Una di quelle

1953 Una di quelle 7

Parlo solo la lingua madre perché mio padre morì quando ero bambino.

Rocco Bardelli

Inizio riprese: novembre 1952 , Stabilimenti Ponti - De Laurentiis
Autorizzazione censura e distribuzione: 1 agosto 1953 - Incasso lire 247.200.000 - Spettatori 2.259.953



Titolo originale Una di quelle
Paese Italia - Anno 1953 - Durata 98 min - B/N - Audio sonoro - Genere romantico - Regia Aldo Fabrizi - Soggetto Giorgio Bianchi, Aldo De Benedetti - Sceneggiatura Aldo De Benedetti, Aldo Fabrizi - Fotografia Gabor Pogany - Montaggio Gabriele Varriale - Musiche Carlo Innocenzi - Scenografia Piero Filippone


Lea Padovani: Maria Rossetti - Totò: Rocco Bardelli - Peppino De Filippo: Martino Bardelli - Aldo Fabrizi: Il dottore, Ubaldo Mancini - Mara Landi: L'entraineuse - Giulio Calì: Guardamacchine - Nando Bruno: Il tassista - Mario Castellani: Il farmacista - Laura Gore: Annie - Antonio Vaser: Il portiere d'albergo - Alberto Talegalli: Un burino - Pina Piovani: La portinaia


Soggetto

Rocco e suo fratello Martino sono due ricchi tenutari di campagna che scendono in città in cerca di avventure. Maria è una vedova con un figlio a carico, indebitata col padrone di casa, che cerca di tirare avanti con piccoli lavori di sartoria. Un giorno riceve la visita di una vicina di casa, prostituta, che le chiede un favore di sartoria. Elogiando la bellezza di Maria, e capendo le sue difficoltà economiche, la prostituta le suggerisce di tentar la stessa professione, a suo parere l'unico modo per una donna sola di trovare il denaro per poter vivere.Disperata dalla situazione personale ed economica e prossima allo sfratto, Maria accetta a malincuore il consiglio e il giorno seguente si reca in un locale notturno, imbattendosi proprio nei due benestanti uomini di campagna. Il suo fascino discreto e sfuggente fa immediatamente colpo su Rocco, che la corteggia e la invita a uscire dal locale per andare in un albergo, chiedendo a Martino di aspettare il suo turno con la donna e di seguirli a distanza.

Dopo aver cercato inutilmente di affittare una camera d'albergo, i due vanno a casa di lei. L'uomo, credendo di avere a che fare con una prostituta esperta, le espone chiaramente le sue intenzioni, ma Maria, ancora combattuta e riluttante, non vuole lasciarsi andare. D'un tratto un vicino di casa suona alla porta, consegnando a Maria il figlio che presenta difficoltà a respirare e febbre alta. Rocco, assistendo alla preoccupazione della madre, corre in una farmacia notturna alla ricerca di un dottore.

Uscendo, incontra Martino, ma non gli dice nulla di quanto sta accadendo in casa, lasciandogli credere che si stia piacevolmente intrattenendo con la donna. Trovato il dottore e accompagnatolo alla casa, si scopre che le condizioni del piccolo sono gravi e Rocco viene mandato a comprare alla farmacia un vaccino per la difterite, in modo da fermare l'infezione ed evitare al piccolo un intervento d'urgenza di tracheotomia. Durante l'assenza di Rocco, Maria è disperata sia per paura di perdere il figlio, sia nel timore che l'uomo non mantenga fede all'impegno, andandosene via. Dopo alcune difficoltà e ostacolato dal maltempo, Rocco riesce a trovare la medicina e torna giusto in tempo per evitare il peggio. Passato il pericolo, il dottore, che scambia la strana riservatezza tra Rocco e Maria per un rapporto conflittuale tra marito e moglie, li invita ad andare maggiormente d'accordo e prescrive una cura per il figlio.

Suggerisce poi alla madre, anemica, di mangiar di più e a recarsi in campagna. Rimasti soli, Maria e Rocco parlano ancora per il poco tempo rimasto prima che il treno riporti l'uomo a casa. Maria le confessa di non essere una prostituta e la sua situazione, ringraziando Rocco per la bontà e dolcezza dimostrate e per quanto fatto nonostante fossero estranei. L'uomo, che già aveva intuito la situazione, poco dopo la invita elegantemente insieme al figlio nella sua tenuta di campagna, facendole con eleganza intendere che lì conosce "un uomo solo", desideroso di aver una donna a casa ad attenderlo. Infine, mentre si allontana, oltre alla quota lasciata la sera prima sotto una scatola di cioccolatini per la "prestazione", aggiunge di nascosto vari altri biglietti da mille lire. All'alba, i due si salutano insieme al bambino che si è svegliato e sembra guarito: Rocco e Martino si incamminano verso la stazione, salutando la donna al balcone e invitandola ancora a Campo Fiori.

Critica & curiosità

🎬 Una di quelle: non una di tante

Nel 1953 uscì nelle sale un film che avrebbe potuto cambiare il modo di intendere Totò — e invece cambiò solo i titoli nei manifesti. Fabrizi, al suo sesto film da regista e già affermatissimo attore (nonché forchettone d’oro di Cinecittà), osa e dirige per la prima volta Totò, con cui aveva già formato una memorabile coppia in Guardie e ladri. Il risultato? Un film troppo bello per essere capito, troppo vero per essere digerito, troppo malinconico per essere commercializzato. E così venne venduto al chilo, riciclato qualche anno dopo come Totò, Peppino e… una di quelle – titolo a metà fra la parodia e il clickbait ante litteram.

🎭 Commedia? Dramma? Boh!

È difficile incasellare questo film, perché fa a pugni con le etichette. È una commedia, ma ci si piange. È un dramma, ma ci si ride. È surreale, ma fotografato con un realismo quasi neorealista. Si ride, sì – ma ci si sente un po’ in colpa, come ridere durante un funerale perché il prete inciampa nel turibolo. E non è una battuta.

Fabrizi si barcamena tra intenzione drammatica e necessità di comicità, come un equilibrista che cammina su una fune tirata tra Chaplin e De Sica, con un’asta fatta di sketch irresistibili, miseria proletaria e galli campagnoli.

