illusioni, che, prima di ricadere nello squallore della vita d’ogni giorno, lanciano contro ignoti l’ultimo sberleffo, l’estremo epigramma.
Sono questi, appunto, i personaggi dei quali Peppino De Filippo fa rivivere, sul palco-scenico, l’irresistibile umanità.
Anche il protagonista della commedia che Peppino ha scelto per il suo esordio stagionale è un cittadino che protesta.
Nel paese dell’abate Gamiano allignano i Socrati in diciottesimo, gli apostoli di un’idea piccolo borghese, i martiri di una rivoluzione familiare. Ernesto Grassi, autore di questo «grottesco» in due tempi, che s’intitola «A me la libertà», ha colto nel segno presentandoci un cavilloso «paglietta» napoletano che, trapiantato a Milano, si fa una larga e solida fama di legale specializzato in separazioni coniugali.
La passione, l’ardore, la meticolosità di quest’avvocato nell’esercizio della sua professione vanno, chiaramente, al di là del semplice obbiettivo economico. Questo personaggio è una specie di ufficiale di stato civile alla rovescio; non c’è caso che ai suoi espedienti
di leguleio possa riuscire di non facile soluzione.
In realtà, il «paglietta», che è anche docente di diritto canonico, più che una professione ha abbracciato una missione. Egli è il Piero l’Eremita dei mariti oppressi e vilipesi. Il codice gli fornisce le armi più sicure per la sua guerra di liberazione contro la tirannide di una moglie esosamente nordica, una Santippe implacabile non solamente col consorte.
Il personaggio è tutta la commedia. Come il socratico divorzista giunga alla mèta fiammeggiante del sole della libertà, attraverso quali casi farseschi, importa meno. Il divertimento del pubblico è continuo. Peppino «milanesizza-to», al quale la insopportabile moglie impone, fra l’altro, di non parlare in dialetto napoletano, è impagabile, è un’interpretazione sostenuta da toni ora di comicità fragorosa ora da finezze e arguzie sfioranti la malinconia.
Il pubblico ammirò, insieme con Peppino, Jone Morino, una moglie terrificante che legittimerebbe non solo i tentativi di ricorrere a uno specialista in annullamenti. Lidia Martora, Maria Marchi, Emilio Petacci fra gli altri divertenti interpreti della commedia. Col ritorno di Peppino De Filippo al Quirino, nei teatri romani si è ripreso a ridere. Senza dubbio, era tempo.
Vincenzo Talarico, «Epoca», 1951
Cinema o teatro, questo è il problema
De Filippo, uno, due e tre
La pace è tornata nella famiglia De Filippo
Come i letterati del nostro Rinascimento, che avevano due anime, una per la cultura ufficiale, il latino, ed una per il volgare (intendiamoci: il «volgare illustre» di Dante), molli nostri attori moderni uniscono l'attività teatrale, più ristretta e più... aristocratica, a quella più... democratica del cinema. E generalmente sullo schermo un Attore di teatro ha una personalità diversa, direi quasi che è complementare a se stesso: ciò dipendo dalla differenza fondamentale delle due arti, dei due diversi sistemi di «lavorazione».
Intervistare un attore del tipo di Peppino De Filippo è sempre una novità ricca di imprevisti. Ce lo figuravamo diverso da come è nella realtà. Il discorso cade naturalmente sul teatro e sul cinema. Anche lui fino od ora ha alternato la scena alla macchina da presa, riportando «grandi successi in ambedue i campi. Chiediamo al simpatico attore se gli è piaciuta In parte affidatagli in Ragazze da Marito a fianco dei due fratelli, con cui non lavorava più da molti anni.
In questo, che non vuole essere un film comico, Peppino ha il ruolo di un invadente traffichino che convince il cavalier Oreste Manilio (Eduardo) a mettere da parte la sua intemerata onestà di funzionario dello Stato, per fare quattrini in poco tempo e accasare finalmente le tre figlie. Tltina (Agnese) è naturalmente la moglie di Eduardo e, restando nel personaggio che si è creato a teatro, tanto briga e tanto si dà da fare, che riesco nel suo intento di madre e, fingendo perfino di affogarsi, finisce col piazzare le graziose zitelle.
I tre De Filippo stanno bene insieme. Anche se hanno un temperamento artistico diverso fra loro, Eduardo con quella sua maschera amara Petrolini napoletano, Peppino con quel suo petulante «savoire faire» partenopeo che non si perde mai di coraggio, Titina con quella sua patetica e vivace saggezza da popolana un po’ arrogante e attaccabrighe, i De Filippo sono una triade che non si dovrebbe più scindere. «Separare non bisogna».
In questi giorni è stata data a Parigi Filumena Marturano: il dialetto ha superato i limiti regionali e nazionali ed è diventato mezzo di scambio culturale. Il dialetto napoletano è il caso-limite del vernacoli: con i De Filippo sta assurgendo al ruolo di vera e propria «lingua». E infatti anche in Ragazze da Marito Peppino resta l’eterno napoletano che si infila dappertutto; come in Signori in carrozza e in altri film. Eduardo invece è un sottile pessimista ammantato di antico umorismo partenopeo, è il povero Travet che, trascinato dalle circostanze e dalla legge inesorabile della vita, si ribella e compie una disonestà che gli tormenta la coscienza, fino a che non si acquieta nella riparazione.
Eduardo ha voluto fare, con questo suo ultimo Ragazze da Marito, un film patetico, nonostante i molti spunti comici, un film da meditare e non da ridere soltanto. Questa, è la sega dei film drammatici e sentimentali. Dopo una valanga di film comici, forse per reazione, ci sono attualmente in cantiere ben 44 film drammatici. Quest'anno ci sarà poco da ridere! Per quanto riguarda il «genere» dialettale il pubblico ò abituato alla corposa e oraziana comicità di Fabrizi e alla saettante e fescennina ilarità di Totò: tutto ciò che è napoletano gli richiama alla mente i lazzi di Pulcinella e l'umorismo spregiudicato dei mimi di Mergellina.
Invece Eduardo è un attore drammatico, nonostante la sua «verve» napoletana. Strano destino quello di certi attori, che nel momento in cui vi fanno sorridere vi fanno anche spremere qualche furtiva lacrima. Certo l’Eduardo di Questi Fantasmi e de La Paura Numero Uno è diverso dall'Eduardo di Marito e Moglie. Ma Napoli Milionaria è egualmente efficace a teatro e al cinema: lì il comico sfocia inevitabilmente nel drammatico. Il cinema ha attratto molti attori dì teatro: oggi numerosi nostri «divi» da Gino Cervi ad Aroldo Tieri, da Carlo Ninchi ai De Filippo, sono anche i più quotati attori del teatro italiano.
E non si contentano di fare gli attori: vogliono essere anche i registi dei film che interpretano. Forse è una legge di compensazione: mentre a teatro chi conta è l’attore, oltre naturalmente al copione, e alla capacità singola di comunicare direttamente con la platea, al cinema chi «comanda» è il regista. Molti attori, da Charles Chaplin a Laurence Oliver hanno fatto ì registi di se stessi. In Italia abbiamo molti attori-registi, da Fabrizi a De Sica a Cortese. Ed Eduardo corona degnamente la lista.
Bartolomeo Rossetti, «Film d'oggi», 19 novembre 1952
Un De Filippo poeta e autore di "favole,,
43 anni di teatro e 22 di schermo -I "guai d'un ministro" e di Peppino seienne - Gli inizi con Schipa - Si gira in Liguria "Toccaferro"
Genova, maggio.
Peppino De Filippo ha, fra gli altri suoi meriti, anche quello di non nascondere gli anni che ha: 49 (anche se non li dimostra nella vita, sul palcoscenico e sugli schermi). Li ha detti al pubblico In una sera di particolare festa In suo onore, aggiungendo, con un sorriso schietto, agli spettatori: «Potete darmene anche di meno: 40, 38, 36, ed anche 30 e, ae vi è fra voi qualche mio «amico benevolo» gli consento di aggiungere... di reclusione». Il pubblico quella sera protestò a queste parole, calorosamente applaudendo e Peppino proseguì: «Ma non vi nascondo che sono anche molto vecchio di palcoscenico: ho 43 anni di ribalta!».
Perchè Peppino De Filippo la passione per il mondo delle quinte e del fondali, cominciò a mostrarla proprio a 6 anni. A quell'età, del suoi parenti attori gli fecero imparare una poesia da dire al pubblico in una commedia: «I guai di un ministro» e Peppino apprese nella sua memoria con sicurezza la poesia. Tutto alle prove andò bene. Ma alla sera, quando fu alle luci della ribalta, Peppino che doveva esprimere l'omaggio al «signor ministro»: Viva, viva il signor ministro, etc, si impappinò subito e non potè andare avanti. Ebbe qualche scappellotto, dai suoi parenti, e dietro le quinte dove riparò anche qualcosa di più, con la minaccia di «inique sanzioni» quando sarebbe rincasato. Ma da quella sera insieme con «Guai di un ministro», cominciarono anche i guai e le gioie di Peppino sul palcoscenici. Fu Infatti da quella sera che Peppino decise in cuor suo di essere attore per sempre e di vincere molte lotte al fuoco, anzi,, per essere più adeguati al tempi che corrono, alle «luci della ribalta». E la sua promessa l'ha mantenuta. Lo sanno tutti i pubblici d'Italia, ed anche quelli che fuori d'Italia l'hanno visto ed udito recitare, e che con tenacia lo apprezzano. Il bilancio artistico di Peppino De Filippo è molto complesso. Egli non può certo calcolare le parti che ha interpretato: si è fatto largo con un costante, impegno prima nel teatro vernacolo e poi in lingua Italiana. Fra l'uno e l'altro periodo Peppino passò anche al cinema e fu poco dopo la nascita del «cinema parlato» che gli fu richiesto, insieme con Edoardo, di esperimentare Io schermo: fu verso la fine del 1931 in un film con Tito Schipa: «Tre uomini in frak». Da quell'anno anche la passione per lo schermo lo ha preso e non lo ha più lasciato. Questo lo dichiara Peppino ad un gruppo di suoi amici, mentre si prepara a far «girare la manovella» nei pressi di Genova in un film in cui è protagonista insieme con Tltina, Riento, Fabrizi, etc, dal titolo: «Martino Toccaferro», tratto da una nota commedia.
«Ho — dice Peppino — 43 anni di teatro sulle spalle ed esattamente la metà di cinema: 21 anno e mezzo. Dalla fine del 1931, da quando si cominciò a parlare suUo schermo, ho preso parte ad oltre 40 film. Che volete? Mi piace anche molto il cinema che dà parecchi benefici, ma al teatro non so e non saprò mal rinunziare. Il teatro mi mantiene in costante allenamento col pubblico. E nella vita tutto, o quasi, è allenamento. Anche, non scandalizzatevi, l'amore. Finché potrò, e mi auguro per molti decenni ancora, passerò la mta vita fra le quinte e gli schermi. Ubbidirò sempre al pubblico che mi vuol vedere in tutte le pose. E credo di non aver torto agendo cosi». E Peppino sosta un Istante nel suo dialogo con gli amici. Ma vi è un Peppino De Filippo che Peppino De Filippo ama tenacemente e che per più tempo egli ha tenuto segreto. E' Peppino... poeta dialettale di oltre 20 anni fa. Fu verso il 1929 o il 1930 che Peppino verseggiò spesso in napoletano, sentendo Irresistibile la tendenza di ogni napoletano ad osservare la vita In versi. Ora questa sua fatica di oltre 20 anni oraono l'ha raccolta In un nitido volume di copie limitate. Sono versi pieni di filo sofia. Tutti naturalmente chiedono a Peppino di dire qualche «sua favola». Peppino ci guarda e sorride. Poi aggiunge: «E vabbene. Ci avete provato gusto. Ve ne dirò qualcuna. Ma da un momento all'altro il lavoro mi riprenderà e 'non posso dire " favole " sempre. Con le "favole" non si mangia tutti I giorni. Non è vero Luigino?». E cosi dicendo sorride a suo figlio, un giovane bruno, che guarda suo padre con palese affetto e che acconsente alle osservazioni paterne. «Eccovi una mia favola L'uomo'»
Un cane, nel vedere un altro cane gli chiese: «Tu chi sei?», l'altro rispose: «Son l'amico dell'uomo. Custodisco la sua dimora e tutte le sue cose. Gli son sempre fedele e l'obbedisco. Lo difendo dal ladro se per caso questi volesse ucciderlo, per cui ho la vita in pericolo per lui foss'egli un benestante o un pover'uomo», «E il ladro chi sarebbe?». «Il ladro... — disse l'altro — il ladro è l'uomo!...»
