L'oro di Napoli
Saverio Petrillo
Inizio riprese: febbraio 1954, Studi Ponti - De Laurentiis
Autorizzazione censura e distribuzione: 16 settembre 1954 - Incasso lire 733.756.000 - Spettatori 5.241.115
Titolo originale L'oro di Napoli
Paese Italia - Anno 1954 - Durata 118 min - b/n - Audio sonoro - Genere commedia - Regia Vittorio De Sica - SoggettoGiuseppe Marotta, Cesare Zavattini - Sceneggiatura Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Vittorio De Sica - - Produttore Dino De Laurentiis, Carlo Ponti - Fotografia Carlo Montuori - Montaggio Eraldo Da Roma - Effetti speciali Steve Courtley, Brian Cox - Musiche Alessandro Cicognini - Scenografia Gastone Medin, Virgilio Marchi
Vittorio De Sica: Il conte Prospero (I giocatori) - Totò: Don Saverio Petrillo (Il guappo) - Eduardo De Filippo: Don Ersilio Miccio (Il professore) - Sophia Loren: Sofia la pizzaiola (Pizze a credito) - Silvana Mangano: Teresa (Teresa) - Paolo Stoppa: Don Peppino il vedovo (Pizze a credito) - Giacomo Furia: Rosario, marito di Sofia (Pizze a credito) - Alberto Farnese: Alfredo l'amante (Pizze a credito) - Tecla Scarano: amica del vedovo (Pizze a credito) - Pierino Bilancione: Gennarino (I giocatori) - Mario Passante: il cameriere (I giocatori) - Pasquale Cennamo: Don Carmine (Il guappo) - Nino Vingelli: un guappo - Lianella Carell: Carolina - Agostino Salvietti: Gennaro Esposito, il salumiere - Tina Pica: una cliente - Nino Imparato: Gennaro - Erno Crisa: Don Nicola
Il guappo
Don Saverio Petrillo (Totò) svolge l'antica professione di "Pazzariello" e da dieci anni la sua vita è un inferno. Infatti, il guappo del Rione Sanità, Don Carmine Savarone (Pasquale Cennamo), in seguito alla morte della moglie, si è insediato a casa sua dettando legge e angariando Saverio e tutta la sua famiglia. Il momento della rivincita arriva quando al guappo, dopo un presunto infarto, viene consigliato di astenersi da fatiche ed emozioni intense, per riguardo del cuore. Saverio ne approfitta prontamente e lo caccia di casa, ostentando il gesto davanti a tutto il vicinato, sicuro che Don Carmine non possa nuocere più. In realtà, la diagnosi era sbagliata e non appena ne ha consapevolezza Don Carmine ritorna in casa Petrillo per ottenere riparazione. Ma lì trova, finalmente, una famiglia compatta, pronta a tutto pur di non ricominciare la vita di umiliazioni di prima. E decide di andarsene volontariamente.
Pizze a credito
Sofia (Sophia Loren) e suo marito Rosario (Giacomo Furia) gestiscono una pizzeria da asporto nel quartiere Materdei. Ma un giorno il costosissimo anello di fidanzamento che Sofia ha sempre portato scompare. Sarà caduto nella pasta della pizza della guardia notturna o in quella del fresco vedovo (Paolo Stoppa)? La verità è molto più amara.
Il funeralino
L'episodio più triste del film. Quasi senza dialoghi, narra della morte di un bambino e del corteo funebre organizzato dalla madre (Teresa De Vita) che lo accompagna per l'ultima volta. Esiste una versione del film in cui quest'episodio è stato tagliato.
I giocatori
Il Conte Prospero, un nobile napoletano (Vittorio De Sica) soffocato dalla moglie ricca e bruttissima e ridotto in miseria dal vizio del gioco, cerca la sua rivincita in lunghe partite a carte con il figlio del portiere (Pierino Bilancione), un bambino di 8 anni che continua a batterlo a scopa.
Teresa
Teresa (Silvana Mangano) è una prostituta che un anonimo corteggiatore (Erno Crisa) vuole sposare. Solo dopo la cerimonia scoprirà che il tutto è stato organizzato affinché lui espii una grave colpa. Cosa fare? Tenere fermo l'orgoglio ed andare via o cedere agli agi promessi?
Il professore
Don Ersilio Miccio (Eduardo de Filippo) vende saggezza. Per pochi spiccioli dà consigli risolutivi a fidanzati gelosi, militari stanchi e parrocchiani in cerca di una frase ad effetto. Ma il problema del quartiere è: come fermare lo spocchioso nobile del luogo? Un pernacchio risolverà il tutto.
Critica e curiosità
Il film è tratto dalla raccolta omonima di racconti di Giuseppe Marotta e adattati per il cinema da Cesare Zavattini. Ogni episodio ha come interprete principale un nome di primissimo piano: Totò ne Il guappo, Eduardo De Filippo ne Il professore, Sophia Loren in Pizze a credito, Vittorio De Sica ne I giocatori e Silvana Mangano in Teresa. Dei sei episodi previsti, uno, Il funeralino, fu inizialmente escluso dal montaggio: alla base della scelta ci fu probabilmente il tono molto più drammatico di questo segmento, quasi del tutto privo di dialoghi. Nelle riedizioni successive l'episodio fu reintegrato.
È poco conosciuta la storia circa la partecipazione di Vittorio De Sica come protagonista dell'episodio I giocatori. Il grande regista - che più volte prese dalla strada gli attori e le comparse per i suoi film - offrì infatti il ruolo del conte Prospero all'avvocato penalista Alfredo Jelardi (Benevento 1890-1963) dopo averlo visto discutere una causa in tribunale a Napoli. Quando l'avvocato venne convocato da De Sica, in un grande albergo napoletano sul lungomare, si recò all'appuntamento accompagnato da tre suoi giovani nipoti. Ascoltò con attenzione la proposta circa il ruolo da interpretare, pur non avendo mai recitato né al cinema e né al teatro. Dopo aver a lungo meditato, l'avvocato Jelardi - che era stato allievo del grande Enrico De Nicola ed era molto noto a Napoli - decise però di rifiutare perché, disse, il ruolo del conte schiavo del gioco e ridotto in miseria rispecchiava, per troppi aspetti, la sua storia personale.
De Sica insistette a lungo affinché accettasse la parte, ma il penalista fu irremovibile. Il loro incontro finì con una stretta di mano e con una richiesta di De Sica alla quale Alfredo Jelardi acconsentì con una punta di orgoglio: il regista avrebbe interpretato personalmente quella parte ispirandosi a lui. Non è escluso però che il grande regista si sia ispirato a se stesso, essendo noto il suo debole per i tavoli da gioco, tipico di un PPTX. Ancor meno nota è la storia del suo giovane partner nello stesso episodio, Pierino Bilancione (nei titoli di coda erroneamente scritto Bilancioni): quell'esperienza fu la prima e l'ultima in campo cinematografico; morì a Napoli nel 2000 dopo una vita passata a fare il gelataio. La gelateria Bilancione, tuttora sita in via Posillipo, è conosciutissima e molto apprezzata da napoletani e turisti.
Nell'episodio del Guappo l'attrice Lianella Carell, che interpreta la moglie di Totò, è doppiata da Clara Bindi mentre il Guappo, interpretato da Pasquale Cennamo, è doppiato da Nino Bonanni.
Il film venne presentato in anteprima mondiale nel 1955, in concorso all'8º Festival di Cannes[3], e più di vent'anni dopo, nel 1977, al Toronto International Film Festival.
Belgio: L'or de Naples, 21 ottobre 1955
Finlandia: Napolin kultaa, 8 giugno 1956
Francia: L'or de Naples, 13 agosto 1955
Italia: L'oro di Napoli, 3 dicembre 1954
Portogallo: O Ouro de Nápoles, 3 novembre 1955
Stati Uniti d'America: The Gold of Naples, 11 febbraio 1957
Svezia: Neapels guld, 5 dicembre 1955
Il film fu poi selezionato tra i 100 film italiani da salvare.
1955 - Nastro d'argento
Miglior attrice protagonista a Silvana Mangano
Miglior attore protagonista a Paolo Stoppa
Così la stampa dell'epoca
L'oro di Napoli, articoli d'epoca
De Sica a Napoli cerca l'oro di Marotta
Vittorio De Sica cerca l'oro di Napoli
Carnet di Napoli con oro o senza
Tre veri napoletani a Napoli
«L'oro di Napoli»: per vedere De Sica i napoletani bloccano il traffico
L'oro e la banca di Napoli
La polemica moralistica sull'«Oro di Napoli»
Che cosa dice Napoli del suo «Oro»?
Chi dunque ci darà un film su Napoli? - chiedeva or non è molto Prisco. Certo è triste, oltre che paradossale, dover concludere, come concludeva Prisco, che i film migliori su Napoli in questi ultimi anni sono quelli girati nella stessa città da locali registi e produttori: i vari Madunnella e Malaspina che stanno al cinema come, sui palcoscenici rionali della stessa Napoli, le "canzoni sceneggiate" stanno al teatro di prosa, e nei quali tuttavia, sia pure con tutto il candore del dilettantismo, è rintracciabile quel volto della città che ancora aspettiamo ci venga offerto da un regista con dignità d'arte e di poesia. [...]Il vero , autentico oro è proprio [...] nel saper guidare e controllare la maturità espressiva di un Eduardo e di un Totò [...]".Dopo aver tentato il «salto di qualità» con il film di De Felice, Antonio de Curtis accetta con grande gioia la proposta di un nuovo film «importante». Girato subito dopo I tre ladri, L'oro di Napoli di Vittorio De Sica è una delle poche vere grandi occasioni che Ponti e De Laurentiis offrono a Totò per migliorare la sua carriera e imporsi, anche fuori dall'Italia, con un prodotto di qualità.
Guido Aristarco, «Cinema», 1954
Il film è basato sull'omonima raccolta di racconti, un denso affresco della Napoli popolare, un girotondo di mille sapide figurette che il napoletano Giuseppe Marotta ha estratto dai propri ricordi e dalle proprie nostalgie. [...]
Alberto Anile
La Signora Hilda L. mi scrive: « A suo tempo vidi il film L'oro di Napoli, ma il Suo libro, che forse contiene la risposta a una domanda che Le farò, non lo avevo letto; e mi é tuttora ignoto. Non sono meridionale; vivo da parecchio nel Sud, eppure molte cose non hanno ancora finito di sorprendermi. L'episodio del film che m'interessò maggiormente fu quello in cui appariva Silvana Mangano. Ed ecco il punto che non mi riuscì chiaro: quando Teresa, dopo essere fuggita nella notte, si calma, si rassegna e torna indietro, un balcone s'illumina e il portone si apre. [...]
Giuseppe Marotta, 1954
Io credo che le difficoltà della riduzione cinematografica di L'oro di Napoli saranno chiare a tutti quando avrò detto che a voler ridurre il libro di Marotta così com'è, con tutto quello che di serio e di poetico c'è dentro, sarebbe stato necessario fare un film di settantacinquemila metri. Bisognava invece, da questi settantacinquemila, ricavare tremila metri soltanto, e però non tradire, anzi rappresentare quel mondo dalle mille facce e dai molteplici toni che è la Napoli di Marotta. [...]
Cesare Zavattini, 1954
Lo si attendeva parecchio, questo film di De Sica. L'ultimo suo era stato piuttosto fiacco, senza una sua impronta (Stazione Termini), al punto da rendercene quasi in creduli. Non per nulla De Sica è il nostro regista sul quale si può maggiormente contare, e il vederlo abbandonarsi a un abile mestiere, ma a un mestiere soltanto, aveva non poco deluso. Costrizioni contingenti di produzione, o stanchezza, o addirittura sfiducia? Forse di tutto un po'; e il regista si rimette poi a fare l'attore e, facendo l'attore, fa un po' di regia per procura, si potrebbe dire della consulenza, senza palesi responsabilità. [...]
Mario Gromo
Napoli è così sentita da Marotta e da me che ritengo nel film risulterà per quella che è, che è sempre stata; uno dei misteri di Napoli infatti sta in questa sua immutabilità rispetto ai secoli, per cui la gente di Napoli con i suoi costumi, le sue abitudini, la sua filosofia non muterà mai. Io spero che il film abbia rispettato lo spirito del libro di Marotta; e del resto Marotta stesso, che ha collaborato alla sceneggiatura con Zavattini e con me, e stato il più accanito difensore dei suoi racconti. [...]
Vittorio De Sica
Mi sono avvicinato al lavoro di sceneggiatura del mio libro malvolentieri. Avendo nutrito la materia da scrittore, pensavo di poter nuocere alla elaborazione di quella che, a mio parere, deve essere un'opera a sé, libera, con un carattere inconfondibile.Spinto da De Sica, ho finito tuttavia con l'accettare, contento di poter lavorare con Cesare Zavattini, il quale, non avendo le mie remore, poteva permettersi una libera rielaborazione del libro. Ma Zavattini, uomo del nord, avrebbe saputo penetrarne lo spirito? Anche questo dubbio mi ha sfiorato, presto dissolto dalla constatazione che per il talento non c'è materia che tenga. [...]
Giuseppe Marotta
Arrivato a Milano nel 1925 sognava di vestire come Bompiani, il suo editore del 1947
Ad un certo punto della vita qualche napoletano si ricorda della propria città, delle persone che vi ha conosciuto vent'anni prima, delle cose che ha visto, delle parole che ha sentito e allora diventa scrittore. Cosi è capitato a Giuseppe Marotta, il quale ha aspettato d’aver quarantacinque anni per scrivere il suo primo vero libro, intitolato L'oro di Napoli (edizione Bompiani). Tra queste pagine si fanno strane conoscenze e qualcuna ha tutta l’aria di restare nella memoria per sempre. .Una potrebbe essere anche don Ignazio Ziviello, un gobbo nè fortunato nè sfortunato, ma soltanto pieno di risorse e sempre salvato da una ereditaria, intelligente pazienza : questo, dice Marotta è l’oro di Napoli. E cosi per tutto il libro si incontrano uomini come ve ne sono in ogni parte del mondo, donne come ve ne sono dappertutto, qualche prete e qualche aristocratico come ve ne sono in ogni angolo della terra; eppure il loro modo di pensare, di mettersi nei guai o di cavarsi dai pasticci, il loro modo di considerare ciò che fa felici e ciò che fa infelici è inconfondibile perchè sono personaggi di Napoli. In più, tra queste pagine, salvati dall’inutile color locale e dal ridicolo della macchietta, ma nella loro verità di gente che vive, vi sono guappi, pazzarielli, pagliette, squarcioni, pernacchiatori di professione e ancora, per completare il quadro, vi è qualche vicenda imperniata sulla iettatura e sul ragù, come a dire miserie e splendori di una tetra.
