Remigio Paone: la sua lobbia piaceva a Balbo

Remigio-Paone

Il maresciallo lo apostrofava “sporco antifascista" ma lo mandava a chiamare fìn da Tripoli per fare quattro chiacchiere con lui. A pochi mesi dalla guerra gli chiese di organizzargli un film sulla Libia diretto da Duvivier, con Michèle Morgan e Jean Gabin. 

Il matrimonio di Remigio Paone meriterebbe un capitolo a parte. Non foss'altro perchè dura da trent’anni e perchè da trenta anni, nella buona e nella cattiva sorte, nei giorni facili e in quelli difficili. Remigio Paone si è sempre trovato di fronte il dolce sorriso della signora Italia, un sorriso fatto di affetto, di comprensione, di solidarietà. Quando Paone parla di sua moglie, foss'anche soltanto per nominarla incidentalmente in una qualsiasi conversazione. si ha come l’impressione che abbassi la voce di un tono, per tenerezza e per commozione. E’ molto difficile fargli dire qualcosa della sua vita con Italia, e ancor più difficile è anche soltanto accennare l’argomento con sua moglie. Paone si accontenta di rispondere: «Ci vogliamo bene da trent’anni. Mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere». La signora Italia, invece, dice con un mezzo sorriso, tra imbarazzato e annoiato: «Non voglio che si parli di me. Si dice già anche troppo su Remigio. Io voglio essere ignorata».

Italia e Remigio si conobbero durante una campagna elettorale, quella del 1919. Tutti e due seguivano i rispettivi padri nei loro girl di città in città, di paese in paese, di comizio in comizio, fungendo al tempo stesso da accompagnatori e da segretari. I due padri si conoscevano, i figli strinsero presto amicizia, un genere d’amicizia fin troppo entusiasta, almeno a giudizio del professor Beneduce, padre di Italia, il quale si preoccupava del fatto che Remigio fosse ancora un po’ lontano dal traguardo della laurea, conditio sine qua non a qualsiasi speranza di fidanzamento ufficiale. Da quel giorno la fine degli studi universitari rappresento per Remigio Paone una vera ossessione. Riuscì infatti a convincere il severissimo professor Beneduce delle sue più che oneste intenzioni, ma dovette attendere ben quattro anni prima di poter tramutarsi da «promesso» (come si diceva allora) in «fidanzato».

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f1Il 26 giugno del 1924 Remigio Paone sposò Italia Beneduce, figlia del noto uomo politico che fu Ministro del Lavoro. I due sposi si erano conosciuti durante una campagna elettorale dei rispettivi padri. Nella foto, da sinistra: l’on. Beneduce, la madre di Paone, gli sposi, la signora Beneduce e il dott. Giuseppe Paone.

Incontro col suocero 

Remigio Paone in quegli anni, per mantenersi agli studi e poter vivere a Roma senza dover ricorrere ai vaglia paterni, si era trovato un impiego alla Cassa Nazionale Infortuni. Anzi, siccome aveva velleità letterarie e gli sarebbe piaciuto fare poi la carriera giornalistica, entrò a far parte della redazione della «Rassegna della Previdenza Sociale». un opuscolo stampato appunto dalla Cassa Infortuni. L'ufficio della Cassa aveva sede in Piazza Cavour. Paone abitava in una pensione a Prati degli Strozzi (lo attuale piazzale Clodio) e Italia Beneduce viveva con la famiglia in una casa a Via del Tritone. 

Remigio Paone, quando tornava a casa dall’ufficio poco dopo mezzogiorno, faceva appositamente un lungo giro pur dì passare su e giù due o tre volte sotto le finestre di casa Beneduce e fare un timido cenno di saluto con la mano a Italia che aspettava il suo passaggio immobile dietro le persiane socchiuse della sua stanza. Era questo l'Unico mezzo con cui i due innamorati potevano comunicare ed avrebbe dovuto restare assolutamente segreto. 

