Leslie Caron finalmente può essere brutta
Leslie Caron è in polemica con il suo passato: il matrimonio le ha dato il coraggio di rompere con il personaggio della donna bambina che la riempiva di complessi di inferiorità
Londra, febbraio
Da quasi tre anni se ne stava nascosta, a covare la sua metamorfosi, ossessionata dall’idea di chiamarsi Leslie Caron. Ora, che torna al cinematografo, non ritroverete più la piccola diva dalla faccia di cannibale che vi commosse pei suoi amori disgraziati e vi sedusse, con la sua bruttezza un po’ misteriosa fatta di una bocca sproporzionatamente larga, di due gambe forti, da ballerina, di uno sguardo malizioso e malinconico insieme, da adolescente che si rifiuta di crescere. «Quella Leslie Caron è morta e non intendo resuscitarla. Io la odiavo», disse cullando il bambino che l’ha guarita dal successo e dalla infelicità. Eravamo nella sua casa in Hyde Park Square, seduti in un salottino un po’ squallido, arredato soltanto con un divano, due seggiole, un pianoforte, un grande orologio e moltissimi libri. Leslie dava la prima intervista da quando decise di rinnegare il personaggio che fu: e aveva tutta l’aria di sentirsi a suo agio in quell’ambiente inadatto a colei che è stata una celebre star e ancora dispone di un ragguardevole patrimonio.
Londra. Leslie Caron col marito Peter Hall, abita in Hyde Park Square. Hall fa il regista teatrale ma debutterà quest'anno come regista con un film il cui soggetto è stato scritto dalla moglie che ne sarà anche l’interprete. La Caron ha ventisette anni, e aspetta un secondo figlio per settembre.
Stava rigida in cima al divano, col suo bambino sulle ginocchia, e gli occhi a mandorla, di un azzurro maiolica, fissavano davanti a sé in modo freddamente deciso, la voce aveva un tono irrevocabile, le labbra una piega ostile. In quella sua durezza non c’era niente che ricordasse la Leslie Caron che conoscevamo ed anche il suo aspetto fisico appariva cambiato. Non era più bruna e rotonda, coi capelli corti e incollati alla fronte, le ciglia cariche di rimmel, le guance bianche di cipria come un Pierrot e non vestiva nessuno dei favolosi modelli creati per lei da Dior o Givenchy. Era bionda, coi capelli lunghi e disordinati lungo le spalle perché li lava in casa invece di andare dal parrucchiere, le ciglia bionde e prive di rimmel, le guance lavate ad acqua e sapone. Era magrissima e vestiva una tunica grigia che si era cucita da sé. Era anche ciarliera sebbene abbia sempre avuto paura a parlare, preoccupatissima a dimostrare le ragioni del suo mutamento.
«Sono stanca dell’equivoco che ho dovuto sostenere per anni. Quella Leslie Caron non esisteva, era una invenzione dei produttori cinematografici», disse. «Pretendevano che fossi bella ed io sono irrimediabilmente brutta. Guardatemi: come è possibile fare una diva di me? Ho i lineamenti di un pesce, un profilo da negra, le gambe muscolose e sono alta appena un metro e cinquanta. Pretendevano che fossi sofisticata e sono un tipo qualsiasi, che gode della propria mediocrità. Pretendevano che restassi ad ogni costo una bambina e sono una donna: anche se non dimostro i miei ventisette anni passati ed ho le guance piene e il naso piccolo. Non potrei più recitare la ragazzina innocente di Lili e di Papà Gambalunga. Non sono innocente, ho vissuto una vita con moltissimi errori ed odio i bambini invecchiati», concluse con le lacrime agli occhi. Peter Hall, il giovanotto che da un anno e mezzo è il suo secondo marito, sorrise con indulgenza e le strinse affettuosamente una mano, quasi a calmare la rabbia che cresceva come il lievito in quella moglie troppo orgogliosa.
