Sono morto cinque volte racconta Vittorio De Sica
Il patetico personaggio Umberto De Sica, padre di Vittorio, affiora dal commossi ricordi del l'attore regista. Dopo tante alterne fortune, De Sica si appresta ora a quella che considera una prova decisiva: il film "Il Giudizio Universale"
Roma, giugno
De Sica è nato in provincia di Frosinone, a Sora, in Ciociaria. Egli rischia, quand’è ancora nell’alvo materno, di esser mio conterraneo, di nascere in Calabria. Incinta di otto mesi, sua madre partorirebbe a Reggio se non la muovesse a trovare un luogo più tranquillo, per mettere al mondo un figlio, lo spavento di una minacciata vendetta da parte del famoso brigante Musolino contro una domestica dei De Sica che gli ha fatto la spia. Rifugiato in una casa, proprio di faccia a quella dei genitori di Vittorio, il fuorilegge ha cinto d’assedio, con la sua presenza visibile e invisibile, la nemica. La quale non esce più di casa per paura di essere ammazzata, ed evita anche di mostrarsi alla finestra, per non prendersi in pieno petto qualche raffica a lupara, partita da qualche punto insospettato dell’abitazione dirimpetto. Viene la sera, e tutta la strada accende i suoi lumi sui davanzali delle finestre, sui balconi, sulle altane, sui loggiati, sulle porte, sulle grate, come si fa quando passa la processione; E’ l’omaggio di ogni sera al brigante generoso, che, avendo ucciso per giusta vendetta, ha per sè il favore del sentimento popolare. Vogliono, quei lumi, essere un segnale per lui, gli dicono che la via è libera, che può uscire di casa per andare dove il bisogno lo spinge. Le luci restano accese fino al suo ritorno all’alba, nè mai verrà in mente ai carabinieri di indagare sulle ragioni di quella luminaria. Preferiscono pensare che il santo patrono ha scelto quella strada per le sue processioni invisibili.
In Spagna, Vittorio De Sica è attualmente impegnato nella lavorazione di "Pane amore e Andalusia”. La protagonista femminile del film è l’attrice spagnola oggi più popolare nella penisola iberica: Carmen Sevilla. Vittorio De Sica è nato a Sora, nel Lazio, il 7 luglio 1902. Diplomato in ragioneria abbandonò la carriera bancaria per il teatro.
Col terrore che succeda qualche disgrazia a lei e al bambino, mamma De Sica tanto fa che il marito chiede e ottiene il trasloco da Reggio Calabria a Sora, alla locale succursale della Banca d’Italia. Sora non è ancora Roma, però le è vicina, e questa vicinanza basta al babbo di Vittorio per covare con gli occhi della speranza il trasferimento nella capitale. Si prepara a questo avvenimento per quattro anni, dopodiché vien mandato a Napoli, la città originaria dei De Sica, anche se Umberto è nato a Cagliari da un babbo che là assolveva funzioni di direttore delle carceri. Pure Vittorio, nato a Sora, si considera napoletano per la pelle, come il nonno e il padre, e, proprio a Napoli, mentre frequenta la prima elementare, dà così buona prova di sè da far dire al maestro che ha nella sua scuola un ”genio”. Tutt’altro parere dà, di lui, il maestro della seconda e terza elementare, il quale non trova di meglio, per casti-
gare la sua vivacità, che qualificarlo nientedimeno un "assassino di strada”. Non siamo più a Napoli, ma a Firenze, dove babbo De Sica, perduta ogni speranza di sistemarsi a Roma come funzionario della Banca d’Italia, e fattosi liquidare dall’Istituto, entra nelle Assicurazioni con la promessa che, appena possibile, sarà trasferito nella capitale. L’arrivo a Firenze limane indelebile nella memoria del piccolo Vittorio. Appena sbarcato con la famigliola alla stazione di Santa Maria Novella, ecco babbo De Sica lasciare il portafogli e, quindi, ogni suo avere, nelle dita svelte di un borseggiatore. I derelitti, ai quali è stato tolto il terreno sotto i piedi, non sanno che fare, dove riparare. Vanno a finire in un bar, dove mamma e figlio, aspettando che il capofamiglia si metta in contatto con le Assicurazioni per farsi prestare del danaro, provvedono, intanto, a salare con le lacrime i primi sguardi su Firenze. A distanza di anni, Vittorio dice di avere sempre in bocca il sapore di quei panini al burro che la mamma è riuscita a comprargli con i pochi spìccioli suoi personali. E non solo, in bocca, il sapore di quei ”semelli” ma, nelle orecchie, il suono delle parole con le quali suo padre, quella sera e dopo, commenterà il borseggio di cui è stato vittima: «E poi dicono che i ladri stanno a Napoli!».