Senonchè ci fu chi si preoccupò di riferire qualcosa all’onorevole Beneduce. Una mattina Paone, appena svoltato l’angolo della casa di Italia, se lo trovò di fronte, tutto accigliato, con il bastone da passeggio puntato in avanti come un fucile spianato. Superato il primo attimo di sbigottimento, Remigio rosso in viso come un tacchino, accennò timidamente un «Buongiorno professore». Ma Beneduce tenendo sempre la punta del bastone rivolta contro di lui e senza neppure rispondere al saluto, gli intimò: «Venga qui, signor Paone. Mi dica un po’, dove abita lei?». Abbastanza sorpreso e quasi risollevato dal timore Paone rispose: «A Prati degli Strozzi, professore». A questo punto l’onorevole Beneduce abbassò di scatto il bastone, assunse più che mai un'aria rabbuiata (mentre forse forse gli veniva voglia di ridere) e con la voce terribile dei momenti di battaglia tuonò: «E lei, giovanotto, per andare da Piazza Cavour a Prati degli Strozzi passa da Via del Tritone? Lei sbaglia strada, se lo ricordi». Paone se lo ricordò tanto bene che passarono due mesi prima che rimettesse piede in Via del Tritone. 

Italia e Remigio si sposarono la mattina del 26 giugno 1924, a Roma, nella chiesa di Santa Maria in Via. Il matrimonio civile, che allora aveva luogo qualche giorno prima di quello religioso, e che naturalmente rappresentava una cerimonia altrettanto importante di quella religiosa, fu celebrato in Campidoglio dal sindaco di Roma che era il senatore Pippo Cremonesi. una figura popolare a quei tempi quanto Petralini. Pippo Cremonesi era infatti quasi più noto come inesauribile autore di scherzi, e per il suo spirito mordace, che per la sua attività politica. 

Il giorno prima del matrimonio civile i genitori dei fidanzati diedero un grande ricevimento all’Albergo Regina e mentre tutti si facevano attorno ad Italia e a Remigio per felicitarli, il sindaco avverti l'onorevole Beneduce che, con suo grande rincrescimento, il matrimonio non avrebbe potuto essere celebrato l’indomani a causa di un documento mancante tra quelli arrivati da Formia per lo sposo. Era già sera Inoltrata, ma Paone si fece lo stesso portare a Formia da un’automobile presa a nolo, dopo aver piantato in asso ricevimento e invitati senza salutare nessuno. Arrivò a Formia di notte, andò a svegliare il sindaco a casa sua. gli fece aprire il municipio e riprese la strada di Roma soltanto quando potè avere in mano il famoso documento. 

H mattino dopo al momento della firma in Campidoglio Pippo Cremonesi non rinunciò alla battuta di spirito. Prese Remigio Paone per un orecchio scherzosamente e gli disse In dialetto romanesco: «A giovano’, un’artra vorta nun se scordi er documento». E Paone, tutto imbarazzato perchè aveva visto Italia sgranare tanto d’occhi: «Ma senatore, io spero che questa sia l'unica volta». Sono passati trent’anni ma la penna d’oca con la punta d’oro che il sindaco Cremonesi offri quel giorno agli sposi per firmare il registro in Campidoglio è ancor oggi conservata gelosamente dentro una vetrinetta di cristallo alla «Caravella». la villa di Remigio e Italia Paone, a Formia. 

Nel 1934. all’epoca del matrimonio, Paone aveva già lasciato da qualche tempo l’impiego alla Cassa Infortuni ed era entrato alla redazione de «Il Mondo», un quotidiano politico molto in voga e di idee decisamente antifasciste. Paone vi era entrato quando aveva poco più di vent’anni, era il più giovane dei redattori e nessuno aveva mai contemplato l’eventualità che gli venisse assegnato uno stipendio.

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f2Remigio e Italia Paone a Venezia, dieci anni dopo il matrimonio. Nel 1936 avevano avuto un figlio, che morì appena nato. Paone porta ancora al collo la catenina del suo bambino.

Banca e teatro 

Ora dice che lo compensò largamente l’avventura di aver potuto vivere durante alcuni anni accanto ad Amendola, Cianca, Alberto Giannini, nell'atmosfera rovente di quel primo periodo di fascismo. Remigio Paone faceva per il giornale l’informatore parlamentare e, praticamente, passava le sue giornate e gran parte delle nottate a Montecitorio. Quella fu anche l'epoca d’oro del «Becco Giallo», il famoso settimanale umoristico stampato da Giannini, che attaccava ferocemente i fascisti, prima e dopo lo assassinio di Matteotti, fino a che fu costretto a sospendere le pubblicazioni. Paone ha ancora in biblioteca tutta la collezione di ventanni fa. Per tutto il tempo In cui durò in Italia il regime fascista la tenne nascosta a Formia sotto il pavimento della stanza da letto di suo padre. 