🎥 Realismo da manuale (con inserti comici come post-it)

La Roma che ci viene mostrata non è quella da cartolina con i tramonti sul Tevere e le Vespe che zigzagano allegre: è una capitale spenta, umida, notturna, fatta di guardamacchine stralunati, taxi che puzzano di vino, locali bui con cantanti trasteverine travestite da parigine. Una città che somiglia più a un incubo della domenica sera che a Vacanze Romane.

Il merito va anche alla fotografia di Gábor Pogány, che riesce a far sembrare il Pantheon un avamposto lunare e le strade del centro come comparse in cerca d’autore. Un po’ Roma città aperta, un po’ Roma città chiusa perché piove e non c’è un cane in giro.

🤹 Totò e Peppino: comicità con le lacrime agli occhi (ma non si sa se per ridere o piangere)

Il film si poggia sulla dinamica tra Rocco (Totò) e Martino (Peppino), due provinciali in trasferta notturna nella capitale, alla ricerca di trasgressione, di donnine allegre, e magari anche di un digestivo. La realtà, però, li prende a schiaffi: le “donnine” sono vedove disperate, i locali sono deserti, e il sesso paga, ma solo in contanti e con rimpianti.

Peppino è qui al massimo della sua forma grottesca: cafone e poetico, naif e spalla perfetta per un Totò che alterna umori da uomo di mondo a struggimenti da uomo solo. I loro battibecchi – il tassista che crede che Peppino sia ovunque, la battuta del “Padreterno”, la camera in albergo negata – sono il pretesto per lasciare andare un’ironia feroce, che fruga tra le tasche bucate del realismo e ci trova il biglietto usato della malinconia.

💔 Maria, una di quelle… che non si dimenticano

Lea Padovani, che aveva già interpretato una “donnina allegra” in Totò e le donne, torna qui in un ruolo che sembra scritto su misura con ago e filo da sarta: è Maria, madre sola, onesta fino all’ultimo spillo, costretta a vendere il suo corpo per salvare il figlio malato e i mobili dall’asta giudiziaria. Un personaggio tragico senza retorica, che spezza il cuore senza urlare, che commuove senza tirare i fazzoletti ma facendo piegare lo spettatore come un’anca che scricchiola.

Totò, inizialmente interessato solo al piacere, si ritrova invece coinvolto in una notte di rivelazioni, trasformandosi da cliente a potenziale marito, da avventuriero a salvatore, da uomo a essere umano. Il tutto senza perdere mai di vista un cucchiaio, un bottone, un cappotto e la possibilità di un sorriso.

🧪 Il siero, il gallo e la redenzione

Il punto di svolta è la corsa notturna alla farmacia, per trovare il siero che salverà il bambino. Totò torna giusto in tempo, mentre Peppino – ignaro di tutto – bussa alla porta con in testa chissà quali orge. Ne nasce un siparietto tragicamente comico, con battute surreali (“Io perdo ogni diritto?”, “Giosuè Carducci!”) che toccano vette di comicità degne di Ionesco in vacanza a Cinecittà.

Poi, il gallo che canta e Totò che parla di polli tenori, della campagna, della possibilità di cambiare vita. La proposta di matrimonio più teneramente implicita della storia del cinema italiano si conclude con una frase che è un invito e un addio insieme: «Montefiori… Rocco Bardelli». E Maria, finalmente, sorride.

🧵 Un film che cuce dramma e commedia con lo stesso filo

Fabrizi non dirige: ricama. Usa la macchina da presa come una macchina da cucire, infilando la pellicola in una trama in cui ogni punto è calibrato, ogni nodo è un’emozione, ogni risata è una toppa sopra una crepa. Anche i dettagli parlano: la lampada col filo, la miseria che odora di sapone scadente, la Roma vuota, i galli da operetta.

Il suo è un film che ha il sapore dell’aria del mattino, quando la notte non è finita ma già si sogna il giorno. È cinema popolare nel senso più nobile: parla a tutti e di tutti, con l’ironia di chi ha pianto e la malinconia di chi ha saputo ridere.

🕯️ Totò: meno maschera, più volto

In Una di quelle, Totò è quasi senza maschera. Ci sono pochi gesti “alla Totò”, pochissime smorfie. È un uomo che parla piano, che osserva, che impara, che cambia. È l’uomo che ha fame e sa che per ridere davvero devi prima aver pianto. La sua comicità è contenuta, quasi segreta, a tratti improvvisa come un singhiozzo che diventa risata.

Non è la macchietta da rivista. È il borghese smarrito nel cuore della miseria, il provinciale con un cuore grande e due mani goffe. È Totò, ma è anche Chaplin, anche De Sica, anche Fabrizi. È tutti e nessuno. È Rocco Bardelli, ed è una delle sue interpretazioni più belle, più fragili, più vere.

🏁 Conclusione: Una di quelle… che si ricordano

Non è un film qualsiasi. Non è nemmeno solo un film. Una di quelle è un incontro: tra Totò e Fabrizi, tra comicità e dramma, tra l’Italia del dopoguerra e quella del boom alle porte. È un film di confine, di passaggio, di transizione. È uno sguardo lungo come un’alba vista da una panchina bagnata.

Forse all’epoca non piacque. Forse fu troppo avanti, o troppo indietro. Ma oggi, rivisto, rivela la stoffa del capolavoro: ruvida, resistente, cucita a mano. Come una di quelle camicie di provincia che non passano mai di moda.

E allora sì: Una di quelle, ma una di quelle che non si dimenticano mai.


Un approfondimento dettagliatissimo, appassionato e un po’ sfacciato delle scene più memorabili del film

🚖 Il taxi dei desideri smarriti

Una delle sequenze iniziali più emblematiche è quella con Totò e Peppino seduti in taxi, mentre ascoltano l’autista (Alberto Talegalli) descrivere con tono complice la vita notturna di Roma come un sogno di lussuria e tentazioni. In realtà, ciò che incontrano non è il mito della trasgressione, ma una capitale deserta, umida, malinconica come un giorno di novembre.

L’atmosfera che si crea è già indicativa: la trasgressione sognata è spenta, gli eroi sono due provinciali con la valigia piena di aspettative e le tasche piene di spicci, e il tassametro corre più veloce delle loro illusioni. È un capolavoro di disillusione comica, con Peppino che si comporta come un poliziotto in borghese: «Io ti guardo le spalle».