«Un'altra favola?» gli chiedono gli amici. «Sì, ma non di più. Da un momento all'altro dovrò " girare". E' giunta l'ora di non più favoleggiare... Vi dirò: Il lieto evento».
Quei giorno vi fu a corte un gran da fare perchè la leonessa, poverina, doveva al suo consorte regalare l'erede al trono. «Evviva la Regina!» Gridaron tutti non appena nato il grazioso maschietto, un leoncino: «Salva è la dinastia. Salvo è il casato. Evviva il re, evviva il principino!», in quello stesso giorno che il leoncino veniva al mondo, un'asina donava alla luce un piccolo asinino che, appena nato, quasi già ragliava. L'asino disse: «Che malinconia! Chi nasce re e chi nasce poverello». «Perchè? — rispose l'asina. — Suvvia non ti crucciar se il nostro è un asinello. Son pari tutti e due per il momento Lascia che crescan bene di talento... Soltanto allora si vedrà, mio caro, chi saprà fare il re e chi il somaro».
Peppino ha appena finito di dire questa sua seconda favola che lo chiamano per «Martino Toccaferro». «Signor De Filippo, si comincia a " girare"». Peppino si alza di botto e dice: «Le altre favole le leggerete quando uscirà il mio volume. Se volete ancora divertirvi acquistate il libro. Lo spettacolo gratuito è finito. Voi volevate fare i " portoghesi" del libro. Ma vi è riuscito per poco. Pagate, amici, pagate. Anche lo pago col mio lavoro nella vita, anche se gli altri non mi pagano poco. Arrivederci. Ora "si gira"». E Peppino De Filippo si allontana sorridendo. E' ora «a foco» sotto i riflettori pronto per una scena di «Martino Toccaferro». E' divenuta un altro Peppino: è un accorto ed acuto interprete di un personaggio che nella sua, interpretazione è destinato a convincere e piacere a tutti i pubblici d'Italia. Sicuramente.
Guido Petriccione, «Stampa Sera», 13 maggio 1953
Potrei avere, attraverso «Vie Nuove», una risposta diretta di Peppino De Filippo sulle ragioni che lo hanno indotto a passare dai teatro dialettale al teatro in lingua?
Giuseppe Marra, Benevento
risposta di PEPPINO DE FILIPPO
Giacchè da qualche parte, dopo nove anni di capocomicato assoluto, poiché prima di quell’epoca lo dividevo in uguale misura e in altro campo con mio fratello Eduardo, ancora mi giungono domande sull’argomento postomi dal lettore di Vie Nuove, rispondo con piacere cercando di precisare meglio fatti e cose, che hanno riguardato e riguardano la mia personalità artistica. Mi è stato domandato, perché a suo tempo formai una compagnia di prosa italiana. Tutti sanno che io provengo dalle radici del teatro dialettale e precisamente quello napoletano (tutta l’Italia ammirò il «Teatro Umoristico del De Filippo» per quattordici anni), motivo, questo, di grandissimo e incommensurabile orgoglio per me, tuttavia, proprio quando la mia personalità artistica aveva toccato l’acme della notorietà, per alcuni contrasti di vedute artistiche che forse da tempo maturavano e che improvvisamente, si frapposero fra me e mio fratello Eduardo, per intuito e che, ritenni che l’arte dialettale, grande e rispettabile quanto si voglia, non avesse più per me attore-autore un grande avvenire. Mi parve di capire che le sue possibilità di espansione fossero limitate, non certo per difetto, ma per natura, alla capacità di diffusione del suo dialetto d’origine. Pensai che restava a suo netto svantaggio la difficoltà da parte del pubblico di comprenderne la parlata al cento per cento, condizione principale invece, quella di «capire», perchè un attore possa essere giudicato e apprezzato nel giusto suo valore. E non è certamente valido ai fini artistici, che un attore dialettale, fuori delia sua città, perchè il pubblico lo apprezzi e lo comprenda, italianizzi il suo dialetto: significa offenderne la naturale armonia.
Sentii allora la necessità di spiccare un salto decisivo e di passare dal teatro dialettale a quello in lingua. Corsi il pericolo di cadere nel vuoto... ma fui dell’avviso (ed ebbi ragione) che non c’è cosa al mondo ohe non abbia fondo. Formai allora una compagnia di prosa italiana e formandola Intesi portare il mio teatro e i miei personaggi sulla ribalta nazionale per dare vita e colore non al folklore di un genere teatrale, ma all’arte del teatro vera e propria e cioè, alla «vera» commedia italiana (per carattere e parlata) che prende origine e sviluppo da quella famosa dell’arte, da cui deriva non soltanto il mio teatro comico, ma quello di tutti i tempi: tragico o comico. Ora, da nove anni, giro l’Italia con la mia compagnia di prosa italiana e grazie a questa caratteristica da Busto Arsizio a San Donà del Piave e da questo a Trapani tutti possono capire la mia parlata e quindi valutare nel giusto valore le mie possibilità di attore-autore. I successi della mia presente compagnia sono noti. Successi di pubblico e di «critica». Di quest'ultima, in verità, prima in «sordina» poi con slancio di sincera approvazione e ammirazione (c'è qualcuno che ancora non si convince e non volendo capire finge forse di non capire, ma anch’egli finirà per convincersi sinceramente ad apprezzare le enormi difficoltà di inizio a cui sono andato incontro pei attuare le mie aspirazioni).
Infatti, oggi e in avvenire, chi mai potrà contestare i miei successi di autore-attore dopo le 270 repliche in Italia della mia commedia scritta e recitata in lingua «Quel bandito sono io»? E le 200 circa di «Quel piccolo campo»? Le 150 e più di «Gennarino ha fatto il voto»? Le tante e tante di «Non è vero... ma ci credo»? Di «Per me come se fosse»? Le circa 200 di «Quelle giornate»? E le 100 di «Caro nome» senza contare quelle numerosissime di commedie di altri autori come «Il piccolo caffè» di Tristan Bernard, di «A me la libertà» di Grassi, di «L’uomo, la bestia e la virtù» di Pirandello, di «Serafino Lemmi applicato» di Morucchio ecc.? Il salto, dunque, che decisi di fare nel lontano agosto 1945 all’Olimpia di Milano, dopo ben 14 anni di successi addirittura internazionali con la mia compagnia dialettale napoletana del «Teatro Umoristico De Filippo», è stato fruttuoso e felice per me ed il fondo su cui timidamente ma con risolutezza mi calai ò di quelli che non temono frane a sorpresa. Mi si chiede anche, a volte con molto interesse, se per caso, un giorno, non decida di recitare una commedia dialettale. E ohi me lo vieta? La mia presente situazione artistica, ormai, mi permette tutto.
Se la convenienza e l’opportunità me lo consentono, nel senso di elevare sempre più la mia arte, reciterò in dialetto e ne sarò felicissimo e orgoglioso perché penso, che per un attore, senza voler offendere la suscettibilità di nessuno del miei cari compagni. dialettali, sia necessario, se non obbligatorio, saper recitare nell'uno e nell’altro modo. Personalmente e per esperienza ho appreso, che in un attore «perfetto», la radice sta nell'arte Dialettale di qualsiasi città o regione d'Italia, ma al momento del germoglio occorre aver cura dei fiori se non si vuole vederli appassire irrimediabilmente sulla pianta, prima del tempo. Tengo a chiarire, prima di finire, che queste mie dichiarazioni sono e tate provocate da persona sinceramente, almeno credo, interessata della mia situazione artistica presente e avvenire e che esse vogliono solamente precisare un mio modesto punto di vista sul teatro dialettale in genere e su quello «vero» italiano che poi è il mio, solamente il mio, perchè in esso c’è tutta l’aria del nostro Paese e le abitudini e i caratteri dei cittadini che lo compongono esprimendosi nella lingua nazionale. Si capisce, poi, che ognuno è padrone di amare il teatro che crede. In fatto di teatro, la cosa più importante, per chi non sente altre aspirazioni, è certamente quella dì farlo con amore e dignità e di arte», quella con l'«A» maiuscola, non ne soffre e si eleva con giustificata baldanza. Ciascuno è Re nel suo regno e si sa che ogni regno ha i suoi sudditi: è il numero di essi che conta.
Peppino De Filippo, «Vie Nuove», anno IX, n.20, 16 maggio 1954
Le strade dei De Filippo conducono a Scarpetta
Peppino De Filippo ha festeggiato a Roma, convitando un gruppo di amici, le sue nozze d’oro con il teatro. La notizia, a prima vista, potrà sembrare sorprendente: cinquantanni di palcoscenico per un attore il cui atto di nascita ne denunzia pochi di più. Ma una volta, quando la famiglia dei figli d’arte era ancora prosperosa, essere portato sulla scena in fasce era cosa normale. E magari ci avranno portato anche Peppino, ma a lui interessa non già la sua prima apparizione in pubblico, quanto il ricordo della prima parte attribuitagli di proposito.
Nella ricorrenza del centenario della nascita della Duse si è insistentemente ricordato che Eleonora fu mandata alla ribalta per la prima volta all’età di cinque anni: le era stato assegnato, in una riduzione dei Miserabili, il personaggio di Cosetta. Anche Peppino doveva avere a un dipresso quell’età allorché assunse, se non andiamo errati, la parte del ragazzino Peppeniello in Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta. Quanti lo avevano preceduto in quella parte che Scarpetta aveva concepito per suo figlio Vincenzino? In cinquant'anni di palcoscenico, la cui prefazione fu dettata da Benedetto Croce, Scarpetta scriveva: « E chiudo questa rapida rassegna con Miseria e nobiltà, la quale se mi costò molta fatica, mi ricompensò anche largamente in applausi, lodi e quattrini. Per questa commedia ho avuto e avrò sempre una speciale predilezione, non solo perché credo che sia la migliore delle mie produzioni originali, ma ancora perché mi ricorda una data assai cara e dolce al mio cuore: il debutto di mio figlio Vincenzino. In quel bambino io mi rivedevo e mi ritrovavo perfettamente. Oltre alla somiglianza del volto, io sentivo in lui il suono della mia voce, e spesso mi riconoscevo nei suoi gesti». Poi: Invano cercai una particina per lui nelle mie vecchie commedie e riduzioni. Il mio amor proprio e la mia vanità di padre mi consigliarono infine di scrivere una commedia apposta per lui: una commedia dove egli avrebbe potuto emergere anche in una particina ».
Questa fu la genesi di Peppeniello, del quale divenne subito popolare la frase: « Vicienzo m’è pate a mme! ». Scarpetta, a tal proposito, così conclude: « Molti ricorderanno ancora il garbo, la verità e lo spirito coi quali il piccolo attore la profferì, attirando, tutt’a un tratto, sopra di sé l’attenzione del pubblico. Un lungo e sonoro scroscio di applauso l’accolse e mentre il povero piccino, mezzo smarrito e tremante, rientrava di corsa fra le quinte, cadde fra 'due braccia che lo stringevano forte forte sul cuore coprendogli il volto di lacrime e dì baci. Chi potrebbe ridirvi la emozione profonda provata da me quella sera? Vi confesso francamente che non mi aspettavo quel successo; e che quando fui obbligato ad accompagnare mio figlio alla ribalta, tremavo più di lui, di tenerezza e di gioia. La sera del 7 gennaio 1888 resterà eternamente scolpita in fondo al mio cuore».