Nel novembre del 1926 i fascisti appiccarono il fuoco alla tipografia del «Mondo» e la distrussero. «Sembrava che volessero arrostirci vivi» racconta Paone, che si trovava con gli altri redattori al primo piano dello stabile, sopra al locale delle rotative. Allora Remigio Paone pensò che era voluto il momento di far la politica in sordina, senza mettere troppo in piazza le proprie idee; e cominciò — dice — ad «occuparsi di banche». Divenne cioè impiegato bancario, poi segretario del senatore Luigi Della Torre che era gerente della Banca Zaccaria Pisi di Milano, allora l'istituto bancario privato più Importante di Italia, corrispondente anche della Banca Rotschlld. Rimase insieme al senatore Della Torre (che era un feroce antifascista e fino alla sua morte si preoccupò costantemente degli esiliati e aiutò economicamente Treves. Turati e molti altri leaders dell'antifascismo) fino al 1931, quando la banca venne chiusa per motivi politici. 

Fin dal 1929, aveva però cominciato ad occuparsi di teatro. Era stato, dapprincipio, un caso e il caso si chiamava Sem Benelli. Remigio Paone lo aveva conosciuto dieci anni prima, a Forarla. dove il poeta — deputato per la circoscrizione di Firenze nella legislatura dal 1919 al 1921 — era andato a passare una fine settimana. Era arrivato a Formia con l'intensione di rimanervi dal sabato al lunedi. Ci abitò invece per sei anni di fila, e fu anche compare d’anello alle nasse di Paone. 

Nel '28 Sem Benelli aveva costituito una compagnia teatrale a suo nome. Questa Impresa però lo convinse ben presto delle sue scarsissime capacità come uomo d'affari. L'anno dopo si era rivolto al senatore Della Torre per un’operazione bancaria. Negli uffici di Della Torre incontrò di nuovo Remigio Paone e gli propose subito di diventare amministratore della sua compagnia. 

Il teatro era una vecchia pascione di Paone, sempre disposto a dir di si quando sì trattava di annusare da vicino la polvere del palcoscenico. Cosi, oltre che dei conti, fini, naturalmente, per occupala! anche della organizzazione degli spettacoli, delle commedie da mettere in repertorio, della scelta degli attori. Fu quella, insomma, la sua prima prova come impresario. Ma era ancora una attività da dilettante, che Paone esplicava nei ritagli di tempo del suo vero lavoro, quello della banca di Della Torre. 

Dopo essere stato per due stagioni insieme a Sem Benelli, Paone si accordò con altri due uomini di teatro. Paolo Giordani e Anton Giulio Bragaglia. Braga-glia lo conosceva da molti anni,, da quando cioè frequentavano insieme il Club degli Indipendenti ritrovo famosissimo di tutto il bel mondo artistico e letterario di allora e di cui Remigio era stato uno dei maggiori animatori. 

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f3Remigio Paone e sua moglie due mesi fa, il giorno in cui hanno festeggiato il trentesimo anniversario delle nozze. E’ con loro Cicci, una bambina di nove anni che hanno adottato durante la guerra. Cicci chiama Paone «zio Remigio».

Schedato A 8 

I tre nuovi impresari cominciarono con il metter in scena una famosissima opera elisabettiana, «L'opera de quatre sous», che in quella versione Bragaglia chiamò c La veglia dei lestofanti». Ma fu una rappresentazione disgraziatissima. Paone e i suoi due soci sperarono di rifarsi con un giro in provincia. Ma anche U le cose andarono tanto male che la compagnia arrivò a Forlì senza scenari: erano stati sequestrati dagli uscieri alla fine della recita a Reggio Emilia. Paone, Bragaglia e Giordani perdettero nella sfortunata impresa tutto il capitale. 

Nel 1932, l’anno famoso del decennale fascista, fu creato in Italia un nuovo organismo che aveva lo scopo di disciplinare in un certo senso le varie organizzazioni teatrali, dando una sorta di base giuridica alle offerte, spesso accettate senza veri e propri contratti, che le compagnie ricevevano per le tournées da una città all'altra. Questo organismo, ché doveva avocare a sè ogni cosa attinente al teatro, si chiamò «Unat», unione nazionale arte teatrale. E fu incaricato di dirigerla Remigio Paone, cosa abbastanza normale se Paone non fosse rimasto sempre l’antifascista amico di Della Torre e redattore del «Mando». Tanto che, quando gli amici lo spinsero a chiedere la iscrizione al Partito Fascista, la domanda fu respinta con la motivazione: «Schedato A8», che era l'indicazione di cui si serviva la polizia politica per segnalare i «sovversivi». Dopo la guerra poi Paone ha potuto vedere i telegrammi che la Questura di Milano inviava regolarmente a Roma ogni volta che egli tornava a casa dopo una qualsiasi assenza, anche di pochissimi giorni, il testo era sempre lo stesso: «Noto sovversivo Paone Remigio habet fatto qui ritorno et viene regolarmente vigilato». 

