A prescindere ma non da Totò

Totò Malattia

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Quando il pubblico ha visto riapparire alla ribalta quella bazza satiresca, quegli occhi di smalto, quella giacca a falde troppo larga, quei pantaloni a righe troppo corti e quel tubino nero troppo stretto, è scoppiato in un applauso commosso come un abbraccio. Ritrovava un caro e vecchio amico che, dopo sette anni d'assenza, temeva di aver perduto. Per di più quell’inconfondibile figura riportava di colpo gli spettatori indietro nel tempo e questo intenerisce sempre un poco chiunque. Sette anni di separazione sono molti, se ci si vuol bene. E quale tifoso della rivista non vuol bene a Totò?

Personalmente, quando sul palcoscenico del Nuovo si è arrampicato dalla platea il grande comico napoletano, iniziando cosi lo spettacolo A prescindere, che gli hanno combinato Nelli e Mangini su musiche di C. A. Rossi, coreografie di Gisa Gert, scene di Artioli e costumi di Folco, siamo stati riportati indietro di ben trcntacinque anni. Per qualche minuto l’elegante boccascena del teatro milanese si trasformò in quello disadorno del livornese cinema-teatro Lazzeri, il lussuoso velario di velluto si mutò in uno stinto fondale di giardino e, chiuso in un tremolante raggio di riflettore come in un sacchetto di cellofane, rivedemmo il Totò di allora, di trentacinque anni fa. Il manifesto lo annunciava come « l’emulo di Gustavo De Marco », un macchiettista assai popolare in quel tempo e che affidava i maggiori effetti comici a certi suoi balletti burattineschi.

1957 02 17 Epoca A Prescindere f1

Totò, che allora era d’una magrezza spettrale, si presentava « rifacendo » il numero di De Marco; ma poi, nella sua seconda apparizione, si produceva in un ineffabile « pezzo » che egli intitolava « La imitazione d’un gatto e d’un cane ». In realtà, non imitava né il gatto né il cane. Era una serie di lazzi, di trovatine, di spunti umoristici che sprizzavano dai gesti allusivi, dalle suggestive occhiate degli enormi occhi porcellanati, dai passi sbilenchi, dalla voce chioccia; sprizzavano e brillavano per un attimo, inseguendosi e intersecandosi come i bagliori d’uno spettacolo pirotecnico, senza nesso né logica, proprio alla maniera dei fuochi artificiali. Pareva il vaniloquio d’un mentecatto o d’un ubriaco ed era invece tutto calcolato, tutto studiato per raggiungere uno scopo esilarante. A gustare quell’umorismo sfrenato ed aereo non erano molti, allora. Il grosso pubblico rimaneva perplesso, forse conturbato. Ma quelli che ci ridevano, ridevano fino alle lacrime.

Oggi, quei lazzi, quelle trovate, quei gesti, quegli sguardi sono gustati da tutti. Trentacinque anni - la vita d’un uomo - li hanno perfezionati puntualizzati, essenzializzati. Il pubblico li attende, in estasi, oseremmo dire che li spera. Non dà a Totò neppur il tempo di terminarli che già li inghiotte nel fragore delle risate. Tutto è buono, tutto serve, pur di ridere. Quasi quasi si direbbe che a volte lo stesso attore se ne meravigli. E il suo stupore suscita nuove risate.

Così stando le cose, il ritorno di Totò alla rivista, dopo sette anni di cinema, non si può, non si deve più discutere. Caso mai, va considerato alla stregua di un fenomeno della natura, come la neve, come il vento. Che importa se i fiocchi della nevicata di quest'anno sono identici a quelli di sette, dieci, trenta anni fa, se la folata che domani ci strapperà

il cappello dal capo soffierà con la medesima intensità dell’anno scorso? La neve è la neve, il vento è il vento e basta.

Nelli e Mangini si sono soprattutto (e logicamente) preoccupati di fornire a Totò i pretesti per essere Totò. L’esperienza capocomicale di Errepì ha incastonato il grande comico in una rosa di belle donnine, prima fra tutte Franca May, spiritosa ed elegante. Accanto a lei Yvonne Ménard, famosa étoile nue delle Folies-Bergére, ha l’aria di prendere in giro se stessa e noi per la propria piccante celebrità, con uno stile e una personalità sconcertanti. L’ottimo Enzo Turco ha l’inestimabile dono di riuscire a conservare una sua scanzonata comicità anche quando la mette a disposizione di quella altrui.

Musiche facili e coreografie scattanti. La migliore è nel quadro siciliano (o calabrese?) del secondo tempo. Ma quel morto ammazzato sommato alla vergine sacrificata al coccodrillo sacro del primo tempo, formano un totale di due salme. Non sono un po’ troppe per una rivista?

Dino Falconi, «Epoca», anno VIII, n.333, 17 febbraio 1957


Epoca
Dino Falconi, «Epoca», anno VIII, n.333, 17 febbraio 1957