Quanti piccoli attori, dicevamo, assunsero quella parte prima di Peppino? E quanti vi si cimentarono dopo di lui? Ricordiamo il nome di Stefano Brandi, che tra un po’ d’anni vorremmo veder celebrato, ed è forse il Peppeniello più recente (1953). Peppino De Filippo comunque, abbia o non abbia ricalcato le orme di Vincenzo Scarpetta, è partito di là: né mai sapremmo dimenticarlo. La sua evoluzione, la corposità, la violenza espressiva ch’egli ha via via acquistate, si innestano su una tradizione fulgida e inconfondibile alla quale egli è rimasto spiritualmente e fisicamente fedele.
E tuttavia non è detto che dallo stesso tronco, sempre, si diramino strade identiche. Se, dopo aver ricordato il cinquantennio di Peppino, sentiamo di dover trasferire il discorso non tanto su Eduardo De Filippo attore quanto su Eduardo commediografo, ciò non dipende dal rimpianto (a nostro parere « antistorico », e ne abbiamo più volte esaminate le ragioni) che taluni tuttora alimentano nei confronti del primo Teatro umoristico « I De Filippo », e nemmeno da un accostamento d'occasione ma da una realtà cronachistica di fatto, in questi giorni essendo riapparse nei teatri romani, a cura dello stesso Eduardo, due sue commedie che da tempo egli non rappresentava: La fortuna con la effe maiuscola, scritta in collaborazione con Armando Curcio nel 1942, e Le bugie non le gambe lunghe che sono del 1947 e cronologicamente si inseriscono tra Filumena Marturano e La grande magia.
L’avvicinamento delle due commedie, sia o non sia volontario (e probabilmente non lo è), è a parer nostro chiarificatore. Delia Fortuna con la effe maiuscola. che si rivela ancor oggi viva e vitale nonostante il gusto un po’ troppo geometrico della composizione, e alla quale Eduardo ha conferito un finale di qualità quasi cinematografica ma non per questo gratuito, scrivevamo altrove: « La commedia sta al confine tra quelle che furono le farse dei De Filippo (nelle quali alcuni vedono tuttora una stagione genialmente felice del teatro partenopeo: felice ed armoniosa) e il teatro di Eduardo iniziatosi tre anni dopo con Napoli milionaria! Teatro, quest’ultimo, altrimenti consapevole, cioè concepito e portato avanti con una asciuttezza e un vigore grazie ai quali anche i movimenti farseschi assolvono funzioni precise, laddove un tempo parevano esaurirsi in se stessi».
Con altre parole, nella Fortuna con la effe maiuscola, che già ha pretese non ingiustificate di commedia vera e propria, insieme a una fondamentale malinconia, tanto più desolata quanto più si riveste di dolcezze irridenti, avvertiamo non si dice una ricerca di effetti (del resto legittima) ma un calcolo di natura artigianesca che rimane tale anche se a non pochi parrà invidiabile. Ascoltandola, via via scopriamo una preventiva destinazione del meglio che la commedia comporta: un meglio equamente distribuito tra i personaggi principali, quando non si voglia dire tra attori perfettamente individuati. Scene godibili, che tuttavia nqn riescono a fare dimenticare entro quali strettoie la vocazione espressiva di Eduardo si dibatte per molti anni.
Con ciò non si dice che quei vincoli, almeno per un ceno tempo, egli non li abbia voluti e magari amati. Si intende tuttavia ribadire che la maggiore ampiezza del teatro di Eduardo comincia dal momento in cui da quei vincoli il commediografo si sentì liberato. È un trapasso del quale, se ancora ne avessimo avuto bisogno, Le bugie con le gambe lunghe ci danno la esatta misura. Quell’ingenuo Incoronato così sperduto nel mare delle menzogne convenzionali che i suoi simili hanno tutto l’interesse a portare avanti come altrettante verità, è sì un ritratto di Eduardo, lui pure partito dal Peppeniello di Miseria e nobiltà, ma è insieme una struggente immagine della solitudine contemporanea.
Raul Radice, «L'Europeo», anno XIV, n.52, 28 dicembre 1958
Un ragazzo di campagna di Peppino De Filippo
In una paginetta che apre il fascicolo-programma del ritorno di Peppino De Filippo — sono i giorni delle sue nozze d’oro con il Teatro: quattro anni sulle ginocchia della Mamma sua, e poi cinquant’anni filati sul palcoscenico — è indicata, con pochissime righe, la ricetta della sua comicità di autore e di attore. Eccola: « Cerco di dare ai miei tipi un fondo di umanità, perchè li attingo dalla vita e cerco di orientarli poi verso una caratterizzazione dei difetti e debolezze umani, come la superstizione, la pavidità, la spavalderia, la timidezza. Se un tipo mi piace. lo studio e lo sottopongo a operazione analitica; poi cerco di creargli intorno una vicenda, un fatto, e infine lo porto sul palcoscenico alla luce della ribalta».
Come vedete, è una ricetta semplicissima. Tale è il segreto di questo grande medico che da tanti anni distribuisce dal palcoscenico la medicina di un buon umore fatto di una suadente bontà, di una sorridente pietà per i piccoli difetti umani. Straordinaria ricetta che comprende tanta dose di buon cuore che elimina la malignità, l’ironia crudele, la beffa sferzante. Vogliamo questa sera, per applaudire ai cinquantanni di Peppino, elogiare il suo buon cuore, il suo riso che è, ad un tempo, sfrenato e carezzevole? I suoi personaggi sono infingardi pavidi, imbroglioncelli? Dicono un sacco di bugie? Fingono di essere dei coraggiosi e vivono invece con una costante tremarella? Ma cosa sono essi altro, se non « la commedia degli uomini ». Poppino non li condanna. Egli ci dice: « Uomini, sorridete di voi stessi... I vostri errori vi saranno perdonati se il Custode della porta del Paradiso mi assomiglia...».
La commedia, presentata col titolo di « Il ragazzo di campagna » era nota, per una ormai lontana serie di rappresentazioni con un altro titolo: « Tutti uniti canteremo». Peppino l’ha rielaborata tutta e può essere considerata una novità. Ha una storia estremamente semplice.
In un paese meridionale vivono due fratelli: il primo, Giorgio Paternò, un uomo disutile. vanaglorioso c sostanzialmente ozioso, che è stato diseredato dal padre a favore del giovane fratellastro Pasqualino. ingenuo, laborioso, buono come una pasta di fior di farina. Giorgio, che ha sposato una canzonettista, è stato, al ritorno da una vita che Pasqualino afferma avventurosa. ospitato dal giovane fratello, che lo colma di ogni attenzione. Giorgio, che ha qualche venatura di lestofante. si fa sensale del matrimoniò del ricco fratello con la figlia del vecchio notalo Don Gennaro che gli ha promesso una grossa parcella se il matrimonio si farà. Il matrimonio si farà, nel secondo tempo della commedia, ma non sarà consumato. La ragazza, Lucia, è innamorata di un romantico giovane che riesce a raggiungere la sposa mentre sta per iniziarsi la notte di nozze, e che la induce a fuggire, non senza aver messo una terribile paura In corpo al sensale dei matrimonio. Intreccio molto semplice, ma, bisogna dirlo, favolosamente arricchito di effetti comici da Peppino.
Alla sua scuola, e sotto la sua vivacissima regia, sono cresciuti o si sono amalgamati tutti i suoi attori, a cominciare dal suo giovane figlio Luigi che ormai, gli sta vicino con molta gioconda freschezza. Lidia Martora Maresca — nella parte della ex-canzonettista — crea con molta efficacia un personaggio che si stacca dai limiti della caricatura. Alba Cardilli è molto intonata nel tipo della sposina che fuggirà con il tenebroso Innamorato Enrico, una specie di ruggente Emani paesano presentato pittorescamente da Aldo Aldi. L’amenissimo Pino Ferrara che con poche battute si è meritato un applauso a scena aperta, il burbanzoso Edóardo Toniolo nei panni del notaio. Isa Queiro nel grembiulone di una vecchia serva di campagna, l’Olmi, la Torchio, il Maresca e tutti gli altri hanno contribuito nel miglior modo al giocondissimo esito della serata.
O.V. (Orio Vergani), «Corriere d'Informazione», 25 febbraio 1959
I DE FILIPPO ALL'ODEON E ALL'OLIMPIA
Eduardo: "La fortuna con l’effe maiuscola" - Peppino: "Non è vero ma ci credo"
Peppino De Filippo aveva preceduto di qualche settimana Eduardo, sul palcoscenico dell’Olimpia: ed ecco Eduardo raggiungerlo, a settecento metri di distanza, sul palcoscenico dell’Odeon, dove ha debuttato sabato sera, con la ripresa di una commedia, sua e di Armando Curcio, venuto alla ribalta, la prima volta, diciassette anni or sono, quando quel formidabile terzetto di attori che erano e sono Titina, Eduardo e Peppino De Filippo recitavano ancora tutti uniti. Si apriva il sipario dell'Odeon sullo squallido «interno» dove vive quel brav’uomo, senz’arte nè parte, che è lo scrivano Giovanni, protagonista di «La fortuna con l’effe maiuscola»; e nello stesso momento si apriva il sipario dell’Olimpia, per la ripresa di una commedia di Peppino, scritta anche essa precisamente diciassette anni or sono, dal titolo trasparentissimo «Non è vero, ma ci credo» che narra la storia dell’industriale Gervasio, perennemente turbato dalle ansie di una indomabile superstizione. E Titina? Titina sta a casa, a Roma, ormai allontanata dalla salute malferma dalle fatiche teatrali. Se vorremo sentirla compreremo, quando sarà in vendita, il suo microsolco di «Filumena Marturano», la sola commedia che un’attrice dialettale abbia avuto l’onore di recitare addirittura davanti ad un Pontefice, in Vaticano.
La commedia che Eduardo ha firmato, tanti anni or sono, assieme allo scrittore napoletano Armando Curcio, ha un «intreccio» o, come si diceva nel Settecento, un «imbroglio» di straordinaria meccanica vivezza. E’ una storia, una delle tante storie della miseria napoletana: quella di un disgraziatissimo affamatissimo scrivano che, non sapendo come altrimenti campare con la sua derelitta famiglia, accetta di figurare come padre di un figlio di ignoti. Passo incauto, perchè, appena ha firmato l’atto di riconoscimento. viene a sapere di essere diventato l’erede di una grossa sostanza lasciata da un fratello emigrato: sostanza che, però, passerà al figlio suo, se eventualmente ne avesse uno. Cosi, nel momento in cui, per centomila lire, si è assunto il peso di una falsa paternità, lo scrivano viene a scoprire che i centoventi milioni dell’inattesa eredità del fratello dovrebbe passare, pari pari, per le mani del cialtroncello che, per un atto notarile, è ormai da considerare suo figlio. Come egli riesca, alla fine, a salvare i centoventi milioni, lasciamo che i lettori lo sappiano dalle repliche che certamente saranno numerosissime dato il successo clamoroso che nella serata della vigilia di Pasqua ha salutato il ritorno della commedia, interpretata con una terribile e comicissima squallldità da Eduardo e con una perfetta fusione di accenti da parte di tutti gli attori, cominciando da Pietro De Vico che, nella parte un tempo sostenuta da Peppino De Filippo, ha avuto un grosso successo. Molto bella la regia di Eduardo, con un grande patetico finale che, se la memoria non ci inganna, è del tutto registicamente inedito.