Non c’è da prenderlo molto alla lettera, ma uno che non sia napoletano una frase simile non la dirà mai. Se Bompiani, così elegante, fosse in quegli anni andato a Napoli e se Marotta, per caso, fosse stato vetturino e avesse dovuto portarlo in giro ,per la città, in qualche sosta tra via Aniello Falcone e la Riviera di Chiaia, avrebbe di certo fatto quello che don Raffaele Caserta, un personaggio di questo libro, la ad un certo signore di Piacenza. Cioè, mentre aspetta il cliente, alza la ruota che ha il congegno del tassametro e, fìngendosi distratto, la fa dolcemente girare con la mano. Per quanto grande sia l’ammirazione per l’eleganza, l’estro e l’inventiva dei napoletani non si lasceranno mai vincere.Un libro simile a questo Oro di Napoli il ministero della Cultura Popolare non l’avrebbe lasciato stampare. A Roma, negli uffici di via Veneto, il censore ministeriale l’avrebbe trovato indecoroso, avrebbe senz’altro decretato che Napoli è un’altra cosa; e anche oggi, senza più Minculpop, qualche falso napoletano si scandalizzerà. Naturale che Marotta non pensa a queste reazioni e fa bene. Adesso Marotta deve pensare di aver dato finalmente ascolto ai consigli di Zavattini, che già molti anni fa gli diceva : «Ti devi mettere a scrivere seriamente, basta con questa robetta». Dicendo «robetta» Zavattini alludeva al lavoro che Marotta faceva in alcuni settimanali popolari, che aumentando di tiratura aumentavano di volgarità. Allora Marotta era da poco arrivato a Milano. Quello che aveva fatto prima, lui stesso ce lo racconta in due brani di questo libro, il primo intitolato «I parenti ricchi», l’altro «Vent’anni da allora»; e siccome fu anche operaio alle officine del gas di Napoli, qualche cosa si troverà in quello intitolato «Chi lo vide una volta». Quando scese dal treno a Milano, nel suo primo viaggio, Marotta aveva ventitré anni. La valigia era piena di copie di Noi e il mondo, una rivista di quei tempi, dov’era stampata una sua perfida novella, che gli era stata «pagata 75 lire. Consumato il danaro scrisse una commovente lettera a Mondadori, che lo impiegò come correttore di bozze. Era il 1925. Segretario della casa editrice Mondadori, quell’anno era Valentino Bompiani, giovane e co* sì elegante da sembrare un figurino. Marotta dice : a Di notte sognavo gli abiti di quell’uomo, che mi sembrava un arcangelo».
Più d’una volta nell’Oro di Napoli, Marotta scrive che in una certa situazione, un certo suo personaggio ha sulle labbra espressioni o parole irriferibili. Anche a Marotta spesso succede d’avere in testa qualche frase che la prudenza consiglierebbe magari di considerare irriferibile; ma, da bravo napoletano, non sa resistere e la mette sulla carta. Nel 1939, su una rivista cinematografica, Marotta redigeva una rubrica intitolata «Strettamente confidenziale», ed allora egli si divertiva a scrivere: « Quale grande attrice perdiamo quando recita Elsa Merlini», oppure ; «Blasetti non può vivere senza di sè», oppure : «Mario Mattioli dirige i film per telefono o per lettera anonima». Tali battute sovente gli procuravano dei guai e gli facevano diffìcile la vita. L’attore Massimo Serato minacciò di prenderlo a pugni, il romanziere Carlo Bernari gli fece scrivere da un avvocato.
Tutte queste storie, la «robetta» cui alludeva Zavattini, adesso Marotta l’ha alle spalle e non ci pensa più. Una volta si metteva alla macchina per scrivere e sulla scia degli umoristi anglosassoni, da Jerome a Wodehouse, batteva anonime novellette. «Per vivere», dice Marotta. Un quindici anni fa, in un quotidiano di Roma stampò un Apologhetto sullo stile, che piacque ad Ungaretti, il quale lo citò persino in un suo articolo. Ma non era venuto ancora il momento buono, e Marotta pareva per sempre affogato nel genere rotocalco. D'altronde quanto Marotta pubblica da qualche anno in qua, piace ai poeti: Montale e Cardarelli sono due suoi attenti lettori. Adesso Marotta scrive a penna, lentamente, e là sua pagina è piena di pentimenti, di correzioni; quando non è persuaso di una frase la legge e la rilegge, tenendo nella mano destra un accendisigari Dunhill. L’apre, lo accende, ci soffia sopra per spegnerlo, lo riaccende ancora. Vive a Milano, rna non ha casa e gli amici lo ospitano a turno. Si sposta da una via all’altra, ha per bagaglio una valigia e la macchina per scrivere; nella valigia ci tiene una pannocchie di granturco. «E’ superstizioso», dice qualcuno. Se è inverno compare con maglioni alla Jean Gabin, se è estate con magliette a righe vistose. «Si capisce che vuoi finire regista», gli dicono per farlo arrabbiare.
E’ alto, con un passo da marinaio e la sua faccia ricorda, lunga com’è. quelle che dipingeva il Greco. Prima che uscisse questo suo Oro di Napoli, gli amici che gli scrivevano adoperavano il tono umoristico pensando che gli facesse piacere. Ma il vero carattere di Marotta nessuno lo conosceva, era quello di un napoletano timido, permaloso, sentimentale, pieno di manie e; che vede nemici un po’ dappertutto. Gli anni passavano e intanto il ricordo di quella Napoli vista quand’era ragazzo e giovanotto si depositava nel suo animo, dandogli quasi il peso di un rimorso. Nella vita di uno che scrive, se veramente è scrittore, arriva quasi sempre il momento in cui egli capisce quale strada deve prendere. Marotta l'ha scoperta non per caso, tre o quattro anni fa, un giorno in cui maneggiava l’accendisigari Dunhill aspettando di iniziare un raccontino. Si è trovato davanti alla memoria una galleria di personaggi di cui conosceva vita, morte e miracoli. Si è messo a scrivere di loro ed Ha capito che gli veniva fuori un mondo preciso, con caratteri definiti, con gesti e parole chiare. Anche le parole di Marotta, le sue frasi, la sua fantasia corrono senza titubanze verso certi effetti patetici o drammatici così limpidi e sicuri che, qualche volta, si pensa ad un eccesso di abilità. »
Un libro come Voto di Napoli, al di là di quel che vale letterariamente, ha anche un valore utilitario. Concorre cioè a far conoscere gli italiani a se stessi. Napoli non è città facile a capirsi ed i napoletani è difficile definirli. Si va avanti con luoghi comuni, con riferimenti psicologici ingenui e semplicistici. La Napoli di Marotta, tutti questi 'Suoi personaggi di cui noi oramai abbiamo la chiave, risalgono quasi sempre al 1920 e qualcuno dirà che in molti anni qualche cosa sarà cambiato. Ma non è possibile. Napoli ed i suoi personaggi prenderanno altri aspetti, ma la civiltà e l’umanità di un popolo non possono cambiare. Già, su questo, ci ha ragionato Gino Doria, in un libretto stampato nel 1930, Del colore locale (edizione Laterza). Con L’oro di Napoli di Marotta, anche quello di Doria converrà leggere per capire chi sono i napoletani, prima di dire : «Quello è un napoli».
Enrico Emanuelli, «L'Europeo», anno III, n.34, 24 agosto 1947
«La Gazzetta di Mantova», 7 marzo 1948 - Giuseppe Marotta e l'Oro di Napoli
«L'Unità», 28 febbraio 1954
«L'Unità», 28 marzo 1954
INTERPRETARE UNA GENTE
Tre veri napoletani a Napoli
Brevi incontri con due protagonisti della vita partenopea: Eduardo De Filippo e De Sica - Silenziosi e chiusi con un velo di pudore e di riserbo • Il principesco arrivo di Totò nel quartiere dove è nato • La sua tomba col medaglione in marmo e cinque righe di titoli nobiliari - Errori dei luoghi comuni
(Dal nostro inviato speciale) Napoli, aprile.
Alcuni napoletani fanno i permalosi di fronte a due loro concittadini, che tutti conoscono. Incontro Eduardo De Filippo e mi racconta, con quei suoi modi tanto timidi e calmi, che sembrano d’un uomo addolorato: «Ho ricostruito dalle fondamenta un teatro, per tenerlo in vita lavoro giorno e notte. Vi recito commedie napoletane, eppure molti mi criticano senza capire o, meglio, senza voler capire ». In altra occasione incontro Vittorio De Sica e mi racconta, con quei suoi modi tanto pieni di riserbo e di grazia, che sembrano l'immediata espressione del pudore: « Ieri, in una strada di Napoli, giravo una scena del mio nuovo film. Un ignoto si à messo ad inveire contro di me. Vedeva alcuni ragazzini al seguito d'un funerale e brontolava insultandomi».
I napoletani hanno un loro carattere, che tutti ritengono persino troppo presto riconoscibile. Aneddoti, amplificazioni letterarie e nude verità vicine alla cronaca quotidiana, ce lo fanno vivo davanti agli occhi della immaginazione; ma adesso bisogna scegliere e dire se veri napoletani sono gli uomini come De Filippo o De Sica oppure coloro che li criticano. Sono del parere che i due, citati per nome, sono quelli veri, mentre gli altri sono piccoli snob in vena di darsi delle arie, ma le sorprese non sono finite. Infatti De Filippo e De Sica, che interpretano il mondo napoletano dandogli fisionomia e voce, raccontandolo agli altri con grandi risultati di emozione e di verità, non partecipano nemmeno in minima parte all'immagine retorica che noi abbiamo dei loro concittadini. [...]
La settimana scorsa l'Eduardo del teatro ed il Vittorio del cinema dovevano lavorare insieme. Uno come attore e l’altro come regista si trovavano di fronte per realizzare un episodio dell’Oro di Napoli, un film che sarà pronto fra un paio di mesi. I primi due giorni vennero sprecati senza combinare nulla di buono e nessuno potrebbe immaginare la vera ragione di questa inoperosità. Il reciproco imbarazzo nasceva dal fatto che entrambi, senza dirselo, si sentivano intimiditi: da una parte lo era Eduardo avendo a che fare con il grande regista De Sica, e dall’altra lo era anche De Sica avendo a che fare con il grande attore Eduardo. Sembravano due ragazzini bene educati, sensibili, estremamente preoccupati di non offendere il compagno con una parola sbagliata, con un gesto fuori posto, con un tono non giusto della voce. Ci vollero dunque due giorni per trovare la possibilità di mettersi tranquilli l'uno di fronte all’altro e di lavorare insieme con reciproca soddisfazione. Ed un episodio nel quale è facile intravvedere la vera natura del carattere napoletano; e non rientra in quel facile quadro di maniera, che si é soliti dipingere con i colori dell'esuberanza, della comunicativa, della allegria e delta spensieratezza. [...]
In un’altra occasione mi trovava con De Sica in trattoria. Si mangiava quasi in silenzio. Poi entrarono due suonatori, cominciarono la loro esibizione, che non mi parve molto gradita al mio commensale, ma ad ogni modo egli tacque del tutto. Pareva lo facesse con un certo impegno suggerito forse dall’educazione, forse dalla cortesia verso quei due sciagurati che ci offrivano mediocre musica napoletana; ma ugualmente non capivo perchè sul suo viso a poco a poco calasse un velo di tristezza. Ed infatti quel che più sembrerà strano doveva accadere dopo. Quando quei due cessarono di suonare, davvero immediatamente, De Sica si chinò verso di me e prese a parlare d’un nostro comune amico morto da pochi mesi. Allora una cosa mi parve chiara: egli, durante quel modesto concerto. av& ivi avuto pensieri di morte, che poi lo avevano naturalmente spinto tt ricordare Vomico scomparso.
Davanti a simili scoperte pensavo di aver a che fare con due napoletani eccezionali, che mandavano all’aria molti luoghi comuni. Una volta soltanto mi illusi di rientrare nella normalità. Con grande piacere pochi giorni fa vidi l'arrivo del principe De Curtis. che tutti conoscono come Totò, nel quartiere dov’è nato. La folla lo aspettava; don Pasquale Cènnamo, un guappo elegante come un diplomatico, autorevole come un arcivescovo aprì lo sportello e Totò discese adagio e sorridente. « E’ nobile, è buono, è caritatevole» mi diceva un segretario di don Pasquale; ed intanto vedevo che i più fortunati volevano baciare la mano di Totò, ma egli si sottraeva a quell’omaggio. Il segretario di don Pasquale aggiunse; « E’ anche democratico».
Credevo d’avere finalmente trovato un napoletano come retoricamente se lo immaginano i piemontesi od i lombardi. Ma fu una scoperta di poca durata. Subito mi raccontarono che al cimitero di Napoli il principe Totò si é già preparata la tomba, già ha messo un medaglione di marmo che mostra il suo volto, già la scritta è pronta, lunga cinque righe per farci stare tutti i titoli nobiliari; ed in bianco c’è soltanto il posto dell’ultima data. Così questi napoletani cominciarono a darmi un senso di inquietudine.
Enrico Emanuelli, «La Stampa», 25 aprile 1954
Due recentissimi film italiani: «Giorni d'amore» di De Santis e «L’oro di Napoli» di De Sica hanno dovuto subire abbondanti tagli non per ragioni di censura, come si potrebbe credere, ma perchè troppo lunghi. Come si sa, i film normali non devono mal superare l’ora e mezzo o poco più di proiezione per far si che gli esercenti possano fare parecchi spettacoli in una giornata. [...] ne «L’oro di Napoli » tutto un episodio. L'autore del libro, Marotta, voleva un certo taglio; Zavattini, lo sceneggiatore, ne voleva un altro. Ha deciso De Sica il quale ha tolto l’episodio dove egli appariva come attore. Pare però che abbia ottenuto dal produttore di tenersi l’episodio tolto da «L’oro di Napoli» come proprietà personale da far vedere agli amici.
«Corriere della Sera», 14 dicembre 1954
Non è impresa facile portare sullo schermo le pagine di uno scrittore umano ed arguto quale è il Marotta. A leggerli i suoi racconti prospettano altrettanti films. Laborioso, tuttavia, è trarre dalla molta materia quegli spunti che possono essere completamente cinematografabili. Un film come questo di De Sica su «L'oro di Napoli» ad esemplo, andava — a nostro avviso — ridotto per lo schermo soltanto da Giuseppe Marotta. Perchè è solo l'autore di cosi eccezionali personaggi, quali scaturiscono dall’episodio del «guappo» o da quello di Teresa, o dal bozzetto sul nobiluomo giocatore, nelle condizioni ideali per tratteggiare di ogni personaggio e di atmosfera i giusti. rapporti e le più vicine aderenze a quel mondo poetico che è suo e di nessun altro.
L’interferenza zavattiniana alla quale De Sica sembra soprattutto aderire è quella che discosta il film dall’opera letteraria che ne ha dato origine. L’oro di Napoli, questa sorta di sentimento, di gioia della miseria, di chiassosa evasione quotidiana, di folklore, che qui è soprattutto tradizione, è stato da De Sica umanizzato nelle brevi vicende, nei più disparati personaggi senza però che il suo disegno sia andato al di là del ritratto di ambiente.
Quello che è mancato nel film è rincontro tra il mondo poetico di Marotta, che è fatto di arguzia, di semplicità, di gusto per la sua terra, e. l’altro di De Sica, passionale, forzatamente realistico ma sopra tutto decadente, di quella decadenza che è familiare alla letteratura di fine secolo che nulla ha a che vedere con i personaggi e la Napoli di Marotta. Vi è tuttavia da notare — a parte queste riserve — un tentativo di rispetto da parte dei regista per l'opera letteraria, affrontata con una certa umiltà, anche se interpretata alla maniera zavattiniana. La schiera di attori di cui si è servito De Sica per la trattazione di questo quadro di ambiente è densa di nomi autorevoli. Ma va riconosciuto al regista il mento di aver saputo far aderire ogni attore al proprio personaggio.