Le Assicurazioni mantengono la promessa, e, dopo due anni, Umberto De Sica è trasferito a Roma. E’ questo il miglior, periodo per lui. Il suo stipendio è buono; discrete le sue provvigioni; la famiglia gli cresce festosa nell’appartamento affittato in via delle Finanze e arredato signorilmente; il suo carattere gioviale, compagnone, lo porta alla fiducia, a credere che questo periodo di prosperità debba durare chi sa quanto. E, invece, ecco la crisi assicurativa che riduce gli utili delle compagnie. Alla famiglia De Sica si presenta il problema di adeguarsi alla nuova situazione, di lasciare l’alloggio di via delle Finanze per un piccolo appartamento in via Balbo.
Bandite le paturnie dalla casa povera, il babbo è sempre pronto a scherzare con i suoi bambini, bambino anch’ esso, anche se la mamma non sa che cosa inventare per metter qualche cosa in tavola. E’ di questo periodo l’aggressione che il babbo di Vittorio subisce a Santa Maria Maggiore da parte di un sarto, il quale ha un credito con lui per avergli vestiti i quattro figli. Umberto è in ritardo di due rate quando s’incontra col sarto. Non ha risposto alle sue sollecitazioni, cerca di evitarlo ma non ci riesce. L’altro gli va incontro, lo prende violentemente per il bavero, lo scuote, lo apostrofa, mentre il poveretto, per di più intimorito, umiliato, dalla presenza del figlio, non fa che promettere di pagare, di pacare al più presto. Il gesto di violenza al babbo rivivrà in Ladri di biciclette, e questo dica quale misura, morale e visiva, abbia assunto la scena penosa per Vittorio.
«Avrai capito, Rèpaci, che cosa rappresenta per me mio padre. Umberto D è nato da questo clima; è un tentativo di stabilire un legame di solidarietà tra povere creature; è un omaggio alla resistenza che i diseredati oppongono alle forze negative; è un poema dedicato a quel gran combattente sfortunato, eppur sorridente, che fu mio padre. Per lui, per aiutarlo a tirare avanti, io presi gli studi di ragioneria, per essere in grado di conseguire, prima, un diploma, e entrare al posto del babbo alla Banca d’Italia. Difatti mi diplomai, prima di fare il servizio militare. e sarei finito ragioniere se. il giorno prima di entrare in banca, non avessi incontrato un amico, Gino Sabatini, il quale diede una svolta diversa al mio destino. Studente di legge, violoncellista, appassionato di teatro, da poco scritturato dalla Compagnia di Tatiana Pavlova, Sabatini, dietro mia sollecitazione, mi presenta all’attrice russa, la quale, dopo avermi osservato attentamente, mi dice di provvedermi del corredo per parti di cameriere, di generico frequentatore di grandi alberghi. Mi occorrono un frac, uno smoking e un tight. Quando sia in possesso di questi abiti indispensabili si ripresenti e sarà scritturato.
Non ti dico come sono uscito da quel colloquio. Con la testa che faceva bollicine come lo champagne quando mussa. Andai da mio padre e gli raccontai tutto». «Se ne addolorò?». «Mi disse testualmente; "Figlio mio, ero molto triste di vederti entrare in banca... L’arte è la tua strada... Ti benedico"».
«Dopo rincontro con la Pavlova», continua, «fu Caravaglio a salvarmi, un sartino che ha vestito a rate, senza alcuna garanzia, tutti gli attori italiani. Mi presentò a lui il disegnatore Onorato. Per trenta lire al mese Caravaglio promise di farmi il corredo, ed io mi presentai a Tatiana Pavlova con gli abiti richiesti. Fui scritturato nel 1923 a 28 lire al giorno. Con questo danaro dovevo pagarmi le rate di Caravaglio, vivere fuori casa e aiutare la famiglia come, del resto, le mie sorelle Maria e Elena, entrambe assunte dalla Banca d'Italia. Lo crederesti? Riuscivo con quelle 28 lire a far tutte queste cose. Oggi che si guadagnano milioni non. si riesce ad aiutare nessuno».