Infatti per tutti i ventitré anni di regime fascista, e benché non solo fosse amico di alcune grosse personalità, ma rivestisse addirittura incarichi ufficiali come quello dell’«Unat», Paone fu costantemente pedinato per strada e seguito da agenti in borghese nel suol spostamenti sia attraverso l'Italia, sia all’estero. Questa fu però l’unica misura adottata dal regime contro il «sovversivo» Paone, ed era in fondo una pura e semplice precauzione delle autorità di polizia. Per il resto nessuno gli dette mai noia. 

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f4Questo documento venne recuperato da Paone dopo la fine della guerra negli archivi del Ministero degli Interni. E' urna lettera di Starace ad Alfieri, Ministro per la cultura popolare, contro gli incarichi concessi al «sovversivo» nel teatro. Per errore Starace lo chiama Pavone.

All’«Unat» Paone lavorò in collaborazione con l’attuale direttore generale dello spettacolo Nicola De Pirro, (che dirigeva la federazione dello spettacolo) e con l’avvocato Monaco (vicedirettore della medesima federazione), oggi presidente dell’Anica. E fu De Pirro che, quando Galeazzo Ciano diventò sottosegretario al Minculpop, dovette avvisalo che il direttore dell’«Unat» non aveva la tessera del partito. Stava per aggiungere una frase amichevole, per convincere «Sua Eccellenza» a non dar troppo peso alla faccenda, perché si trattava comunque di un uomo in gamba, ma non ebbe neppure fi tempo di aprire bocca. Ciano sbottò in una risata: «Paone, avete detto? Per carità, non dategli noia, è un carissimo amico mio». Cosi il «sovversivo» Paone rimase alla direzione della «Unat» dal 1933 al 1938. 

Quando cominciò ad occuparsene gli venne segnato un bilancio di 33.000 lire all’anno. Cinque anni dopo, quando Paone se ne andò, il bilancio aveva raggiunto le 900.000 lire. In quei cinque anni, dirigendo personalmente tutto il movimento commerciale del mondo teatrale italiano, Remigio Paone aveva accumulato un bagaglio di esperienze non indifferente per la sua carriera di impresario e aveva potuto conoscere a fondo attori, attrici, commediografi. coreografi, capocomici. 

Aveva conosciuto molto bene anche Italo Balbo. Il «maresciallo» (come Balbo voleva essere chiamato, arrabbiandosi violentemente se qualcuno, senza sapere di questa sua preferenza gli si rivolgeva per caso con un «eccellenza»). lo aveva preso In gran simpatia. E più di una volta, dopo il 1938, gli offri di andare con lui in Libia, di aiutarlo nel suo lavoro laggiù. Gli scriveva lunghe lettere, gli mandava telegrammi, gli chiedeva consigli che a Paone sembravano sbalorditivi, gli faceva telefonare ad ogni momento dal suo segretario. Se Paone si rifiutava di andare da lui. magari a Tripoli, andava in bestia e non accettava scuse di nessun genere, neppure le più vere e convincenti. 

Il 27 ottobre del 1939, per esempio, Balbo era a Venezia. Era la vigilia dell'imbarco del secondo scaglione di ventimila contadini perula Libia. I «ventimila» sarebbero salpati il giorno dopo, 28 ottobre, salutati da Balbo e da tutta una fila di altri gerarchi maggiori e minori. Venezia brulicava di camice nere, di stivali lucentissimi e di berretti sormontati dall’aquila imperlale. Il 27 sera, a Milano, Paone venne chiamato al telefono. Era il segretario di Balbo. «Il maresciallo desidera vedervi domani a Venezia», disse. Paone sapeva benissimo che quel «desidera» era un puro eufemismo, traducibile ogni volta in un perentorio ordine di convocazione. 

Ma quella sera provò a resistere. Il giorno dopo era l’anniversario della Marcia su Roma, festa nazionale e fascista quante altre mal: il «sovversivo» Paone non poteva rischiare di farai vedere in giro. In borghese, in una giornata come quella. Anche la questura aveva i suoi ordini e Remigio Paone vi si era abituato da un pezzo. 