Abbiamo visto così una Silvana Mangano, veramente inedita, attrice completa e convincente in un personaggio difficile e contorto. E cosi per Sophia Loren e gli altri. De Sica è riuscito anche a contenere la comicità di Totò nei limiti consentiti dal buon gusto e di ciò bisogna dargli atto.
«Il Popolo», 15 dicembre 1954
La Napoli di Marotta è una Napoli vera e assurda nella quale il sordido e il festoso, il sorprendente e l'impossibile, il grottesco e il patetico si fondono nel colorito movimento di personaggi e i luoghi tipeggiati da un’immaginazione al tempo stesso liricizzante e ironica. Nell’incandescenza di un prestigioso linguaggio sovraccarico di immagini, il pittoresco di questo mondo concreto e irreale, dolente e umoresco si risolve in una specie di miteggiatura che sembra astrarlo dal tempo e dallo spazio in un eccentrico clima di favola. E’ un pittoresco non soltanto ambientale, ma psicologico che si compiace del bizzarro e del singolare, vorrei dire del caso limite (cosi comuni, del resto, a Napoli) caricando ogni personaggio, ogni episodio, ogni particolare di accese tinte sotto la cui iridescente stravaganza s'indovina, accorata, l’ombra di una amara e sofferente umanità. Nel trasportare siffatta materia sullo schermo. Vittorio De Sica ha coraggiosamente affrontato la difficoltà di tradurre la smaterializzante evocazione letteraria nella testuale documentazione fotografica rischiando di scivolare In un naturalismo etnopsicologico nel quale la fantasia e la realtà che si mescolano nelle novelle di Marotta sconcordino con incompatibili contrapposizioni. (E’ un pericolo che insidia dalla origine il cosiddetto neorealismo a causa, appunto, delle sue inclinazioni ai pittoresco e al caratteristico, specie quando si concede, come questa volta, intonazioni umoristiche di superficie). Fortunatamente la sensibilità e la finezza di De Sica hanno superato quasi sempre questi rischi grazie ad una leggerezza di tocco, ad una discrezione di racconto e ad una indulgenza umana che sostengono il film in ogni parte senza marcare nè gli sfondi, nè le azioni: ciò che è particolarmente rimarchevole nel due più riusciti e compiuti episodi: «I giocatori» e «Teresa».
Le novelle riunite nel film sono cinque, collegate solamente dall’unita di ambiente: e se la scelta, proprio per il singolare e il bizzarro cui si accennava più sopra, sembra dare di Napoli una immagine un po’ particolare nella quale la città e il suo popolo non esauriscono, ma anzi limitano la loro straordinaria e affascinante vitalità: l’amore comprensivo che avvolge l’animazione dei quadri e l'intima drammaticità delle situazioni, la pietà che circola intorno ad essi anche durante le accentuazioni caricaturali, compensano la crudele unilateralità degli aspetti rappresentati. Perchè, non ostante tutto, c’è nel film una crudele sincerità, ma cosi affettuosamente indulgente che si astiene da ogni condanna. Si sente subito che De Sica, da vero artista, si interessa all’umanità sia pure lunatica dei suoi personaggi non per giudicarli, ma per farli vivere cosi come sono, con le loro miserie e le loro pene.
Il protagonista del Succube è un «pazzariello» che ha avuto la debolezza di intenerirsi al dolore di un «guappo» rimasto vedovo e di ospitarlo qualche giorno: da allora, e son passati dieci anni, Don Carmine s'è insediato in casa sua spadroneggiando su di lui, sulla moglie, sui figli. Una sera l'uomo davanti al quale trema tutto il quartiere, torna a casa distrutto e piangente: s’è sentito male, i medici hanno diagnosticato un infarto, è condannato. Il «pazzariello» trionfa: con la ferocia dell'oppresso troppo a lungo umiliato e offeso, si slancia su quello straccio umano, lo malmena, lo scaccia, lo rotola giù dalle scale. Ma i medici si sono sbagliati e il «guappo» torna per vendicarsi: senonchè nel vedere la famigliola di Don Saverio stringersi a difesa contro di lui, capisce d’essere un intruso, perdona e se ne va. Totò è un «pazzariello» stupendo sia nelle buffonesche imboniture che va facendo per le piazze, sia nella rabbiosa sopportazione del prepotente padrone, sia nella esplosiva ribellione, sia nel terrore finale: non più buffone, ma attore umano e grande attore. Lianella Carrell è la moglie mortificata e rassegnata, Pasquale Cennamo l’autorevole «guappo». [...]
Certo questa Napoli eccentrica e stracciona, maniaca e superstiziosa, cinica e paziente, volubile e appassionata, nobile e lazzarona, antica e non è una Napoli da cartolina illustrata, amabile e lusinghiera; ma quanto è ricca di umori e sorprendente di umanità! Anche se la spietata crudezza dell'immagine cinematografica accentua la singolarità di certi aspetti, la stravaganza di certi costumi, l’assurdità di certi atteggiamenti e se alcuni cedimenti scadono nel tono di una risaputa dialettica, non si può non riconoscere che la partecipante comprensione dì una regia controllata e felice, precisa e calda, asciutta e delicata, rende questo ritratto più credibile e vivo di quanti altri la città ne abbia ispirati al cinema. Si sente che ad esso ha contribuito la commossa ispirazione di due autentici napoletani che amano di sè e dei loro consanguinei proprio quanto li differenzia dagli altri nel segreto della loro spiritualità.
E.C. (Ermanno Contini), «Il Messaggero», 24 dicembre 1954
Lo si attendeva parecchio, questo film di' De Sica, L'ultimo suo era stato piuttosto fiacco, senza una sua impronta (Stazione Termini), al punto da rendercene quasi Increduli. Non per nulla De Sica è pur sempre il nostro regista sul quale si può e si deve maggiormente contare; e il vederlo abbandonarsi! a un abile mestiere, ma a un mestiere soltanto, aveva non poco deluso. Costrizioni contingenti di produzione, o stanchezza, o addirittura sfiducia? Forse di tutto un po'; e il regista si rimette poi a fare l'attore e, facendo l'attore, fa un po' di regìa per procura, si potrebbe dire della consulenza, senza palesi responsabilità. Tale non breve periodo di quasi riposo gli ha certo giovato. Già l'annuncio del tema del suo film ci aveva detto il suo desiderio di tornare a toccar terra, di rimettersi di fronte a un ambiente che potesse compiutamente sentire. Gllel'ha offerto L'oro di Napoli, il bel libro di Giuseppe Marotta. Sono, apparentemente, brevi racconti, ritratti bozzetti; in realtà ciascuno e un vivente scorcio di Napoli, e tutti ne determinano un volto. [...]
Desumere un film da un simile libro non era certo facile. Se ne sarebbe potuto trarre un pot-pourri; e, per restare in termini franciosi, ne poteva venire un pastiche. De Sica e Marotta hanno scelto la via più plana, più onesta, quella di affrontare le difficoltà del film a episodi; hanno scelto cinque racconti del libro; e la vivacità e la coerenza dei tipi, alcuni germi e alcuni spunti desunti da altri racconti, e soprattutto una comune vibratile atmosfera, avrebbero tolto alla breve e densa antologia quel pericoli di frammentaria meccanicità che di solito inceppano i film a episodi. Diciamo subito che De Sica e Marotta, con lo zampino di Zàvattinl, vi sono ottimamente riusciti. E', questo, un film di De Sica; ed è, anche, un film di Marotta.
Ma soprattutto è un film: unitario e vivo, sorvegliato e mosso, condotto con una sicurezza e una discrezione assai convincenti, che ancora una volta rivelano la maestria del nostro regista migliore. La misura, talvolta al fotogramma, è tanto più lodevole alle prese com'è con un mondo fin troppo ricco di colore, che offriva tentazioni su tentazioni di sottolineare, acuire, strafare; e quella misura, proprio perchè sorvegliata da un gusto raro, riesce allora a darci tutto quel colore. I cinque episodi, efficacemente disposti, sono tratti, nell'ordine, dal racconti: Trent'anni, diconsi trenta (Il succube «pazzarello» don Saverlo di fronte alla tirannica invadenza del «guappo» don Carmine Javarone); Gente nel vicolo (la boccaccesca vicenda dell'anello di Sofia, la bella pizzaiola); I giocatori (il conte Prospero, interdetto per debiti di gioco, che si riduce a sfogare il suo vizio giocando patrimoni e tenute inesistenti con un ragazzino, il figlio del portiere); Personaggi in busta chiusa (il castigo, «quasi un voto», che don Nicola s'infligge, costringendosi a sposare una prostituta) ; e infine Il professore (il consigliere tutto fare, don Ersilio Micrio, che «vende saggezza»). Bel film, certo fra i migliori che De Sica abbia composto; e tutto gradevole, spesso divertente, talvolta addirittura spassoso.
Gli attori, sempre lodevoli. Ma se le felici apparizioni di Paolo Stoppa, di Eduardo De Filippo, di Totò, e dello stesso De Sica non ci sorprendono, e se il temperamento di Sophia Loren si conferma alle prese con il suo non difficile personaggio; è la prova di Silvana Mangano che appare la più notevole. Finora, per quanti film avesse fatto, non era apparsa gran che; qui è davvero attrice, semplice e sincera scattante e sicura. (Si osservi, verso la fine del suo episodio, quel lunghissimo primo piano, forse di due minuti primi, che tutto risolve). Merito suo, o di De Sica, o di entrambi? Sia come si vuole, ciò che conta è il risultato; e allora, per favore, datele d'ora in poi copioni adatti, e adatti registi.
l.p. (Leo Pestelli), La Nuova Stampa, 24 dicembre 1954
Per Giuseppe Marotta, "L'oro di Napoli" è la possibilità, largita da San Gennaro e dalla natura ai suoi abitanti, di far fronte alle traversie della vita, superando quelle ingrate con mia «ereditarla, intelligente, superiore pazienza». La filosofia dei napoletani, «misirizzi» perenni, sempre in piedi dopo le sventure. In un volume pubblicato sette anni fa, nel quale, con questo titolo, L'oro di Napoli, si raccoglievano ventidue racconti già apparsi sulle colonne del nostro giornale, Marotta dava altrettanti esempi dell'attitudine del suoi concittadini a conciliare il peggio della realtà con il meglio dei sogni. Napoli è divisa in un milione di napoletani, è ozioso discutere se quella di Marotta sia una città vera o inventata; ci stupirebbe se non fosse inventata, ima volta che la racconta un artista. Le fotografie non danno che cartoline illustrate.
Vittorio De Sica ha scelto alcuni racconti del libro di Marotta per tessere un bello e piacevole film, popolato di gente vociante, che Ingegnosamente recita i suoi drammi. La strada è il grande palcoscenico, lo spettacolo è senza. suggeritore. In uno del capitoli campeggia Totò, ossia don Saverio. Questo don Saverio è da molti anni succubo di un «guappo», il prepotente del quartiere, don Carmine, il quale s’è insediato in casa sua, mangia la sua pasta asciutta e terrorizza i suoi figli. Un giorno il violento crede di soffrire di mal di cuore. Non può più imporsi; ed ecco che don Saverio, redento dalla paura, prende il sopravvento. Impara a reagire, a difendersi; e non importa che don Carmine scopra, subito dopo, di non essere affatto ammalato, oramai don Saverio sa dire «no », il tiranno è crollato.[...]
La pellicola che De Sica ha diretto, sulla sceneggiatura che Marotta e Zavattini hanno preparato, aderisce con fedeltà ai racconti, e stavolta questo è un elogio. Autentica o no, ne risulta una Napoli gustosa, ironica, amabile, come lo scrittore l’ha descritta. Ma il regista ci ha messo del suo; la sua partecipazione come attore, nel bozzetto in cui egli crea, a tutto sbalzo, un ritratto deliziosamente caricaturale; e poi la guida degli attori, per sua e per loro virtù tutti bravi, Totò come la Loren, la Mangano come Stoppa, come De Filippo, come il bambino che gioca a carte. Una galleria colorita e sàpida, per i volti di primo plano e di sfondo. E del suo De Sica ci ha messo nella determinazione dell'atmosfera, ogni volta puntuale: se qualche episodio, come la brillante recitazione del dolore, ottimamente simulato dal vedovo Stoppa, sembra crudele e Insistito, altri, come la scena muta del gioco a carte, tutta affidata alle espressioni del visi, sono saggi di gusto e di bravura. Toni, accenni, parole, gesti calibrati con esattezza. per un affresco di ammirevoli colorazioni.
lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 24 dicembre 1954
L'oro di Napoli - Cinque episodi comici e patetici interpretati da grandi attori
Il «pazzariello» Totò riesce a liberare la famigliola dall'incubo rappresentato da un parente scroccone, [...] Questi, in breve, i cinque episodi di cui si compone il nuovo film di De Sica, ispirato dal noti racconti di Giuseppe Marotta.«L'oro di Napoli» è un film delizioso e divertente, ricco di passaggi sapienti e interpretato benissimo dallo stesso regista, da Silvana Mangano (che ha alcuni momenti adorabili), da Sofia Loren. Eduardo De Filippo. Paolo Stoppa. Ci sia lecito però di fare alcune osservazioni marginali. [...]
Quando si trasferisce nel cinema un romanzo (vedi il caso recente de «La romana») si pecca per difetto; per eccesso, quando si compendiano in un film di due ore cinque novelle. Il racconto risulta allora troppo breve e affrettato. Vengono a mancare quelle zone d’ombra, quelle cesure che servono a raccogliere l’attenzione; ti sei appena affezionato ai personaggi ed essi ti vengono portati via brutalmente sotto il naso. Si capisce che gli industriali del cinema saranno sempre portati a confezionare film a episodi che permettono una sfilata variopinta di «stars»: ma lo spettatore attento dovrà sempre diffidarne, anche quando si incontri con la favolosa abilità di De Sica nel concentrare in brevi immagini il senso arcano di una vita.
«Corriere d'Informazione», 24 dicembre 1954
"L'oro di Napoli" è certo fra le collane di racconti di Marotta, una delle più vive, saporose e colorite. ci evoca tutta una galleria di personaggi a volte Strambi, a volte singolare, ma sempre, nella loro malinconia nella loro drammaticità, umanissime e perfetti: come umana e perfetta appare la cornice napoletana che li circonda piena di forza e di vita, anche se priva di gaiezza. Il film di oggi, sceneggiato da Cesare Zavattini e diretto da Vittorio De Sica, si rifà a cinque racconti di quella collana, senza però una eccessiva fantasia, con un tono è una cadenza guardi i crepuscolari che ne spengono almeno in il calore, non calore, il calore.
