Dorian Gray, la ragazza delle mense popolari
Dorian Gray racconta la sua difficilissima infanzia e confessa perchè al culmine del successo abbandonò il teatro di rivista cominciando da capo una nuova carriera
Testimoni oculari assicurano che venni al mondo una tiepida mattina di febbraio dell'anno 1934 a Roma. La convinzione che io sia milanese risiede forse nel fatto che pochi giorni dopo la mia nascita mi portarono a Milano, o più probabilmente perchè non mi sono mai preoccupata che la verità trionfasse. Ma procediamo con ordine. Dunque cominciai subito a impressionare sfavorevolmente i presenti dimostrando uno scarsissimo entusiasmo di venire al mondo.
Dopo molto recalcitrare sentii un violento strattone al gomito e capii che il mio momento era venuto. Se però mi avevano brutalmente costretta a nascere, non potevano anche obbligarmi a star ferma, così che, quando il dottore mi esaminò da cima a fondo per vedere se ero perfetta, tanto mi agitai e piansi che, il poveretto, finì per confondersi e contarmi undici dita dei piedi invece di dieci. Fu tanta l’agitazione, che nessuno riusciva a contare giusto, tanto che alla fine mia madre, convinta di aver messo al mondo un mostriciattolo, svenne.
Mi ero presa la mia vendetta che però dovevo pagare piuttosto cara, non appena mia madre si avvide dell’errore e decise di darsi la riprova della perfezione di sua figlia, e a quattro anni, riccioluta e inamidata, sollevata di peso per un braccio facevo il mio ingresso solenne in un concorso di bellezza per bambini.
DORIAN GRAY è qui fotografata in una parentesi della lavorazione del film di Comencini "Mogli pericolose”, in cui l'attrice interpreta la piccante parte di una moglie gelosa.
NON SOLO Dorian Gray è da classificarsi tra le bellissime dello schermo, e non soltanto italiano, ma le sue capacità di attrice sono tali da assicurarle un’affermazione inevitabile.
Ma a parte questo incidente, la mia infanzia fu assolutamente felice. In estate la mia apparizione sulle spiagge, era salutata da affettuose manate sulla testa da parte dei miei salvatori; infatti un giorno sì e uno no rischiavo di annegare.
Ero lunga e sottile, i capelli sciolti sulle spalle, la pelle cotta dal sole, e dei gatti pareva avessi il colore degli occhi e le sette vite. Completamente insensibile alle timide profferte d’amore dei ragazzini disponibili sulle spiagge, avevo invece una spiccata tendenza al comando. Le madri delle altre bambine, specie per i miei numerosi naufragi, mi guardavano con terrore; ma vani erano i loro sforzi di sottrarre le figlie al mio fascino.
Eppure io ero profondamente leale e sincera e la mia incapacità di essere crudele con gli animali, e non soltanto con gli animali, risale a quel periodo.
Poi vennero i disagi della guerra e con la partenza per il fronte di mio padre, la famigliola si trovò a dover risolvere problemi che prima, non sapeva neanche che esistessero. Io andavo a scuola, ma grazie alla cattiveria delle mie compagne stavo più fuori dalla porta che dentro. Dovettero infliggermi ogni sorta di castighi per costringermi a essere come le altre ragazze, e non ci riuscirono mai completamente. Quando vedevo fare la spia per accattivarsi la simpatia dell’insegnante o, con finta disinvoltura, coprire con la carta assorbente il quaderno perchè la compagna non copiasse, mi sentivo salire dal cuore una tale ribellione, che se non volevo farmi cacciare fuori, dovevo tapparmi la bocca con il fazzoletto per non urlare.
Notata da Fellini, chi la valorizzò nelle "Notti di Cabiria" si rivelò attrice drammatica nel "Grido", di Antonioni.
In casa non c’era nulla da mangiare: le nostre condizioni erano diventate tragiche, non avevo neanche i soldi per comperarmi i libri. E decisi di morire. Per due giorni disertai la mensa di Piazza Bacone, a Milano, dove tutti i giorni mi recavo a mangiare la minestra dopo la scuola. Andavo ai giardini pubblici e dopo mezz’ora tornavo a casa. A mia madre che mi domandava se avevo mangiato rispondevo di sì.
La mattina del terzo giorno alzandomi dal letto ero così debole che caddi e andai a sbattere la testa contro il comodino. Il colpo fu terribile, ma anche quella volta sopravvissi. Ricordo che non c’era nulla per medicarmi, nè cerotti, nè fasce, nè cotone, niente: così mi misero in testa un asciugamano bagnato e andai alla mensa che sembravo un fachiro.
