La maschera di Totò

Totò Franca

Il 16 aprile scorso, alle ore 3,30 del mattino, si spegneva a Roma l’attore Antonio De Curtis, in arte Totò, l’attore e insieme il personaggio comico più eccezionale nella storia del cinema italiano. Pensiamo che questo giudizio, rimbalzato nell'ultimo mese di giornale in giornale, di rivista in rotocalco, possa compendiare efficacemente l’apporto insostituibile di Totò allo spettacolo italiano e la stima da cui egli era circondato. Le ultime sanzioni ufficiali di tale stima erano recenti: il Nastro d’argento dei giornalisti italiani e il Globo d’oro dei giornalisti stranieri a Totò quale migliore attore dell’anno per la sua interpretazione del pasoliniano Uccellacci e uccellini, l’unico film forse nel quale, al termine di una lunga carriera, gli umori metafisici di un attore e la carica grottesca di un personaggio si erano saldati in una lezione non effimera.

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Non sarà facile, al di là delle lodi sincere ma generiche tributate a Totò nello scoramento della sua scomparsa, valutare con la dovuta attenzione e profondità le caratteristiche originali di una maschera e di un talento inconsueti. Noi preferiamo pubblicare qui alcune note inedite sul personaggio Totò che avevamo stilato un paio di anni fa, prima di Uccellacci e uccellini, in vista di un più ampio lavoro sul cinema comico italiano, sperando che esse rappresentino un modesto e provvisorio contributo allo studio di questo nostro attore.

«Totò è l’unica maschera irripetibile del nostro cinema comico: Totò non si inventa, lo si imita, lo si utilizza nelle maniere più diverse, e quasi sempre a livello minimo, facendolo agire a vuoto, per un paio d’ore, in mezzo a uno spunto parodistico più o meno improvvisato, fra i brandelli squinternati di una vicenda scritta e realizzata in un paio di settimane.

Perché la grande carica comica di Totò ha finito per «viziare» quanti gli stanno attorno: sceneggiatori, produttori, registi. E’ un fatto risaputo: Totò basta a tutto. Così Totò ha perso le sue possibilità migliori, è divenuto un fenomeno che recita «a braccia» inventandosi il copione e trasformando in cinema tutto quello che tocca. I cento film della sua carriera sono la prova di questa massima trascuratezza, la prova di uno sfruttamento intensivo il quale, da un certo punto di vista, è il miglior complimento che si possa fare a Totò.

Le due facce di un personaggio

Parlare di Totò non è facile, è come parlare di Pulcinella, il personaggio più famoso del folklore napoletano, italiano, mondiale, e insieme il più insondabile, il più sconcertante per la difficoltà di coglierne il fondo autentico, oltre il piagnisteo, di coglierlo dietro quel costante equivoco, quello sberleffo permanente, che è la sua faccia.

Quando è sincero Pulcinella, e quando finge? Quando quell’eterno e sconclusionato' parlare delle sue «novantanove disgrazie» ha una rispondenza nella realtà e quando è puro gioco? Si diverte a piangere o piange dal dolore di dover ridere? Se non avesse quella maschera dispettosa e beffarda che gli copre la faccia, forse potremmo capir tutto. Ma chi ha mai visto Pulcinella senza maschera?
Anche Totò porta in giro la sua faccia come una maschera: la sua faccia tagliata nel legno, assurda, esasperata da una mimica precisa e sempre uguale. Dobbiamo credergli? Ma lui ci crede a se stesso? Gioca o sta serio? E quando si arrabbia, e strilla, e ripete sempre le stesse parole, sino a gridarle agitandosi un dito davanti al naso, vuole spaventare qualcuno o semplicemente spaventare se stesso?

In teatro Totò ha fatto di tutto: la macchietta sui piccoli palcoscenici, l’avanspettacolo, la rivista. Anche allora le sue «scenette» non avevano dimensioni: dai cinque minuti originari, la sera del debutto, potevano arrivare più tardi, dopo un mese di repliche, dopo due, sino a mezz’ora, a quaranta minuti: Totò ci si divertiva dentro, a recitare una scenetta nella scenetta, a inventare, a iterare, a esilarare il pubblico con un gioco mafi1 canico, con una mimica a vuoto che priescindeva dal pretesto del copione e lui sformava ogni «scenetta» in una sorta di svincolata e aperta esibizione personale.