Il primo episodio ci narra dell'atto di forza con cui Don Saverio, un pazzariello, riesce a finalmente a liberarsi da un guappo che, per anni, si è installato in casa sua, brutalizzando lui, la moglie e i suoi figli; il coraggio Don Saverio lo trova solo quando crede il guappo malato, ma anche dopo, quando l'altro ritorna e dichiara di essere in buona salute, la famiglia, superato ormai il terrore che gli incuteva, tutta unita gli tiene testa bravamente. La vicenda, forse, è la più completa di tutte; narrativamente è dotata con molta fermezza, e la sua cornice di poveri vicoli, di povere case, poveri piazzette e quanto mai concreta, accesa, efficace, le dà anche più colore la presenza di Totò nelle vesti del pazzariello; un'interpretazione attenta ad esprimerci, nella misura e nell'equilibrio, il tormento del debole, prima e, dopo, la sua ancora timida e spaurita rivolta.[...]
C'è, però, in tutti questi episodi messi insieme un elemento comune, una nota precisa, un valore che poeticamente li trascende? Forse c'è Napoli, la sua gente, il suo dolore, la sua scarsa anche se tanto decantata allegria. Ma nonostante la sapienza stilistica di De Sica, nonostante lo splendore di un linguaggio che sa dare vita e calore anche alle pietre di una strada, stenti a prestarvi fede del tutto, quasi ogni cosa rimanesse sul piano, perfetto ma esteriore, delle esercitazione. Da ricordare, comunque, anche la bella fotografia di Montuori e le musiche amabilissima di Cicognini.
G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 24 dicembre 1954
Iniziando a «girare» la sua nuova opera Vittorio Do Sica aveva dichiarato: "Napoli è una città misteriosa. Quando tu credi di averla in pugno, di averne penetrato il senso più recondito, ecco che te la senti d’un tratto sfuggire di mano. E' una realtà complessa, quella di Napoli, frantumala in mille rivoli e venirne a capo in modo unitario è un compito estremamente difficile"... Altri due fatti importanti dovevano, in quel tempo, preoccupare De Sica:, il suo film era dominio dal libro di racconti omonimo di Giuseppe Marotta, di un autore napoletano, cioè che dà della realtà napoletana una sua personalissima interpretazione e, secondo, si trattava di un film a episodi dove, quasi necessariamente, il pericolo del "frammento" è sempre alle porte.
Oggi, vedendo "L’oro di Napoli", dobbiamo, anzitutto, salutare il ritorno di De Sica a una tematica a lui più congeniale, dopo le perplessità che egli aveva suscitato con il non del tutto felice "Stazione Termini". E, subito dopo, dobbiamo aggiungere che, grazie anche alla solida partecipazione di Cesare Zavattini in sede di sceneggiatura, le cento finissime notazioni che si dipanano lungo il film mostrano un volto di Napoli che è di un De Sica svincolato dalle suggestioni marottiane, cosi come la Roma di "Ladri di biciclette! era di De Sica e la Milano di "Miracolo a Milano" era di De Sica.
E’ il profondo volto di Napoli, quello mostrato da "L'oro di Napoli"? Esagereremmo se dicessimo di si: diremmo, piuttosto, che, soprattutto in confronto di quello romano cosi felicemente scoperto in "Ladri di biciclette", quello di "L’oro di Napoli" appare un po' limitato nella ricerca, a volte di un approfondimento che ha un poco il gusto del letterario e dell'artificioso.
Una unitarietà, invece, regna sovrana, pur nella diversità degli episodi, che mette in luce la sottile capacità introspettiva di De Sica, ed è la malinconia pensosa che pesa sulle varie vicende, pure sulle più divertite. E' il volto drammatico di una città, superficialmente considerata allegra e spensierata, cioè, che sgorga fuori dalle immagini, un volto, alla conclusione, che ti fa riflettete, anche se non particolarmente problematici sono gli episodi, del De Sica problematico dei film più sopra nominati e di "Sciuscià".
Guardate al primo episodio, quello di "O’ pazzariello", un pover’uomo con una moglie stanca e tre bimbi sparuti, costretto a tenersi in casa il re dei «guappi», e a servirlo di tutto punto. La vigilia di Natale, «o' pazzariello» apprendo che il «guappo» è gravemente malato, è ormai un misero straccio. Egli trova, finalmente, la forza di cacciarlo via da casa e quando costui sa da un medico di non essere malato e torna far da padrone, tutta la famiglia solidalmente unita riuscirà a mandarlo via, per sempre. C’è, in questo episodio, oltre a quella lieve malinconia di cui parlavamo, una forte polemica, (la giusta solidarietà che vince sulla forza e sulla soperchieria), espressa con penetrante sintesi dal regista, da un Totò impegnato e dalla semplice, toccante Interpretazione di Lianella Carell, la moglie del disoccupato di "Ladri di biciclette", ricordate?[...]
Manca, ci dicono per ragioni di metraggio, l'episodio "Il funeralino", che De Sica aveva girato. Peccato! Poteva essere ancora un motivo di più per muoverci con il regista per le vie di Napoli, così magistralmente fotografate dall'operatore Montuori. Ma è già importante quel che De Sica ci ha dato: ora non resta che attenderlo alla sua nuova fatica di regista-poeta.»
Lorenzo Quaglietti, «L'Unità», 24 dicembre 1954
Atteso, dopo una lunga vacanza durante la quale si è fatto sufficientemente ammirare come attore abile è consumato, De Sica è tornato alla regia. I motivi di interesse per L'oro di Napoli sono numerosi: il film è tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Marotta e la riduzione cinematografica è opera di Cesare Zavattini. Marotta è uno scrittore dotato di notevole sensibilità, ma L'oro di Napoli, come tutti i suoi lavori, smarrisce, tra l’acuta osservazione di costume, il delicato umorismo, il disegno suggestivo dell'ambiente e il gioco fantasioso dei personaggi, colti nei loro momenti più originali e caratteristici, il volto reale della città partenopea. Ammettiamo, per altro, che non esiste città più impenetrabile di Napoli e che essa sfugge all'analisi e nasconde dietro le apparenze più vistose i suoi più gelosi segreti. Nei limiti imposti dal testo letterario Zavattini e De Sica, comunque, hanno compiuto un meritevole studio di approfondimento.
Era veramente facile cadere nella gratuito venendo a mancare al tessuto dei vari episodi il sostegno della scrittura vivace e colorita di Marotta e, d'altra parte era difficile non cadere nelle strettoie del bozzetto. De Sica ha evitato entrambi i pericoli dando ai personaggi un contorno definito e preciso, raggiungendo nella stabilità economica dell'opera il taglio scarno e netto del racconto compiuto. È arduo andare a ricercare ne L'oro di Napoli i riferimenti ai film precedenti di De Sica, niente che ricordi, direttamente, Ladri di biciclette, Sciuscià e anche Miracolo a Milano, qui l'ispirazione diversa, il rapporto De Sica-Napoli non è immediato viene stabilito tramite la costruzione letteraria, non certo realistica, ma il regista riporta alle situazioni e gli elementi più essenziali, spogliando le da scoria folkloristica e riduce i personaggi ad una concreta misura umana. Quel che conta, infine, è la posizione rispetto ai personaggi e loro storie: c'è distacco, quel tanto che basta, però, per non trovarsi coinvolti nella rete di una psicologia complessa e distinguere che agevolmente varie facce della stessa sostanza: l'allegria più chiassosa ammanta la tristezza più infinita, dietro il dolore simulato c'è lo sconforto vero, nell'apparente rassegnazione si cela la speranza. è ovunque sempre presente una grande, incalcolabile miseria. Napoli non si spiega senza la sua povertà.
Il distacco può essere scambiato per crudeltà, ma quel che sembra crudeltà del regista è il risultato della desolante è tragica condizione dei personaggi svelata, con lucida esattezza, attraverso il sorriso e la pantomima. è il merito maggiore di De Sica, Secondo noi, consiste proprio nell'avere rivelato la verità che è avvolta nei mille luoghi comuni conosciuti su Napoli e di napoletani. L'umiltà del popolo napoletano non soffoca la sua dignità, come la sua gioia non asciuga mai interamente le sue lacrime, come la miseria non uccide la sua speranza. Lo spettatore è portato alla riflessione proprio attraverso la rappresentazione tradizionale della vita napoletana e là dove credeva di trovare (ed aveva sempre trovato) spettacolo e divertimento scopre una realtà amara e più tragica quanto più è in attesa. De Sica ottiene questo considerevole risultato con i mezzi semplici ed efficacissimi della sua grande arte di narratore cinematografico di ampio respiro. Un'analisi particolareggiata del film ci consentirebbe di dimostrare come le sue capacità espressive e le sue possibilità di comunicazione abbiamo raggiunto una rara e potente immediatezza.
Eppure, ne L’oro di Napoli tutte le sue qualità non sono utilizzate, certo per la divisione del film in episodi, per la necessità di ricorrere al tratto, all’appunto, all'annotazione, anche se sempre appropriati a scapito di una narrazione distesa ed esauriente. Se L’oro di Napoli non è un capolavoro (e non poteva esserlo per i limiti della sua impostazione) è indubbiamente un’opera riuscita ed estremamente interessante e segna un ennesimo successo di uno dei nostri maggiori registi. Ottimi tutti gli interpreti: una particolare segnalazione merita la Mangano che per la prima volta ha mostrato di sapere dal cuore e di intelligenza di un personaggio.
Mario Gallo, «L’Avanti», 24 dicembre 1954
L'oro di Napoli nasce dall'amore per la vita e da tutte le speranze
Sono racconti e ritratti che il cinema ha affidato a Totò, a De Sica, a Eduardo, a Silvana Mangano e a Sophia Loren
Amore alla vita, speranza e pazienza: questo è l’oro di Napoli, secondo Marotta, ed ora, con l’intercessione di Zavattini, secondo De Sica. Un oro a diciotto carati di umanità, ma palmato di malinconia, di rinunce, di umiliazioni. E' una Napoli sottovoce, questa che De Sica ci ha dato, rendendo senza dubbio un grande servigio a Napoli, dopo tanto incomposto o ammanierato vociare in suo nome, ed alla causa del buon gusto e dell’arte. Anche l'artista, però, può alzare la voce, e se almeno in uno dei tre racconti e dei due ritratti che compongono il film di De Sica lo avesse fatto, sarebbe forse riuscito a conciliare maggiormente gli elementi di richiamo e le esigerli degli spettatori con la validità poetica he egli voleva dare ed ha dato alla sua opera. Il primo racconto è sulla chiave del «ridi pagliaccio». Un pover’uomo che per vivere si maschera da «pazzariello» è stato costretto per dieci anni ad ospitare in casa sua un temuto «guappo». Quando sa che costui è gravemente malato di cuore, trova la forza di scacciarlo; ma la malattia non sussiste e l’uomo torna per compiere una vendetta, che dinanzi alla misera famigliola non osa più effettuare.
Totò è il «pazzariello» e non fa che una minima parte di quello che ci si potrebbe aspettare a prima vista da lui in simili panni. Il suo personaggio è visto «dietro la facciata», in una nuda e povera umanità, con un pudore doloroso nel quale questo nostro grandissimo, unico attore trova accenti di profonda bellezza. Molto sensibilmente gli è vicina Lianella Carell.[...]
Ricerca di tipi, ambientazione, sensibilità nel vedere i luoghi sono quelli del migliore De Sica. E colpiscono, come sempre nei film di questo personalissimo artista del nostro cinema. Le figure, anche soltanto accennate, dei ragazzi e dei bambini.
Vinicio Marinucci, «Momento Sera», 25 dicembre 1954
L'oro (puro) di Napoli
Ed ecco finalmente L’oro di Napoli, cioè il ritorno di Vittorio De Sica regista e insieme la riscoperta d’una citta. Vivissimo sempre, a volta a volta grottesco, buffo, percorso da brividi misteriosi di tristezza, questo film che De Sica, Marotta e Zavattini hanno tratto dai cosi belli racconti di Marotta è esattamente ciò che ci si aspettava: qualcosa di diverso. Non saprei dire in altro modo: diverso da tutto (forse Napoli non era mai esistita prima sullo schermo dopo Assunta Spina con la Bertini) e insieme familiare, come quando la misura del tuo amore per una donna è data dalla possibilità che tu hai di riguardarla a ogni minuto e di scoprire a ogni sguardo che non è la stessa donna. Mi trovo appena fuori dalla prima visione del film e tutto ciò che posso tentare di esprimere è l’emozione più immediata che ho provato, cioè una sorta di ammirazione intimidita dinanzi alla calma e staccata nobiltà del film; nobiltà e distacco che mi fanno pensare a un uomo in viaggio da tempo immemorabile nelle impervie e lontane strade dell'esperienza poetica e ora ritornato per la prima volta al paese dove è nato, dove c’è la sua gente, dove c’è il suo mondo più vero, insomma. Non che egli se ne sia mai allontanato sentimentalmente, anzi nemmeno lui stesso sa quanto quel mondo lo abbia nutrito a distanza attraverso i canali sottili della memoria e della tenerezza: ma nel frattempo egli ha imparato a conoscere una umanità più vasta, altri uomini diversi ha amato, sa che quello non è tutto il mondo anche se il suo mondo; e tanto meglio lo sa, tanto più acutamente riesce a "vedere” la sua gente, quanto più piena è la sua maturità di artista.
Proprio per questa assenza di passioni L’oro di Napoli si differisce grandemente dai tre altri maggiori film di De Sica — Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D.— e potrebbe anche deludere chi vi cercasse la medesima aspra speranza d'una vita migliore. Un amico molto attento al bene e al male che ci accade di fare agli uomini mi dice: «Ciò che mi preoccupa nel film è la vena di crudeltà che lo percorre da cima a fondo». E’ vero, lo stesso De Sica ne è consapevole. Ma io penso che tale crudeltà sia strettamente legata alla lucidità e al disinteresse di chi guarda appunto da un gradino soltanto più su le cose che ama e gli accade di scoprire i segni di una universalità là dove, chi ci vive in mezzo, vede soltanto perdonabili stravaganze o segni di una miseria da compatire. Alla parola crudeltà, per esempio, sostituite: senso della morte. Notate, appunto, come la morte sia dappertutto, in forma di familiarità o di fantasticheria, persino negli episodi gai e boccacceschi, come quello della pizzaioli E allora, quella che sembrava la maligna osservazione di una meschina commedia (il finto tentato suicidio di Stoppa) non diventa forse la scoperta di un carattere universale e magnanimo?
Peccato che questo eccellente e così nobile film, la cui qualità è pari, sebbene diversissimo, a quella della famosa trilogia detta più sopra, non possa raggiungere una uguale potenza di commozione per la particolare forma cinematografica che ha assunto. Alludo alla sua rottura in episodi. Il film a episodi può divertirmi, ma non mi travolge mai, nè mai mi commuove profondamente; in questo caso poi è proprio la maturità espressiva di De Sica che mi fa rimpiangere un racconto lungo, disteso. Questa, penso, è la ragione vera del distacco dell’autore dai suoi personaggi, di cui parlavo dianzi. E’ un fatto puramente meccanico, perchè il racconto corto costringe l’autore a semplificare la psicologia dei personaggi, a tratteggiarla in balenanti cenni, e al tempo stesso forzarla per farne qualche cosa di rappresentativo di un certo tipo d’uomo. Il limite estremo di questa tecnica è rappresentato dall'ultimo episodio. Mi potete dire che nel pernacchio di Eduardo c'è tutto un popolo o almeno l’intera, beffarda e fantasiosa risposta che un popolo di grande ingegno sa dare all’ingiustizia. Ma è proprio questo che non mi piace, questo riassumere un vasto sentimento popolare, complesso e cangiante, in un atteggiamento solo, per quanto folgorante sia. E difatti non in queste cose il film raggiunge il suo momento più alto, bensì là dove il lento progredire di un personaggio, pur nei limiti dell’episodio relativamente breve, porta a un grido improvviso che ne è la conseguenza inevitabile.
