De Sica ieri e oggi
Ieri: attore di forza insolita, in mezzo ai tanti manichini del cinema ufficiale, e regista vigoroso e spregiudicato. Oggi: un uomo insoddisfatto, che ha mortificato la sua più genuina vena poetica per un facile successo. Domani? Avrà saputo De Sica, nel suo ultimo lavoro - “Il mondo nuovo” - ritrovare se stesso?
Il pubblico della televisione si è divertito. Il pubblico ha sorriso, ha trascorso ima serata insolitamente gradevole. I più anziani si sono un po’ commossi, al ricordare i loro anni, quelli in cui «Gli uomini che mascalzoni!» era il film del giorno, la commedia più gustosa, e Vittorio De Sica era l’attor giovane più disinvolto, più gradevole, più aderente alla realtà, a quel pizzico di realtà che poteva venir fuori dal cinema del fascismo, dalle commedie cosiddette dei telefoni bianchi. E tuttavia Vittorio De Sica non fu mai un attore «dei telefoni bianchi». Attore di commedia, sì, ma mai a tutto tondo, mai levigato ed elegante come un manichino. Il suo forte accento, la sua cadenza meridionale, e in fondo la bellezza virile un pochino insolita, non stereotipata, da impiegato di banca che corteggia le clienti, lo distinguevano dagli altri, e dal cinema ufficiale.
E anche le sue commedie erano diverse dalle altre: si svolgevano nelle strade, nei Grandi Magazzini, dinanzi a riconoscibili edicole di giornali, come «Il signor Max», il cui canovaccio è stato ripreso, anni dopo, da Alberto Sordi, ma non ha avuto lo stesso successo. Perchè erano attori diversi, anni diversi, gusti diversi. De Sica rimane l’attor giovane legato ai suoi tempi, ai tempi falsamente disinvolti degli anni trenta, quelli in cui si addensava sulla nazione la nube nera di un paio di guerre di aggressione e di un tragico conflitto mondiale.
In quegli anni De Sica stava diventando il numero uno di un certo tipo di commedia alla italiana. Veniva dal teatro, dalla rivista, aveva cantato canzonette con aria di fine dicitore (ed ancora lo si ricorda per la sue deliziosa «Parlami d’amore, Mariù»), aveva sgambettato sui palcoscenici e sussurrato parole dolci. Il cinema gli aveva dato, di improvviso, una incredibile notorietà. Ma egli non era contento. Il giovinotto trentenne che era venuto da Sora, ai confini tra la Ciociaria e la Campania, a conquistare il mondo favoloso della capitale, non era così futile come la sua maschera sorridente lo voleva far sembrare. Egli era ambizioso : voleva far qualcosa che lasciasse un segno non solo sul costume, voleva fare il regista.
Con Alida Valli nel film « Manon Lescaut » del 1939, diretto da Carmine Gallone, il regista dei colossi in costume.
Una rara immagine del film «Napoli d'altri tempi» al quale partecipava anche Emma Gramatica. Siamo nel 1938: in quell'anno De Sica interpretò ben sei film
A Roma nel 1945 : i registi escono dai teatri di posa e vanno per le strade a cogliere dal vivo la realtà. De Sica gira il suo primo film di grande impegno, il commosso «Sciuscià».
E infatti qualcuno fu così pazzo o .coraggioso da affidargli un film: poi due, poi tre. Furono dapprima delle commediole, imitate da quelle di Mario Camerini, il suo regista. Poi qualcosa di più amaro, come quel «Teresa Venerdì» del 1942, a guerra iniziata, nel quale si cominciava a scoprire il mondo della adolescenza. Poi la rivelazione, avvertita dalla critica più attenta: quel «Pricò», o «I bambini ci guardano», iniziato nel 1942, tratto da un racconto di Cesare Giulio Viola, documento amarissimo, triste, sconvolgente per la sua patetica aderenza alla realtà di una piccola borghesia.
Era nata, con quel film e già prima, una collaborazione fertilissima: quella tra Vittorio De Sica — l’attor giovane ormai avviato alla maturità, il fine dicitore elegante, il cantante confidenziale, ma soprattutto il regista di istinto, di una straordinaria capacità di osservare ed interpretare — e Cesare Zavattini, il più bizzarro, il più fantasioso, il più rutilante degli scrittori italiani. Zavattini vide assai giusto : vide in De Sica l’uomo che non solo avrebbe potuto tradurre in immagini quella poetica che egli andava intuendo ed elaborando, ma che avrebbe potuto infondere a temi, a proposte culturali, a impegni ideologici lo straordinario soffio dell’arte. Quella poetica. si chiamava «neorealismo», esplose in Italia, a Roma, e corse per il mondo come un uragano. Gli uomini di quella poetica furono Roberto Rossellini, ma soprattutto Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, una coppia fertile di idee, di trovate, di battute, di situazioni gentili, ma soprattutto, al fondo, ricca di ima insolita forza drammatica.