Un bel giorno la guerra finì; mi dissero che non subito, ma piano piano molte cose sarebbero cambiate e allora non più freddo, non più fame! Mi sembrava un sogno, non facevo che ballare dalla gioia. Mia madre dovette confondere la mia contentezza con una segreta passione per la danza perchè, appena le fu possibile, mi iscrisse a un corso di ballo classico.
Studiai due anni, alla fine dei quali fui notata dal coreografo della Scala e da lui scritturata nel suo balletto. Fui molto felice e lusingata come se un imperatore mi avesse chiesta in isposa. Del resto di una imperatrice avevo anche il nome, Maria Luisa, che mi si addiceva molto. Purtroppo dovevo essere la sola ad esserne convinta perchè poco prima del mio debutto udii voci maligne insinuare la necessità di cambiarmi nome.
Sostenendo che avevo una testa da ragazzo (il fatto che gli storici avessero riscontrato questo strano particolare anche nella bellissima Alfonsina de Plessy, mi consolava un po’) e un portamento da pantera decisero di chiamarmi o Do-rian Gray, come il celebre affascinante giovanotto del romanzo di Oscar Wilde o Darma come la pantera nera amica di Sandokan nella "Foresta Nera’’ di Salgari. E mi dissero di scegliere quale preferivo fra i due. Commossa fino alle lacrime da tante premure dissi tutto d’un fiato: "Dorian Gray”. Per. quanto io sia contraria alle decisioni affrettate, qui non c’era da perdersi in esitazioni. D’altronde chiamarmi come una pantera sarebbe stato troppo impegnativo.
Avevo quindici anni. Entrai in un balletto che si esibiva in locali piuttosto eleganti e cominciai come Dorian Gray a guadagnare i miei primi soldi che, per la verità, mi bastavano appena per ricomprarmi le scarpette da ballo che si distruggevano con una velocità spaventosa.
Però se di giorno, con quei capelli che mi scendevano sulle spalle e il vestito smesso di qualche compagna, potevo sembrare una sfollata, la sera diventavo un’altra. Una volta un signore diede ordine che il pavimento della sala su cui ballavo, tra le mie compagne, fosse completamente cosparso di fiori.
La sera anche i camerieri diventavano gentilissimi con me e mi applaudivano, dimenticandosi che nel pomeriggio, durante l’ora di prova, mi avevano tolto la sedia di sotto perchè non si sporcasse, come dicevano loro. Ma alla fine del 1949 il balletto, nonostante avesse fama di essere uno dei più belli d’Italia, si sciolse. Il mio maestro non accettò le clausole che ci obbligavano a restare nei locali dopo il nostro numero. Era un ungherese, lui che aveva ballato nei più grandi teatri del mondo di fronte a re e regine queste cose non le capiva!
LA NUOVA STAGIONE cinematografica riserberà certamente a Dorian Gray una parte di primissimo piano: essa è matura per arrivare anche nel cinema in prima fila, al grande successo.
QUEST’ANNO oltre a "Mogli pericolose” ha interpretato un altro importante film; "Racconti d’estate”, di Franciolini. Dorian Gray è una lavoratrice seria e instancabile, che si prepara e si impegna fino allo scrupolo. Vive a Roma insieme alla madre, a Monte Mario.
Ebbi l’offerta di restare a ballare da sola, ma per tutta risposta andai nel mio camerino staccai dal chiodo le scarpette, le avvolsi in un giornale e uscii.
Il giorno dopo, con la mia valigetta di fibra legata con lo spago me ne tornavo a casa. Ricominciarono le soste davanti alle grandi vetrine interrotte solo dalle saracinesche che calavano e dalle luci che si accendevano nelle strade. Allora riprendevo il tram e me ne tornavo a casa, ma il cappotto mi si era fatto così stretto e corto che non potevo neanche alzare il braccio per attaccarmi alle maniglie.
Un giorno presi coraggio e mi presentai a Macario. Pioveva, avevo i piedi fradici e pochi spiccioli nelle tasche. Mi accompagnarono nel suo camerino al Teatro Nuovo di Milano. «Quanti anni hai?», mi chiese gentilmente. «Venti», mentii. Ne avevo sedici. «E che cosa vuoi fare?», mi domandò guardandomi preoccupato le scarpe dalle quali i piedi stavano per uscire. «La prima donna», risposi. «Va bene, mi disse, farai la prima donna». E mi mise in ultima fila.