Peter Hall ha ventotto anni. Con la sua faccia rotonda, il suo corpo da atleta, la sua allegria rumorosa sembra uno studente del liceo. Ma Leslie sostiene che è un uomo maturo come questi inglesi che diventano seri anzitempo e a diciotto anni sanno portare già la bombetta e fumano la pipa senza tossire. Infatti fa il regista teatrale mettendo in scena le tragedie di Shakespeare a Stratford-on-Avon, è amico di Laurence Olivier, spesso lo chiamano a Broadway per dirigere le commedie di Tennessee Williams e Arthur Miller e in America lo hanno già definito «testa d’uovo», vale a dire un intellettuale tutto d’un pezzo. Anche l’ex-parigina impastata di frivolezze e di verve ha sempre avuto ambizioni intellettuali, ed è sempre stata ammalata di dignità: un simile marito, quindi, le si addice. Del resto, deve a Peter la sua metamorfosi. Si conobbero all’inizio del 1956 quando essa venne a Londra per interpretare sul palcoscenico Gigi. Peter Hall ne era il regista. «Ero sempre stato un po’ innamorato di lei», disse Peter ridendo, «m’era piaciuta fin dal giorno in cui l’avevo vista ballare allo Stoll Theater in Kingsway. A quel tempo ero uno studente di Cambridge. Mi ricordo che feci la coda per chiederle un autografo e tenevo la sua fotografia alla parete della camerata. Gli altri ragazzi mi prendevano in giro». Così fecero subito amicizia ma, disse Peter, «mi ci volle parecchio per capirla perché è un tipo chiuso, taciturno, scontroso, in quel periodo era divorata da un’angoscia che non sapevo spiegare. Alla fine la capii così bene che la sposai». Il matrimonio avvenne nell’agosto dello stesso anno, in forma civile. Leslie indossava un tailleur grigio e tremava per la paura. «Se dovessi sbagliare anche stavolta», confidò al padre, «mi ucciderei».
Londra. Leslie Caron ha un figlio, Christopher di otto mesi. Negli ultimi tre anni la Caron è molto cambiata ed ha lavorato pochissimo. Tra l’altro ha rinunciato per sempre alla danza. La Caron, prima di essere attrice, fu una famosa ballerina dell’Opéra di Parigi e nella compagnia di Roland Petit.
Non sbagliò. E andarono a vivere come due borghesi in questo appartamento borghese nel quartiere più borghese di Londra dove, giorno per giorno, liberata dai complessi che avevano rischiato di spedirla al manicomio, Leslie riuscì a diventare quella che è: una signora col passaporto britannico, che fa la prima colazione col porridge, beve il tè delle cinque, fa la coda per salire in autobus, legge libri difficili, e dichiara di voler diventare una attrice drammatica «perché le commedie a colori dove si canta e si balla mi disgustano fino alla nausea». Nell’aprile del 1957 è nato il bambino che si chiama Christopher e «da quel giorno mi è andata via tutta la voglia di fare carriera. Il successo non basta a riempire una vita. Una donna si sente felice solo quando allatta suo figlio». È Christopher, infatti, che ha rischiato di far scivolare nell’oblio la fama di Leslie Caron e solo dopo molte insistenze il marito è riuscito a convincerla che doveva riprendere la carriera di attrice perché era peccato sprecare tanto talento.