🧥 Il guardamacchine e l’Alfa Romeo immaginaria

Altro momento gloriosamente memorabile: Totò e Peppino all'ingresso del tabarin, dove incontrano il guardamacchine, un poveraccio anziano e allampanato (Giulio Calì), bersaglio preferito di insolenze gratuite.

Rocco (Totò) lo tratta con un misto di fastidio e aristocratico disprezzo:
– «Che ci ha preso per un’Alfa Romeo?»
– «Quando parla con noi, si tolga il cappello!»
– «Fetente!» (aggiunge Martino con zelo plebeo).

Tutto il gioco è costruito sulla superiorità apparente del provinciale arricchito che sfoga la sua frustrazione su chi sta appena un gradino più in basso nella scala della miseria. Ma la vendetta del destino è pronta: poco dopo saranno loro a mendicare informazioni dallo stesso uomo. Ironia sottile e crudele.

😂 La lotteria al guardaroba

La scena dell’ingresso al locale è una miniatura di teatro dell’assurdo. Quando la guardarobiera chiede:
– «Non prendono i numeri?»
Peppino, candido come un’ostia pasquale, risponde:
– «Che c’è, la lotteria?»

È l’apoteosi del malinteso, l’inadeguatezza comica elevata a codice linguistico. I due si muovono come elefanti dentro una cristalleria esistenziale. Il pubblico ride, ma con un senso crescente di pena e imbarazzo: ridiamo con loro, ma anche di loro, e pure per loro.

L’equivoco del tassista: "Ma lei sta in ogni luogo?"

Il tassista (Nando Bruno) è convinto di aver già visto Peppino al Pantheon e lo accusa velatamente di essersi attaccato abusivamente al taxi come una sanguisuga urbana.

Il culmine arriva con la battuta:
– «E che lei sta in ogni luogo? Che si crede di essere il Padreterno?»
E Peppino, folgorato, risponde con tono solenne:
– «Può anche essere. Sta' attento, figliuolo. Va’, va’, vai...»

Questa scena è comicità teologica, surreale, degna di Samuel Beckett riscritto da Totò. Il tono è da apocalisse da bar, ma la risata è autentica, spiazzante, destabilizzante. Un piccolo miracolo di nonsense che rivela la grandezza dei due attori.

🛏️ La scena dell’albergo: “Io ce li ho!”

In un altro momento esilarante, Totò e Lea Padovani cercano di ottenere una camera d’albergo. Il portiere è sospettoso, e Martino interviene:

– «Io ce li ho!»

Alludendo ai documenti, ma la frase è così generica che sembra quasi un'allusione erotica, burocratica o entrambe. Quando il portiere chiede:
– «Il signore desidera?»
Martino, ignaro e adorabile:
– «Io non fumo.»

In questo scambio di battute c’è tutta la comicità del fraintendimento, dove il codice sociale si inceppa e genera gag involontarie, con la risata che nasce dal disallineamento tra intenzioni e contesto.

💉 Il climax drammatico: il bambino e il siero

Quando il dramma si fa più acuto, ecco Totò correre nella notte bagnata alla ricerca del siero che salverà il bambino. Il momento è di altissima tensione, quasi un action movie da farmacia notturna. Eppure, non appena rientra, irrompe Peppino alla porta, convinto che stia avvenendo una festa a luci rosse:

– «Allora io perdo ogni diritto?»
– «Chi è questo?»
– «Giosuè Carducci» (risponde Totò, indicando il medico barbuto).

Un momento da commedia slapstick, incastrato in un contesto da tragedia urbana. È una delle scene più magistrali del film per equilibrio tra registri opposti.

🧵 Il bottone smarrito e il cucchiaio in bocca

Due piccoli momenti da antologia del realismo magico:

  1. Totò perde un bottone del gilet e, insieme a Lea Padovani, si mette a cercarlo carponi sotto al tavolo. La scena diventa intimità inattesa, contatto tra due esseri feriti.
  2. Quando il dottore visita il bambino, Totò si mette in bocca il cucchiaio usato per la gola del piccolo. Un gesto di imbarazzo infantile, tenero e comico allo stesso tempo, come se l’attore fosse tornato bambino davanti a una madre severa.

Sono istanti che mostrano l'enorme talento mimico di Totò, la sua capacità di fare cinema con un oggetto, un’espressione, una pausa.

🐓 Il gallo che canta, e la poesia della campagna

L’alba arriva con il canto di un gallo. Totò si fa pastore di sogni:

– «Al paese mio i polli sembrano tenori…»

Da qui parte un discorso quasi da proposta di matrimonio rurale, pieno di latte fresco, burro e bambini da accompagnare a scuola. È uno dei momenti più poetici del cinema italiano: il desiderio di redenzione, di normalità, di famiglia, espresso con pudore e poesia contadina.

🎭 Il finale sulla panchina: “Come ci siamo divertiti”

Peppino si risveglia su una panchina, bagnato e infreddolito, e pronuncia la frase che chiude il film:

– «Come ci siamo divertiti.»

La risata è amara, quasi postuma, come quella che segue una farsa andata storta. È una chiosa chapliniana, una pacca sulla spalla data a se stessi quando tutto è andato storto, ma si è ancora vivi. E questo, forse, basta.

🧠 Conclusione: un mosaico di scene indimenticabili

Una di quelle è un film pieno di piccoli capolavori di regia, scrittura e recitazione. Le sue scene memorabili non vivono solo di battute o situazioni comiche, ma della fusione profonda tra miseria e poesia, tra farsa e tragedia, tra sorriso e sgomento.

Totò qui non fa solo ridere: fa riflettere, intenerisce, riscatta la sua maschera e la trasforma in volto. Peppino è il contraltare perfetto, l’amico fedele e goffo, la nota stonata in una partitura dolcissima. E Lea Padovani è il cuore ferito che pulsa sotto i dialoghi.

Il cinema italiano non ne ha prodotti molti, di film così. Ma quelli che lo hanno fatto – questo incluso – ci restano nelle viscere, come una di quelle esperienze che, proprio perché sfuggenti e complesse, non si dimenticano mai.