Quel grido, che nella verità apparente è soltanto una battuta detta a voce bassa, rotta dal pianto, da Silvana Mangano, non soltanto è una prova di rara bravura di regista, ma anche di grande forza morale. Suona, semplicemente. cosi: «Non si tratta cosi una persona». Ma arriva, nell’episodio di Teresa, la prostituta che il ricco commerciante ha sposato per esaudire un voto assurdo e tragico, quando la protagonista ha già protestato il suo orgoglio ferito di donna e il suo orrore d'essere sposa soltanto come strumento di vergogna e di umiliazione; arriva come la flebile rivolta di una creatura, che ha la dignità della creatura, contro l'ingiustizia. E non si può descrivere come lo dice (quella eccellente, mai vista Mangano che ne è la interprete), nè con quale commossa bravura di regista De Sica lo fa dire. E’ vero che tutti gli interpreti sono bravi, da Eduardo a una Loren dalla garrula abbagliante amoralità. Ma quella Mangano così autentica, degradata ma non insensibile alla moralità dei sentimenti veri, volgare quanto inevitabilmente lo è ”una di quelle” ma rispettosa del bene e del male quanto dovrebbe esserlo chiunque, non è dimenticabile.
Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVI, n.52, 30 dicembre 1954
L’oro di Napoli è un ottimo, piacevole, divertentissimo film. Non può reggere il confronto con altre famose opere di De Sica, con Sciuscià, Ladri di biciclette o Umberto D., perchè manca in un certo senso di omogeneità, perchè soprattutto non ha il medesimo impegno di approfondimento. Ma nonostante questi difetti — se tali li possiamo definire, tanto difficilmente stono avvertibili — L’oro di Napoli è un film pienamente riuscito. Lo spirito, lo stile di Giuseppe Marotta, uno dei più capaci e sensibili scrittori italiani, sono intatti, i personaggi non perdono, non vengono deformati nel passare dalle pagine del libro allo schermo. Raramente si può chiedere alle immagini la stessa profondità di indagine e di comprensione del processo letterario. De Sica c’è riuscito. E il merito maggiore è suo, anche senza togliere nulla agli sceneggiatori che sono lo stesso Marotta e Cesare Zavattini. [...]
De Sica ha come regista una favolosa abilità di concentrazione unita ad una non meno rara capacità di guidare e di render vivi gli attori. Non una stonatura nell'interpretazione: tutti bravi, tutti perfetti. Appunto per questa straordinaria perfezione è evidente che il merito non è tutto loro, ma anche del regista, di colui che, secondo un paradosso corrente, riesce a far recitare anche i manichini.
Raramente abbiamo visto un Totò tanto misurato, una Sophia Loren, nelle vesti del suo personaggio ideale, così efficace, un bimbo tanto bravo da superare anche quelli indimenticabili di Sciuscià. Ma sono ottimi anche Paolo Sloppa, Erno Crisa, Teresa Pica e tutti gli altri, fino all’ultima comparsa. Eduardo De Filippo e lo stesso De Sica (in veste di attore) sono poi, come sempre, addirittura insuperabili. Napoletano è Marotta, napoletani sono in gran parte gli attori, napoletano è infine lo stesso De Sica. C’è da ringraziate tutti, ma specialmente quest’ultimo, di esser riusciti a trasformare la loro stupenda città in vivente poesia filmistica.
«Gazzetta di Mantova», 30 dicembre 1954
L'Oro di Napoli è il miglior film di De Sica?
Se non fosse così vivo sarebbe già un classico
La scuola cinematografica napoletana si sta liberando dei suoi difetti o li impiega a scopi d’arte
Questa volta, con L'oro di Napoli, De Sica regista ha fatto veramente centro. E con lui Marotta e Zavattini collaboratori nella sceneggiatura del miglior film a episodi che ci abbia dato in questo suo secondo o terzo periodo la cinematografia italiana rinata dopo la guerra. Giuseppe Marotta, l’autore del libro da cui sono state tolte le diverse storie del film, ha dato, oltre ai suoi personaggi, l’avvio alla rappresentazione cinematografica, con impeto, con generosità, diremmo con robuste braccia; e poi si è seduto di slancio a poppa, le gambe in acqua; sicché l’intera navigazione è ravvivata e rallegrata da questa sua spavalda e fanciullesca positura.
Prima di tutto a ogni attore è stato assegnato il suo ruolo, il ruolo per cui era nato. Ecco infatti, nel primo episodio, Totò che fa la parte del «pazzariello» nel la cui casa un ex, molto ex-compagno di scuola divenuto guappo, si insedia con l’aria di volervi rimanere per sempre. Solo a motivo di un falso infarto cardiaco costui si lascia scacciare dal debole ospite; ma saputo da una nuova diagnosi che egli è sano ed ha un cuore di ferro, riappare come uno spettro alla famiglia di Totò durante la festa «della liberazione». Non una delle tante smorfie di Totò viene fatta qui a vuoto; e il pezzo della marcia del pazzariello per le più napoletane vie di Napoli lietamente sconvolte dai preparativi del Natale è un pezzo, non si esagera, che Charlot si farebbe rigirare al rallentatore per studiarselo meglio. [...]
In conclusione, L’oro di Napoli dimostra che la scuola napoletana è veramente una forza della cinematografia italiana ed europea. Si sta addirittura liberando dei suoi difetti, o meglio, comincia a impiegare i suoi difetti a scopi d’arte.
e. r., «L'Europeo», anno XI, n.1, 1 gennaio 1955
Il film della settimana: L'Oro di Napoli
Un mondo pittoresco, colorato e vario, quello di Marotta, ma un mondo che, nonostante le apparenze non è e non vuole mai essere folcloristico.
Per Marotta io ho sempre avuto molta simpatia fin dai giorni, abbastanza lontani, in cui da queste stesse colonne, in una rubrica sulle «Terze Pagine», recensivo i suol racconti che cominciavano ad apparire qua e là sui giornali Italiani. Più tardi, nonostante l' impegno e le necessità di una professione che mi costringono a leggere ormai quasi solo libri sul cinema, non mi sono mai negata la gioia di leggere i suol libri che a me in questo, semplice lettore, come uno che, per cinema, il dicesse: semplice pubblico - davano sempre, viva e preziosa, la scoperta di una sicura bontà umana, di un calore e di una ricchezza di onesti sentimenti come difficilmente mi capitava di trovare altrove Un mondo pittoresco colorato e vario, quello di Marotta. ma un mondo che. nonostante le apparenze, non è e non vuole mai essere folcloristico. non è e non vuole mai essere letterario: ma vive di vita vera, di pensieri concreti, di sentimenti realmente sentiti, provati e sofferti, filtrati. In genere, attraverso il velo un po' triste del ricordo, mai attraverso l’arzigogolo la sofisticheria; un mondo drammatico, doloroso, a volte addirittura angoscioso che ha la lacrima sempre nascosta sotto la beffa, il motteggio, l'ironia, ma un mondo che ai costruisce su elementi reali, su basi sicure, su una fede nella vita e nella sorte che, spesso, senti di poter definire senza altri preamboli con il nome di Fede.
E‘ ora questo mondo - e filtrato per di più da una delle sue migliori collane di racconti. L'Oro di Napoli - che Zavattini sceneggiatore e De Sica regista hanno voluto portare sullo schermo con il concorso dello stesso Marotta che ha posto la sua firma tra gli sceneggiatori; ma - e lo confessiamo con un certo dispiacere - nel film che porta lo stesso titolo della raccolta, questo mondo non lo ritroviamo se non a sprazzi, come indicazione, accenno, motivo suggerimento di temi, ma non più come spirito, clima, significati. Si dirà, e subito: cosa importa se in un film «ritroviamo» i temi e le inclinazioni di un autore che vi ha dato lo spunto? Il film è un'opera a sè; si giudichi questa: ma è appunto quello che facciamo: l'assenza di Marotta dietro i personaggi estranei, o anche semplicemente lontani, hanno snaturato il valore e l'umore degli stessi racconti e hanno spinto il film - proprio il film - su linee contradditorie.
Con delle eccezioni si intende: e la prima possiamo indicarla subito nell'episodio con cui il film apre, quello del «guappo» che è una contaminazione di più racconti di Marotta; è la storia di Don Saverio un «pazzariello» che, un giorno, si e preso in casa un ex-compagno di scuola, Don Carmine, uno del più noti «guappi» del rione; il poveretto era rimasto vedovo e l'amico, per compassione, lo aveva invitato a passare qualche giorno da lui: sua moglie e i suoi figli gli avrebbero tenuto un po’ di compagnia, ma Don Carmine da quel giorno, non aveva più lasciato la casa di Don Saverio; vi si era anzi installato con arie da padrone; tutti eran diventati i suoi servi e il pazzariello, pur rodendo il freno, non era più riuscito a liberarsi di lui; ma una sera Don Carmine si sente male; un farmacista diagnostica una grave malattia di cuore e gli ordina riposo e tranquillità; di fronte all'avversario ridotto a un cencio, Don Saverio si fa coraggio e lo butta fuori casa; l'altro però, visitato da un medico, scopre di essere in perfetta salute e toma da Don Saverio pronto a far le sue vendette: sa che gli basta un cenno per vedere i figli passare dalla sua. contro il padre, e la moglie, tremante, rivoltarsi contro il marito; le cose, invece, sono cambiate: quell'atto di forza ha riunito la famiglia e Don Carmine se la trova tutta contro, serrata e compatta. Si rassegna e se ne va per sempre nonostante l’asprezza dei caratteri, la nessuna umanità delle fisionomie e la crudeltà psicologica di ciascun personaggio. l'episodio respira tutta un'atmosfera viva e genuina, che dalla cornice una Napoli di viuzze e stradine affollate dalle feste natalizie, grigia di brutto tempo e di pioggia -con spontanea comunicazione, passa alle figure del dramma in un esatto e perfetto equilibrio narrativo. Se togli certe virgole che sono soltanto zavattiniane (ma che pure sanno fondersi all’unità dell'insieme, quale, ad esempio, tutta la pantomima iniziale al cimitero) ogni elemento, ogni dettaglio ha una sua intima logica: sono l’anima e io spirito di Marotta filtrati in personaggi di Marotta e riespressi da un regista che li ha fatti propri, divenendone davvero padre ed autore, senza snaturarli, svuotarli, renderli contraddittori o insignificanti: perché, appunto, l’opera del regista si e svolta lungo le linee poetiche che il soggettista gli aveva prestabilito e la sua necessaria ricreazione poetica ha rispettato le esigenze dialettiche e drammatiche dei temi proposti. Compie la fatica l'interpretazione davvero esemplare - una volta tanto esemplare - di Totò nelle vesti del protagonista.
[...] La realtà è che, come in quasi tutto il film, la vera protagonista di Marotta, Napoli, quella città e quel mito che sono l'anima e la giustificazione umana, drammatica e poetica di tutti i suoi personaggi, sono abbastanza assenti o, in genere, si vestono di tinte cosi crepuscolari ed esteriori che non riesci più a ritrovarli. Di De Sica, così ammiri lo stile nobile e sapiente - forse mal sapiente come qui - il dono di ricostruire ogni ambiente con una immediatezza e un calore esemplari, di Zavattlnl apprezzi la fantasia tutta vivacità e sprazzi, l'inventiva cosi straordinaria ed accesa, ma in tutto il film stenti a trovare un' anima vera, una sincerità autentica: perchè Marotta non c’è più; c'è solo una «esercitazione» sui suoi temi.
Gian Luigi Rondi, «L'Italia Letteraria», anno X, n.2, 2 gennaio 1955
Da cinque , gustosi racconti di Marotta De Sica con la collaborazione di Cesare Zavatttni ha tratto altrettanti episodi che hanno per protagonisti la vita ed il folklore di Napoli. Da ogni episodio escono abilmente tratteggiati i tipi tradizionali e caratteristici che vivono all'ombra del Vesuvio. Troviamo così il povero Saverio (Totò) alle prese col «guappo» don Carmè che si è stabilito da padrone in casa sua e per lunghi anni impone una dominazione tirannica finchè un bel giorno Saverio credutolo in fin di vita non trova la forza di cacciarlo.[...] Tutto il film è arguto e ben articolato ma l’episodio di Teresa è quello che più si distacca dagli altri per potenza ed intensità anche perché si avvale di una ottima prestazione recitativa di Silvana Mangano.
rab., «La Nuova Gazzetta di Parma», 19 gennaio 1955
Italia domanda: è di Napoli l'Oro di De Sica?
Desidererei fosse posta a celebri napoletani, scrittori, scienziati, artisti, ecc., la seguente domanda: «Secondo il suo parere l’immagine che De Sica ci dà di Napoli nel film L'oro di Napoli" corrisponde all'anima e alla vita reale di quella nostra città? E se anche si tratta di una realtà trasfigurata dall'arte, si può aìre che sia una trasfigurazione giusta, possibile o, piuttosto, un’alterazione caricaturale?». (ORIO SBISA', TRENTO)
Tra le pagliuzze d’oro che Marotta ha saputo cogliere con In sua felicità di scrittore, fra v coli e bassi, nella calda e viva umanità di Napoli e l’oro di De Sica, sento la stessa differenza che avverto spesso tra una canzone napoletana cantata con l’abbandono e l’estro di un buon posteggiatore e la stessa canzone modulata e gorgheggiata da un gran tenore melodrammatico: ci si guadagna in arte e volume di voce, ma si perde in freschezza e spontaneità. In quei cinque quadri (e mi domando anch’io ragione perché proprio alcuni di quei cinque) l’oro di Napoli, ossia l’oro di Marotta, appare cosi sublimato, sfaccettato. bulinato dalla troppo evidente compiacenza del regista, da perdere proprio la natura della sua vera provenienza, i vicoli e i bassi della vecchia Napoli. Perché, e sia detto per tutti coloro che si cimentano nella difficile arte di rappresentare cinematograficamente Napoli, Napoli non ha bisogno di esercizi di bravura, ma d'una più poetica e cordiale comprensione della sua umanità.
Amedeo Maiuri
L’oro di Napoli è un bel film, ma esce dalle pagine di un libro. In questo caso si verifica ciò che Croce pensava dei discorsi scritti: «Un bel discorso non potrà essere mai uno scritto buono e uno scritto buono non potrà essere mai un bel discorso». Il cinematografo appartiene, secondo me, al genere oratorio: è effetto, teatro, retorica, declamazione; eloquenza, in una parola. Non traduce, né lo può. né bisogna chiederglielo, ciò che ha già trovato compiuta espressione nella narrazione scritta: anche perché un’espressione compiuta è una, non può essere due. Sarebbe come mettersi a raccontare con le parole una musica o una statua. Questo spiega perché in cinematografo l’opera di letteratura risulta svisata, trasfigurata, mutata non in meglio né in peggio: in altro. Di tante tentate, non una sola versione cinematografica dei Promessi Sposi può dirsi arte. E si pensi che anni fa si realizzò, credo in parte, persino una riduzione dell'Inferno di Dante e dell’Orlando Furioso.