Totò, attore cinematografico, non ha avuto — come si diceva — grandi occasioni, ha continuato a far vivere e ad ampliare il suo repertorio personale, filmi dopo film, riuscendo a interpretare, sempre con arte sopraffina, le ipotetiche reazioni di un Pulcinella di fronte alle il situazioni più diverse, inventando battute gesti, sberleffi, per sviluppare e approfondire la sua comicità, quell'enorme e insondabile paradosso che è se stesso.

Dietro questo paradosso si celano due facce contrarie, che sarà bene mettere in luce, due facce che Totò, come i De Filippo, come Taranto, eredita dal patrimonio popolare napoletano; da un lato l’adesione minuta a un tipo di realtà, la ricerca di una certa identificazione psicologica, la prodigiosa capacità, se non di sentire, almeno di far finta di sentire, di fare il verso, da fuori o da dentro, ai sentimenti, alle emozioni, agli stati d’animo, di unire in sé imitazione e retorica, adesione e finzione, autenticità e ipocrisia.

Non poteva essere «un comico serio»

Quando Totò approfondisce il supporto umano che sostiene il suo personaggio, si raccoglie nel polo dell'intimismo e dell’adesione, ci dona quei momenti di sincerità — vera o apparente? — che si esprimono in alcune sue interpretazioni: nasce il vecchio artista ridotto alla fame di Yvonne la nuit (regia G. Amato, 1949), nasce il maestro nell’arte dello scasso di I soliti ignoti (regia M. Monicelli, 1958), nasce soprattutto il ladruncolo triste e senza scampo di Guardie e ladri (regia Monicelli e Steno, 1951) che è, sotto tale aspetto, la sua cosa migliore.

Ma questa è soltanto una faccia, la mezza verità di Totò: chi ha pensato che fosse possibile piegare completamente Totò in questa direzione, farne una specie di «comico serio» del cinema italiano, ha sbagliato: si pensi al Rossellini di Dov’è la libertà? (1952). In virtù della sua seconda faccia — ed è questa compassibilità che ancora una volta ci fa pensare a Pulcinella — Totò è un burattino, ha l’abilità prodigiosa di fare il verso non tanto o non soltanto alle persone, ma ai singoli gesti, o addirittura alle sensazioni alle cose; di parodiare la natura fisica attraverso un balletto che non è tanto, una stilizzazione mimica quanto una vera e propria invenzione di tipo meccanico.

Totò è Pinocchio (uno dei suoi più celebri «numeri di varietà» riproposto in Totò a colori di Steno, 1952), assurdo burattino dalle giunture dinoccolate e dal collo svitato che attraversa il palcoscenico a suon di musica, è Tarzan (Totò Tarzan di Mario Mattoli, 1950) che salta scimmiescamente da un albero all’altro grattandosi le ascelle, è uno «spettacolo pirotecnico» che egli si sente esplodere dentro e che descrive come può, strabuzzando gli occhi, alzando le spalle, agitando e torcendo le mani; è il capobanda il quale, più che dirigere, inventa suoni musicali che tenta di descrivere ai suoi orchestrali.

Per capire completamente Totò, e quel Pulcinella che è dietro di lui, bisogna rifarsi a un personaggio tipico del folklore e della vita popolare napoletana: quella figura del «pazzariello» che Totò ha fatto brevemente rivivere nell’Oro di Napoli di De Sica (1954).

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Il cerimoniale del «pazzariello»

’O pazzariello è insieme un imbonitore, un mazziere, un suonatore ambulante, è una specie di declamatore ufficiale che va in giro illustrando alla gente quelli che oggi chiameremmo dei «messaggi pubblicitari». Suo compito è soprattutto attirare l’attenzione della gente («Attenziooò! Battagliooò») per lanciare il suo «messaggio» e cantare le lodi del «padrooò», di questo o di quel negoziante che ha qualcosa da vendere. Appunto per questo il «messaggio» viene a incastonarsi in una sorta di cerimoniale che, per certi aspetti, è sempre analogo, per altri deve inventarsi ogni volta al fine di conquistare, vivace e nuova, l’attenzione generale. Così la danza del pazzariello, le scansioni ritmiche, i balletti con cui intervalla i suoi messaggi costituiscono una specie di «invenzione» che con il messaggio non ha nulla a che vedere, un gioco meccanico, da marionetta. Questo tipo di rapporto fra «spettacolo» e «messaggio» — notiamolo per inciso — è anche alla base di certe forme moderne di pubblicità (pensiamo ai «Caroselli»).