«Corriere d'Informazione», 30 marzo 1959
Ha voluto il pubblico per recitare alla TV
Peppino De Filippo riappare sui teleschermi in una serie di nove commedie - Il simpatico attore napoletano presenterà cinque lavori scritti da lui stesso, due commedie di Pirandello, una del fratello Eduardo ed un atto unico di Gino Rocca -Le rappresentazioni sono riprese dal rinnovato teatro "Delle Vittorie” in Roma
Roma, aprile
«La mia rovina era il rumore». Abitava ai Parioli, in uno dei tanti viali spaziosi e lunghi, dove le macchine si rincorrono giorno e notte, in caroselli senza fine. E lui soffriva maledettamente. Aveva i nervi sempre tesi e la sensazione che qualcuno gli martellasse il cervello di continuo. Peppino De Filippo, allora, era ombroso, scostante, tanto da sembrare addirittura di cattivo carattere. E si era sparsa la voce che, col passare degli anni, andasse perdendo il suo fare scanzonato e pungente; che la sua ricca vena di buon umore e d'allegria fosse sul punto di prosciugarsi.
Ora. ha lasciato i Parioli. Se n'è andato in campagna, a quattordici chilometri da Roma, sulla Nomentana, dove si era fatto costruire una villa. E' una costruzione tutta bianca, incorniciata da un vasto terreno. Qui ogni cosa gli somiglia: il giardino all'italiana, davanti, e la villa, vasta, comoda, luminosa senza alcuna indulgenza e stranezze architettoniche e d'arredamento, documentano i gusti, i sentimenti, le opinioni di questo attore che si ispirano a una secca semplicità. Seduto su un immenso divano foderato di crétonnè a fiori compresso contro un angolo, Peppino appare piu esile, decisamente piu giovane. E non è nervoso. Anzi, chi lo rivede oggi lo trova placato, disteso cordiale più che mai un personaggio affabile, espansivo; un Peppino, cioè, in perfetta forma, con quel suo viso liscio e roseo, illuminato dagli occhietti neri, a volte petulanti, pungenti come spilli, ma sempre candidi. «La città mi soffocava — dice — e lavorare mi costava tanta fatica». Si sente e si considera un campagnolo ed ha bisogno di sguazzare nel verde, all'aria aperta. Il periodo più felice della vita lo ha trascorso in un piccalo, rustico paese del napoletano, a Caivano. Era poco più che un ragazzino, allora; adesso gli par d'essere ritornato laggiù. Ed ha battezzato la sua villa col nome di Caivanella. Da quando abita alla Caivanella, Peppino De Filippo si è ributtato a capofitto nel lavoro con una passione e un entusiasmo da neofita In pochi mesi ha girato una decina di film, tra cui l'episodio di Boccaccio 70 diretto da Fellini. Le tentazioni del dottor Antonio e Il mio amico Benito di Bianchi. Ora, si accinge a riapparire alla televisione. Proprio in questi giorni, infatti ha terminato di registrare al Delle Vittorie nove tra commedie ed atti unici che, diversamente distribuiti, terranno cartellone per sei settimane, a partire dal 22 aprile. Attende il momento del debutto con ansia: strana ansia per un attore smaliziato e pieno di esperienza come lui. che di debutti ne ha collezionati a migliata. E per potersi veder meglio, ha comprato un nuovo televisore con lo schermo affumicato, quasi nero, perché gli hanno detto che cosi i suoi occhi si sarebbero meno affaticati. Ma la ragione della sua ansia è comprensibile: con questa serie, della quale oltreché essere l'interprete principale ha curato la regia sul palcoscenico. Peppino ha voluto tentare un esperimento nuovo. Anziché adottare il suo teatro alla televisione, come era avvenuto in passato questa volta ha voluto adattare la televisione al Suo teatro. Il Delle Vittorie, un teatro trasformato in studio televisivo in occasione della scorsa edizione di Canzonissima, è stato riportato da Peppino al suo primitivo ruolo. Egli ha rifatto il palcoscenico, con scene e boccascena. Inoltre, durante ciascuna registrazione, il pubblico ha gremito la platea e la galleria. E per la prima volta l'attore si è sentito veramente a posto davanti alle telecamere «Per recitar bene ho bisogno che il pubblico mi faccia da spalla, da contrappunto — dice — e mi debbo muovere su un palcoscenico, vero. Soltanto cosi mi sento solido, appagato». Peppino quando recita guarda il pubblico, lo osserva per afferrarne gli umori, le reazioni ; ascolta il ritmo degli applausi, mentalmente ne cronometra la durata. Ed è convinto che soltanto ora i telespettatori poli anno comprendere a fondo la sua recitazione e il suo teatro: per questo ha scelto alcuni lavori tra i più indicativi e impegnativi del suo repertorio.
Delle nove commedie in cartellone alla TV, cinque sono state scritte da lui stesso, in epoche diverse. L'ospite gradito, di ambiente napoletano, è una satira della iettatura, mentre Quale onore, che inaugurerà la serie la sera di domenica 22 fu scritta nel '45 ed i imperniata sulla figura di un modesto impiegato il quale, per apparire più agiato e ricco di quello che e finisce col rovinarsi. Abbastanza recente (del '50) è Un pomeriggio intellettuale, un'altra satira, ma contro certe infatuazioni e storture di taluni intellettuali nostrani. Seguiranno poi Quaranta ma non li dimostra, scritta in collaborazione con la sorella Titina e Una persona fidata che narra, in chiave naturalmente comica, le vicende di un marito ingiustamente geloso della propria moglie. Anche questa volta, però, Peppino non s'è accontentalo delle sue commedie e del suoi personaggi ed ha voluto calarsi in personaggi altrui. Più che autore di teatro egli è attore. «Non si possono difendere due cose nella vita, se ne può difendere bene una soltanto E io ho fatto, da anni ormai, la mia scelta: non scrivo un rigo dal '52». Pronuncia queste parole con una punta di amarezza, con gli occhi fissi a terra. Quando li risolleva sembra siano diventati piu piccoli. Forse perchè essendosi tolto le lenti a stanghetta, li strizza e, fra le grinze, essi appaiono diversi, più penetranti. «Ho scritto una cinquantina di lavori per il teatro, tra commedie e altre cose minori, ma mi sembrano pochini...» prosegue, E si capisce bene che i suoi personaggi, quelli da lui stesso ideati, non sono abbastanza per le molteplici corde dell'attore Peppino De Filippo. Per questo si volge ad altri autori. Ma piu che identificarsi con i personaggi altrui, egli li piega verso sè stesso, esercitando nei loro confronti una sopraffazione cui non saprebbe rinunciare e dalla quale traspare la vera natura della sua recitazione. E’ l'attore-uomo che quasi sempre interpreta, recita se stesso e, nonostante la moltitudine dei tipi cui dà vita sulle scene e la diversità delle caratterizzazioni stabilisce tra innumerevoli personaggi una sorta di affinità, o meglio di parentela, che li riconduce tutti alla medesima radice: pur salvandone l'integrità, egli trova sempre il modo di adattarli alla propria comicità.
In questa nuova serie di commedie alla TV, dunque, accanto a quelle che recano la sua firma, Peppino presenterà un atto unico di Gino Rocca, La scorzetta di limone: un atto unico del fratello Eduardo. Quei figuri di tanti anni fa ; e, infine, due commedie di Pirandello, La patente e Il berretto a sonagli. Quest’ultima fa parte del repertorio di Peppino che la presentò per la prima volta a Milano nel '57. E’ un intreccio di [...] le smorza, dialogando in modo sommesso e inserendovi continuamente dei toni altamente umani. E' uno dei testi più efficaci del grande autore drammatico siciliano, che lo concepì per Angelo Musco, ed abbisogna di un interprete che sappia, dalla comicità ambigua, amara, salire fino all'allucinazione tragica. Un grande interprete, quindi, capace di far passare gli spettatori dal riso allo sgomento, proprio come Peppino è solito fare con semplicità e discrezione di mezzi.
In codesta semplicità affonda uno dei segreti della sua arte. Per lui i trucchi, i costumi, le luci, le scene complicate sono 'na schifezza, altrettanti freni all'estro di un attore il quale deve ottenere qualsiasi effetto con le sue trovale e affidarsi esclusivamente alla sua inventiva, alla sua fantasia, al suo cervello «Se occorre, posso fare a meno anche del testo — dice — posso recitare a soggetto», Basta un'idea, un abbozzo di copione e un pubblico ben disposto perche lui possa imbastire, improvvisando dall'inizio alla fine, una commedia di due ore. Peppino inventa, scena dopo scena, la commedia, la concreta, la anima con una serie di invenzioni burlesche. «E' così che avimmo fatto con Eduardo e Titina al tempo della nostra compagnia, dal '32 al '44».
Eduardo, Peppino, Titina cominciarono a recitare su palcoscenici grandi come scatole di fiammiferi, senza costumi, senza truccature, con semplici lampade a carburo al posto dei riflettori. Ed è stato proprio allora che il pubblico e la critica scoprirono nei tre fratelli un'immaginazione fervida e colorita, un linguaggio diretto, una pietà irridente che si innestava nel filone più antico del teatro. Ma quella loro era una comicità nuova. Forse perché i tre fratelli facevano del teatro liberi da qualsiasi pregiudizio: non li tratteneva ne il rispetto di una tradizione, né una preoccupazione di originalità, ma si adulavano esclusivamente al loro estro Peppino li rammenta, quei vecchi tempi e — forse — li rimpiange. Ricorda tanti episodi, e ne parla mettendosi e togliendosi gli occhiali a stanghetta, in un gesto di impazienza, di malcelato nervosismo «Perfino Pirandello si mosse e venne a Napoli a vederci recitare...»
Pirandello arrivò una sera, poco prima della rappresentazione. Era già vecchio. Si fece strada nel teatro, che andava lentamente affollandosi, al braccio di Marta Abba. Peppino, quella sera, mentre recitava teneva i suoi occhietti neri, che spesso più che guardare forano, su quel distinto signore anziano seduto in una delle prime file della sgangherata platea. Al termine dello spettacolo, Pirandello li volle vedere tutti e tre. Eduardo, Peppino e Titina, per congratularsi con loro. E Dina Galli. «Mio Dio, che attrice!». Dina Galli, ogni volta che faceva scalo a Napoli con la sua compagnia, la domenica approfittando dell'intervallo fra uno spettacolo e l'altro andava a vedere i De Filippo. Si metteva in prima fila e cenava in teatro, con dei panini che si portava nella borsetta. Era, quella loro, una compagnia omogenea. Ed è stata, oltre il loro talento, la costante composizione del gruppo (Tina Pica, Dolores Palumbo, Agostino Salvietti, Ugo D'Andrea) a creare quel particolare affetto che in passato legava il pubblico alle compagnie Poi. all'improvviso, la compagnia dei De Filippo s'è sciolta. Peppino dice che l'essere stati assieme tredici anni é già un record. Con la separazione dei tre fratelli il teatro perse forse l'ultimo di quei complessi legati con un filo segreto e prolungato nel tempo alla commedia dell'arte, ai comici dell'improvvisazione. Giorgio Strehler nelle sue cronache teatrali scrisse che i De Filippo «ci porgevano, nella sua vera luce, il miracolo della nostra commedia a braccio, spogliandola della retorica tradizionale. Ce la rendevano nuda e semplice, con quel tanto di eccessivo che è la caratteristica dei generosi e dei sinceri», Dopo la rottura, per qualche anno, di Peppino non si sentì parlare, finchè non formò una compagnia per conto proprio. Il debutto avvenne a Milano nell'agosto del ‘43, al teatro Odeon, con I casi sono due di Armando Curdo. Fu un grande successo: la personalità e la coerenza di Peppino trionfarono. anche meglio di prima, fuori della triade fraterna Per la prima volta indossava l'abito del cuoco, e cosi, vestito di bianco, sembrava un nuovo Pulcinella: un Pulcinella cattivo soggetto testardo, infantile cd astuto che. ad un certo momento. più non sa se finge o piange sul serio,
Da allora, quasi tutti gli anni. Peppino ha fatto compagnia a sé, girando l'Italia. I nomi degli attori sul suo cartellone raramente mutano, perlomeno i nomi di quelli più importanti: Lidia Martora, Dolores Palumbo, il suo figliolo Luigi che segue fedelmente le orme del padre, sono gli stessi attori che, con la sola aggiunta di qualche altro come Gianni Agus, faranno ala a Peppino in questa serie di commedie alla televisione. Nei mesi di riposo, seguita a dedicarsi al cinema. Peppino è un vecchio attore della celluloide. Cominciò nel '34 assieme a Eduardo con un film che ormai appartiene alla storia del cinema, Il cappello a tre punte, tratto dai famoso racconto di Alarvon; da allora, ha preso parie a una settantina di film. Ma di questa esperienza non è soddisfatto. Dice che è stato «'nu peccato che non mi so perdonare». Confessa che ha sempre fatto del cinema per amore dei quattrini. Glieli offrivano e lui non sapeva respingerli coire avrebbe voluto. Ora però sembra deciso a diradare la sua attività cinematografica, accettando solo le offerte più interessanti.