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f5Paone a Torino nel 1938 insieme a un amico. Benché non iscritto al partito fascista dal 1933 dirigeva l’Unat, l’organizzazione nazionale del teatro.Sbalordì i gerarchi

La sera del 27 ottobre 1939 cercò, dunque, di ricordare queste cose al segretario di Balbo, perché a sua volta le riferisse al «maresciallo» se per caso le aveva dimenticate. Disse si telefono: «Ma domani è il 28 ottobre; lo non mi posso muovere, non mi posso mettere la camicia nera, neppure per far piacere al maresciallo». Non ci fu nulla da fare. La telefonata da Venezia si concluse con queste parole: «Caro Paone, ricordatevi che il maresciallo vi aspetta». Fu cosi che la mattina del 28 ottobre un signore In borghese, vestito correttamente con un cappotto grigio scuro e un cappello a lobbia, si presentò all'albergo Danieli e fu introdotto in un salone in cui erano riuniti tutti i gerarchi presenti a Venezia. C'era De Bono, c'era Vaccari (allora prefetto di Venezia), c'era il federale di Venezia, quello di Padova, quello di Treviso, quello di Rovigo e tutti gli altri delle città cui facevano capo i contadini che stavano per emigrare in Libia: «Una iradiddio di divise e di medaglie». dice Paone, raccontando oggi lo episodio (i facchini della stazione, i marinai sul vaporetto e persino il portiere del Danieli gli avevano rivolto la parola in francese, tanto era strano veder un italiano in borghese In un giorno come quello, a Venezia). 

Nel salone si erano formati vari gruppi. De Bono teneva circolo davanti ad una finestra, Balbo era proprio in fondo alla stanza, e discuteva animatamente con due o tre del suol accompagnatori, voltando le spalle alla porta. Quando questa si apri e nel vano comparve Paone, nel suo cappotto grigio, con la lobbia in mano, lo stupore per la inattesa e straordinaria apparizione interruppe a mezzo tutte le conversazioni. «Ebbi l’impressione — racconta Paone — che tutti quei gerarchi pieni di medaglie mi guardassero atterriti. Forse pensarono che avessi una bomba nascosta sotto il cappello». Solo Balbo non si era accorto di nulla e continuava a parlare. Ma l’Improvviso silenzio che al era fatto dietro di lui lo obbligò a volterai. Stava per chiedere «cosa succede?», quando vide il signore in grigio impalato sulla porta («e per la verità — dice Paone — non meno imbarazzato e preoccupato di tutti quei federali in divisa»). Allora gii si apri in una sonora risata e gridò: «Ohé, Paone, vieni avanti, vieni avanti. E non aver timori. Va bene che sei uno sporco antifascista ma hai le mani pulite». E cosi tra due ali di gerarchissiml sbalorditi Paone fece il suo Ingresso nel salone del Danieli e, per ricambiare tanta ospitalità, si piantò sull’attenti davanti al maresciallo e gli fece un bel saluto fascista. Ma le emozioni e le sorprese non erano ancora finite. Balbo gli batté affettuosamente una mano sulla spalla e poi gli disse: 

«Caro mio, ti ho mandato a chiamare perchè voglio farti fare un film sulla Libia». La meraviglia di Paone fu tanto grande che, per la prima volta da quando frequentava Balbo, sbagliò nel rivolgergli la parola e lo chiamò «Eccellenza». «Qui di eccellenze ce ne sono già fin troppe», tagliò corto Balbo, dando un’occhiata circolare a tutte le facce che gli stavano intorno, sempre più sbalordite di quello che stava accadendo. I gerarchi cominciarono a chiedersi l’un l'altro, facendosi riparo alla bocca con i berretti dall’aquila d’oro «Ma chi è, chi è... E non ha neppure il distintivo...». 

Lo stesso ragionamento dovettero fare anche a Roma, quando Paone si presentò a Pavolini, ministro della Cultura Popolare, per esporgli i progetti di Balbo e i suol a proposito di questo famoso film sulla Libia. Comunque, poiché a quel tempo i desideri del «maresciallo» erano ancora considerati degli ordini, venne fondata una speciale società cinematografica per la propaganda sulle realizzazioni del regime in Libia e Paone, che non aveva mai messo piede in un teatro di posa, venne nominato amministratore delegato della società. Mancavano esattamente otto mesi all'entrata in guerra dell’Italia. La società rimase in vita giusto otto mesi, che furono anche gli unici — di tutta la vita di Paone — occupati in usa attività cinematografica. 