Tutti ricordano i titoli, i quattro film fondamentali: innanzitutto «Sciuscià», del 1946, un racconto della Roma occupata, una parabola bellissima sulla borsa nera, gli americani, i ragazzi abbandonati nella via con gli occhi aperti su una realtà più grande di loro, ma alla quale erano costretti ad adeguarsi, una denuncia atroce delle condizioni tragiche in cui si svolgeva la cosiddetta «correzione» dei minorenni. E poi il celebre libero racconto dell’Italia neorealista, «Ladri di biciclette». Qui De Sica fu assolutamente ispirato : la sua scorribanda picaresca attraverso una Roma che il cinema mai era riuscito a vedere cosi, la sua favola priva di orpelli dell’operaio che insegue la sua bicicletta e la sua miseria, procurò i primi guai. Si cominciò a parlare di panni sporchi che si dovevano lavare in famiglia. Il film fu aggredito, fu sottoposto a censure. I ministri si mossero, a osteggiargli un passo trionfale, soprattutto fuori di Italia. E ancora, più agitata, più furente, la situazione si ripete per «Umberto D.», storia triste, esemplare, di un pensionato che strappa i giorni della propria vita in una capitale cattiva, priva di retorica. E infine per «Miracolo a Milano», del 1950, dove l’allegoria era trasparente, dove si sognava un mondo diverso, un mondo senza lugubri sfruttatori, un mondo sincero, dove «buongiorno significa veramente buongiorno».
Un sorridente De Sica fotografato a Sanremo nel 1940. Dopo aver interpretato decine e decine di film era passato dietro la macchina da presa. A quell'epoca aveva già diretto « Rose scarlatte » e si apprestava a dirigere « Teresa Venerdì », un'amara, insolita commedia che scopriva il mondo degli adolescenti.
Accanto alle foto di vent'anni fa, ecco una immagine di Vittorio De Sica oggi : qui il regista è con Sofìa Loren mentre dirige «Ieri, oggi, domani», vincitore dell'Oscar 1964 quale miglior film straniero.
Erano film rivoluzionari? Erano bombe? Non lo erano, se non per la forza dirompente della poesia. Ma da quel momento iniziò per De Sica una parabola dalle curve discendenti. Turbato, forse impaurito, preoccupato della propria opera, che forse era andata al di là dell’istinto e delle intenzioni, egli realizzò un film come «Stazione Termini», al quale nessun appunto si può muovere dal punto di vista tecnico, ma che certamente era l’inizio della involuzione. E involuzione c’è stata, anche sé «il tetto» appare come un ricordo della vecchia tematica neorealistica, ma stanca e poco sincera, anche se il regista toma a realizzare, con Zavattini, soggetti simbolici come «Il giudizio universale».
La scena di un film che forse De Sica vorrebbe dimenticare : «Totò, Vittorio e la dottoressa» con Abbe Lane, diretto da Camillo Mastrocinque. In quel periodo il cinema italiano sfornava pellicole comiche a ritmo serrato.
Il De Sica di questi anni è il regista del compromesso. Ha bisogno di denaro, per la sua vita privata assai complessa e dispendiosa, e lo trova come attore, interpretando tutto quello che gli offrono, ruoli qualsiasi, ruoli importanti, ruoli convenzionali, farsacce, "sketch” di quarto ordine, purché lo paghino bene. Non abdica mai alla sua fierezza di attore che sa recitare, come aveva dimostrato tante volte, soprattutto nel «Matrimonio di Figaro» diretto in teatro da Luchino Visconti. Ma certo non è il De Sica che il mondo ammira. Conserva forse in fondo al cuore la speranza di tornare a fare i suoi film, anzi di fare film completamente suoi, privandosi anche della necessaria collaborazione del suo amico Zavattini. Anzi, da Zavattini sembra staccarsi, poi toma con lui. E il lavoro comune continua, ma su basi diverse, su basi commerciali. Nascono film a grande costo, che debbono imporsi sul mercato mondiale con la potenza del denaro. Nasce «La ciociara», dal romanzo di Alberto Moravia, un vago tentativo di riproporre agli italiani un periodo di storia dimenticato. Nascono, di qui, poi tutti i soggetti su misura per Sofia Loren, con i quali De Sica si ripropone come campione di successo. Anzi, è più giusto dire che egli dimostra per la prima volta di poter trascinare al cinema folle immense, alla stregua dei grandi professionisti. Film come «Ieri, oggi, domani», o come «Matrimonio all’italiana» sono in testa alle graduatorie, battono il record degli incassi. De Sica ha finalmente vinto la sua battaglia «commerciale». Ma non ne è soddisfatto. Egli stesso sa che non è questa la strada. Sì, i film piacciono al pubblico, e perchè non dovrebbero piacergli? Sono prodotti nobilissimi, divertenti, ben fatti, e soprattutto sono vicini alla gente comune per il modo di porgere, per quella straordinaria capacità di mimesi che De Sica ha, per il dono che ricevette di saper far recitare gli attori come nessun altro. I film piacciono perchè al fondo vi è ancora il senso della gente, della gente comune, dell’eloquio comune. Ma questo non è De Sica, non il vero De Sica. Lui lo sa, e lo confessa anche, proprio quando il suo film riceve l’Oscar.
Ora attendiamo l’ultimo De Sica : «Il mondo nuovo», un soggetto di Zavattini che è stato girato a Parigi e che incontra difficoltà in censura. Non sappiamo se sia un ritorno alla vecchia poetica oppure una involuzione, ó un momento di attesa, di ripensamento. Nè vi è da auspicare un ritorno all’antico mondo. Da Vittorio De Sica c’è da sperare una cosa soltanto : che vada avanti, che inventi, che non esaurisca la sua vera vena, la sua vena di poeta, che ceda liberamente a se stesso, piuttosto che al produttore con i denari o alla «cultura» quando non è in grado di viverla e di capirla. Da De Sica, che ha già dato tanto, c’è da aspettarsi ancora qualcosa. C’è da augurarsi che egli ci regali il capolavoro, completo, assoluto, forse, magari, firmato soltanto da lui.
Tommaso Chiaretti, «Noi Donne», anno XXI, n.45, 13 novembre 1965
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Tommaso Chiaretti, «Noi Donne», anno XXI, n.45, 13 novembre 1965 |