Peppino — è incredibile! — pensa che quello che fa per il teatro è ancora troppo poco per uno che, come lui, é figlio d'arte, nato dietro le quinte, figlio e nipote di attori. E ogni volta che s'allontana dalle platee, il cuore gli si rattrappisce : «Sto male come un autentico guappo quando è costretto a lasciar Napoli», Sicché, ora, appena terminato questo tour de force alla televisione si sta già dando da fare per organizzare una compagnia con cui riprendere i suoi gin attraverso l'Italia. E per questo, per il teatro, per la compagnia, e anche disposto a trascurare le cinquemila rose che ha piantato di persona dietro la sua villa, che sono la sua seconda passione, assieme ai due barboni, Sminino e Nani, che in questo momento — rientrati all'improvviso dal giardino — gli stanno sporcando il bellissimo tappeto di bukara che ricopre il soggiorno in tutta la sua grandezza.
Peppino. I suoi due barboni pazzarelloni e maleducati, prima li guarda divertito, poi, improvvisamente, si toglie gli occhiali a stanghetta, come fa sempre quando vuol dimostrare il suo disappunto: è il solo modo che madre natura gli ha messo a disposizione per far vedere che è arrabbiato.
Giuseppe Lugato, «Radiocorriere TV», 28 aprile 1962
Un Arpagone tutto da ridere
Peppino De Filippo ha interpretato, in una nuova edizione dell’“Avaro” di Molière, il celebre personaggio in chiave esclusivamente comica
Si sa che i peccati capitali, e tutti quei vizi, quelle storture, quelle intense passioni che deformano l’animo umano, anche quando si presentano con una vernice comica e vestono la maschera del grottesco, sono di sostanza tragica. Toccati in un certo modo, portati all’estremo della loro risibilità. danno un suono cupo, una risonanza sinistra. I "caratteri” del grande teatro comico di ogni tempo, costruiti appunto su tali storture, hanno la loro ragione umana, prima ancora che drammatica, proprio in questa ambiguità. Molière non fa certo eccezione, e tra tutti i suoi personaggi l’avaro meno ancora degli altri. E’ dire una cosa ovvia notare che la natura di Arpagone, la sua condizione soggettiva, è la sofferenza. L’attaccamento del vecchio avaro per le cose tangibili, per i beni terreni, per la stessa vita, per il denaro e per tutto quello che costa o che vale denaro, è impregnato di autentico dolore. Chiaro: si tratta di un dolore così abnorme, così mostruoso, e alla fine così sordido, che veduto dal di fuori, in quelle che sono le sue manifestazioni, divenuto oggetto di teatro e di spettacolo, fa necessariamente ridere. Ma che non può e non deve essere dimenticato.
Peppino De Filippo, che è Arpagone in una nuovissima edizione dell’ "Avaro” di Molière, rappresentato in questi giorni al teatro Sant’Erasmo di Milano, per la regìa di Maner Lualdi, non pare che abbia tenuto sufficientemente conto di quest’obbligo. E sì che si è servito di una traduzione tutta moderna nei suo linguaggio, asciutto, veloce e aderente, dovuta a Carlo Terron, che appunto per la sua modernità, lo avrebbe dovuto spingere e quasi forzare per quella strada.
L’appunto che si può fare dunque a questa interpretazione di Peppino De Filippo, che rappresenta accanto alla traduzione, l’elemento nuovo, la sorpresa, nell’antica commedia, è che il suo Arpagone fa ridere largamente e cordialmente dalla prima all’ultima battuta, ma fa accantonare in modo irrimediabile l’orrore e la pietà. Di Peppino De Filippo sappiamo che attore sia e quali siano le sue doti di estro e di comunicativa. Ma questa volta avremmo voluto dire di aver trovato una nota nuova nel suo registro, e non quella patetica, che infatti c’è, e non quella calda, carica di sfumature, di attore napoletano, ma una nota davvero tragica. Non lo possiamo francamente dire. Pur essendo un Arpagone godibilissimo e in costante comunicazione con il suo pubblico, in qualche punto addirittura esplosivo, Peppino ha condotto il suo personaggio fino ai limiti della macchietta, a un passo dalla farsa, e dunque piuttosto lontano da Molière. Persino quando scopre che è il figlio lo scapestrato che cerca quattrini a prestito da rendere ”a babbo morto”, e che per convincere lo sconosciuto strozzino, che è poi lui stesso, ha dichiarato che al babbo danaroso non rimangono più di sei mesi di vita, il suo sussulto, che precede il rancore, e lo stesso rancore, appaiono di superficie, si risolvono in un gesto tutto napoletano di scaramanzia, in un’occhiata di sbieco e insomma in un quasi indulgente ”crepi l’astrologo’', dove non si ritrova nessun segno dell’indispensabile profondo turbamento.
Difficile dire, trattandosi di un attore come Peppino, quanto la sua interpretazione abbia condizionato la regìa, o quanto la regìa viceversa abbia obbligato lui a mantenersi dentro una certa linea. Sta di fatto però che certe "gags" come quella, in sè indovinatissima, dello specchietto con cui si guarda le spalle, finiscono per essere troppo insistite, e che certi personaggi di contorno, i servitori di Arpagone, per esempio, sono portati troppo vicino alla caricatura. Gli altri personaggi, naturalmente di minore impegno, voluta-mente tipici o convenzionali, hanno sofferto meno dell’angolo di visuale della regia e dell'interprete principale. Bianca Toccafondi, nella parte di Fresine, la tipica donna intrigante delle commedie, ha avuto momenti straordinaria-menti felici di vivacità e di mordente, e Luigi De Filippo, ipocrita per amore, ha dato costantemente prova di un persuasivo equilibrio. Ad ottimo livello tutti gli altri: Paola Picchiato, Alba Petrone, Loris Gafforio, Pino Ferrara, il Pri-vitera e il Pierantoni. I costumi di Eugenio Guglielminetti sono molto appropriati, senza essere splendidi. Il palcoscenico circolare del Sant’Erasmo, per la resa di una commedia classica e tradizionale, fa quello che può.
Vice, «Tempo», 10 novembre 1963
La protesta di Pappagone
Da Roma, il comm. Peppino De Filippo scrive:
Illustre amico, nel suo settimanale del 26 marzo u. s. è apparsa una mia foto che qui accludo con sotto la notizia che mi riguarda ma che è assolutamente inesatta oltre che stupidamente maligna. La foto, per precisare, è stata scattata durante la pausa di un film in lavorazione a cui ho preso parte ed il mio atteggiamento si riferisce solo ad uno scherzo e non ad una scena del film come si è voluto far credere. E ammesso che io, ormai sulla strada della facile popolarità, abbia voluto interpretare nel film in questione un personaggio beat, perché si critica tale personaggio prima di vederlo? Non è bene informarsi prima di scrivere certe cose che riguardano un artista modesto come me, ma serio ed onesto in ogni mia attività artistica? Inoltre, un artista, quando è veramente tale, può indossare gli abiti di un pagliaccio ed essere ugualmente bravo. Tutt’è come si presenta una cosa, come si dice, come si fa. Il resto, a mio avviso, e non credo di sbagliarmi, è tutta stupida retorica in falso tono intellettualistico. Un falso «tono intellettualistico» che di questi tempi, purtroppo, è di gran moda e per andare a-vanti tranquilli, col favore del pubblico, a questi stupidi «criticonzoli di provincia» non bisogna dar retta come faccio io, nel senso che artisticamente ho fatto, faccio e farò sempre il mio comodo. Pubblichi, signor Direttore, questa mia precisazione sul suo settimanale, mi farà cosa gradita, come mi ha fatto cosa sgradita nel permettere la pubblicazione della foto in questione. Molti cordiali saluti.
Commendatore, lei insiste, ed io pubblico, ma guardi che faccio il suo danno perché le assicuro che dalla sua lettera non si capisce che cosa lei voglia e cerchi. Rileggiamola insieme:
A) «La foto è stata scattata durante la pausa di un film e il mio atteggiamento si riferisce a uno scherzo e non al film...» Dunque lei non apparirà in tale veste nel film, dal momento che si scandalizza alla sola idea che qualcuno possa supporre il contrario.
B) «E ammesso che io abbia voluto interpretare nel film in questione un personaggio beat...». Dunque lei non esclude di poter apparire in tale veste nel film e si scandalizza che qualcuno si scandalizzi del contrario.
C) «...un artista può indossare gli abiti di un pagliaccio...» dunque noi non eravamo stati tanto «stupidamente maligni» a mostrarlo, appunto, vestito da pagliaccio e a pensare che così vestito potesse apparire in un film.
D) «...non bisogna dar retta a quegli stupidi criticonzoli di provincia...». Dunque, dal momento che fra questi stupidi criticonzoli di provincia ci siamo anche noi, perché ci ha scritto se non meritiamo attenzione e ascolto?
E) «...artisticamente ho fatto, faccio e farò sempre il mio comodo». Dunque viva la libertà. Perciò anche noi facciamo il comodo nostro anche se a lei sgradito.
Riassumendo, caro commendatore, mi pare che lei a proposito di Pappagone abbia le idee più sparpagliate che vin-cole. Lei vuole continuare a fare le pappagonate degradando la sua forza comica in frusti lazzi e in deplorevoli caccole anziché metterla al servizio di un testo con un minimo di giustificazione? Bene, lo faccia, ma non pretenda che noi lo si saluti come un novello Charlot. lo ricordo non soltanto il «suo» Molière (spettacolo ad altissimo livello ma per pochi) ma anche le sue interpretazioni accanto a suo fratello Eduardo e a sua sorella Titina (spettacoli ad altissimo livello, ma per tutti) e allora, quando la vedo fare il pagliaccio, rido sì, ma devo fare uno sforzo per ricordarmi chi è lei e non confonderla con Franchi e Ingrassia.
«Domenica del Corriere», 13 aprile 1967
ROMA — Peppino De Filippo è morto nella clinica Sanatrix all'una circa di ieri notte. Da tempo era ricoverato per una forma di cirrosi epatica che i medici avevano giudicato incontrollabile. Al momento della scomparsa accanto a Peppino si trovavano il figlio Luigi, la moglie Della Mangano, il suo avvocato Alessandro Mete. Luigi si è messo immediatamente in contatto con Eduardo, l'unico superstite dei tre grandi fratelli che hanno dominato la scena del teatro italiano. La salma di Peppino è composta nella camera ardente della clinica Sanatrix. I funerali si tengono oggi alle 12 nella cappella interna del Verano per espresso desiderio dell'attore scomparso (anche i funerali della seconda moglie Lidia Maresca si tennero al Verano).