Così la stampa dell'epoca

Un approfondimento ampissimo, a tratti impietoso, a tratti teneramente nostalgico, su come fu accolto il film da critica, pubblico e censura all’epoca della sua travagliata uscita. Un viaggio tra giornali disattenti, spettatori confusi, moralisti inflessibili e produttori con le mani nei capelli.

🗞️ Critica: l’arte sottovalutata (anche da chi fa il critico di mestiere)

La critica dell’epoca accolse Una di quelle con quella tipica espressione che potremmo sintetizzare in un’alzata di spalle seguita da un distratto “mah”. Sì, qualche recensione parlò vagamente di “tentativo interessante”, altri notarono “una certa intensità nei toni”, ma nessuno sembrò veramente capire il valore e la singolarità dell’operazione.

Il problema principale? Totò in un ruolo drammatico, o comunque a registro misto. Un azzardo che confondeva le categorie critiche allora rigidissime: se era Totò, doveva far ridere. Punto. E quindi: o non faceva ridere abbastanza, o non era credibile come attore serio. E così fu infilato nel cassetto delle “opere sbagliate”, accanto a Totò e Carolina e a tutti quei film che non rientravano nell’etichetta del comico da rivista.

I più indulgenti (pochissimi) apprezzarono l’umanità della storia e la qualità della regia di Fabrizi, ma la definizione più diffusa fu “ibrido irrisolto”.

I più spietati, come Giacovelli e Lancia anni dopo, bollano il film come una “vicenda da libro Cuore con pioggia, bambino morente e miseria a chili”. Ma oggi potremmo dire che quella pioggia era necessaria per far germogliare uno dei ritratti più delicati e crudi dell’Italia post-bellica.

🎟️ Pubblico: “Totò? Sì, ma solo se ride”

Il pubblico, com’era prevedibile, rimase spiazzato. Non trovò né le “botte da ridere” di Totò a colori né l’accoppiata vincente della serie Totò, Peppino e..., e dunque non sapeva come digerire quel film strano, triste, vero, eppure divertente in certi punti.

Il passaparola non decollò. La distribuzione fu timida, quasi vergognosa: il film uscì in sordina, restò in sala per pochissimo, e non riuscì nemmeno lontanamente a raggiungere gli incassi dei coevi film comici di Totò.

Eppure, chi lo vide e ne colse la sostanza, lo portò con sé come un piccolo segreto personale. Alcuni spettatori uscirono dalla sala con gli occhi lucidi, ma in silenzio. Il problema era proprio questo: Una di quelle non dava soddisfazioni semplici, non liberava la risata in modo diretto, non offriva battute da citare tra amici.

Era un film che lasciava un retrogusto amaro, e il pubblico italiano del 1953, uscito da poco dalla guerra e in cerca di spensieratezza, non era pronto per essere destabilizzato da Totò in versione empatica e compassionevole.

🛑 Censura: “Quelle? Sì, ma con decoro”

Il film sfiorava temi allora delicatissimi: prostituzione, povertà, disperazione sociale, e pure una mezza notte trascorsa da un uomo rispettabile in casa di una “donnina allegra”. E dunque la censura, con la mano tremante ma ferma del moralismo democristiano, si fece sentire.

Non ci fu un intervento massiccio come in Totò e Carolina, ma la pellicola venne osservata con sospetto, catalogata tra quelle “a rischio” per la dignità della morale pubblica. Il fatto che Maria fosse una madre vedova e non una “professionista del mestiere” salvò il film da veri e propri tagli devastanti. Ma la sola allusione alla prostituzione bastava per far alzare sopracciglia e telefonate ai Ministeri.

È verosimile (sebbene non documentato in modo ufficiale) che anche il cambio di titolo successivo – da Una di quelle a Totò, Peppino e… una di quelle – abbia avuto una funzione “detergente”: riportare il film nell’alveo della commedia, sterilizzarlo, camuffarne il senso profondo sotto una maschera da farsa.

Perché sì, se la donna è “una di quelle”, allora il pubblico può sospirare di sollievo: non è un dramma vero, è solo finzione. E se c’è Peppino nel titolo, allora siamo salvi: è roba che fa ridere.

🏛️ I produttori: tra il coraggio e il panico

La produzione, guidata da Fabrizi con la Alfa Film, insieme alla Rosa Film dei rampanti De Laurentiis e Ponti, scommise con incoscienza o lungimiranza su un ibrido delicatissimo. Si trattava di mescolare tre ingredienti instabili:

  1. Fabrizi regista/attore/ideatore;
  2. Totò in versione semi-drammatica;
  3. Un soggetto che parlava di prostituzione, infanzia malata, povertà e riscatto morale.

Un cocktail esplosivo. Il problema è che nessuno aveva l’accendino giusto per farlo brillare.

Dopo la delusione dell’uscita, i produttori fecero marcia indietro. Il film venne rititolato, rilanciato con una campagna ingannevole (si faceva passare per una delle commedie farsesche della coppia Totò-Peppino) e rimesso in circolazione senza particolare convinzione.

Era chiaro: i produttori non sapevano cosa farne. Troppo serio per essere venduto come comico, troppo comico per diventare un dramma “autoriale”, troppo ambiguo per piacere ai moralisti, troppo sincero per piacere a tutti.

📚 Accoglienza nel tempo: la giusta (tardiva) rivalutazione

Come spesso accade nel cinema, il tempo è stato più giusto degli uomini. Col passare dei decenni, Una di quelle è stato progressivamente rivalutato da studiosi, cinefili e appassionati di Totò “minore” (cioè maggiore).

Si è capito che il film anticipava moltissimi temi del cinema sociale italiano:
– il contrasto tra città e provincia,
– la solitudine urbana,
– la redenzione tramite l’incontro umano,
– il disincanto della notte metropolitana.

Molti hanno notato l’analogia con Chaplin, non solo per le atmosfere alla City Lights, ma anche per il tentativo di creare una figura comica che potesse convivere con la malinconia, senza sfigurare. Totò come Charlot a Trastevere.

Anche gli studiosi della recitazione hanno riscoperto la finezza interpretativa di Totò: minimalista, attento, calibrato, totalmente lontano dalle gag “smorfiose” dell’avanspettacolo. Una recitazione intimista, sommessa, mai retorica, che esplode solo nei rari momenti di sfogo.

