Profitti e perdite di Eduardo
Il potere di attrarre il pubblico mediante la presa diretta sulla realtà costituisce la ragione d’essere di Eduardo, la sua linfa vitale. Quando egli evade alla ricerca di una convenzione quale la Maschera, l’interesse della sua arte portatrice di vita si perde.
Le commedie e le interpretazioni che la mia generazione, come quelle susseguenti non poterono conoscere, Eduardo ci fa il dono di ripresentarcele. A noi risultano fresche e attuali. I decenni sono passati su di esse senza lasciar tracce, o quasi, e a parte la luce che gettano sull’arte del nostro attore-autore, oggi senz’altro la figura eminente del nostro teatro drammatico, è allo spettatore che porgono elementi di sicuro e chiaro intendimento, di schietta vitalità teatrale.
La fortuna con l’effe maiuscola, commedia di Curcio e di Eduardo presentata nel 1940, si pone tra le più felici di queste riprese, e gode, inspiegabilmente di una sua invidiabile carica interna. Non sarebbe davvero difficile constatare in essa manchevolezza di struttura e convenzionalità sia di situazioni che di caratteri. Abbiamo una tipica farsa all’italiana, costruita su circostanze artificiose, attraverso coincidenze preoccupanti. I personaggi vi vengono più che altro abbozzati e rispondono anch’essi ad antichi schemi, di provenienza indubbiamente pulcinellesca. Ma tutto ciò nello svolgersi della rappresentazione non si avverte, e le riflessioni che possono sopravvenire al momento della disamina critica debbono cedere il passo ai sentimenti e alle sensazioni provocati dallo spettacolo nel suo immediato svolgersi. La commedia possiede un suo potere rappresentativo, per due fondamentali ragioni: la prima che riprende classici motivi tradizionali del nostro teatro, dal Ruzzante in poi, la seconda che gli interpreti — e naturalmente il primo, Eduardo — rivestono i personaggi della loro individualità in modo talmente spiccato, da farne veri e propri esemplari d’umanità.
I tipici leit-motiv della nostra tradizione drammatica (e anche, in buona parte, di quella narrativa) vengono offerti dalla ripetuta propensione a preoccuparsi soprattutto dei ceti popolari, quali soggetti ideali per la rappresentazione, fatti elemento di pietà commisto a riso, di scherno commisto a evidente predilezione. Si tratterà, in ordine storico, anzitutto del villano, poi del villano inurbato, infine dell’artigiano e dell’operaio. Per quanto riguarda la struttura teatrale dello spettacolo, ben presto l’autore e l'attore italiani (del Rinascimento, ma già presso gli studenti delle università settentrionali all’inizio del XV secolo) constateranno come soprattutto al riso debbano il loro successo, quindi escogiteranno abilmente i colpi di scena della struttura farsesca e a essi faranno continuo ricorso per sorreggere e giustificare la progressione drammatica. Si agita nella fisionomia psichica dello spettatore italiano, fin dai tempi di Plauto e dei mimi, lo stimolo di cercare nello spettacolo anzitutto la sua umoristica sconvenienza umoristica, il suo scandalo liberatore.
La fortuna con l’effe maiuscola affronta l’opportunità di portare alla ribalta un argomento che non di rado la ribalta ha adottato quantunque occupi per molti un posto predominante: la fame. Abbiamo una piccola epopea della fame e del freddo, che ci ricorda il primo Chaplin, ma ha caratteri suoi propri nutriti di una smorfia grottesca, che nasconde ogni pathos e si riallaccia all’atteggiamento "oggettivo”, e cioè senza compatimenti, della Maschera (dello Zanni sempre affamato). Su questa situazione, diciamo, primaria, interviene la fatalità, a tre riprese: nelle vesti di un giovane che si vuol far legittimare a pagamento dal protagonista in quelle di un marito geloso e violento, infine attraverso un avvocato portatore della fiabesca eredità di prammatica. Gli incidenti suscitati dall’Imprevisto si contano numerosissimi e clamorosi, tutto sembra perduto, e, come consueto nello stile di commedia, tutto si riacquista.
Il sèguito delle vicende diverte. Ma ciò che resta impresso è la condizione di vita dei nostri eroi, quel cappotto sdrucito e rossastro che passa dal marito alla moglie e viceversa a seconda dei turni d’uscita. Soprattutto per l’accento di verità conferito dagli interpreti, attraverso i valori creativi, precipui della recitazione. Primo fra tutti Eduardo, con una pura sobrietà di mezzi e una sottigliezza di espressioni, che giungono a singolare maturità e sapienza, alla perenne definizione dell’esistente, nei suoi termini quotidiani, quindi autentici, maggiori poteri della recitazione, come abbiamo visto solo nei momenti migliori di Ruggeri. Accanto a lui Pietro de Vico movimenta con molto spirito il suo personaggio, soprattutto nelle parti mimiche (quanto più naturali e convincenti della mimica importata dalla Francia in questi ultimi anni). Clelia Matania dà tenue dolcezza e toccante rassegnazione alla figura della moglie. Gli altri interpreti coloriscono briosamente lo sfondo, ognuno col suo dramma e le sue pene trasformati in amara comicità.