Peppino De Filippo nasce a Napoli il 24 agosto 1903. Nasce in palcoscenico, senz'ombra di retorica. Titina, Eduardo e Peppino sono considerati come figli da Edoardo Scarpetta, il comico che detta le mode e inventa gli attori. Difficile immaginare un sorriso spontaneo sul viso dei tre bambini che crescono in una difficile situazione familiare. Se imparano a ridere e a far ridere, lo fanno attraverso la mediazione del teatro e alla bravura del mattatore. Sul palcoscenico si riversa la fame millenaria di Napoli e s'impone il genio della sopravvivenza d'un popolo intero. Nella strofetta d'un vaudeville come nella sorpresa d'una farsa si nasconde una lezione di vita. Peppino è da sempre considerato il giovane e per una generazione si comporta da ragazzo. S'innamorerà magari d'una sciantosa, assisterà impassibile alla decadenza del genere popolare che sprofonda nelle sceneggiate, comincerà a levare alta la voce dei suoi poveri eroi così bravi a tirare la cinghia e a campare d'illusioni.
La miseria e la nobiltà d'una gente intera, per riprendere un titolo famoso di Scarpetta, entrano nel sangue dei tre fratelli. La conquista del pubblico meridionale è cosa fatta. Per quindici anni, dal '29' al '45, Titina, Eduardo e Peppino risalgono, secondo una definizione di Massimo Bontempelli, le vie d'Italia. Non è facile, siamo sotto il fascismo che diffida delle voci cosiddette plebee e ostacola il repertorio dialettale. Peppino passa ore su ore a osservare la vita dei più semplici. Una volta si stupisce che un vetturino napoletano, sorpreso dal vigile in una zona di parcheggio vietata, non reagisca e non s'inventi una scusa.
Riceve una contravvenzione e ascolta la paternale: — Domani vieni al comando; o paghi la multa o stai due giorni dentro. Solo più tardi ha uno scatto impercettibile e dice all'attore: '— Quello crede di avermi fatto un dispetto ma io cosi mi riposo». Tanto buffi da diffondere malinconia e tanto infelici da strappare le meraviglia, non sono facili da proporre questi personaggi a una platea poco fatalista. Nei primi Anni Trenta il successo tarda e si racconta persino che i tre abbiano dovuto mangiare due compagni di lavoro — un colombo e una gallina — che appaiono nell'atto unico Sik-Sik e l'artefice magico. Ma a poco a poco l'Italia si rivela meno provinciale di quello che pareva. Capisce che la Napoli del tre De Filippo ha messo il coperchio al cono fumante del Vesuvio e ha lasciato in un canto a marcire le corde della chitarra.
La loro prosa, che arriva dall'antichità delle farse plautine, è quanto di più contemporaneo si possa vedere perché priva di convenzioni. Nei teatri si ride sema ritegno, la celebrità dei tre sembra incredibile in un'epoca non dominata dalle comunicazioni di massa. Nel dopoguerra Peppino spezza il sodalizio artistico e sentimentale con Titina ed Eduardo. L'enorme ampliamento del pubblico amico gli ha suggerito una diversa via d'autore e da allora egli si batterà per un suo teatro italiano. Scrive le sue commedie in lingua, interpreta i classici da Molière a Pirandello, si lascia tentare dal cinema (da Notte di fortuna di Matarazzo a Guardia, guardia scelta, brigadiere, maresciallo di Bolognini). Ciò gli consente un ulteriore passo in avanti: il successo all'estero, con tournées in Sudamerica, inviti nell'Urss e in Polonia, trionfi a Parigi e Londra.
Una sua commedia — Le metamorfosi d'un suonatore ambulante — viene giudicata bellissima in sé. persino se non collegata alla sua bravura d'interprete. A sessant'anni Peppino è un attore che apparentemente si direbbe appagato. Intanto prospera la televisione che a un figlio d'arte non può essere simpatica ma qui Peppino adotta l'arte d'arrangiarsi («E' un po' come la storia di Maometto e della montagna: invece di far venire il pubblico da me. porta me in mezzo al pubblico. Vado in casa sua, fra i suoi mobili, divento uno di casa. Entrare nel salotto rispettosamente, con il cappello in mano e... permette? sono Peppino De Filippo». Per serate e serate le sue commedie piacciono a un pubblico nuovo, dì giovani e anche di isolati che non conoscono il teatro.
Avrà, grazie a qualche concessione, un plebiscito di consensi quando in Scala Reale, la Canzonissima del '66, idea il personaggio di Pappagone e impone una serie di modesti intercalari, da Ecque qua La carta d'indlndirinda. Ha un guizzo d'orgoglio quando convince l'arduo commediografo inglese Harold Pìnter a consentirgli di dare con inflessioni napoletane una delle sue più belle e tristi commedie (Il guardiano; Questo sarà il vero Peppino per i telespettatori. Anche in cinema fatica a prendere la rivincita su tanti copioni scadenti (La bisarca, Il mio amico Benito; o su tante apparizioni limitate (Un giorno in pretura, Il segno di Venere;. Ha la fortuna d'incontrare il genio del rinnovato cinema italiano e di lavorare a distanza d'anni per due volte con Federico Fellini.
Nel '51 Fellini e Lattuada lo mettono alla testa d'una scalcagnata compagnia d'avanspettacolo in Luci del varietà, nel '62 un Fellini all'apparenza minore sbatte in faccia ai moralisti l'oscuro censore cesellato da Peppino in Le tentazioni del dottor Antonio, episodio da Boccaccio '70. Intanto non abbandona il palcoscenico. I nipoti di coloro che lo applaudirono a fianco di Titina e di Eduardo, assistono stupefatti al perpetuarsi della sua arte comica. A settant'anni interpreta la parte d'un infante che dà sulla voce a tutti. Non aveva a disposizione parole. Solo espressioni, mimiche, lazzi. E noi, le due mani per applaudirlo.
Piero Perona, «Stampa Sera», 28 gennaio 1980
Peppino, l'attore che "faceva più ridere"
Arrivarono per la prima volta a Torino ed andarono al Chiarella, attorno al '35: Eduardo Titina Peppino. Si. chiamavano soltanto cosi; non tutti sapevano che il loro cognome era De Filippo. Molti credevano che fossero attori di varietà, lasciava tutti in sospetto il fatto che fossero attori napoletani e che recitassero proprio in napoletano: «Ma riusciremo a capirci qualcosa?». A Torino allora «andava» molto Mario Casaleggio, c'erano ancora i Monfr'in e Carlo Artuffo; di attori dialettali Musco, Giachetti, soprattutto Govi. Di napoletani c'era Rafele Viviani, ma lo giudicavano astruso. C'era Petrolini, ma veniva poco a Torino.
I primi di noi studenti che si inerpicarono nell'altissimo loggione del Chiarella, al mattino dopo, fra una lezione di greco ed una di trigonometria, dissero meraviglie soprattutto del più giovane dei tre: doveva chiamarsi Peppino, aveva una faccia da tonto fenomenale, di quelle che capitano a pochissimi attori (vi eccelle anche Macario...), che riescono a far ridere restando immobili, fissi, ma intanto la gente si immagina che cosa passa dietro a quella faccia marmorea e comincia a sbellicarsi.
Andai anch'io, naturalmente, una sera in cui i professori del Sociale erano stati parchi di lezioni e di compiti a casa (che tempi erano quelli!), non ricordo assolutamente quale fosse il titolo della commedia, so solo che, dialetto o non dialetto, si capiva tutto quello che dicevano, anche quello che facevano.
Titina grassottella, comaresca; Eduardo scheletrico, occhiuto; Peppino, soprattutto Peppino, con due battetti da topo, gli occhi da mascalzone vittima di fame cronica, pronto a tutti i compromessi per un piatto di pasta e fagioli... Era l'taliano erede di Pulcinella, l'italiano di piccola stirpe, immortale nonostante le guerre ed i fascismi, l'antiretorica, l'uomo che strizzando l'occhio lasciava capire: «Siamo fatti così, non come vuole quello là, l'uomo "del balcone"».
Il successo fu tanto rapido che Eduardo e Peppino passarono di galoppo sulla prima pagina del settimanale più venduto dell'epoca e sempre in odore di fronda: il «Bertoldo», di Mosca e Guareschi. C'era, a destra, nella zona chiamata «di spalla», una rubrìca intitolata «quei due», sormontata dai loro ceffi, Eduardo e Peppino, morti di fame, che confidavano non di volere Tunisie e Corsiche, ma di «tenere 'na fame grande», di essere sempre alla ricerca di un'introvabile «pasta e facciuole». Li perdemmo di "vista durante la guerra, ma uno dei segni che l'incubo era finito fu la ricomparsa dei De Filippo. Non più al Chiarella, massacrato dalle bombe, ma al Carìgnano. Sono passati anni, la memoria fa dei brutti scherzi, non vorremmo equivocare sui titoli. Ci limitiamo a ricordare una commedia in cui Peppino era figlio di Eduardo candidato repubblicano; prendeva le botte e mostrava con orgoglio ii sangue dal naso: «Papà, sangue repubblicano é chisto...». Cosa da nulla, se scritta su un foglio di carta, ma il Carìgnano veniva giù dalle risate.
Peppino, attore nato, aveva poi acquistato con gli anni una maestria assoluta, tanto da farlo ritenere — così almeno la penso io — l'attore volgendosi al pubblico diceva: «Chille s'è rinfantilito», Peppino usciva in qualche mugolio, mescolato ad uggiolati e brontolìi quasi animaleschi. Nient'altro, ma bastava perché il sipario si chiudesse tra una valanga di applausi. Lo incontrammo pochi anni fa in piazza Carlo Felice.
Aveva molto successo, sempre al Carìgnano, una farsa in cui, Peppino, sistemato su una carrozzella, faceva la parte di un bambino di un paio d'anni: un susseguirsi di trovate assurde, con gente che si piegava in due, in poltrona come in loggione. Peppino aveva sotto braccio — ncordo — un bel volume di poesie di Leopardi. Era triste. Gli chiesi perché, non me lo spiegò. Si limitò a dire: «Ho notato che l'attore riesce meglio nelle parti opposte a quella che è la sua vita. Quindi: più sono triste fuori, più faccio ridere in teatro. Giusto?». Se ne andò svoltando in via Roma, un po' curvo. La gente non lo riconosceva: era un vecchietto travolto dagli anni, con il cuore gonfio di presentimenti. Alla sera, suscitò risate clamorose. Doveva essere davvero profondamente, irrimediabilmente triste. che «faceva più ridere» che mai sia apparso sulle scene italiane.
Più di Totò, per esempio, altro napoletano folle; anche più di Govi, che ci aveva deliziato per un decennio; più di tutti gli altri, che non cito per non attirarmi troppe inimicizie. E come si chiamava quell'altra commedia in cui Peppino faceva ridere restando per tutto un atto silenzioso, in fondo al palcoscenico, una cuffia in testa, seduto ad un tavolino, intento a ritagliare festoncini di carta, barche, ochette? Soltanto alla fine dell'atto, quando Eduardo Carlo Moriondo Pappatone diede a Peppino grande popolarità Con Anna Maria Ferrerò e Delia Scala giovanissime Il ricordo d'una sera lontana, al Chiarella, con i formidabili De Filippo Il ricordo d'una sera lontana, al Chiarella, con i formidabili De Filippo Peppino, l'attore che «faceva più rìdere» che mai sia apparso sulle scene italiane. Più di Totò, per esempio, altro napoletano folle; anche più di Govi, che ci aveva deliziato per un decennio; più di tutti gli altri, che non cito per non attirarmi troppe inimicizie. E come si chiamava quell'altra commedia in cui Peppino faceva ridere restando per tutto un atto silenzioso, in fondo al palcoscenico, una cuffia in testa, seduto ad un tavolino, intento a ritagliare festoncini di carta, barche, ochette?