🧠 Conclusione: un film ignorato perché troppo in anticipo

Alla fine, possiamo dirlo senza timore di essere smentiti: Una di quelle è uno di quei film che furono incompresi perché scomodi, sinceri, non addomesticabili. Non rispondeva ai canoni della commedia commerciale, né a quelli della denuncia sociale impegnata. Stava nel mezzo. E si sa, in Italia il “mezzo” non è mai piaciuto a nessuno: o si piange, o si ride. Non si possono fare entrambe le cose.

Ma proprio per questo oggi lo amiamo. Perché ci dice che Totò non era solo il principe della risata, ma anche l’attore della pietà, della compassione, della tenerezza. Che Fabrizi non era solo il panzone del Natale in casa Cupiello, ma un autore raffinato, sensibile, pronto a sporcarsi le mani con l’umanità vera.

E che il cinema italiano, anche nei suoi errori commerciali, è stato capace di dire verità più profonde di mille film “riusciti”.

Una di quelle non è stato capito. Ma è stato profetico. E chi l’ha visto con il cuore aperto, non l’ha dimenticato più.


Totò ha spremuto dal personaggio ogni minima occasione per costruire una figura non labile , la cui comicità si colora di una vena crepuscolare, la quale può valere, ancora una volta, di indice delle enormi possibilità, pur sempre vergini, di questo straordinario commediante [...]

Giulio Cesare Castello, 1953


La vena di Aldo Fabrizi regista di cinema non è diversa da quella cui si rifanno nessuno calde virtù di interprete: da una parte, farsa e comicità, dall'altra - secondo le tradizioni più antiche della letteratura romanesca - sentimento e malinconia. Nel film di oggi sono i temi sentimentali a prevalere, ma l’ umorismo, come sempre non è dimenticato. [...]

Questa lineare favoletta ha trovato in Fabrizi un narratore cordiale l'umano, a volte piuttosto semplice, ma sempre tutto cuore, affetto e buoni sentimenti e il pubblico, così, lo ha seguito con interesse e affettuosa commozione. gli interpreti, impegnati e sicuri, sono Lea Padovani, Totò, Peppino De Filippo e lo stesso Fabrizi in una fugace apparizione. la fotografia è di Gabor Pogany: le si debbono alcuni scorci di Roma piovosa e notturna di felicissimo effetto.

«Il Tempo», 9 ottobre 1953


[...] Aldo Fabrizi ha raccontato questa patetica storia con circostanziata prolissità alternando le note sentimentali a quelle comiche e cercando soprattutto di sfruttare le risorse di una facile commozione e di un compiacente ottimismo. Totò e Peppino De Filippo sono i due provinciali e i loro duetti sono assai divertenti. Fabrizi nella parte del medico è il bonario e accomodante deus-ex-machina della vicenda. Lea Padovani è la vedova umiliata, offesa e ricompensata.

«Il Messaggero», 9 ottobre 1953


Niente paura; non è «una di quelle». Il titolo dice il contrario di quanto espone il film. La nostra Lea Padovani, attrice autentica che viene poco sfruttata dai nostri cineasti, è si una certa sera una «solitaria» di un dancing... da perdizione, ma lo è perchè la miseria spinge lei, vedova e sola, a cercare un po’ di denaro. Ma donne perdute si nasce — par dire il film — non si diventa, e allora mentre Peppino de Filippo e Totò, ciociari venuti a Roma per passare una sera in... perdizione, l'adocchiano, ella se ne esce da quella bolgia e i due la seguono. [...]

Dobbiamo rimproverare Fabrizi per aver pensato e diretto questo film? Manco per idea. La conclusione è cosi bella e sana che non possiamo che applaudire, tuttavia l'ambiente del dancing, e parte del seguito, non è per tutti gli occhi. Ci vorrà un po’ di prudenza nell’avviare il pubblico giovane d’ambo i sessi a questo film. La mano di Fabrizi si rivela, quale regista, come quella di un uomo che oramai conosce il mestiere e alcune cose sono belle come bella è la fotografia.

Il pubblico ride, perchè Totò sa far ridere e cosi Peppino. Fabrizi truccato da.... Giosuè Carducci, come dice Totò, ci dà un bel tipo di medico buono e generoso condannato alla fatica di medico di «Notturna». In complesso un film divertente e fatto in guisa da scontentare tutti.

c. Tr. (Carlo Trabucco), «Il Popolo», 10 ottobre 1953


Un film realizzato da tre attori comici di temperamento differente, quali Totò, Fabrizi, Peppino De Filippo e che denunciano il titolo l'audacia di affrontare, sia pure indirettamente, uno scottante tema sociale da tutti conosciuto, attrae istintivamente il pubblico. la protagonista femminile e Lea Padovani, la quale rinnova, nella sua interpretazione, il successo della personalità estetica, della sensibilità e della coscienza che distinguono sempre da sua recitazione. Altri interpreti del film sono Laura Gore, Nando Bruno, Alberto Talegalli, Giulio Calì, Pina Piovani, Mario Castellani. [...]

«Momento Sera», 10 ottobre 1953


Il film italiano Una di quelle, diretto da Aldo Fabrizi, si annuncia invece assai gaio e ricreativo: basti pensare che con Fabrizi, regista e interprete, vi figurano Totò e Peppino De Filippo. [...] Le interpreti femminili sono Lea Padovani - Maria - e Laura Gore - Silvia.

«L'Avanti», 17 ottobre 1953


"Una di quelle" attesta che, di tutte attività, la più difficile e complessa, in cui non si ottengono apprezzabili risultati senza un coscienzioso tirocinio, è quella della dissolutezza. Onesti si nasce e scioperati e viziosi si diventa. Aldo Fabrizi, che ha diretto questo film da un soggetto che De Benedetti ha sceneggiato, ha cercato di far centro sui toni patetici. [...]