Nel cinema. De Sica debuttò nel 1931 interpretando "La segretaria per tutti"; e l’anno successivo colse il primo importante successo come protagonista di "Gli uomini che mascalzoni!". L’insolito De Sica con barba che si vede in questa immagine apparve in "Tempo massimo" (1935).
Nella Compagnia Pavlova, De Sica resta un anno e mezzo, ma, già dopo un mese dalla sua entrata come generico, è messo al fianco di attori come Capozzi e Cialente. In quell’anno e mezzo la grande capocomica e direttrice gli insegna a recitare, gli dà il senso religioso della parte, a lei venuta dai grandi maestri russi, gli ispira la fedeltà al testo, lo convince che non si rende un personaggio senza immergersi completamente in esso. Recita De Sica in lavori impegnativi come Amore e Intrigo di Schiller, Gelosia di Artzibascev, L’Ufficiale della Guardia di Molnar, Mirra Efros di Gorvin, Anfissa di Andreieff, La signorina Giulia di Strindberg, Romanzo di Sheldon, L'avventura terrestre di Rosso di San Secondo, Miss Hobbs di Jerome, e si fa veramente le ossa come attore, a tal punto che Simoni comincia a osservarlo con sempre maggiore interesse, a volte mettendo l’accento su lui nella parte dedicata all'interpretazione. Perchè, dopo un anno e mèzzo, il nostro Vittorio, avviato, sotto una grande direzione, a diventare un grande attore, lascia la Pavlova per entrare in una Compagnia di assai minor prestigio, agli occhi, almeno, della critica? La lascia perchè alcuni amici gli han detto ch’egli non recita in italiano ma in un’orribile favella italo-napoletana, e che, se la Pavlova, russa, non si accorge dei suoi difetti di pronunzia, gli amici che gli vogliono bene sentono il dovere di avvertirlo, di indicargli la retta via, di consigliarlo ad andare in una compagnia italiana. Egli ascolta questi consiglieri, pur essendo pieno di riconoscenza per la Pavlova, la quale, oltre al gusto della recitazione, gli ha aperto la mente ai grandi temi, ai grandi caratteri, del teatro europeo moderno. Lascia la Pavlova, la quale, tra parentesi, resta molto male nel vederlo allontanare, ed entra nella Compagnia di Italia Almirante, dove, per anni, si pone il problema della dizione, risolvendolo lentamente con un severo controllo dei suoi mezzi espressivi.
Nella Compagnia di Italia Almirante egli parla sempre più correttamente, però il suo repertorio, e quindi il suo impecio. scade di tono, di responsabilità, ed egli sente di aver perduto un'occasione forse unica di diventare un grande attore drammatico, un attore della statura di Moissi, ch’egli pone in cima alla sua ammirazione. Malgrado ch’egli sia. ancora oggi, amaramente pentito di aver lasciato la Pavlova, De Sica conserva un buon ricordo di Italia Almirante, e specialmente di Gigetto Almirante, ch’egli considera un maestro. Ha appreso da lui a rendere in tutta la sua evidenza un personaggio, ad accostarlo con tutte le risorse del mestiere. Alla stilizzazione della Pavlova egli ha sostituito una recitazione realista, attenta, efficace, anche se un po’ saputa, senza grandi orizzonti e senza sorprese. La sincerità della sua resa artistica, la sua autenticità, ha questo fondamento. Se domani dovesse riaffrontare il teatro, il grande teatro (egli ha in mente due grossi caratteri pirandelliani, il padre dei Sei Personaggi e Lori di Tutto per bene) lo farebbe, e lo dichiara espressamente, sotto la direzione di un Luchino Visconti, ricollegandosi così all’esigenza dello stile, così come gli venne insegnata dalla Pavlova.