La comicità di Totò è un po’ quella del «pazzariello»: c’è sempre in essa una grande percentuale di eccedenza mimica, meccanica, danzata, rispetto alla base realistica, alla caricatura, al «messaggio» in cui si esprime e traduce la sostanza, o meglio il supporto umano, del personaggio. Un’eccedenza che di volta in volta diventa sberleffo inventato, bisticcio di parole, dinoccolamento del corpo, ira simulata ecc.

Ecco perché Totò non potrà mai ridursi a «personaggio comico», in lui continua a vivere l’equivoco di Pulcinella, il far finta di prendersi sul serio e insieme il divertirsi a portarsi in giro. La capacità di imitare le cose, gli oggetti, e farli vivere nel gioco meccanico si unisce all’imitazione realistica, alla parodia e alla caricatura psicologica: ne risulta un insieme inscindibile dove Totò, come Pulcinella, è sempre eccessivo, s’inventa sempre, trasforma ogni luogo comune, ogni banalissimo bisticcio di parole, in una piccola creazione che sembra svilupparsi per virtù propria nel giro breve di qualche minuto.

Per questo forse, e nonostante tutto, i film che hanno lasciato vivere nella sua forma più piena il «fenomeno Totò» non sono i più belli, i più curati, i migliori, ma i più logori, i più approssimati e improvvisati. Solo allora, abbandonato da tutti, Totò è costretto ad andare a ruota libera e riesce a stupirci ancor oggi — ormai anziano e visibilmente stanco — con il suo talento di commediante in cui il burattino ha quasi sempre la meglio sull’uomo, in cui Pulcinella non domanda altro che di reagire a modo suo, a sberleffi, contro le novantanove disgrazie che gli si accaniscono contro.

E dunque non è casuale il fatto che Totò non abbia quasi mai incontrato grandi occasioni e che, in mano a registi sensibili, non abbia fornito le sue prove migliori: forse la colpa di tutto questo è anche un poco di Totò.

La sua misura era l’eccesso

Questo è Totò, un comico sentimentale, un comico umano che, per fortuna o per disgrazia, ha incontrato Pulcinella: l’Italia e il suo cinema comico hanno perduto forse uno Charlot ma hanno certo guadagnato un «fenomeno» irrepetibile, un mastodontico pasticcio di verità e finzione, di autenticità e d’impostura, di superficialità e di estro, quale raramente è dato incontrare.

Un giorno, forse, sarà possibile considerare i tanti, troppi film di Totò come le dozzinali scorie da cui emerge la figura di un artista funambolico, disancorato dalle situazioni, concluso nell'invenzione di un effetto comico completo, totale, assoluto. Non si può chiedere a Totò di avere misura: come per Pulcinella, la sua misura è l’eccesso, la sua faccia è una maschera».

Qui terminano i nostri appunti. Dopo di allora c’è stata la partecipazione di Totò alla Mandragola di Lattuada, c’è stata soprattutto l’interpretazione di Uccellacci e uccellini. Il «cinema serio» si è veramente accorto di Totò, quando le «platee» e i «produttori facili» avevano ormai abbandonato il vecchio comico napoletano per il duo Franchi-Ingrassia. E si è accorto di Totò non ripetendo inopportune operazioni estraniami, come quella tentata a suo tempo da Ros-sellini, ma giocandolo nella sua carta migliore, caricando la sua disponibilità comica polivalente, la sua carica grottesca di significati sempre nuovi e diversi. In fondo solo Totò, sempre vero perché sempre commediante, sempre attore di se stesso, gruccia delle proprie maschere, poteva rendere emblematiche e ostensibili, chiare, palesi, le caratteristiche opposte di cui Pasolini aveva caricato il suo personaggio, diremmo di più, poteva permettere il saldarsi in un unico autentico personaggio di tante e tali contraddizioni che forse, in sede di sceneggiatura o anche più oltre, erano state concepite come caratterizzanti personaggi diversi. Totò è riuscito a conservare una unità dialettica, riconquistata ogni volta, al «poveruomo» che è anche un «frate» votato all’immane missione di convertire dei «pennuti» tanto diversi fra loro, che è anche uno sfruttatore meschino di chi è più debole di lui, che è anche un concentrato di saggezza e di luoghi comuni, di buonsenso e di cinismo spicciolo. Tutti questi personaggi sono divenuti un unico personaggio o, meglio ancora, una serie di maschere esemplari offerte da un’umanità attenta e profonda che viveva oltre la maschera.

Leandro Castellani, «Rivista del Cinematografo», n.6, giugno 1967


Il Piccolo
Leandro Castellani, «Rivista del Cinematografo», n.6, giugno 1967