A tratti, specie nella prima parte, nei duetti Totò-De Filippo, prevale la comicità che è nella natura del due attori e del loro regista. Si sa che Fabrizi, come autore di film, ha dato allo schermo ilari opere sulla buffa famiglia Passaguai. Ma stavolta ha cercato, con assillo, gli struggimenti; tutta la seconda parte di "Una di quelle" gioca sul contrasto sorriso-lagni, ma trasformando una licenziosa impresa in un casalingo e pudico idillio. Psicologia epidermica, senza nemmeno il tentativo dell'approfondimento: figure convenzionali come in una canzonetta; sviluppi scontati sin dal principio. E tuttavia, grazie agli interpreti, tutti bravi — e specialmente bravo Totò, che noi preferiamo in queste parti da uomo piuttosto che in quelle da marionetta — la pellicola non spiace interamente. Si avverte l’Intenzione di rifarsi, nel bozzetto, al clima del fortunato film "Guardie e ladri". Ma quanto piove, in "Una di quelle". Si dice: per le strade non c’é che acqua, questo novembre è cominciato sei mesi fa, andiamo a ripararci al cinema. E invece, anche al cinema ombrelli, impermeabili e dolori reumatici. L’operatore Clabor Pogany ha fotografato cosi bene gli acquazzoni che capita di starnutire, guardando lo schermo.

lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 4 novembre 1953


Si tratta di un film di attori. Uno di essi, Fabrizi, s'é incaricato bonariamente della regia; gli altri, Lea Padovani, Totò, Peppino De Filippo, gli danno valorosamente una mano con amabilità di buoni compagni. Erede, sotto molti aspetti, della commedia dell’arte, il cinema è anche questo: uno spettacolo creato assieme da specialisti che cercano, senza darsi troppe arie, di combinare qualcosa di divertente e, soprattutto, di non noioso. Si é ovviamente lontani con "Una di quelle" dalle pellicole originali e profonde, che tutti discutono, che i critici ricordano, e che, come anche si dice, lasciano il segno. Ma il cinema, come ogni altra forma di spettacolo, ha pur bisogno di cose non troppo impegnate, purché gradevoli e di buon gusto, per riempire i vuoti e per offrire una continuità di produzione. Film come" Una di quelle" sono opere feriali; divertono e sono subito dimenticate. [...]

Come regista, Fabrizi ha saputo dosare accortamente la parte faceta e quella sentimentale della vicenda. Totò fa appena il minimo per ricordare il comico caro a tutte le platee per le sue lepidezze, e mostra di poter essere, quando vuole, interprete misurato ed efficace.»

P. B., «Corriere d'Informazione», 5 novembre 1953

«Settimana Incom Illustrata», anno VI, n.42, 17 ottobre 1953



A Roma sono stati conferiti gli annuali «Nastri (l'Argento» del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici ai migliori film italiani della stagione. Un produttore (meglio tacerne il nome perché non siamo sicuri che scherzasse) si è lamentato che non ci fosse anche un «Nastro» per il film peggiore: gli sarebbe toccato di diritto. Ecco un punto di vista interessante in tanto discutere di premi e di sovvenzioni. Quel produttore si vantai di fare brutti film e ne vorrebbe il riconoscimento ufficiale, convinto com'è che con i bei film si guadagnano premi ma non soldi. Oltre a tutto, un film artisticamente valido non è mai né conformista né anodino, e quel produttore (e come' lui tanti, ahimè!) non è tipo da battagliare con la censura. È uno che sa vivere. Per aumentare il successo commerciale dei suoi brutti film, tenta di contrabbandare all’occasione un po’ di pornografia: se gli riesce, bene; se non gli riesce, tanto peggio.

Con simili chiari di luna, c’è da stupirsi che esista ancora chi s’intesti di realizzare film con intenti d'arte e, quanto meno, con decoro. Con l’occasione dei «Nastri», fermiamoci dunque un momento con questi paladini che hanno la sensibilità di commuoversi ricevendo pochi grammi d’argento sui quali però c’è scritto che hanno bene meritato. (L’«Oscar» William Holden, intervenuto alla serata, ha detto al microfono: «Lo so come ci si sente in certi momenti. È una gran bella emozione. E sono lieto di trovarmi a Roma proprio in questa circostanza».)

Fra i tredici «Nastri» troviamo premiati, per una ragione o per l’altra, I vitelloni (il produttore Pegoraro, il regista Fellini e Alberto Sordi), Cronache di poveri amanti (il musicista Zafred e lo scenografo Pek Avolio),Pane, amore e fantasia (Gina Lollobrigida), Magia verde (Gian Gaspare Napolitano e l’operatore Craveri), Anni facili (gli scenaristi Brancati, Amidei, Talarico, Zampa e il protagonista Nino Taranto), Il sole negli occhi (il regista Pietrangeli), Tempi nostri (Elisa Cegani). E Lea Padovani, distintasi soprattutto in «Una di quelle» e in Tempi nostri, ha avuto un «Nastro d'Argento» speciale per il complesso delle sue interpretazioni.

Forse Cronache di poveri amanti meritava un maggior riconoscimento e, dal punto di vista della qualità, allo scenario di Anni facili è preferibile quello de II sole negli occhi o quello di Pane, amore e fantasia; ma, in complesso la premiazione ha indicato i migliori della stagione e può dirsi soddisfacente.

Particolarmente lieta era la Lollobrigida. «Per molto tempo», ha detto, «la stampa mi ha considerato solo una "maggiorata fisica ”...» (Risa e applausi.) «Il premio», ha ripreso, «significa che la stampa ha cambiato idea e questo mi fa un enorme piacere.» Elisa Cegani, Nino Taranto e Lea Padovani erano veramente commossi; tanto più commossa e al settimo cielo la Padovani che aveva appena ricevuto la comunicazione che a Saint Vincent un’altra giuria le aveva attribuito la «Grolla d’oro». Bisogna dire che essa merita questi premi. Semmai c’è da osservare che li avrebbe meritati molto prima. E lo stesso rilievo si può fare per Elisa Cegani.

Per manifestare la sua soddisfazione, Alberto Sordi ha scritto una poesia e l’ha declamata alla folla che stipava la «Villa dei Cesari». S’intitola «Nastro d’Argento». È una di quelle sue poesie drammatiche popolate di steppe, di tenebre, di nonnette, poesie che dalle parole e per l’accento commosso col quale sono dette, dovrebbero strappare pianto e gridi di dolore. Dovrebbero, dico; perché in effetti l’assurdo delle parole e dell’accento è in tal modo combinato che la gente ride a crepapelle. Credo che di Sordi piaccia soprattutto questo: che sia discolo, dispettoso e bravo ragazzo.