Balbo aveva detto che voleva per il suo film «della gente molto in gamba». Paone gli fece i nomi di Duvivier come regista, e di Michèle Morgan e Jean Oabin come interpreti stranieri. Erano 1 tre nomi che andavano per la maggiore nel cinema internazionale. Ma era follia pensare di affidare a tre celebrità francesi un film italiano e per di più sulla Libia, nel novembre del 1939. Balbo non aveva certo di queste preoccupazioni. Si mostrò entusiasta della scelta fatta da Paone e lo spedi a Parigi. Pavolini aveva dato il proprio beneplacito. Diceva che e-ra meglio accontentare Balbo, tanto non sarebbe mai riuscito a realizzare il suo film; la guerra sarebbe scoppiata prima e anche Balbo avrebbe avuto dell'altro cui pensare. «E' un temperamento esuberante — diceva a Paone del maresciallo — bisogna lasciare che si sfoghi». 

Il “padrone” mi spia 

Paone, dunque, si mise a far la spola tra Roma e Parigi. Poiché la Francia era In guerra da un pezzo e non sempre i viaggi erano senza pericolo, Balbo aveva dato al suo messaggero una specie di scorta personale. Cosi Remigio Paone fu in quello scorcio di tempo uno degli uomini più «accompagnati» d’Italia. Tra gli «amici» di Balbo e quelli che per suo conto gli mandava alle calcagna la questura, era sicuro che non gli sarebbe capitato mai nulla. Le trattative procedevano bene, i francesi avevano accettato le offerte, Duvivier stava leggendo la sceneggiatura (che era, come il soggetto, del più fidato amico di Balbo, Nello Quilici, quello che morì poi insieme a lui nel cielo di Tòbruch), Pavolini continuava a dare la sua approvazione con la stessa aria tra divertita e compassionevole con cui si dice di si a un pazzo. 

Una mattina dell'aprile 1940, mentre Paone si trovava a Milano, fu raggiunto da una delle solite telefonate del segretario di Balbo. Questa volta la telefonata veniva da Tripoli, ma il tono era sempre lo stesso: «Il maresciallo vi prega di prendere subito un aereo e di raggiungerlo». Paone arrivò a Tripoli alle cinque del pomeriggio del giorno dopo, che era un mercoledì. Il maresciallo aveva riunito al Palazzo del Governatorato tutti i federali della zona. Ma appena gli annunciarono che era arrivato Paone, mandò a monte la riunione perchè voleva subito sapere per filo e per segno le ultime novità sul famoso film. «Amico mio — interrompeva ogni momento, — faremo insieme cose spettacolose. Tutti dovranno parlarne, tutti ti dico». Allora Paone, timidamente, si provò a ripetergli quel che aveva sentito dire in Francia durante il suo ultimo viaggio. «Maresciallo, a Parigi si dice che tra due mesi noi saremo in guerra». «Paone, mi meraviglio di te. Va bene che sei antifascista, ma non puoi credere il padrone tanto fesso da fare la guerra. Stai tranquillo, dai retta a me e vatti a vestire per il pranzo. Abbiamo un'ospite di riguardo». L’ospite era Lady Chamberlaln, la moglie dello statista inglese, che il maresciallo aveva conosciuto a Londra qualche anno prima e che ora era venuta a restituire la visita in veste di turista, almeno ufficialmente. Ma forse U marito l’aveva inviata a Tripoli con l’incarico segreto di saggiare il terreno presso questo irriducibile nemico della guerra. 