«L’ho contentato ma senza affrettarmi perché non ci tengo a restare famosa», disse Leslie facendo addormentare il bambino mentre una insospettata tenerezza le coloriva la faccia. «Non ho mai chiesto nemmeno di essere quella che sono stata: quando ero piccola e frequentavo il collegio della Assomption de Lobeck, a Parigi, volevo fare la monaca». Questa idea, infatti, la sostenne fino a undici anni quando la madre, un’americana che era stata ballerina a Broadway ma aveva dovuto interrompere la carriera per malattia, la iscrisse a una scuola di danza. «Odiavo danzare. È una fatica da schiavi. Il cervello, poi, è occupato a imparare movimenti meccanici anziché pensare a cose profonde». Ma non le consentirono di ribellarsi e, a quindici anni, entrò a far parte del Ballet des Champs-Elysées e questo la portò in tournée nel Medio Oriente e in tutti i paesi d’Europa. Nel 1949, poi, la scritturò Roland Petit che le dette il ruolo principale nel balletto La Rencontre. «Facevo la parte della Sfinge che pone i tre problemi a Edipo. Avevo una maschera di cartone, le orecchie di cartone, lunghe come quelle dei ciuchi, e le unghie finte di dieci centimetri. Che orrore!». Invece non parve un orrore a Marc Allégret che cercava un volto nuovo pel film Les lauriers sont coupés. Le fece un provino: ma risultò disastroso. «Impossibile», gridò il produttore Pierre Braunberger. «È troppo brutta, con quella faccia da cannibale, fa spavento. Se la vede un bambino muore per infarto cardiaco».
Disse Leslie: «Per anni mi hanno spiegato che ero brutta ed ho pianto per questo. Solo ora ne rido». Ma a quel tempo, invece, l’accusa la torturava e la torturò ancor di più quando Carnè le fece il provino per il film Giulietta o la chiave dei sogni. Carnè è un uomo di gusto, aveva intuito che dietro quei lineamenti privi di grazia stava un fascino singolare. Ma gli mancò il coraggio di lanciarla per via dei denti sporgenti. «Non mi sorprese, ero abituata alle umiliazioni», disse Leslie. E non credeva ai suoi orecchi quando Gene Kelly le propose il ruolo di protagonista femminile in Un americano a Parigi e le fece firmare un contratto con la Metro Goldwyn Mayer. Così Leslie partì per Hollywood, accompagnata dalla madre e dal fratello, e fu l’inizio delle sue disgrazie. «Mi sottoposero a un processo di rifacimento. Dissero che ero troppo grassa e per mesi mi proibirono di mangiare. Dissero che i miei capelli lisci facevano schifo e me li pettinarono in tanti ricciolini. Mi allargarono la bocca ancora di più e si sforzarono di mettere in rilievo tutto quello che non mi piaceva. Poi mi fecero girare Lili e quando vidi come mi avevano conciato per la prima scena quando arrivo così goffa e impacchettata, ebbi una crisi isterica. E poi tutti mi chiamavano Lili e mi dicevano che dovevo restare come Lili, una eterna bambina, mentre volevo crescere come le altre e avere un marito e dei figli».
Trovò anche il marito: si chiamava Geordy Hormel, era figlio del re delle conserve e del prosciutto in scatola, era bello, miliardario, studiava la musica e aveva una madre francese che si chiamava Leslie. Si incontrarono a un party e lui compiva quel giorno vent’anni, uno più di miss Caron, vestiva la divisa di allievo ufficiale. Quando una attrice chiese il numero del telefono alla «piccola selvaggia del Bois de Boulogne», lei lo scandì tre volte, urlando perché Geordy Hormel lo udisse, e otto giorni dopo era la signora Hormel. Si sposarono in una chiesa di Las Vegas, con Frank Sinatra e Van Johnson come testimoni e fu un ridicolo viaggio di nozze. Lo avevano pagato, metà per uno, la MGM e la ditta di prosciutto in scatola del signor Hormel. Così i due sposi attraversarono i quarantotto Stati dell’Unione posando davanti ai cartelloni della MGM e tenendo in mano le scatolette di prosciutto, per la reclame. Poi lui tornò alla Accademia, lei ad Hollywood per girare Scarpette di vetro e quando si rividero, scoprirono di essere due estranei e chiesero il divorzio per crudeltà mentale. «Macché crudeltà», commentò Geordy Hormel. «Mia moglie era brutta e noiosa. Stava sempre zitta a leggere libri».