Due soli assenti fra i premiati : Amidei, in Germania con Rossellini, e Craveri che sta girando Continente perduto in Indonesia. Fra i non premiati, assenti i delusi. Il record degli applausi è toccato alla Lollobrigida.

D.M., «Epoca», anno V, n.199, 29 luglio 1954


Le risate sul set con Aldo Fabrizi

Lavorare con Totò era un piacere, una gioia, un godimento perchè oltre ad essere quell'attore che tutti riconosciamo era anche un compagno corretto, un amico fedele e un'anima veramente nobile. Ogni giorno il nostro incontro in teatro, mai prima delle 13 (Totò era più nottambulo che mattiniero, mentre io pur rincasando tardi mi svegliavo presto: lui arrivava fresco fresco, leggero leggero, ed io che avevo già sforchettato, pesantino pesantino, dovevo ricorrere a doppi caffè anti pennichellistici), dicevo, il nostro, incontro avveniva sempre con un abbraccio sinceramente affettuoso e due bacetti, uno di qua, uno di là.

Nel breve tempo che ci preparavamo per la scena da girare, c'era il solito scambio informativo a base di «come te senti?», «hai dormito?» e altre domandine e relative rispostine personali.

Arrivati davanti alla macchina da presa, cominciavamo l'allegro gioco della recitazione prevalentemente estemporanea che per noi era una cosa veramente dilettevole. C'era soltanto un inconveniente che diventando spettatori di noi stessi ci capitava frequentemente di non poter andare più avanti per il troppo ridere. Il guaio, però, era che la cosa non finiva lì poiché bastava una battuta nuova, un gesto impreveduto, una reazione inaspettata per dover interrompere nuovamente il

dialogo con disappunto di noi stessi che, pur lieti e felici per il divertimento nostro e dei presenti, ci davamo complimentosamente la colpa l’un con l'altro. Se il regista visti gli inutili tentativi di sottrarci a queste crisi di fanciullesca irresponsabile ilarità, proponeva di girare due primi piani in controcampo, per utilizzare i pezzi buoni, noi ci impegnavamo solennemente di farla per l'ultima volta senza interruzione, come si addice a due professionisti seri e consapevoli del costo della pellicola.

Pero non convinti di quanto promettevamo, scoppiavamo in una irrefrenabile risata, cercavamo di giustificare all'attonito regista che il nuovo attacco era soltanto uno sfogo per scaricarci da ogni eventuale pericolo di ricaduta.

Tuttavia, prima di girare cercavamo di rattristarci nominando la nostra età, le nostre tasse e, se in quei giorni era avvenuta la dolorosa scomparsa di un nostro amico, mancato all'affetto dei suoi, cari, ricorrevamo anche a questo luttuoso freno. Ma dopo un'espressione di concentrato cordoglio, purtroppo sbottavamo vergognosamente a ridere prima del ciak.

Aldo Fabrizi, «Corriere della Sera», 15 aprile 1977



La censura

Viene imposto un divieto alla visione per i minori di anni 16, divieto che influisce negativamente negli incassi del film.


I documenti

Edizioni home video del film, con informazioni sulle uscite in VHS e DVD, anni di pubblicazione, edizioni disponibili e contenuti speciali.

📼 Edizioni in VHS

1. Collana "Il Grande Cinema di Totò" – Fabbri Video (anni '90)

Negli anni '90, Fabbri Video pubblicò una collana intitolata Il Grande Cinema di Totò, che includeva diverse pellicole del celebre attore napoletano. È probabile che Una di quelle sia stata inclusa in questa serie, ma non ci sono conferme ufficiali.

2. Edizione singola – eBay (data non specificata)

Una videocassetta VHS del film è stata messa in vendita su eBay, indicata come usata ma in buone condizioni. La custodia potrebbe presentare lievi segni di usura, ma la videocassetta è funzionante e priva di difetti significativi.

💿 Edizioni in DVD

1. Edizione "Vecchio Cinema" – 1953

Il sito Vecchio Cinema offre una versione DVD del film, indicata come del 1953. Tuttavia, considerando che il formato DVD è stato introdotto negli anni '90, è probabile che si tratti di una riedizione successiva. Non sono disponibili informazioni dettagliate sui contenuti speciali o sulle caratteristiche tecniche di questa edizione.

📚 Conclusione

Le edizioni home video di Una di quelle sono relativamente rare e spesso non accompagnate da contenuti speciali o restauri significativi. Per gli appassionati e i collezionisti, reperire una copia può richiedere una ricerca approfondita su piattaforme di vendita online o presso rivenditori specializzati in cinema d'epoca.

Attualmente (2025), non risultano edizioni in Blu-ray o versioni digitali ufficiali del film. Tuttavia, è possibile che in futuro vengano realizzate nuove edizioni con restauri e contenuti aggiuntivi, considerando l'importanza storica e artistica della pellicola.


Nel corso di un film Fabrizi finisce col litigare con tutti. Ebbe anche un diverbio con Totò quando lo diresse in Una di quelle perché – in una scena di pioggia artificiale scrosciante – una comparsa che doveva dare uno spintone a Totò dicendo una battuta continuava a sbagliare e Totò, stufo di infracicarsi, gli aveva detto che scritturasse per il ruolo qualcuno minimamente in grado di recitare invece di una schiappa. Lui, tra le altre frasi pittoresche, gli rispose che la smettesse di fare il burattino e accadde il finimondo. Totò lasciò il set e non vi rimise piede che dopo due giorni e solo quando Fabrizi gli aveva presentato le sue scuse. Tutto questo però lo fa solo per via del suo caratteraccio che si accende come un cerino. Altrimenti non c’è persona migliore di Aldo. E nessuno che abbia tenuto Totò in più considerazione di lui, come del resto lo teneva Totò che di Fabrizi aveva una stima immensa come attore. Nella vita, poi, erano molto amici, Aldo era una delle poche persone dell’ambiente che Totò vedeva fuori scena.

Dante Maggio


Cosa ne pensa il pubblico...


I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com

  • Uno dei miei film preferiti con Totò e Peppino, nonostante si tratti di un film prevalentemente drammatico (dove De Filippo appare poco), l'ho trovato comunque un ottimo prodotto. Fabrizi (anche attore nel ruolo del medico) riesce a fondere bene la comicità e i duetti della coppia con situazioni più lacrimose dove il grande Totò risulta pienamente credibile e convincente. Da vedere per trovare un Totò leggermente diverso dal solito.