Ora il film tratto dal libro di Marotta si porta dentro un simile verme: non rende e non può rendere le pagine dello scrittore. Può ridurle, come fa. ad una breve catena di casi gustosi, divertenti, in chiave di farsa: taluno lasciando trasparire vaghe linee di remoti illustri modelli (l'episcopo dannunziano, il Voto digiacomiano) abilmente deformati e aggiornati dalla regia. Casi ed i episodi non necessariamente - nel film - legati alla vita e allo spirito di Napoli, a quell'ineffabile alone, a quell’ombra o entropia difficile a definirsi e ancora più difficile a realizzare, che alita in molte pagine del Marotta. L’opera cinematografica, come tantissime altre concepite per esprimere la cosiddetta anima napoletana, ne resta al di fuori e si avvale (in misura assai moderata, bisogna dirlo) del «colore locale» e cioè mette avanti l’apparente natura picaresca della città; quegli aspetti caricati, curiosi, comici, della strada e del popolo minuto, dei piccoli mestieri e ripieghi . della plebe: il materiale descrittivo offerto ai viaggiatori e ai diaristi del '7 e '800 e, nel 1873, al toscano Renato Fucini che ne compose ìa «summa» in Napoli a occhio nudo. Questi aspetti borbonici hanno alimentato. recentemente, l’estro di numerosi registi di film su Napoli: contribuendo a divulgare una immagine della città piacevole quanto spregevole, grondante di stracci, di miserie, di lacrime, di canzonette. Non è il caso dell’Oro di Napoli, un film ripeto - assai bello, composto con profondo amore napoletano da De Sica e Marotta. In esso appare evidente il desiderio di evitare, per più ambiziosi approfondimenti, il detestabile motivo coloristico. E - talvolta - le ambizioni sono appagate; assai più per il prestigio finissimo dell’attore De Sica (la partita a carte col ragazzo) che del sopportare che gli attori non la pieghino «a libretto»; un pazzariello non veste pigiami cosi sontuosi come quelli di Totò e non abita una casa relativamente agiata; e via di seguito.
Ma questi sono rilievi di nessun conto ai fini dell'arte. Anche a Di Giacomo rimproverarono la scarsa conoscenza dei regolamenti carcerari, perché nei sonetti di A San Francisco mette nello stesso «camerone» un ragazzo ladruncolo tra delinquenti adulti. Bisogna, appunto, affermare che per Napoli il «colore» è il meno; il più sono le passioni e i sentimenti eterni della città: sono i moti della sua anima segreta, i generosi impulsi e le opere e lo svolgersi della sua storia. Serrare tutto questo in una sintesi, un romanzo, un film, un ciclo di racconti, è quasi umanamente impossibile. Ma-tilde Serao che aveva tentato col suo muscoloso braccio di scrittore, il grande cuore e la fervida straricca natura, rinunciò. Passò la mano a Salvatore Di Giacomo, ma il poeta. dopo studi, preparazioni, ricerche, dette fuori un saggio storico su La prostituzione a Napoli nel secolo XVI!; il romanzo della città sprofondò nel limbo delle intenzioni. E probabilmente non si scriverà mai: perché l’«anima» di Napoli. eterna e mutevole, potrà accendere e alimentare l’estro non di un solo scrittore, ma - come già si vede - di una. due generazioni di scrittori.
Giovanni Artieri
Ho vergogna a dirlo, soprattutto per riguardo al mio amico Marotta, ma purtroppo sino a oggi non ho ancora potuto trovare il tempo per vedere L'oro di Napoli.
Remigio Paone
Vorrei rispondere all'interrogante che una realtà, quando è artisticamente trasfigurata, è sempre giusta, possibile, e mai «alterazione caricaturale». Dopo questa leggendaria scoperta, vorrei ancora aggiungere che, almeno a me personalmente, non importa un bel niente che un film, o un'opera d'arte in genere, corrisponda, con la diligenza di Giannettino, all’anima e alla vita reale di un luogo, di un paese, di una città in cui quel film o quell’opera si ambientano. L’importante, credo, è che essi siano artisticamente veri: in tal caso, corrisponderanno a qualcosa di più vasto, di meno limitato che quel luogo, quel paese, quella città. I quali, nell'opera, saranno vivi, sì, ma solo in quanto motivi ispiratori. Che è l’unico modo possibile, poi. perché la loro immagine risulti poeticamente concreta. Diversamente, contentiamoci del documentario della domenica, o della demagogia dialettale, ma non andiamo a vedere L’oro di Napoli, né De Sica. Tra l'altro, dopo aver visto questo film, più d’uno ha gridato alla diffamazione, all'insulto, e si è sentito atrocemente ferito nel vivo della sua carne municipale, e nazionale perfino. E ha gridato e protestato, ma alla maniera delle figlie del re Lear, come diceva quel tale a proposito di certi «nazionalisti». E aggiungeva : «L’amore più profondo non viene tanto facilmente alle labbra. Io sto per il silenzio di Cordelia».
Luigi Compagnone
«Tempo», anno XVII, n.228, 13 febbraio 1955
«L'Unità», 9 luglio 1955
Grolle fuse con L'Oro di Napoli
Le tre «Grolle d'oro», l’ormai tradizionale premio cinematografico istituito dalla Valle d’Aosta, sono state assegnate a Saint Vincent ad Alida Valli, come migliore attrice dell’anno, a Vittorio De Sica come migliore regista e a Marcello Mastroianni come miglior attore. È la seconda volta consecutiva che Vittorio De Sica riceve la «Grolla d’oro». L’anno scorso gli fu assegnata come miglior attore. Come è noto, ciascuna «Grolla» è di mezzo chilo d’oro. De Sica ha cosi raggiunto il chilo esatto e, per merito dell’Oro di Napoli, s’è portato a casa l’oro di Saint Vincent. Ad Alida Valli il premio è stato conferito per la sua interpretazione del film Senso, diretto da Luchino Visconti. A Marcello Mastroianni la giuria ha riconosciuto una profonda comunicativa, messa in luce in maniera particolare nei film Peccato che sia una canaglia e Giorni d’amore. Il primo ad essere premiato è stato Vittorio De Sica, che ha attraversato la sala salutato dal grido «Viva il maresciallo!». Poi è seguita Alida Valli, e la scena è divenuta patetica, poiché la brava attrice è scoppiata in lacrime al momento di ricevere la «Grolla». L’anno scorso fu Eleonora Rossi Drago a piangere, ma per l’opposto motivo: per non aver avuto il primo premio.
Tre aspetti di De Sica nel corso della serata per l’assegnazione delle «Grolle d'oro»: sguardo ansioso, pieno di speranza (foto a sinistra) pochi momenti prima dell’assegnazione del premio; sguardo acuto d’osservatore rivolto alla «Grolla» appena consegnatagli e della quale, evidentemente, sta studiando la fattura (foto al centro); sguardo soddisfatto e sorriso, dopo che l’esame della «Grolla» ha dato esito positivo (foto a destra). Le «Grolle d’oro» vengono considerate il premio «Oscar» italiano ed è quindi giustificato (foto qui sotto) l’orgoglio col quale i tre vincitori le mostrano all’obbiettivo fotografico.
«Epoca», anno VI, n.250, 17 luglio 1955
Io, Sofia e una risata torrenziale
Furia, compagno della Loren pizzaiola: «Totò sul set come uno studente burlone»
«Totò? Il computer della comicità! Sofia Loren? Perfezionista già a vent’anni!». Giacomo Furia, 83 anni e il bagaglio di 140 film alle spalle (16 al fianco del principe della risata), non ha dubbi. Per lui «L’oro di Napoli», sei episodi con un cast d’eccezione, è un pezzo di storia del cinema. «L’atmosfera di quel set è indimenticabile — esordisce Furia —. De Sica alla regia, io e la Loren a dare l'anima nei panni di due pizzaioli, nell’episodio "Pizze a credito". Certo gli spunti per sorridere non mancavano. Io, don Rosario, marito geloso e cornuto. Lei, donna Sofia, una moglie che incantava con i suoi "promemoria" ben in vista Anche se, per la verità lei aveva pochi motivi per essere divertente».
[...]
Ne «L’oro di Napoli» ce anche l’episodio «Il guappo», dove Totò veste i panni di un tragicomico «pazzariello». Che ricordi ha di quella interpretazione?
«Non ero sul set quando lui girò. La sua fu un’interpretazione cosi realistica che spiazzò gli spettatori, abituati alla maschera comica. Seppi poi, che si amareggiò con De Sica. Vittorio, per rendergli omaggio, decise di iniziare il film con il suo episodio. Totò, invece, pensò che fosse uno sgarbo. Era abituato alla rivista, dove ai grandi è riservata la passerella finale».
Lei ha recitato con il principe della risata in tante pellicole. Com'era lavorare con lui sul set?
«Lavorare? Ma recitare con Totò era puro divertimento! Perché, per far ridere il pubblico, doveva divertirsi prima lui. Immaginate uno studente in vena di scherzi e di prese in giro. Ecco, Totò sul set era cosi. Una volta fitto un aereo da turismo per lanciare volantini sugli studi De Laurentiis. Prendeva in giro Pasquale De Filippo, figlio di Scarpetta, "esperto" di scopone. Pensate che prima di arrivare in palcoscenico, diceva: "Stasera li farò ridere con le vocali: aah, eeh, iih, ooh, uuh. E puntualmente accadeva. Poteva leggere l’elenco telefonico e la gente rideva I suoi tempi comici erano unici: un vero computer della comicità! Certo adesso è facile parlare bene di Totò. Ma farlo negli anni '50 era andare controcorrente».
Sembra assurdo a raccontarlo oggi...
«Eppure fu così. Lo conferma un episodio. In quel periodo c’era un giornalista, Andrea De Pino, in difficolta economiche. Tanto che non aveva neanche la macchina per scrivere. Totò lo seppe e con la sua grande umanità cercò di aiutarlo. Gli comprò una "portatile" e gliela fece recapitare a casa. Indovinate De Pino come ricambiò tanta generosità’ Scrivendo uno degli articoli più terribili contro Totò. Gli amici del principe si arrabbiarono: "Hai visto? Questa è la riconoscenza!". Totò, invece, scoppiò ridere e rispose: "Ha fatto benissimo. Se mi avesse elogiato non l’avrei apprezzato. Chiamatelo, voglio invitarlo a cena!».
Michele Avitabile, «Corriere della Sera», 11 ottobre 2008
I documenti e le testimonianze
«Caro Giacomo, sei un collega generoso e intelligente. Ricordo come fosse oggi quando ti conobbi. Fu in occasione del film L’oro di Napoli. Soffiava un vento freddo sulla città, che sopportavo a stento perché reduce da una fastidiosissima bronchite. Così la mattina correvo sul set, dove il forno della pizzeria sempre acceso, mi dava conforto fisico, assieme alla tua proverbiale, rassicurante bonomia. Ad una principiante come me, avresti potuto incutere paura, ma il tuo buon carattere fece sì che ti accostassi con fiducia. Nonostante l’inesperienza mi rendevo conto che in quell’episodio mi stavo giocando una posta importante per l’avvenire. In quella partita, tu, caro Giacomo, mi assecondasti lealmente. Così oggi ricordo con riconoscenza ed affetto il tuo atteggiamento nei miei riguardi. La tua napoletanità, fra le più genuine del cinema e del teatro italiano, si è trovata in ottima sintonia con me, interprete orgogliosa dell’etnia partenopea».
Sophia Loren, Ginevra, 14 aprile 1995 (tratto da"Le maggiorate, il principe e l’ultimo degli onesti", Michele Avitabile, Amico Vip Edizioni, Napoli, 1996)
L'oro di Napoli e... dei napoletani
Vittorio De Sica testimonia che durante le riprese del film era sempre circondato da una numerosa folla di curiosi. A fine riprese le comparse e i proprietari delle attività commerciali della zona in cui venivano effettuate le riprese venivano risarciti rispettivamente del lavoro e dei mancati guadagni. Si presenta un uomo che, fra la folla pretese anch'esso di essere pagato.
«Ma lei che ha fatto? Non è nella lista delle comparse» gli chiesero. «Ma io so’ curiuso. Nun so’ iuto a fatica’. Voi mi avete distratto: mo' mi dovete risarcire!».
'O pazzariello
‘O Pazzariello si presentava in pubblico impugnando in una mano un bastone dorato e nell’altra, bene in vista, un fiasco di vino, o altri prodotti di prima necessità (pane, pasta) che andava pubblicizzando per conto di una nuova “Cantina” (Osteria) o di una nuova “Puteca” (negozio alimentare). In realtà il vecchio Pazzariello fu l’antesignano degli attuali imbonitori pubblicitari e si può definire un banditore, che, vestito di variopinte uniformi, per le vie della città informava il popolo dell’apertura di nuovi negozi recitando e cantando filastrocche, accompagnato da una sua piccola banda di suonatori, generalmente, un tamburino, un putipù, uno scetavajasse e un triccheballacche.
Il pazzariello: gli strumenti |
Il putipù è uno strumento musicale membranofono a frizione usato nella musica napoletana e, più in generale, nella musica popolare di gran parte del Sud Italia. Non si tratta di uno strumento a percussione, piuttosto di un tamburo a frizione. Lo strumento è composto da una membrana in pelle animale o in tela grossa, una canna (generalmente di bambù) e da una camera di risonanza (generalmente in legno, latta o terracotta). La canna viene impugnata e frizionata con un movimento verso il basso e la frizione produce il caratteristico suono dalla tonalità bassa. Spesso, per evitare di scorticarsi il palmo della mano, si utilizza un panno umido per frizionare la canna. |
Scetavajasse (in napoletano: sceta: sveglia, vaiasse: domestiche) è uno strumento della musica popolare dell'Italia meridionale, costituito nella forma più tipica da due bastoncini di legno, di cui uno liscio e l'altro dentellato, eventualmente con una serie di piattini metallici sul lato opposto alla dentellatura. Lo sfregamento del secondo bastone sul primo (usualmente tenuto con la mano sinistra da un capo e l'altro capo che poggia sulla spalla), provoca il caratteristico suono. Si accompagna generalmente ad altri strumenti quali il putipù e il triccheballacche. |
Anche chiamato "Tric-ballac" o Triaccabalacca" o "Trick Ballack" è uno strumento musicale tradizionale dell'Italia meridionale, conosciuto nell'area di Napoli, formato da tre martelletti in legno intelaiati fra loro. I tre martelletti sono paralleli fra loro, mentre i due telai in legno sono perpendicolari rispetto ai martelletti. Il telaio posto nella parte inferiore unisce i tre martelletti, il secondo telaio posto più in alto permette ai due martelletti esterni di avere un'escursione, governando al contempo il gioco massimo che gli stessi possono avere. In alcuni esemplari i martelletti hanno sonagli e campanellini, per fare in modo che ogni battito del martelletto produca un suono percussivo, simile al suono del tamburello basco |
Totò, in attesa di girare, assaggia un po’ di vino e commenta:
Dicono che un bicchiere di buon vino sostiene. Ne ho già bevuti sei, e ancora non sto in piedi.