Soltanto alla fine dell'atto, quando Eduardo volgendosi al pubblico diceva: «Chille s'è rinfantilito», Peppino usciva in qualche mugolio, mescolato ad uggiolati e brontolìi quasi animaleschi. Nient'altro, ma bastava perché il sipario si chiudesse tra una valanga di applausi. Lo incontrammo pochi anni fa in piazza Carlo Felice. Aveva molto successo, sempre al Carìgnano, una farsa in cui, Peppino, sistemato sUS una carrozzella, faceva la parte di un bambino di un paio d'anni: un susseguirsi di trovate assurde, con gente che si piegava in due, in poltrona come in loggione. Peppino aveva sotto braccio — ncordo — un bel volume di poesie di Leopardi. Era triste. Gli chiesi perché, non me lo spiegò. Si limitò a dire: «Ho notato che l'attore riesce meglio nelle parti opposte a quella che è la sua vita. Quindi: più sono triste fuori, più faccio ridere in teatro. Giusto?». Sé* ne andò svoltando in via Roma, un po' curvo. La gente non lo riconosceva: era un vecchietto travolto dagli anni, con il cuore gonfio di presentimenti. Alla sera, suscitò risate clamorose. Doveva essere davvero profondamente, irrimediabilmente triste.
Carlo Moriondo, «Stampa Sera», 28 gennaio 1980
La morte in una clinica di Peppino De Filippo
Professionista del teatro fin dall'età di dieci anni
ROMA — E’ morto Peppino De Filippo. Intorno alla casa di cura romana immersa in un grande parco, il massimo riserbo, nessuno può entrare, si attende soltanto l’arrivo dei familiari e soprattutto di Eduardo, il celebre fratello da cui Peppino si è separato nell'ormai lontano 1945. Si sa che Eduardo ha accolto con molto dolore la notizia della morte del fratello. E’ partito subito da Bologna dove era impegnato nell’intima replica de «Il berretto a sonagli» di Pirandello per raggiungere Roma. Peppino è morto nella notte tra sabato e domenica nella clinica in cui era ricoverato da qualche tempo per una cirrosi epatica.
Nella sua lunga vita artistica per il teatro ha scritto più di quaranta commedie e ne ha interpretate quasi il doppio, portando i suoi spettacoli in giro per tutta Italia e per mezzo mondo. Ha iniziato a lavorate prestissimo, «se professionismo significa guadagnarsi da vivere — diceva — io ero attore professionista già a dieci anni». Attore, fin da bambino, non si è fermato al teatro, ma ha lavorato per il cinema e la televisione.
Parlando di Peppino, è inevitabile ricordare il sodalizio artistico, che ha accompagnato i suoi primi anni sulle scene. Erano i suoi due fratelli maggiori, Eduardo e Titina, ad essergli compagni sulla scena. Peppino nacque a Napoli nel 1903 ed esordi nella compagnia di Eduardo Scarpetta. La sua nota caratteristica è stata sempre quella vena clownesca riportata nelle sue famose farse, spesso scritte da lui stesso. Nel 1932 era già sulle scene nazionali più rinomate, nella compagnia definita semplicemente «I De Filippo». Era il testo di «Natale a casa Cupiello» e di «A Cupierchio è caduta una stella». Da allora ha continuato a recitare senza tregua portando i suoi spettacoli anche a Varsavia, a Mosca, a Londra Invitato dalla «Royal Shakespeare Company».
Ha partecipato al festival del “Theatre des Natlons» di Parigi nel 1963, ed è poi andato in Cecoslovacchia, in Jugoslavia e al festival del teatro di Londra, oltre che a Zurigo, ha dato vita alle «maschere» di Scarpetta, ma si è anche prodotto in classici come l'«Aulularia» di Plauto, «L'avaro» di Molière, «La Mandragola» di Machiavelli, «l berretto a sonagli» di Pirandello. Anche i maggiori teatri sudamericani lo hanno avuto ospite.
Dopo il teatro arriva il cinema. Peppino con Totò crea una delle coppie comiche più gustose in film come «Totò, Peppino e la malafemmina» oppure «Totò, Peppino e i fuorilegge». E anche nella sua carriera cinematografica, una lunga serie di titoli, più di cinquanta. E’ però con Eduardo che ha esordito nel cinema nel 1933 con «Tre uomini in frac» di Mario Bonnard. Sempre insieme a Eduardo lo hanno diretto negli anni successivi, spesso in trasposizioni cinematografiche di commedie, i più noti registi del momento come Camerini («Il cappello a tre punte»). Nel 1941 ha la sua prima parte da protagonista in «Notte di fortuna» di Matarazzo. Dopo la separazione artistica dai fratelli Peppino ha accentuato la sua autonomia anche nel cinema.
Non ha voluto neppure sottrarsi al mezzo televisivo, che gli dava la possibilità di portare i suoi personaggi ad un pubblico più vasto. Iniziò a lavorare per la Tv negli anni sessanta presentando una serie intitolata «Peppino al balcone». Nel '66 entrò in milioni di case italiane durante «Canzonissima», nelle vesti di Pappagone, che lo rese popolarissimo. E nel 1972 la televisione gli ha dedicato un ciclo, come omaggio al minore dei tre fratelli De Filippo. Ancora due settimane fa aveva accontentato i suoi fans in «Buona sera con...», nel corso del quale propose anche un brano da «Il Guardiano» di Harold Pinter, da lui interpretato nel 77 sempre in Tv. Nei panni di vecchio vagabondo Peppino si senti fiero del suo ruolo e diede il meglio come interprete drammatico. Vinceva in quel momento un complesso che lo ha seguito per tutta la vita, l'aver calcato le scene insieme ad un troppo celebre fratello.
Maria Regina Perisinotto, «Il Piccolo di Trieste», 28 gennaio 1980
Nel ricordo dei critici
Peppino De Filippo è scomparso a 76 anni dopo una vita dedicata allo spettacolo. Non si tratta d'una frase retorica perche la precoce esperienza di Peppino cominciò a 10 anni nella compagnia di Scarpetta («Allora ero già professionista, se professionista significava guadagnarsi da vivere»). Peppino. De Filippo è stato inimitabile sulle tavole del palcoscenico, popolare sul piccolo schermo televisivo, presente anche in cinema. I giornali di •stamane concordano nel definirlo come una presenza unica nello spettacolo del nostro secolo.
«E' un peccato, quasi un'offesa alla grandezza di Peppino, che la sua fama resti legata per milioni di spettatori al Pappagone del sabato sera. Non è questo il momento per ripetere le solite considerazioni sul mezzo televisivo e sulla sua capacità d'imporre miti anche deformati... «Peppino toccò il vertice della popolarità, ma sappiamo che ne fu lieto senza troppi entusiasmi. Per uno che s'era cimentato con Plauto, con Machiavèlli, con Molière, con Pirandello e con Harold Pinter, i lustrini di "Scala reale", il nome che quell'anno ebbe."Canzonissima", dovevano apparire ' come un argento di stagnola,, come il falso oro della porpora».
(Giulio Nascimbeni, «Corriere della Sera»)
«Eduardo come Don Chisciotte; Peppino, in un certo modo, come Sancio Panza. «Senza scalfire neanche un poco le doti di Eduardo, sarà giusto scrivere subito che que-, sto Sancio Panza, Peppino, resta un irripetibile attore. I suoi limiti erano quegli stessi che l'uomo si imponeva, chiuso ad ogni sociologismo retorico, a ogni sbavatura, a ogni sentimentalismo che non fosse controllato, se non simulato. La vis comica era sua in alto grado, non inferiore al mordente del fratello più sentenzioso».
(Cario Laurenzi, «il Giornale»)
«"lo non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo" scrìve da qualche parte Montanelli. Uno degli innumerevoli tributi all'irresistibilità di questo attore fra i più irresistibili di ogni tempo».
(Gerardo Guerrieri «Il Giorno»)
«Le glorie e i meriti dell'attore scomparso vanno perciò ricercati più indietro nel tempo, nei primi decenni del secolo, quando Peppino, insieme a Titina e Eduardo, veleggia avventurosamente tra varietà, operetta, prosa, facendosi notare per l'accentuazione farsesca della sua "comicità pensosa, che aveva sempre i caratteri di una desolata e turbata umanità"».
(Mario Serenellini «La Gazzetta del Popolo»)
Le 4 stagioni di Peppino De Filippo - Dalle farse napoletane a Pappagone
Peppino De Filippo è morto a 77 anni nella notte di sabato scorso, l'altro ieri una folla commossa ha partecipato al suo funerale al cimitero del Verano a Roma. «La Stampa» non è uscita ieri per uno sciopero interno. Pubblichiamo quindi soltanto oggi un ritratto dell'attore scomparso.
La prima reazione istintiva alla notizia della morte di Peppino De Filippo è quella di stabilire un raffronto con la sua personalità d'interprete e commediografo e quella del fratello, l'ottuagenario Eduardo. Ebbene, è una reazione da reprimere, non per mere questioni di pietas, non per il commosso ricordo e rispetto che si deve ad un attore scomparso: ma proprio perché i due furono radicalmente diversi, sul piano della drammaturgia e dell'arte della recitazione. Tra loro si deve semmai distinguere, dunque, non tentare accostamenti impossibili e, in ogni caso, ingiusti.
Peppino fu il continuatore e, nei testi più riusciti, l'innovatore del genere teatrale più schiettamente italiano e napoletano ad un tempo, il genere della farsa, dalle quattrocentesche «cavatole» (cosi chiamate dal paese di Cava, nei pressi di Napoli) alle farse di Antonio Petito, il grande attore napoletano morto nel 1676, che non a caso viene amorevolmente ristudiato e rimesso in scena ai giorni nostri. A Peppino accadde, invece, di esordire e formarsi per vent'anni in un genere che detestava, le pochades franconapoletane degli Scarpetta, in cui «tutti gli attori — cito, da uno dei suoi scritti — dicevano cose non vere, stupidaggini che gli avevano messo in bocca per forza, che non lasciavano nulla alla fantasia del pubblico»
Per vent'anni, in compagnia di guitti napoletani girovaghi in provincia. nell'Abruzzo, nelle Marche, Peppino fu attore, macchiettista, pianista, pittore di manifesti, e. sfoggiando all'occorrenza un paio di ghette bianche che teneva sempre in tasca per gli appuntamenti d'importanza, «amministratore» della compagnia. Non scriveva un rigo, già fremeva dal desiderio di scrivere.
Le prime sue farse sono in' fatti del '31, firmate pudicamente con lo pseudonimo di' Bertucci, e segnano l'inizio dello splendido sodalizio con il fratello Eduardo e la sorella Titina, riuniti in compagnia, finalmente, nel '32, nel piccolo teatrino Sannazzaro. Accorrono ad ammirare «I De Filippo» Pirandello e De Sica, Benelli e Umberto di Savoia, Bontempelli ed Alvaro. Stanno insieme, trionfalmente per quattordici stagioni. Eduardo matura sera dopo sera la sua personalità di grande attore tragico, e di poeta della rassegnazione, deli dolore del vivere, del silenzio., Peppino «schiaffeggia il pubblico» (per usare un suo modo di dire) con i colori forti, chiassosi del suoi personaggi i buttati deliberatamente sul grottesco. E in mezzo sta Titina. radiosa di vitalità cordiale, tutta impennate ed espansività.