Londra. Leslie Caron in questi ultimi tempi è molto dimagrita e s’è fatta bionda. Dice anche d’essere finalmente felice. Infatti ha avuto una vita molto drammatica, malgrado il successo, e più volte ha rischiato di cedere alle disavventure provocate dalla sua professione e da una serie di amori disgraziati.
Leslie tornò a Parigi in preda alla crisi. Non voleva più stare ad Hollywood, era rassegnata a riprendere la sua carriera di ballerina e Roland Petit la convinse, creando per lei un balletto: La vedova. Fu Roland Petit a fare di lei una ragazzina sofisticata, inducendola a tagliarsi i capelli cortissimi e a portarli appiccicati alla fronte e alla nuca, consigliandola di vestirsi nelle grandi case di moda, insegnandole a truccarsi in modo da sembrare una bambola di cartapesta: perché anche lui non voleva che crescesse perdendo quell’aria di bambina innocente. Leslie era innamorata di quel collega stravagante e sofisticato, gli obbediva e sperava di sposarlo. Non si era accorta che Petit accettava la sua tenerezza per dimenticare Zizi Jeanmaire, la ballerina che anni dopo avrebbe sposato. Quando se ne accorse tentò inutilmente di consolarsi con un altro ballerino, Robert Petit, che a sua volta la abbandonò per la sua collega Lillian Montevecchi. Esplose allora il dramma di Leslie Caron, «l’educanda dagli amori sbagliati», come la definirono su un giornale francese, che disperata tornò nuovamente a Hollywood. «Chiesi una parte seria: me la dettero in Papà Gambalunga. Dissero che un tipo come me sarebbe stato buffo nei panni di una donna matura. Dissero anche che mancavo di gratitudine, che avevano fatto tanto belle cose per me e io li ripagavo piangendo per un nonnulla. Ma è colpa mia se sono fatta cosi? Mi guardavo allo specchio quella faccia da cartone animato e mi sembrava di essere una caricatura. Mi sarei fatta la plastica». Non si fece la plastica. Ruppe il contratto con la MGM e scappò nuovamente a Parigi dove i genitori la raccolsero al limite di un esaurimento nervoso: di notte la sorvegliavano perché non si buttasse dalla finestra. Giurò allora di non girare più un film e si lasciò convincere a interpretare in teatro Gigi solo perché l’offerta veniva da Londra. Andò a Londra e trovò Peter Hall.
Il primo film della signora Leslie Hall, girato quando la sua metamorfosi era completa, è appunto un rifacimento di Gigi. Lo vedremo quest’anno. Leslie fa ancora la parte di una adolescente, ma insiste che è l’ultima: nel prossimo, Anna, interpreta il ruolo di una intellettuale che si innamora di un uomo dispotico, lo sposa e scopre che ha assassinato la prima moglie. Un giallo, dunque: e lo dirigerà Laszlo Bene-deck, il regista di Morte di un commesso viaggiatore. La stessa Leslie ha preteso che lo affidassero a Benedeck che l’ha capita e dice di lei: «Potete scordarvi la bambina col nasino a pallottola dei technicolor. L’attrice che reciterà nel mio film è una tragica irriconoscibile. Solo una donna indurita dalle sofferenze poteva reggere una simile prova». Quest’autunno, poi, Leslie girerà un altro film senza balli e canzoni, diretto dal marito e finanziato da lei. La storia l’hanno scritta insieme e racconta il dramma di una ragazza francese che si innamora di un inglese e lo perde. «Un film molto realistico. Mi piace perché finisce male», disse la signora Hall con convinzione. «Si pentiranno di avermi preso in giro per tanti anni». Le era tornata sulle labbra quella piega ostile, gli occhi fissavano nuovamente dinanzi a sé con freddezza, la voce aveva ripreso quel tono irrevocabile. Veniva spontaneo rimpiangere l’adolescente maliziosa che lei ha rinnegato.
Oriana Fallaci, «L'Europeo», anno XIV, n.9, 2 marzo 1958
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Oriana Fallaci, «L'Europeo», anno XIV, n.9, 2 marzo 1958 |