Dopo la permanenza nella Compagnia di Italia Almirante. De Sica si unisce in Compagnia con Gigetto Almirante e Tofano, essendo prima donna Giuditta Rissone, ch’egli sposa intorno al ’28. Dopo questa formazione, è la volta della De Sica-Rissone-Melnati, che ebbe gran successo finanziario, non solo come simpatia di complesso interpretativo, ma per avere introdotto da noi Lonsdale, Coward e lanciato il primo Betti. Fu però scarso il successo finanziario, ragion per cui la Compagnia fu assorbita dalla successiva formazione Za Bum. Siamo ormai al ’32, e la paga di Vittorio è ormai di 40 lire al giorno come attore di prosa, mentre il suo primo contratto di cinema gli frutta la bella sommetta di 12 mila lire, qualcosa come un tesoro. Mentre egli assapora la gioia di poter sempre più largamente aiutare la famiglia e il babbo, questi brucia il suo filo e si spegne. E’ il rimpianto di tutti i figli, e le eccezioni sono rare, quello di non poter dare ai genitori la soddisfazione di vederli arrivati là dove li ha collocati il loro sacrificio, la loro speranza, il loro orgoglio. Questo rimpianto è per De Sica amarissimo ancora oggi. La morte è arrivata prima, e la gloria di Vittorio ha così perduto il suo primo e forse maggiore compenso. Se avesse resistito ancora alcuni mesi, Umberto De Sica avrebbe visto il suo Vittorio nel film di Camerini Uomini che mascalzoni, il primo autentico successo cinematografico dell’attore. SI dovrà contentare di portarsi nella tomba il ricordo del figlio nella parte di bulletto canterino della Vecchia signora, il film di Amleto Palermi.
Racconta Vittorio che suo padre andava alla prima proiezione delle ore 14, aspettando, tra tanti bambini impazienti e ruzzanti, l’apertura del locale. Si vedeva il primo spettacolo al Barberini, aspettando con particolare emozione l’entrata del figlio sullo schermo, e in particolare, quando cantava "Zagané Zagané" che mandava in visibilio il pubblico, poi usciva a far le sue faccende per ritornava a rivedere il figlio nelle successive proiezioni.
E cosi fino a sera. Caro patetico Umberto De Sica. Vittorio non finirebbe mai di parlare di lui, tant’è che questo ritratto è insieme del padre e del figlio.
Al fianco di Emma Gramatica, nel 1931 Vittorio De Sica interpretò "La vecchia signora”, diretto da Amleto Palermi il film consacrò il suo successo, se non come attore, come cantante. Fra i molti film che interpretò successivamente, I migliori - anche a giudizio dello stesso De Sica - sono "Ma non è una cosa seria" e "Amo te sola".
Nel raccontare tutte queste cose ha gli occhi commossi, come se avesse ancora davanti il suo vecchio babbo con le tasche gonfie di articoli di giornali che parlan di Vittorio, magari dedicandogli soltanto un "ottimo De Sica”. Più tardi, al suo letto di morte, Silvio d'A-mico, dirà al figlio Lele: «Eppure De Sica è un grande attore». Ecco un'affermazione che avrebbe fatto felice babbo De Sica, gli avrebbe consolato il trapasso. Vittorio non lo dice, ma io sento che il giudizio profferito, parecchi anni dopo, da D’Amico, egli lo ha dedicato idealmente al babbo suo.
«Dopo Uomini che mascalzoni, dice sorridendo De Sica, muoio per la prima volta. Mi riaccadrà di rimorire per ben cinque volte nella mia carriera, e, sempre, la stessa procedura: dopo un grande successo, il vuoto in cui esso sprofonda, perdendo quasi la memoria di se medesimo. A Uomini che mascalzoni segue un periodo di inattività, doloroso da accettare. Pur di svegliarmi dal torpore, mi presto a recitare gratis in un film, di cui mi piacciono il soggetto e la parte, ed ecco, da questo buttarmi allo sbaraglio, da questo prendere una boccata d’aria, nuotando sott’acqua, venire il secondo grosso successo: Tempo Massimo di Mattoli, in cui io faccio la parte di un professore di latino con barba che, per amore, diventa sportivo e fa ogni sorta di mattie. Il film piace molto, ha un premio, io non guadagno niente, però mi fa ritornare dalla morta gora alla ribalta del successo, e non è poco. Non reggo alla luce piena e ripiombo nel buio, a causa di alcuni infelici film che mi cadono addosso come pietre di cimitero. La terza resurrezione si chiama Ma non è una cosa seria, dopo la quale tardo a morire, in quanto faccio alcuni film che mi tengono a galla.