Cesare Zavattini, all'atto di scrivere una sceneggiatura, valuta che dalla quantità dei contenuti del libro, si possa tirar fuori più di un film:
Si potevano, per esempio, ricavare dieci racconti brevissimi. Oppure si potevano dare trenta impressioni colte dalle pagine del libro. [...] Infine, altra idea affascinante, c’era da scegliere nei racconti di Marotta la Napoli che ha contatti con la morte. Questa idea è stata la prima a essere scartata, perché molteplici ragioni - di spettacolo, di produzione, ecc. - ne avrebbero impedito la realizzazione; si pensi, per esempio, che la produzione ha sconsigliato perfino la rappresentazione di un personaggio dal carattere malinconico. Esaminate dunque le numerosissime possibilità, è stata scelta la strada che ci è parsa la più ragionevole: che contemperasse cioè le esigenze del libro con quelle spettacolari e con quelle derivanti dalla partecipazione al film di attori quali Totò e la Mangano. Il film si comporrà dunque di dieci episodi, spettacolari e divertenti, ma espressivi al tempo stesso di caratteri, di ambienti, e calati nell'atmosfera di Napoli, così come è vista e vissuta nel libro.
Giuseppe Marotta, l'autore:
La impostazione cinematografica del film è per la massima parte se non del tutto lavoro di Zavattini; la mia collaborazione ha servito per le parti dialogate e per certe presumibilità di atti e di gesti dei personaggi.
Per Totò non è edificante sapere che il suo episodio, "Il guappo" viene collocato ad apertura del film. Lui, teatrante dalla nascita, sa che il primo quadro è dedicato ai personaggi meno importanti della Compagnia. Ma Vittorio De Sica trova le parole per convincerlo:
Gli spiegai che quella norma non valeva affatto per il cinema e che anzi la sua immediata apparizione sullo schermo mi serviva proprio per dare un avvio robusto al film. Si rese subito conto dell’equivoco, e riprese a lavorare con gioia.
La testimonianza di Giacomo Furia, che con Sophia Loren girò nel rione Materdei l’episodio Pizze a credito:
Un’esperienza meravigliosa. Quando c’è quell’atmosfera di cordialità, di affetto, di stima, ci saranno sempre dei buoni risultati. Quando ho sentito gridare un regista era solamente perché non sapeva manco lui quello che doveva fare. De Sica invece, con quel suo modo di fare, era come un papà per tutti, il buon papà che viene e da papà ti dà i consigli giusti... Qualche volta mentre giravamo è venuto anche Marotta, che era proprio una persona simpaticissima.
La testimonianza di Vittorio De Sica, al termine delle riprese del film:
Raramente nella mia vita mi sono sentito tanto felice, quanto nei giorni che trascorremmo a Napoli, insieme, Marotta, Zavattini ed io, per preparare il film. L’ardore e insieme la facilità con cui stabilimmo una reciproca comunicazione di idee, di emozioni, ancora mi commuovono; e più ancora il ricordare l’emiliano Zavattini, l’uomo delle nebbie padane [...] divenire miracolosamente “napoletano”, pronto a comprendere e ad amare gli aspetti più segreti della città. Quanto a Marotta, era sufficiente stargli vicino in quei giorni, e sentirlo parlare, per comprendere come soltanto lui avrebbe potuto scrivere un libro come quello. [...] Quasi tutto ciò che accadde durante la lavorazione, fu piacevole, talvolta addirittura divertente. Come la storia del “guappo”.
L’episodio del Guappo è uno dei momenti più felici e famosi nella carriera del comico, la dimostrazione definitiva delle sue possibilità d’attore drammatico. Ricorderà Vittorio De Sica:
Quando L’Oro di Napoli usci in America, il critico del ‘New York Times’ intitolò il suo articolo sul film ‘Perle di recitazione dall’Italia’ e il pazzariello’ Totò fu per tutti una rivelazione. Proprio ne 'L’Oro di Napoli' il personaggio di Totò aveva un risvolto drammatico che lui rese benissimo, perché era un attore completo, il più grande, a mio parere, che il teatro musicale e il cinema italiano abbiano mai avuto.
All’uscita in sala Marotta fa il modesto. Sull’«Europeo», dove tiene una rubrica di critica cinematografica, scrive così del film:
Dovrei magari parlarvi del film L ’oro di Napoli, su questa radura mi aspettavano chi sa quanti miei “pazienti” cinematografici, o alteri colleghi che non mi perdonano le loro tirature di 1500 copie, o semplici e gialli amici. Ma D’Artagnan aveva troppe ragioni quando urlava ad Aramis: “O fate il moschettiere o l’abate, non c’è via di mezzo”. Taccio, dunque; vi consegno per una volta (noblesse oblige) agli altri critici. Non senza dar loro una sincera informazione, però, ed eccola. Il meglio, nel film L ’oro di Napoli, è di De Sica, di Zavattini, degli interpreti. Il peggio è mio.
Il cinema ha delle regole di mercato per molti incomprensibili, talvolta l'arte viene messa da parte a discapito del denaro: i produttori Ponti e De Laurentiis, per il mercato straniero, non esitano a tagliare completamente l'episodio del 'Funeralino' e la modifica del finale di 'Teresa', che fu nuovamente girato per evitare il divieto di visione ai minori di anni 16. La delusione di Marotta, nonostante il grande successo nazionale e internazionale del film, è tangibile. Dopo tre anni si trasforma in risentimento per la cecità dei produttori. Così dichiara a "Epoca" nel 1957:
Avevamo lavorato con tanto impegno, De Sica, Zavattini ed io, ma intervennero poi De Laurentiis e Ponti, che sanno tutto del pubblico. Tagli da orbi, rifacimenti, un intero episodio soppresso. I noleggiatori americani hanno infine eliminato, presentando il film in America, un altro episodio. L’oro di Napoli arrivera in Cina? Spero che nessuno avrà la crudeltà di farmelo sapere.
E a proposito della modifica dell'episodio 'Teresa', Marotta va giù duro contro De Laurentis, dipinto quasi come una divinità malvagia. Tutta l'amarezza di Marotta per lo stravolgimento del finale di questo episodio:
L’epilogo a cui ci affezionammo era questo: la donna, uscita di impeto, riconosceva nel gelo e nel vuoto della città addormentata la sua malinconica, squallida vita. La casa [...] era un porto limaccioso, nebbioso, ma un porto. Un ancoraggio. [...] Dunque Teresa, velata di lacrime, correva zoppicando (il tacco smarrito) verso il portone. Bussava, bussava: e lentamente, su quel battere del picchiotto, il quadro s’oscurava. Nel buio, per qualche attimo, si protraevano i colpi. Avrebbero o non avrebbero aperto? Ciò, per De Sica per Zavattini per me, non era importante. Volevamo quella resa incondizionata, e basta. [...] Ma Dino De Laurentiis venne e vide; le ghiacciate, spesse lenti che blindano i suoi occhi avevano un che di minerale. E addio. Rieccoci a Napoli, a girare da capo il finale dell’episodio, come lo imponeva Dino. Si accende una luce; il portone si dischiude; entra, Teresa, entra. [...] L’empio Dino inflisse all’Oro di Napoli tagli belluini, soppresse il brano del fune-ralino (che era bellissimo) e giurò che il film non sarebbe piaciuto ad anima viva. Che brutti ricordi. Un paio di volte, mentre si girava, Dino mi ricevette e parlò con me. Severo, corrucciato, eccelso come Giove sulla nube. “Canaglia, mi hai derubato”, pareva che mi dicesse. [...] Niente, il cinema è quello che è perché gli autori del film sono i produttori: uomini di cifre, abili organizzatori, chiocce di milioni finti o veri, ma estranei tanto alla penna quanto alla macchina da presa, e che non hanno mai saputo raccontare un filo d’erba a nessuno.
Marotta fa autocritica e riporta di un possibile errore di valutazione fatto da lui e Zavattini nella stesura dei vari episodi per la realizzazione del film:
Io e Zavattini [...] commettemmo un grosso errore. Non avremmo dovuto abbandonarci alla suggestione panoramica del titolo, che ci obbligò ai capitoletti, al frammento. La penna è una cosa, l’obiettivo cinematografico un’altra. [...] Quando un personaggio accennava a delinearsi, zac, bisognava congedarlo a mazzate. Nel mio libro la figura del conte giocatore ha, rispetto al film, questa piccola differenza: che io l’ho mostrato, ora con pietà e ora con ferocia, dalla gioventù alla vecchiaia; ho detto com’era giunto a quella sua mortificante e puerile abiezione. Idem il pizzaiuolo becco, il vessato paz-i zariello e il saggio rionale, quel filosofo da tre soldi che fu abbozzato magistralmente da Eduardo De Filippo nel film. Abbozzato, ecco la parola. [...] E, insisto, la colpa fu degli sceneggiatori e del produttore. O io e Zavattini avremmo dovuto scegliere e sviluppare un solo racconto [...], o il produttore avrebbe dovuto concederci [...] tre ore e mezzo di spettacolo.
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Marottiano (banale dirlo, ma è così), con due eccezioni. Buon film, che spesso ben sposa il bozzetto al tragicomico, grazie anche ad un gruppo di attori di ottimo livello. Non marottiano (è di Zavattini) è il lacrimoso, ma dolcissimo, "Il funeralino", con colpo di scena sorprendente. Più pirandelliana che marottiana è la vicenda di Teresa: nonostante la Mangano, l’episodio stona e abbassa la media. Delizioso Furia, cornuto marito di una Loren da urlo. Grande Totò, grande De Sica, grandissimo Eduardo.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: De Filippo che dà precisi consigli tecnici sull’effettuazione dell’impeccabile pernacchio.
- Film ad episodi tratto dall'opera letteraria di Giuseppe Marotta, rappresenta una riuscita divagazione del regista De Sica nel folklore locale (partenopeo in questo caso), grazie alla collaborazione storica con veri e propri monumenti dell'arte napoletana come De Filippo e Totò. Grazie a loro la tentazione del "bozzetto locale" è evitata o ridotta al massimo e prevale come tono generale un umorismo a volte più sottile di quello che sembra. Ottimo il cast anche nei ruoli secondari (vedi la prova del grande Paolo Stoppa).
- Dall'accoppiata Marotta-De Sica (con mediazione di Zavattini) non poteva che scaturire un certo surplus di "colore locale", che però una tantum calza a pennello e corrisponde perfettamente allo scopo dell'operazione, calcolata con precisione nient'affatto partenopea. Notoriamente sfortunato al gioco, De Sica qui però sa far fruttare i suoi assi, e da Totò e Eduardo (magistrale quest'ultimo nella scientifica descrizione di come eseguire un pernacchio impeccabile) è ricambiato con due prestazioni eccelse, da non perdere.
- Sguardo teneramente umoristico sullo spirito partenopeo. Notevoli i tre episodi più brevi e bozzettistici: il rarefatto "Funeralino", la partita di carte dei "Giocatori" (il bambino è strepitoso) e il grande Eduardo "Professore" che dispensa consigli. Più ordinarie nell'ambizione di vere e proprie narrazioni (ma poco grintose) le storie paradossali de "Il guappo", "Pizze a credito" e "Teresa": i primi due buoni per lo sguardo folk-antropologico della Napoli popolare dei bassi, e il terzo un po' troppo diluito nell'ambizione drammatica.
- Notevole film di De Sica nonostante i fisiologici alti e bassi tipici dei film ad episodi, riscattati però da alti i cui decibel risuonano ben più di qualche stecca, tra l'altro nemmeno rovinosa. Semplicemente indimenticabile "Il funeralino" dove tutto è perfetto; assolutamente spassosi "I giocatori" dove il regista si prende in giro e incarna perfettamente il giocatore che non sa perdere e "Professore" in cui De Filippo e le sue lezioni sono memorabili. Bello anche "Il guappo". Dimenticabili, ma non certo brutti, "Pizze a credito" (comunque diventato famoso) e "Teresa" forse un po' lunghetto.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Tutto il funeralino; La pernacchia di De Filippo e l'impagabile sfuriata di De Sica che si lamenta della fortuna del suo avversario.
- Quasi perfetti gli episodi brevi: "Funeralino" (espunto dall'edizione cinematografica perché ritenuto troppo deprimente) ed il geniale "I giocatori" con De Sica deliziosamente auto-ironico. Coloriti e gustosi gli episodi con Eduardo che impartisce lezioni di pernacchiamento, Totò pover'uomo che trova il coraggio di ribellarsi e la straripante Loren che mette le corna all'ingenuo Furia. Meno convincente l'ultimo con Mangano per eccesso di ambizioni melodrammatiche, ma il film nel complesso risulta una bella trasposizione dello spirito marottiano.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: De Sica che si rivolge al bambino come se avesse a che fare con un uomo adulto.
- Mi sembrerebbe più appropriato "Loro, di Napoli" come titolo. Pur facendo un ritratto piuttosto realistico (cinematograficamente parlando) di una Napoli che molto lentamente cambia nel tempo, di oro se ne vede poco. Forse si vedono più caratteristiche, costumi, abitudini, modo di rapportarsi assieme e tanti altri sentimenti locali, tutta merce preziosa che ha reso, nel bene e nel male, così famosa la città, una città che solo vivendola si può capire e amare. Il film è comunque prezioso e si avvale di un cast che brilla, questo sì, come l'oro.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il funeralino.
- A episodi, ognuno (escluso "Il funeralino") con un grande attore/attrice italiano/italiana di allora. L'insieme funziona, il filo rosso è lo spirito di Napoli (quasi un personaggio invisibile); è normale, per prodotti del genere, che alcuni episodi siano migliori di altri, ma va bene così. Contiene sequenze memorabili, estro, interpretazioni di valore, filosofia popolare dolce-amara, fatalità, umorismo genuino, semplicità narrativa. Non mi sembra poco...
- Film a episodi diretto da Vittorio De Sica in cui si elogia la napoletanità. L'episodio con Totó è passabile ma niente di eccezionale (stesso dicasi per l'angosciante "Funeralino"). Debolucci anche quelli con Loren-Furia (salvato da un ottimo Stoppa e dalle procacità della Loren) e con la Mangano (brava ma poco aiutata dal copione). Godibili gli episodi di De Sica (divertente la sua partita a carte col bimbo) e di De Filippo, che col suo "pernacchio" è semplicemente memorabile.
- Film a episodi - tratto da una raccolta letteraria di Marotta - nel quale De Sica ci mostra il lato folcloristico di una Napoli ormai quasi del tutto scomparsa, ma che vive nell'immaginario collettivo. Non tutto scorre limpidamente, ma gli episodi con De Filippo e, soprattutto, Totò, sono dei piccoli capolavori. Esempio di cinema in cui il vero protagonista indiscusso è la location in cui il film è girato, una città tentacolare, calda e amara al tempo giusto, nella quale gli attori che vi recitano non fanno altro che sublimarla.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Totò si ribella al guappo.