Dopo il pranzo gli ospiti (c’erano a tavola ventidue persone) furono invitati alla proiezione di un film. Era una pellicola italiana di cui Paone non ricorda il titolo, dice «per carità di patria». Comunque ricorda benissimo che Balbo si scusò con Lady Chamberlain, prima che la rappresentazione cominciasse, con queste parole: «Cercate di essere Indulgente, signora: l’Italia, oggi, non può offrire di meglio». Nel salone del cinematografo gli ospiti presero posto su comodissime poltrone. Paone si addormentò. Ma nel più bello del sonno, la voce un po’ chioccia del maresciallo con la caratteristica inflessione del suo dialetto ferrarese e quella erre moscia naturale che dava tanto fastidio anche a Mussolini, lo risvegliò bruscamente. «Paone, salame! — tuonò nella sala buia. — Quando parti?». Paone aveva già in tasca il biglietto di ritorno sull'aereo del sabato mattina. «Sabato, maresciallo». «Come, perchè proprio sabato?». Pensando che Balbo volesse trattenerlo a Tripoli e non avendo nessun desiderio di rimanerci, Paone azzardò: «Ma, veramente, ho già preso degli impegni. Non posso proprio partire più tardi, maresciallo». «Salame! Tu devi partire domani mattina». Paone rimase senza fiato. Come? Era appena arrivato, aveva ancora tanto sonno e tanta stanchezza da smaltire: il maresciallo lo trattava proprio cpme un pacco postale. Disse: «Veramente ho già il biglietto...». «Salame! Chi comanda qui? Balbo. E vuoi che Balbo non sia neppur capace di farti cambiare il biglietto?». Naturalmente, ebbe ragione lui. 

Spiegò poi a Paone perché aveva tanta fretta di farlo tornare in Italia. Aveva da affidargli un messaggio per una persona cara, un messaggio urgente. «Ma non posso telegrafare, capisci: il governatore della Libia non può telegrafare a chi vuole e quello che vuole. Il padrone mi spia». E cosi dicendo gli consegnò il testo del telegramma che Paone avrebbe dovuto trasmettere appena arrivato a Roma, per espresso. 

1954 08 28 Settimana Incom Remigio Paone f6Remigio Paone insieme a Sarah Ferrati e al marito, il tenore Infantino, durante una prova In un teatro milanese. L’attività teatrale di Paone cominciò nel 1929, quando Sem Benelli gli chiese di fare l’amministratore della sua compagnia. A quel tempo Paone era segretario del banchiere Luigi Della Torre, ma accettò con entusiasmo l'incarico affidatogli da Sem Benelli perchè gli permetteva di soddisfare finalmente la sua grande e antica passione per il teatro.

L'aereo del sabato 

Remigio Paone usci alle due di notte dal Palazzo del Governatore con un diavolo per capello inveendo In cuor suo contro i messaggi urgenti, le follie dei marescialli e la stupidaggine del «padrone». Al bar dell’albergo (era l'albergo Uoddam, il migliore di Tripoli, allora), incontrò Chiavelini e la scrittrice Mura. Chiacchierò con loro fino alle quattro del mattino, tentando di spiegare a Mura (che voleva convincerlo a rimandare la partenza perchè lei aveva il biglietto per il famoso aereo del sabato mattina) come fosse impossibile dire di no al maresciallo. Alle cinque e mezzo saliva sull’aereo per Roma. 

La follia di Balbo, quella volta, gli salvò la vita. L’aereo del sabato mattina non arrivò mai a Roma. Andò a fracassarsi contro lo Stromboli e Mura morì nell’incidente, insieme a tutti gli altri passeggeri. Si salvò solo il pacco della posta. Paone lo seppe il giorno stesso. Era a Genova, all'Hotel Miramar, insieme a Balbo e a Duvivier. Il maresciallo era arrivato giusto in tempo per il té, aveva ammarato con il suo idrovolante personale nelle acque di Genova ed ora discuteva amabilmente di cinema insieme al regista francese. Era la prima volta che Balbo e Duvivier si incontravano, ma in poco più di un'ora il maresciallo aveva conquistato il suo ospite. Gli spiegò per filo e per segno come voleva fosse fatto il film, quali erano i suoi intendimenti, che cosa voleva si mettesse maggiormente in evidenza. Ad un certo punto parlarono anche della guerra e Balbo ripetè la sua frase preferita, «il padrone non è fesso». Ma la disse in francese e tradusse letteralmente «padrone» in «patron», cosa che divertì molto Duvivier, il quale immaginava che tutti i fascisti, piccoli o grandi, designassero il loro capo soltanto con il nome ufficiale di Duce. 