Io giustamente sostenevo che poiché da dietro quella selva di teste e di gambe al pubblico non arrivava di mio neanche il pensiero, era inutile che mi bardassi come un albero di Natale; ma il direttore di scena non era di questo avviso e pretendeva guanti, cappello, sorriso e ciglia finte. Per 1500 lire al giorno era veramente chiedere troppo.
Mi ribellai ma quando cominciarono a piovermi addosso le multe, dovetti scegliere tra saltare la cena o mettermi le ciglia finte. Mi rassegnai. Ma se il mio destino era quello di sporcarmi la faccia tutte le sere, pensai di avere almeno il diritto che qualcuno mi vedesse, e mi misi in marcia verso la ribalta, che non sapevo con esattezza neanche dove fosse perchè non la vedevo; il mio punto di riferimento erano le quinte.
Ero la più giovane e la più agile; scavalcai quelle teste una ad una. e con tutte dovetti ingaggiar battaglia, la mia avanzata fu ostacolata in ogni modo e con ogni mezzo. A diciotto anni però avevo lasciato dietro di me tante teste quante forse la ghigliottina in Francia.
Una volta raggiunto un posticino decente lasciai fare al destino, che sembrava essersi finalmente schierato dalla mia parte; alcuni studenti bolognesi travolta la polizia all’uscita del teatro fecero una sera irruzione nel mio camerino e mi portarono a spalla in trionfo per tutta Bologna.
Scoprii ad uno ad uno i segreti che è necessario conoscere per arrivare, ripassai per ore la mia parte, sempre in cerca del gesto, dell’intonazione migliore. Lo stesso anno nel corso di una manifestazione, da giornalisti e critici fui eletta la migliore speranza. Nel 1954, a vent’anni, esattamente quattro anni dopo quel famoso giorno che mi presentai a Macario, firmavo, battendo tutti i precedenti record per la mia giovane età, il primo contratto di prima donna assoluta nella rivista "Passo doppio” a fianco di Ugo Tognazzi.
Come prima cosa chiesi la abolizione del coniglio dai miei vestiti. Non solo l’ottenni ma l’impresario chiamò per dirigermi un regista cinematografico. Debuttai in gennaio a Milano davanti a un pubblico da prima alla Scala. Io veramente non ricordo bene perchè prima di entrare in scena avevo bevuto due cognac, ma mi riferirono che fu un trionfo.
Credevo di sognare, io la ragazza delle mense dei poveri.
Fotografi inglesi, francesi, americani vennero nel mio camerino per fotografarmi, alle serate d’onore i miei ammiratori mi inviavano fiori e gioielli, i sarti purché indossassi i loro vestiti me li regalavano, i proprietari di locali notturni ora mi invitavano e mi offrivano gratis lo champagne. E io riconoscevo gli stessi locali dove pochi anni prima mi dovevo portare la bottiglia di Coca-Cola sotto il braccio se volevo bere dopo lo spettacolo.
Ma poiché è inutile cercare di mentire a se stessi, dovetti ammettere che, nonostante tutto, non ero felice. Ora che avevo raggiunto la cima della scala, cosa chiedevo per sentirmi ripagata delle trascorse rinunce? Che cosa chiedevo per darmi la riprova della mia raggiunta forza?
Chiedevo una cosa che mi sembrò assurda e crudele verso me stessa; rinunciare a tutto quello che ora potevo avere e ricominciare una nuova vita dal nulla. Tentai con tutti i mezzi di dimostrare a me stessa che quello che stavo ottenendo era superiore a quanto avevo desiderato. Diedi fondo al mio denaro senza riuscire ad amarlo e le prove della mia potenza mi lasciarono la bocca amara. Io chiedevo soddisfazione a me stessa e non agli altri: la mia sconfitta fu clamorosa. L’estate successiva a quel famoso inverno 1934 mi aggiudicai la maschera d'argento quale migliore soubrette dell’anno e rifiutai a uno a uno tutti i contratti italiani e francesi che mi vennero offerti. Qualcosa più forte di me mi spingeva verso un impegno diverso, o forse era la mia sete di solitudine ad allontanarmi da quella meravigliosa gazzarra. Fu così che affrontai il cinema, cominciando da capo una carriera, convinta di aver ascoltato il richiamo della mia vocazione.
Dorian Gray, «Tempo», anno XX, n.39, 23 settembre 1958
![]() |
Dorian Gray, «Tempo», anno XX, n.39, 23 settembre 1958 |