  • Strano innesto quello della coppia Totò-Peppino De Filippo, in un film dove al centro c'è una vicenda di povertà e di solitudine enfatizzata al massimo, anche con l'improvvisa malattia del bambino. Devo dire che però funziona abbastanza, merito soprattutto di un Totò capace di cambiare velocemente registro. La regia di Aldo Fabrizi è Fabrizi stesso, comico di razza, ma capace di parti altamente drammatiche, e qui ha alzato i toni del dramma (con una Padovani che più triste non si può) per contrapporli a quelli leggeri della famosa coppia.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La ingannevole locandina.

  • Gli eccezionali protagonisti mal si adattano al tono agrodolce della commedia. Il personaggio di Totò suona un po' forzato, quello di Fabrizi prevedibile, col suo altruismo da borborigma; l'unico a convincere a pieno è De Filippo, testimone ignaro di un atto di santità laica. Da lodare, invece, la regia, specie nel finale, con la coppia comica ad allontanarsi in una periferia anonima e gigantesca, simbolo di un'Italia nuova e ingiusta.

  • Fabrizi riesce nell’intento di trasmettere tutta la sofferenza e l’angoscia di una povera madre che nel tentativo di sopravvivere finisce col cadere in disgrazia. Fortuna che ci sono Totò e Peppino che regalano qualche ventata di ilarità, sebbene la situazione sia drammatica. Un esempio forse minore ma comunque efficace di neorealismo, con la differenza che lascia un flebile barlume di speranza.

  • Operina patetica che Fabrizi diresse rifacendosi al neorealistmo e ottenendo invece di sciupare la presenza di Totò e Peppino in un film sbagliato, considerato da molti estimatori del Principe come uno dei suoi peggiori. L'unico personaggio salvabile è proprio quello interpretato da Peppino: mostra di non aver capito nulla della "triste vicenda" e, con ineffabile laidezza, vuole credere fino all'ultimo di star lì soltanto per, ehm, "quella cosa". Grande Peppino, sei tutti noi! Un vero demistificatore occulto dell'ipocrisia dell'intera operazione.

  • Una pagnottella saporita piena di tante buone, questo film. C'é, formata per la prima volta, la coppia dei “cafoni” Totò e Peppino che calano alla conquista di Roma e dei suoi piaceri proibiti; c’è Fabrizi che si ritaglia, come attore, un ruolo intenso alla Orson Welles di un medico ricco di umanità; c’è la storia melodrammatica della povera vedova cstretta dal bisogno a diventare “una di quelle; ”c’è la Roma squallida delle periferie vista come un allucinato quadro metafisico di De Chirico; c'è Fabrizi che filma col cuore in mano e con un sorriso amaro.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Magnifico il ruolo di Peppino De Filippo, così comicamente ottuso e tetragono nella sua convizione che la Padovani sia davvero una prostituta.

  • Tra i meno noti e apprezzati lavori del Principe, credo abbia meno demeriti di quanti gliene si attribuiscono. Certo, vedendo Totò e Peppino (e contando anche la presenza di Fabrizi) ci si aspetterebbero le solite risate, invece il film è molto serioso, quasi forzatamente melodrammatico. Il lato più comico è affidato a Peppino, che continua a vivere nell'equivoco sul rapporto tra il cugino e la Padovani, inscenando gustose gag anche con Fabrizi. Totò dà una buona prova, anche se in alcuni momenti soffre chiaramente il taglio del film.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Peppino quasi scaraventato fuori dalle scale da Fabrizi, Totò che mette in bocca il cucchiaio del bimbo malato.

Le incongruenze

    1. Aldo Fabrizi, nel ruolo del medico, inietta per via intramuscolare una dose di siero antidifterico al bambino di Lea Padovani e gli salva la vita,utilizzando una siringa in cui ci sono appena due o tre cc. di liquido. Chi però abbia avuto, come il sottoscritto, il discutibile privilegio d'essersi un tempo sottoposto a sieroterapia antidifterica conosce e ricorda benissimo l'enorme volume d'ogni somministrazione, dai 10 ai 20 cc. a seconda delle U.I. necessarie alla terapia.
    2. Il doppiaggio (dell'epoca) è troppo spesso fuori sincrono, ed anche sbagliato. Per fare un solo esempio,quando Totò batte col manico del suo ombrello sul tassì, per svegliare il tassinaro dormiente, i colpi iniziano a sentirsi prima che il legno tocchi la carrozzeria, e sono in numero di 4, mentre Totò batte due volte sole: subito dopo, anche la chiusura d'uno sportello è preceduta di circa 1/2 secondo dal rumore corrispettivo.
    3. Poco dopo l'inizio del film, la vicina di casa che suona alla porta di Lea Padovani tiene tra le mani un vestito: inquadrata in primo piano di 3/4 da dietro (alla sua sinistra) ha entrambe le mani e l'oggetto all'altezza del torace. Al cambio di scena,controcampo con rotazione oraria della camera di circa 140°, la donna ha istantaneamente abbassate le mani, che non sono più visibili, malgrado la ripresa sia effettuata dal basso verso l'alto.

www.bloopers.it


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Riferimenti e bibliografie:

  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • "Totò attore" (Ennio Bispuri) - Gremese, 2010
  • "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
  • Sebastiano A. Giuffrida, "Roma, esterno giorno", Biblioteca dello spettacolo Brufo Editori - Perugia
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
  • Giulio Cesare Castello, 1953
  • «Il Tempo», 9 ottobre 1953
  • «Il Messaggero», 9 ottobre 1953
  • c. Tr. (Carlo Trabucco), «Il Popolo», 10 ottobre 1953
  • «Momento Sera», 10 ottobre 1953
  • «L'Avanti», 17 ottobre 1953
  • lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 4 novembre 1953
  • P. B., «Corriere d'Informazione», 5 novembre 1953
  • «Settimana Incom Illustrata», anno VI, n.42, 17 ottobre 1953
  • D.M., «Epoca», anno V, n.199, 29 luglio 1954
  • Aldo Fabrizi, «Corriere della Sera», 15 aprile 1977