Ma, alla fine, la macina finisce col mettermi sotto. Recito di seguito in cinque film sciagurati, ed eccomi ancora cadavere. Riemergo per la quarta volta con Amo te sola ancora di Mattoli. Non ci resisto nella ionosfera, e la mia discesa agli inferi si chiama Ma non Lescaut, il mio più grosso tonfo personale. La critica non me la passò liscia, e specialmente Moccoli mi levò la pelle, bravo, bravo, bisogna fare così. Dopo l’infortunio nella parte di Des Grieux mi decido a fare il regista. Non mi va più di esser diretto, voglio dirigere, voglio far vedere quel che mi sento di fare...». «Non sei più morto, dunque». «Ci ho messo più a tempo, ecco, a prepararmi il cataletto.
Non c’è successo che, inserito nella consumazione che il tempo opera su tutto, non prepari la sua piccola parte di morte. Vennero via via Sciuscià, Ladri di biciclette. Miracolo a Milano, Umberto D, Stazione Termini, L’Oro di Napoli, Il Tetto, e di essi non ho davvero a lamentarmi perchè mi hanno data larga fama, e han diffuso il nome del neorealismo italiano nel mondo. Non tutti sono stati egualmente fortunati, chè il successo non sempre segue il valore, tuttavia, nell'insieme, posso dire che, venendo su con gli anni, la morte ha dovuto prender sempre più pazienza sul mio successo, tant’è che sarei, a un certo punto, tentato di dimenticarla». «Da quanto tempo stai preparando la tua nuova morte?».
«Da Altri tempi, cioè da sei anni fa. Ebbi l'ultimo grosso successo nel Processo a Frine dove facevo l’avvocato che rievoca il famoso gesto di Iperide. col quale fu mandata assolta la cortigiana Mndkarete, detta Frine, cioè Rospo, per l’ambrato colore di quel corpo perfetto che faceva impazzire le dita di Prassitele. Il mio successo fu certo facilitato dal fatto che al personaggio scarfogliano. una specie di Mila di Codro in chiave di bonaria carnalità popolare, portasse la sua fresca venustà Gina Lollobrigida. Da allora inizia la mia ultima morte, ma essa, quasi che fosse rimasta soggiogata dal goloso ricordo del primo streptease che mosse gli Elisasti ad assolvere, stenta a prender corpo e stanza intorno a me. E* una morte che non ha nè il coraggio delle proprie opinioni, nè il lugubre piacere di constatarsi, tant’è che il successo del Giudizio Universale (il film che girerò in settembre a Bergamo) potrebbe anche convincerla, come mi auguro, a uccidersi. Si è mai veduta una morte che si uccide per la disperazione di non essere la morte che vorrebbe? Dunque, aspettare. Intanto constato obiettivamente che i giornali mi lasciano relativamente in pace, che la crisi ha inciso sulle grosse paghe, perciò anche sulle mie, e che, in conseguenza di ciò, anche le tasse tendono, se pur lentamente, ad assumere un volto meno feroce. Puoi mettere, caro Rèpaci, che il fisco mi porta via più del 60 per cento del guadagno. Si lavora, insomma, per lo Stato, e per il piacere di fare quei tali film, il cui valore artistico non trova equivalente in quello degli incassi. E’ il caso di Miracolo a Milano che si è mangiato in parte i guadagni di Ladri di biciclette. Metti inoltre nel conto che la crisi c’è, e parecchio pesante. Essa non sarà stata inutile se la stangata ci darà un cinema di qualità. Dieci film d’arte all’anno potrebbero bastare. E il resto raggiungesse almeno la dignità. Resta sempre sul tappeto il problema della censura. C’è da augurarsi che essa non incida sulla crisi in atto, aumentando l’orgasmo in cui il mondo del cinema si trova. La censura è soprattutto pericolosa perchè genera in noi uno stato d’incertezza, di disagio, di sfiducia. Nasce l’autocensura che trattiene lo slancio creativo. Dalla paura non è mai venuto niente di buono, e il fascismo ne è la prova». Parliamo dei vari film che portano il nome di De Sica e Zavattini. e il regista mi ricorda che Miracolo a Milano portava come titolo 7 poveri disturbano.
Come regista. De Sica debuttò nel cinema nel 1940, dirigendo "Rose scarlatte”, del quale fu anche interprete. Seguirono "Maddalena zero in condotta", "Teresa Venerdì", "Un garibaldino al convento", "l bambini ci guardano”. Con "Sciuscià” (1946) cominciò la serie dei grandi film neorealisti. In questa foto De Sica è con Lamberto Maggiorani, l’interprete di "Ladri di biciclette".