- Tratto da un libro di racconti di Giuseppe Marotta, sceneggiato da Zavattini, questo film diretto da De Sica puzza di calcolo commerciale. Enciclopedia pittoresca di personaggi, luoghi, costumi e usanze della cultura partenopea, rilucente fenomenologia visiva di un millenario patrimonio di conoscenza e saggezza, tecnicamente mirabile ed esemplarmente interpretato e diretto, questo film rimane un magnifico esercizio di stile ma solo raramente si eleva oltre il bozzetto deamicisiano verso una visione più approfondita e autentica dell’umana realtà.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il "Pazzariello" Totò ci mostra la faccia triste e dolorosa della sua maschera; "Il funeralino" è un nobilissimo e poetico pezzo di cinema.
- Questo film racconta "la vera Napoli", che oggi (forse) non esiste più. Il Maestro De Sica dirige 6 racconti da non perdere. Il Principe Totò dimostra di essere un ottimo attore drammatico (è la più straordinaria interpretazione di tutta la sua carriera cinematografica). Bravina Sophia Loren e applausi infiniti a Paolo Stoppa, davvero degno del Maestro. Ottima la Silvana Mangano nei panni di una prostituta. Commovente e amaro "Il funeralino". Memorabile e attuale la pernacchia d''o professore Eduardo. Un film che non invecchia mai.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: L'episodio con Totò "Il guappo" e la pernacchia di Eduardo.
- Grandioso affresco di una Napoli che fu e che forse è ancora ma non più visibile. De Sica nella più grande tradizione del neorealismo affresca una Napoli non oleografica ma vera, con sei episodi tratti dal libro di Marotta, avvalendosi della sceneggiatura di Zavattini. Ogni episodio è una chicca con grandi interpreti: la bella pizzaiola Sophia, Totò che si ribella a un guappo, Eduardo e la filosofia racchiusa in una pernacchio, De Sica e il vizio del gioco, la tenebrosa Mangano e l'organizzazione di una madre del funeralino di un figlio.
- De Sica inizia a darsi all'industria e lo fa, intanto, sottovoce. "L'oro di Napoli" conserva umori e anche pratiche cinematografiche attinenti al neorealismo, specialmente a quello declinato da Zavattini, anche qui sceneggiatore. Ma stavolta ci sono le star, c'è il folklore locale e c'è una scaltra impaginazione a episodi per tutti i gusti. Dalla garbata commedia al dramma (molto brava la Mangano in un episodio dolorosissimo). Il migliore, però, è l'asciuttissimo "Funeralino", uno degli ultimi frutti di un neorealismo già in decadimento.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Per ridere, Stoppa e la sua recita per la morte della moglie. Per riflettere, tutto l'episodio del "Funeralino".
- Film a episodi, alcuni pregevolissimi sia per soggetto (novelle di Marotta) che per regia (De Sica) e interpretazione (Eduardo e Totò su tutti, una grande Sophia Loren). Ottimi comprimari (Paolo Stoppa, Giacomo Furia, Tina Pica). Un classico da vedere e rivedere...• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: 'O pernacchio; Eduardo il dispensatore di consigli.
Per il ruolo di "don Carmine" il regista Vittorio De Sica sceglie un vero guappo del rione Sanità ma dopo un provino incerto decide di scartarlo: la situazione si fa drammatica, un vero guappo non può accettare un rifiuto e De Sica si vide costretto ad accettarlo nella parte.
La censura
Per incredibile che possa sembrare, anche L’Oro di Napoli ha problemi con la censura. Al ministero pretendono di cancellare l’esclamazione “cornuto!' dall’episodio Teresa, e di concludere in maniera più conciliante lo stesso episodio (e De Sica, pur di far togliere il divieto ai minori di 16 anni, si risolve a rigirarne il finale gettando Marotta nello sconforto)Alberto Anile
Le incongruenze
- Nel tragicomico episodio del conte (De Sica stesso) interdetto al gioco che obbliga ogni giorno il figlio del portiere di casa a interminabili partite a scopa, il dorso delle carte da gioco cambia disegno.
- Nel primo episodio, quello con Totò che fa il "pazzariello", il camorrista Carmine Javarone viene cacciato di casa. Mentre girovaga fra i vicoli credendo di essere gravemente malato di cuore, i suoi amici si avvicinano con un insigne cardiologo, chiedendo a Javarone se vuole farsi visitare a casa propria. "No," risponde lui, "quello che dobbiamo fare, facciamolo qua." E cioè per la strada, perché è lì che il gruppo si trova. Ma nelle scene successive don Carmine si fa visitare in una camera da letto.
- Nell'episodio interpretato dalla Loren, nella scena in cui prega in latino attorniata da alcuni uomini intervenuti a consolare il vedovo, l'attrice si copre il decolletè senza abbottonarsi ma se notiamo la sequenza successiva, la maglia a bottoni della Loren è completamente chiusa!
- Nell'episodio della Loren, si vede il monaco che riceve una offerta calata col paniere da quella che si presuppone una finestra, ma quando il monaco si allontana e nella scena successiva, con un giovanissimo Giacomo Rondinella, del giovane sul carretto, si vede che in quel punto c'è solo un alto muro e nessuna finestra o balcone. Visto nel film e verificato dal vivo, poichè conosco bene il posto dove è stata girata la scena.
- Paolo Stoppa, nell'episodio della Loren, interpreta un neo-vedovo che si dispera per la morte della moglie. In una scena si getta di testa contro un specchio che va in frantumi, ma i vetri si rompono un attimo prima dell'impatto..
- Nell'episodio di Teresa (splendidamente interpretato da Silvana Mangano) nella scena in cui lei si prepara frettolosamente la valigia, si veste in maniera disordinata con la camicia aperta e il bavero della giacca rivolto all'interno. Nell'inquadratura successiva (che copre lo stacco quando lei esce dalla porta) è perfettamente vestita, in maniera ordinata con il bavero della giacca apposto. E' ovvio che le due scene sono state girate in due momenti diversi.
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Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo | |||
La piazza dove Totò, di ritorno dal cimitero, arriva è Piazza Sanità, Rione Sanità, Napoli | |||
La piazza nella quale Don Saverio Petrillo (Totò), alla vigilia di Natale fa la parte del “Pazzariello” pronunciando la famosa frase “attenzione.., battagliò” è sempre Piazza della Sanità nel rione Sanità, a Napoli, naturalmente. Siamo nell'angolo della piazza che dà verso via San Severo Capodimonte. | |||
Da quest’altra inquadratura della piazza, dove vediamo la gente divertita dallo spettacolo, si possono riconoscere la chiesa di Santa Maria della Sanità e l’omonimo ponte (corso Amedeo di Savoia) | |||
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Episodio "I giocatori" - Il Conte Prospero B. (Vittorio De Sica) abita in Piazza del Gesù Nuovo, Napoli. Ho scelto l'inquadratura larga, che mostra il portone del palazzo da cui esce De Sica, i due negozi ed il portone del liceo sulla destra. Il palazzo era in "Napoli violenta" la sede del Commissariato. | |||
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Qui il Conte Prospero (De Sica), essendo un incallito giocatore ed avendo chiesto invano un prestito al suo cameriere, costringe il figlio del portiere, Gennarino (Bilancioni), ad una partita a scopa all'interno di una casa nel palazzo stesso, presumibilmente l'abitazione del portiere stesso. Il Conte perderà. Si nota portiere e le scale del palazzo. | |||
Episodio "Teresa" - Il bar in galleria dove Teresa (Silvana Mangano) incontra il suo futuro marito (Erno Crisa) è in Galleria Umberto I, Napoli. | |||
Episodio "Teresa" - La chiesa dove Teresa (Silvana Mangano) ed Erno Crisa si sposano è la Basilica di San Francesco di Paola in Piazza Plebiscito, Napoli | |||
Episodio "Il Guappo" - LA CASA DI TOTO' E I SUOI DINTORNI - Sono un po' le location che si vedono nell'episodio e che ci mostrano la casa di Totò e ciò che gli si muove attorno sulla Salita dei Cinesi, Rione Sanità, Napoli. Qui vediamo Totò dirigersi verso casa e percorrere la Salita dei Cinesi. L'inquadratura non è purtroppo la stessa, ma si può comunque notare il portone cui passa di fianco Totò. | |||
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LA CASA DI TOTO' - La casa di Totò, dal quale lo vediamo uscire, è in Via Guido Amedeo Vitale, Rione Sanità, Napoli | |||
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IL BARBIERE - Il barbiere dove si trova Don Carmine (Pasquale Cennamo) è in Salita dei Cinesi, Rione Sanità, Napoli | |||
Il panificio e altro ancora li trovate nella tavola qui sopra, nella quale si mostra come sono posizionate le location nella zona. | |||
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Episodio "Teresa" - Il palazzo dove vivono Crisa e la Mangano dà su Piazza Carità ed è situato fra Via Morgantini e Via Caravita Tommaso. | |||
Questa una mappa che chiarisce un po' la posizione dei palazzi (col pallino rosso e la visuale dell'inquadratura è segnata la casa della Mangano e Crisa) | |||
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Ecco l'ingresso del palazzo, visto anche oggi nelle foto. La finestra della Mangano è quella che vedete illuminata e, nella foto di oggi, cerchiata di rosso. | |||
Episodio "Pizze a credito" - La pizzeria dell'episodio di Sofia Loren e Giacomo Furia si trova in Salita Porteria San Raffaele, Rione Materdei a Napoli. E' utile evidenziare che il supporto per le riprese dell’episodio fu fornito dalla Pizzeria Starita sempre a Materdei. | |||
Vista da un'altra inquadratura. | |||
Episodio "Pizze a credito" - Il terrazzo da cui Paolo Stoppa tenta di buttarsi "disperato" per la morte della moglie ("...Clara... chella mureva e io mangiav'a pizza") è sito in Via Sant'Agostino degli Scalzi, Rione Materdei a Napoli. | |||
L'inquadratura dal basso. | |||
Episodio "Il professore" - Il professore Don Ersilio Miccio (Eduardo De Filippo) vende saggezza e insegna agli abitanti del quartiere come liberarsi dell'invadenza di un nobile attraverso l'uso del "pernacchio" (da non confondersi con la volgare pernacchia). L'episodio è ambientato in Vico purgatorio ad Arco, nel Centro Storico di Napoli. La porta diventata finestra (sotto il balcone a sinistra) è l'unico particolare che non corrisponde all'originario. Ma che in quelle zone di Napoli un balcone diventi finestra (o viceversa) è cosa abbastanza frequente anche in considerazione che sono passati molti anni. Comunque si nota che l'intonaco sotto la finestra non è quello originario del palazzo. | |||
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Qui (siamo sempre in Vico Purgatorio ad Arco) il duca Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornari rientra nel portone del suo palazzo per uscire con la sua auto, dopo aver fatto sgombrare la strada dagli oggetti esposti in strada dagli abitanti del quartiere. | |||
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La scena finale episodio è invece girata nell'adiacente Vico San Pellegrino. Don Ersilio (Eduardo De Filippo) dopo che di lì è passata l'auto con il duca, si volta per ascoltare il pernacchio che gli abitanti del quartiere fanno al passaggio dell'auto. 40°51'06.17'' N 14°15' 18.50'' E | |||
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Episodio "Il professore" - Persone del posto ricordano perfettamente i fatti. Anche la cappella del muro dove Tina Pica accende le luci non c'è più. Sono passati molti anni in effetti e sono state apportate molte modifiche esterne ai "bassi" e balconi come tettoie, verande e installazione condizionatori esterni. Ecco un'altra angolazione dove si vede l'angolo dov'era la cappella a muro. | |||
Episodio "Pizze a Credito" - Il Palazzo del tradimento: Sofia esce dal palazzo, poi passa davanti alla chiesa, si fa il segno della croce e ritorna alla pizzeria da suo marito Rosario. Siamo in via Materdei, a Napoli. | |||
Episodio “Pizze a credito” - La chiesa dove si reca il pizzaiolo Rosario (Giacomo Furia) per chiedere al parroco suo cliente se per caso il prezioso anello perduto dalla moglie Sofia (Sophia Loren) si trovasse impastato nella pizza che il religioso ha da poco consumato è, come noto, la Chiesa di Santa Maria della Verità già Chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi, in Vico Lungo Sant’Agostino degli Scalzi, Napoli | |||
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Episodio "Il funeralino" - La salita dove passa il corteo funebre organizzato dalla madre è alla Cupa Caiafa a Napoli. Se noi infatti capiamo che il fotogramma del film inquadra lo stesso punto visibile in Il giudizio universale (1961) (fotogramma centrale), capiremo facilmente che il punto inquadrato è proprio quello che si vede nella foto di oggi. | |||
Episodio "Teresa" - La casa di tolleranza che Teresa (Silvana Mangano) lascia per andare a sposarsi è in Vico Figurelle a Montecalvario all'altezza del Largo Barracche, a Napoli. | |||
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Episodio "Funeralino" - Il terrazzo del palazzo dove ha inizio il funeralino è in vico Lammatari, al Rione Sanità, Napoli. La scena si apre con una panoramica, con cui è possibile fare un confronto. L'immagine attuale è divisa in due altrimenti sarebbe venuta troppo piccola Il punto rosso qui sopra indica il terrazzo, che vediamo in questo fotogramma (la scena non ha stacchi) Episodio "Il funeralino" - Il vicolo da cui il corteo funebre sbuca nella "via grande" come aveva chiesto la madre al cocchiere è, come già segnalato in Cineprospettive, vico Antonio Serra a Napoli. |
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Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- Alberto Anile, "Teresa era una di quelle". Tagli, censure e reprimende a 'L'Oro di Napoli’, “Ciemme” n. 160, 2009, pp. 30-37.
- Enrico Emanuelli, «L'Europeo», anno III, n.34, 24 agosto 1947
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- "Vita di Eduardo" - (Maurizio Giammusso) - Ed. Elleu, 2004
- Cinema, 31 marzo 1954 - Vittorio de Sica cerca l'Oro di Napoli
- Cinema Nuovo, 15 luglio 1954 - L'oro e la banca di Napoli
- Cinema Nuovo, 1 aprile 1954 - Carnet di Napoli con oro o senza
- Tempo, 25 marzo 1954 - De Sica a Napoli cerca l'oro di Marotta
- «La Settimana Incom Illustrata», anno VII, n.23, 5 giugno 1954
- «Tempo», anno XVII, n.228, 13 febbraio 1955
- «Epoca», anno VI, n.250, 17 luglio 1955
- Gian Luigi Rondi, «L'Italia Letteraria», anno X, n.2, 2 gennaio 1955
- "Le maggiorate, il principe e l’ultimo degli onesti", Michele Avitabile, Amico Vip Edizioni, Napoli, 1996
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Guido Aristarco, «Cinema», 1954
- Giuseppe Marotta, 1954
- Enrico Emanuelli, «L'Europeo», anno III, n.34, 24 agosto 1947
- «La Gazzetta di Mantova», 7 marzo 1948 - Giuseppe Marotta e l'Oro di Napoli
- «L'Unità», 28 febbraio 1954
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- E.C. (Ermanno Contini), «Il Messaggero», 24 dicembre 1954
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- «Corriere d'Informazione», 24 dicembre 1954
- G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 24 dicembre 1954
- Lorenzo Quaglietti, «L'Unità», 24 dicembre 1954
- Mario Gallo, «L’Avanti», 24 dicembre 1954
- Vinicio Marinucci, «Momento Sera», 25 dicembre 1954
- Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVI, n.52, 30 dicembre 1954
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