Dopo un ciclo di recite al Piccolo Teatro di Milano, Eduardo ha trasferito nel suo San Ferdinando di Napoli, lo spettacolo da lui creato prendendo a pretesto un vecchio lavoro di Pasquale Altavilla Pulcinella in cerca della sua fortuna per Napoli nel rifacimento e nella regia di Eduardo, avrebbe dovuto offrirci la consacrazione e la definizione della Maschera di Pulcinella, cosi come comunemente s’intende che sia (ma la supposizione è sostanzialmente sbagliata). Il servitore di due padroni di Goldoni, per la Maschera del primo Zanni. Non crediamo che una commedia possa in qualche modo definire una Maschera. Forse non ci riuscirebbe neppure uno spettacolo creato ad hoc. A parte questo, un equivoco fondamentale, a nostro parere, vizia questo spettacolo di Eduardo, e talvolta ci ha disorientato anche in parte della sua produzione teatrale.
Cos’è che ci sorprende e ci attrae nella nostra letteratura drammatica dialettale? La sua aderenza alla vita, la sua fedeltà ai dati reali del mondo in cui viviamo. Questi pregi hanno sul palcoscenico ben maggior peso di taluni raggiungimenti formali, in eleganza e di grazia, oppure di taluni messaggi metafisici, destinati a restare infecondi e generici. La convenzione teatrale che nello spettacolo in lingua (o in dialetti intrecciati) ha diritto pieno di vita, in quello dialettale stona con le migliori possibilità del suo mezzo, che sono indubbiamente, e per lunga tradizione, naturaliste. Di qui il grande e persistente peso del naturalismo dialettale o paradialettale nella nostra letteratura dell’ottocento e del primo novecento. Il filone ispira da dieci anni la massa della nostra produzione cinematografica, ed è entrato perfino a far parte dello spirito d’osservazione insito nell’uomo della strada, quotidianamente Eduardo si riallaccia a esso spontaneamente, costituendone una propaggine ricca di temi e di possibilità.
E’ questo suo potere di attrarre il pubblico mediante la presa diretta sulla realtà posseduto dalla sua arte, che costituisce la sua ragion d’essere, la sua linfa vitale. Quando ne evade alla ricerca di una convenzione antecedente quale la Maschera, e cioè di una dignità formale, si perde per forza di cose l’interesse portato alla sua arte tramite di vita, e si osserva soltanto come sia debole il riferimento, poiché sono caduti ormai appigli realistici della Maschera, e poiché il testo, per quanto rimaneggiato e rifatto, resta quello che è, nei limiti appunto di Altavilla: un ibrido incontro tra strutture da canovacci dell’arte e il nuovo gusto francese delle comicità e delle peripezie. Il copione mostra ancora più la corda in quanto non è preso nella sua accezione storica, quindi interpretato rappresentando l’interpretazione di quegli attori (come fece con genialità Vachtangov per ” La principessa Turandot”), ma per materia coloristica di spettacolo, al modo di Reinhardt, quindi abbondando in effetti, movimenti, luci, coralità, di gusto completamente moderno, ed abbastanza diffuso.
La commediolina d’Altavilla, data un tempo con mezzi assai modesti (e ripresa diverse volte da compagnie dialettali) qui viene ammantata di una scena complessa di Mario Chiari (ricordava colori e forme presenti in alcuni quadretti di Paul Klee), infiocchettata di siparietto e di luci direzionate, condita di musiche (abbastanza discrete però) e di un larghissimo movimento scenico, su cui Eduardo ha escogitato le più libere trovate di regia. Allo stesso modo si poteva inscenare Shakespeare. Cosi gli
attori si sono trovati combattuti tra il loro naturale istinto che li portava a tratteggiare con bozzettismo comico i personaggi (del resto a tal fine concepiti e l’esigenza imposta dallo spettacolo di renderli emblematici ed espressivi in modo superlativo, come fossero simboli di una condizione umana. Su questa strada si è posto particolarmente Achille Millo presentandosi come Pulcinella. Millo ha voluto esprimere quanto sapeva sul significato della Maschera e sulla sua storia segreta. A parte la pericolosità di simili intenzioni, e l’incertezza sui modi formali per renderle operanti, il testo offre ben poche risorse al riguardo, così che bisogna forzarne ogni benché minimo appiglio, snaturandone quella sua poca autenticità. Conosciamo le qualità di Millo come attore in lingua nei ruoli a lui confacenti: sono senz’altro assai pregevoli. Ma non ci sembra davvero che in esse ci sia la stoffa della Maschera, almeno per ora. Gli altri interpreti napoletani recitavano in modo più appropriato: Franco Sportelli con umore pungente e incisivo tratto di caratterizzazione.
Vito Pandolfi, «Cinema Nuovo», n.136, novembre-dicembre 1958
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Vito Pandolfi, «Cinema Nuovo», n.136, novembre-dicembre 1958 |