Gli chiedo qual è il film che. meno degli altri, ha visto riconosciuto il suo sforzo, ed egli mi risponde: Stazione Termini, mettendo l’accento sulle difficoltà inerenti al soggetto, sulla paura della censura, sulla suscettibilità dei due protagonisti stranieri, sull’orgasmo che lo dominava allorché, a mezzanotte gli consegnavano Sa stazione per ripigliargliela alle cinque del mattino. Eran cinque ore di febbre, di delirio bianco, in cui Vittorio De Sica, trasformato in capostazione di Roma, poteva far partire arrivare manovrare treni, azionare batterie scambi congegni elettrici, chiamare manovali tecnici e dirigenti, a suo capriccio. Venivano le cinque, ed egli si sentiva schiantato rotto stupefatto, come se tutti quei treni visibili ed invisibili, partiti e arrivati nello spazio concessogli, gli fossero passati addosso lasciandogli un tonfo incessante di risacca sulla battima.
Ed eccoci così arrivati alle note di vita corrente, di costume, alle predilezioni di De Sica come lettore, come amatore di arte, al suo metodo di lavoro. De Sica non ha mai fatto sport, pur essendo stato, sotto la spinta di Franci. appassionato di cavalli e di corse ippiche. Guida la macchina ma senza entusiasmo. Ama le donne, riamato, ed è disposto, come Zacconi, a non perdere questa buona abitudine neppure a novan-t’anni. Fuma sigari perchè le sigarette. 80 circa al giorno, gli annebbiavano la vista. Beve, ma solo vino, mai liquori. Odia lo champagne, gusta moderatamente il whisky, gioca volentieri. Gli piace mangiar bene. Adora i maccheroni, ma li evita per non metter su pancia. Veste benissimo, eppure si sente inelegante. Ama molto la lettura, però ha poco tempo da dedicarle. Legge spesso in macchina quando cede il volante. Legge molto anche a letto. E’ un grande collezionista. Possiede un Picasso, un Renoir, un Rousseau, un Modigliani, uno Scipione (Il Principe Cattolico) un Morandi, due Guttuso, sette De Pisis, un Carrà, un Mafai, un Bartoli, un Dali. un De Chirico (Ettore e Andromaca). La stessa ottima scelta rivela De Sica nel suo settore.
Il regista e attore che ammira di più è Charlie Chaplin. Poi Flaherty, Kazan, Ford, Renoir, Clair. Dei soggettisti italiani, oltre a Zavattini, indica Ami-dei e Suso Cecchi d’Amico. Come registi mette l’accento su Fellini, Rossellini, Visconti, Castellani. La TV egli la vede a fuoco là dove il teatro e il cinema non possono arrivare. Essa presenta vita reale, problemi reali, gente di tutti i giorni, ed ecco il successo di certe sue rubriche popolari. Un successo che incide più sul cinema che sul teatro, questo eterno moribondo, destinato forse a seppellire tutti i suoi rivali. Peccato, dice De Sica, che manchino gli autori. Secondo lui, dopo Goldoni Pirandello e Betti, si è fatto il vuoto. Perchè si è prodotto questo vuoto? Il discorso sarebbe lungo, caro De Sica, e tu, purtroppo, hai fretta di andare. Diamo un cenno sul suo metodo di lavoro e chiudiamo. E’ risaputo ch’egli sceglie gli attori dalla vita, e non dal palcoscenico. Non ama il professionismo teatrale nel cinema. Gli attori buoni sono una ventina in tutto, e i personaggi che la vita suggerisce alla fantasia infiniti. De Sica ce l’ha anche con De Sica. Non sempre De Sica può fare un certo personaggio. E' positivo che anche lui ha sbagliato e può seguitare a sbagliare. E’ sempre in attesa, come si accennò, di fare un grande teatro. Va a vedere L’impresario delle Smirne o Uno sguardo dal ponte, e ne resta avvinto. Aveva, dopo la guerra, cominciato a lavorare con Luchino Visconti nel Matrimonio di Figaro. avrebbe dovuto insistere, perchè quella era la via giusta. Invece si è fatto riprendere dal teatro musicale, dal teatro di rivista. Una specie di fatalità, codesta, non lontana ad apparire a De Sica un rimorso.
Leonida Rèpaci, «Tempo», anno XX, n.26, 24 giugno 1958
![]() |
Leonida Rèpaci, «Tempo», anno XX, n.26, 24 giugno 1958 |