L'addio di Balbo 

Quando una telefonata del suo segretario avvisò Balbo della sciagura aerea dello Stromboli, il maresciallo — che pure era un uomo abituato ad ogni sorta di pericoli e di brutte notizie — diventò pallido come un morto. «Salame ! — disse a Paone. — D'ora in poi cerca di ricordarti che se sei ancora al mondo lo devi a Italo Balbo». Quindici giorni dopo mentre Paone stava nella hall dell'albergo Excelsior a Roma in compagnia di Porcili e di Viarisio, gli recapitarono un pacco. La carta era un po’ lacerata, ma si vedeva ancora chiaramente l’indirizzo dell’albergo, lo Albergo Uoddam di Tripoli. Allora gli venne in mente che nella fretta di partire aveva dimenticato alcune camicie in albergo e che aveva telefonicamente pregato la direzione di spedirgliele con il prossimo aereo, quello del sabato. Paone non ha mal aperto quel pacco. Cosi come glielo consegnarono nella hall dell'Excelsior, con tutti i timbri, lo spago e la ceralacca e quella carta un po' stracciata, si trova ora a Milano, nell'armadio dove tiene la sua biancheria personale. «Non ho mai avuto coraggio di disfarlo — dice. — Al solo pensiero che è stato là sullo Stromboli, insieme a quei poveretti che sono morti, mentre lo ml son salvato per un caso, mi fa venire i brividi». 

Il 19 maggio 1940 a diciassette giorni dallo scoppio della guerra tra Italia e Francia, Paone tornò per l’ultima volta a Parigi. Era accompagnato questa volta dallo addetto militare dell’ambasciata di Francia a Roma, il maggiore Lefèvre. Il maggiore aveva avuto l’incarico dal suo ambasciatore di presentare Paone al Ministero della Guerra a Parigi. Tutto questo traffico lo aveva voluto, al solito, Balbo il quale si era messo in testa di far ottenere una licenza straordinaria a Duvivier. che era stato richiamato sotto le armi, perchè potesse venire In Italia a parlare con lui del film sulla Libia. Questo film era ormai diventato per Balbo una specie di ossessione, sembrava posino che volesse a tutti i costi metterlo in cantiere per scongiurare in qualche modo l’angoscia che ormai era nell'aria. 

Al Ministero della Guerra accolsero Paone e il maggiore Lefèvre come due evasi da un manicomio. La Francia era a metà invasa dai tedeschi, Parigi viveva in regime di stato d’assedio, sotto un governo militare, e questi venivano dall’Italia, a parlare di Duvivier, di registi, di film. Pazzia, pura pazzia. Ma quando Lefèvre fece il nome di Italo Balbo, il viso di quel signori mutò come per incanto. «Ah c'est pour le marechal Balbo? Mais alors, ca change!», si tratta di Balbo? Ma allora è tutta un'altra cosa, dissero. E Duvivier ottenne la licenza straordinaria e il permesso di recarsi in Italia. 

Fu un viaggio drammatico. In mezzo a paesi che già sentivano arrivarsi addosso gli invasori, con la continua minaccia degli aerei, con tanti posti di blocco per i quali occorrevano documenti che nessuno del tre passeggeri aveva. 

Il maggiore Lefèvre rimase al volante della macchina da Parigi a Livorno, senza fermarsi mai. Quando Duvivier salutò poi Paone per tornare in Francia, è ormai era chiaro che il film non si sarebbe fatto, e invece la guerra si, gli disse: «Mon ami, la guerre c’est la guerre. Mais le marechal Balbo, fa c’est un homme». E voleva intendere: la guerra ci farà presto diventare nemici, ma questo non può impedirmi di affermare la mia ammirazione per il maresciallo Balbo: è un vero uomo. 

Il 2 giugno Balbo era a Roma. Fece chiamare come al solito Paone al telefono a Milano. Voleva vederlo il giorno dopo, prima di partire per la Libia. «Arrivai a Roma a mezzanotte — racconta Paone. — Balbo era al bar dello Albergo Excelsior insieme al principe Aldobrandinl, al generale Sacco e a Nello Quillci. Mi prese sottobraccio e mi portò nel suo appartamento. Non si sedette neppure. Aprì le braccia in un gesto di rassegnazione e mi disse: «Questa, caro Remigio, è l’ultima volta che ci vediamo. Io ho perduto: la guerra si fa». «Beh, che vuol dire? Ci rivedremo quando tutto sarà finito». «No, Remigio, qua va tutto a catafascio. E io di laggiù non torno». 

Morì il 28 giugno. Una ventina di giorni prima aveva telefonato a Badoglio: «Smettetela di mandarmi uomini, non so che farne. Mandatemi aeroplani e cannoni». 

Emilia Granzotto, «La Settimana Incom Illustrata», anno VII, n.35, 28 agosto 1954


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Emilia Granzotto, «La Settimana Incom Illustrata», anno VII, n.35, 28 agosto 1954