Nel '45 il sodalizio è già chiuso forse perché la farsa sta gomito a gomito con la tragedia e codesta contiguità di stile nuoce, in fondo, ad, ambedue i fratelli. Comincia cosi la terza stagione di Pepplio, quella che va fino ai primi Anni Sessanta: ed è la stagione della maturità dell'interprete e, in qualche misura, dell'autore. Con quella sua faccia svagata e remissiva («una faccia da magistrato di provincia», la battezzò un giorno Orio Vergarli) l'attore! Peppino crea in scena, uno) dopo l'altro, tutta una galleria' di stolidi geniali, di pitocchi, vanesi!, di mariuoli sognatori.; di boriosi pusillanimi, di mansueti intinti di beffarda astuzia contadina. >
Fuori scena, in viaggio, in albergo, in camerino il commediografo Peppino scrive' una cinquantina di copioni, cuciti insieme con scaltrezza' 'artigianale, convinto com'è! che 'il teatro è una specie di trattoria, dove si mangia bene o si mangia male: nel primo] caso, la gente continua a frequentarla, nell'altro i clienti si diradano sempre più». Di' questa cinquantina molti sono effimeri, ma qualcuno (penso a Non è vero... ma ci, credo, Quel bandito sono io!,. Le metamorfosi di un suonatore ambulante, che venne, premiato a Parigi durante ili Festival des Nations del '62), ha il ruvido fascino chiaroscurale di un primitivo «tea-; tro degli istinti»: la fame e la smania di ricchezza, il desiderio di prestigio e l'irreducibile miseria.
Poi è venuta la quarta stagione, quella della' celebrità televisiva. Ricorderò soltanto che Peppino la visse, sulle prime. come un tradimento delie proprie origini: «Per un vero attore il teatro è insostituibile..... Per la televisione lavorò molto. Basterebbe citare la macchietta di Pappagone e varie farse e sketches. Arrivato alla fama, con cinquant'anni di teatro sulle spalle, si concedeva, all'inverso, il lusso, che aveva visto prendersi da uno spettatore, una sera della sua giovinezza, a Falconara: quando il farmacista locale aveva fatto ingresso nel logoro teatrino, con un divano imbottito appresso: «Lei capisce, è per sentirmi di più a casa mia!».
Guido Davico Bonino, «La Stampa», 30 gennaio 1980
Poi su Pulcinella arrivo Goldrake...
ROMA — I funerali di Peppino De Filippo, l'attore napoletano spentosi nella notte fra sabato e domenica, si svolgeranno oggi nella cappella interna del Verano. Al momento del trapasso erano accanto a Peppino il figlio Luigi, anch'egli attore, e la moglie Lelia Mangano. Peppino aveva compiuto 76 anni lo scorso agosto. Il fratello Eduardo ha accolto la notizia della scomparsa del congiunto a Bologna e ha subito sospeso, al teatro Duse, le recite del «Berretto a sonagli» di Pirandello. Ieri Eduardo ha raggiunto Roma per essere presente ai funerali.
Ricordo Peppino De Filippo come può ricordarlo un comune spettatore. Una sola volta lo vidi fuori dell’alone della ribalta o del televisore: fu nel 1964, alla vigilia del referendum sul divorzio, in un albergo milanese. Raccoglievo interviste su quell'avvenimento. Peppino si dichiarò contrario al divorzio. Dietro gli occhiali, il suo sguardo era stranamente severo e contrastava con tutto quello che di lui restava in me come immagine ilare. L'Irresistibile balbettio, le movenze un po' burattinesche. l'astuta cretineria, l'eterna confusione apparivano come una maschera smessa. A un certo punto dell'intervista, disse: «Qui le parla il cittadino.
Pacatamente, le sue parole andavano costruendo una solida barriera contro «questo pazzo mondo» che insidia i valori familiari. Abituato a sentire dagli avversari del divorzio dichiarazioni più nevrotiche che razionali, escursioni nell'alta politica più che serene meditazioni, la calma di Peppino mi parve un segno positivo. Quando gli feci sapere che io ero Invece favorevole al divorzio, l’attore mi concesse l’unico sorriso dell’intervista. Distacco o compatimento? Non mi posi il problema allora, e non me lo pongo oggi.
Di Peppino conservavo un remoto frammento di memoria. Da ragazzo, l'avevo visto recitare al «Nuovo» di Milano, con Eduardo e Titina, in una commedia che mi pare s’intitolasse «A Cupierchio è caduta una stella». Già nell'ultima edizione del Corriere di ieri Roberto De Monticelli ha rievocato quel felice momento iniziale del fratelli riuniti in un'unica «ditta». Non mi resta che aggiungere un ricordo di risate provocate da Peppino, il più immediato anche se il meno profondo del tre. Eduardo era già la tesa e rassegnata filosofia della vita, il magistero del brontolio che è come una nota a piè di pagina sulle vicende che travagliano gli uomini. Peppino sembrava scansare gli spessori delle parole e degli ammiccamenti. Non è che, al di là del suoi estri, non si avvertisse l'Invincibile malinconia di Napoli, ma questa malinconia veniva sovrastata da scoppi di castagnole, da una sorta di brindisi effimero.
E' un peccato, quasi un'offesa alla grandezza di Peppino, che la sua fama resti legata per milioni di spettatori al Pappagone del sabato sera. Non è questo il momento per ripetere le solite considerazioni sul mezzo televisivo e sulla sua capacità d'imporre miti anche deformati. La lingua maccheronica di Pappagone, estrema propaggine di tutto un repertorio sul -servo sciocco-, determinò un codice, un istinto ripetitivo, perfino una morale.
Peppino toccò il vertice della popolarità, ma sappiamo che ne fu lieto senza troppi entusiasmi. Per uno che s'era cimentato con Plauto, con Machiavelli, con Molière, con Pirandello e con Harold Pinter, i lustrini di «Scala reale», il nome che quell'anno ebbe «Canzonissima», dovevano apparire come un argento di stagnola, come il falso oro della porpora. Non so se Pappagone possa essere considerato una vera maschera: di lui rivedo quel capelli irti e stopposi, parenti stretti del collodiano parrucchino di Mastro Geppetto. Peppino poneva tutto In termini di mestiere: -Se professionismo significa guadagnarsi da vivere — diceva — ero un attore professionista già a dieci anni».
Chi ha visto Peppino nelle sue recentissime apparizioni in televisione nella trasmissione -Buonasera con...» risente un vago malessere, un'ombra di pena. L’attore era visibilmente stanco, la sua carica spenta, Come i vecchi forzati ottocenteschi che trascinavano la gamba abituata alla catena anche dopo aver riconquistato la libertà, Peppino trascinava sotto luci impietose il suo inguaribile amore dello spettacolo, il bisogno di sfuggire alle aspre leggi dell'oblio. Il «video» a colori mostrava un pallore che il cerone non riusciva a vincere.
Poi sul vecchio Peppino, nella stessa trasmissione, irrompevano i rutilanti cartoni animati di Goldrake e di Mazinga. Il contrasto aveva un'ambigua suggestione, addirittura un'involontaria perfidia, il bianco costume di Pulcinella è lontano abissi e abissi di tempo e di storia dalle tute spaziali, e il suono del «putipù» non potrà mal gareggiare con i sibili dei draghi-robot scagliati contro gli invasori d'altri mondi. Peppino e i prodigi dell'elettronica, Peppino e gli aspiranti superuomini immedesimati nella macchina come se ne fossero turbine e ingranaggi? La domanda non richiede alcuna risposta. Una trasmissione può prevedere questi accostamenti, ma la vedete una rampa di lancio a Marechiaro?
In un elzeviro apparso trent'anni fa sul «Corriere», Giuseppe Marotta descrisse le sere di Piedigrotta e concluse con queste parole: «Una furia di luci. La notte è un interrogatorio di terzo grado, col riflettori puntati in faccia e una stridula voce che ripete: sei leggero, ammettilo, ti diverti!». In un’ora di tristezza, potrà sembrare incauto ripescare quel vecchio, festoso invito. Ma lo credo che la memoria abbia il dovere di andar oltre le ultime immagini di Peppino, di superare la cupa verità del declino e della fine. Ogni tanto anche una ribalta compie qualche prodigio, riaccende i lumi. Come la notte napoletana, Peppino dice a chi lo applaudì: «Ammettilo, ti ho divertito» L'addio può anche avvenire cosi, e forse è giusto che sia cosi.
Giulio Nascimbeni, «Corriere della Sera», 30 gennaio 1980
Peppino, il più comico del '900
Una buffoneria istintiva trasmessa al pubblico senza sforzo apparente: gli bastava una impercettibile vibrazione di quei baffetti a spazzola capaci di mille trasformazioni
Si toma a parlare di Peppino De Filippo. Sono i cent'anni della sua nascita. Ma in attesa delle celebrazioni ufficiali, che avranno nel 23 agosto il loro giorno fatidico, e in attesa del Pappagone che Mondadori manderà in libreria con corredo di videocassetta verso la fine dell'estate, ecco l'Università Federico II di Napoh battere tutti sul tempo. Da oggi ricorderà l'attore scomparso il 26 gennaio 1980 con il convegno «Peppino De Filippo e la comicità del Novecento», che in tre giorni impegnerà una trentina di oratori. Nell'aula Spinelli di Scienze politiche (oggi), nell'Istituto per gli Studi filosofici (domani) e negli spazi di Villa Bruno di San Giorgio a Cremano (dopodomani) si potrà assistere a un fittissimo confronto sulla complessa fisionomia di un figlio d'arte che non è stato soltanto attore, ma, obbedendo alia tradizione di famiglia, ha voluto farsi anche autore di una cinquantina di commedie, memorialista e persino poeta.
E il primo sguardo retrospettivo posato sull'attore che, con Totò, è stato il più ricco di buffoneria istintiva trasmessa alla platea con sforzo apparentemente minimo. Dei grandi comici Peppino aveva la faccia impassibile, al limite dell'inespressività. Al centro del suo volto - lo ricordate - aveva quéi baffetti a spazzola, impercettibilmente vibranti. La, sua emotività comica partiva da lì, da quel piccolo segno che pareva nascondere una frustrazione, un tremore, una timidezza; ma subito, quei baffetti impauriti e magari impacciati diventavano, secondo il caso, carogneschi, furbastri, tiraschiaffi. Ma senza perdere mai quell'aria di complicità con il pubblico, quasi una richiesta di comprensione. Quante cose è stato Peppino. Gettato sul palcoscenico fin dall'infanzia, ha costituito con i fratelli, nei primi anni Trenta, la mitica Compagnia del Teatro Umoristico che, dopo i successi al Sannazzaro di Napoh, ha conquistato Roma, Milano, Torino. Cioè l'Italia. Sembravano inseparabili e imprescindibili. Poi, nel '45, Peppino si mise per conto proprio e a molti sembrò che non sarebbero più tornati quegli spettacoli scatenati, giocati tra lingua e dialetto, quel repertorio un po' pazzo che da Pirandello passava ad Armando Curcio e a Paola Ricora. Peppino, che era il fratello cattivo di Eduardo, l'alter ego odiosamato (Titina era un discorso a parte). scelse la sua strada.
Fece il suo teatro dirompente, si dedicò al cinema dove il mamo canagliesco di tante commedie scarpettiane trovò un partner irripetibile in Totò. Negli anni Sessanta arrivò la televisione e qui, per il varietà Scafo reale, Peppino inventò la maschera di Pappatone, che penetrò anche nel linguaggio degli italiani («Eqque qua...»). Era, Pappagone, la riscoperta r^1 marno al livello più elementare; era pura idiozia, tonda, ocebi a palla, sopracci- ;lia arcuate, il ciuffetto di capeli che s'impennava a gancio: lontanissimo dal personaggio tartufesco che Fellini gli cucì addosso per il film Boccaccio 70. Però, che successo, che popolarità. Ecco, oggi a Napoh si comincerà a parlare di tutto questo. Si racconterà un fenomeno a suo modo unico: un attore che, nato dall'ultima memoria delle atellane, ha saputo riempirci la vita con una risata bianca e clamorosa durata più di mezzo secolo.
Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 24 marzo 2003
Riferimenti e bibliografie:
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Il Piccolo di Trieste
- Il Piccolo della Sera
- Il Piccolo delle ore diciotto
- Il Dramma
- Espresso
- L'Europeo
- Epoca
- Film d'oggi
- Vie Nuove
- Radiocorriere TV
- Tempo
- Domenica del Corriere