La banda degli onesti
Antonio Bonocore
Inizio riprese: gennaio 1956, Studi INCIR - De Paolis, Roma
Autorizzazione censura e distribuzione: 20 marzo 1956 - Incasso lire 388.846.000 - Spettatori 2.603.938
Paese italia - Anno 1956 - Durata 106' - B/N - Audio sonoro - Genere commedia - Regia Camillo Mastrocinque - Soggetto Age & Scarpelli - Sceneggiatura Age & Scarpelli - Produttore Isidoro Broggi per DDL Roma - Fotografia Mario Fioretti - Montaggio Gisa Radicchi Levi - Musiche Alessandro Cicognini - Scenografia Alberto Boccianti
Totò: Antonio Bonocore - Peppino De Filippo: Giuseppe Lo Turco - Giacomo Furia: Cardone - Gabriele Tinti: Michele, figlio di Bonocore - Giulia Rubini: Marcella, figlia di Lo Turco - Nando Bruno: Maresciallo Denti - Luigi Pavese: Ragionier Casoria - Memmo Carotenuto: Fernando - Gildo Bocci: tabaccaio - Lauro Gazzolo: Andrea - Salvo Libassi: Brigadiere Solmi - Anita Ciarli: la madre di Antonio - Yoka Berretty: Marlene, moglie di Antonio - Mario Meniconi: Un Finanziere - Guido Martufi: Riccardo, figlio di Lo Turco - Enzo Maggio: Barista
Soggetto
Antonio Bonocore, portiere di uno stabile di Roma con una moglie tedesca, si trova per caso ad assistere il signor Andrea, un anziano inquilino che, prima di morire, gli rivela di essere in possesso di alcuni cliché originali della Banca d'Italia, di cui era stato a lungo dipendente, nonché della carta filigranata per stampare banconote da 10 000 lire. Il signor Andrea aveva rubato questo materiale con l'intenzione di vendicarsi del fatto di essere stato messo da parte, ma non aveva poi mai avuto il coraggio di passare all'azione. Chiede quindi a Bonocore di buttare nel fiume la valigia con i cliché.
Bonocore però decide di non gettare la valigia, ma ignorando le tecniche di stampa delle banconote, per produrre i pezzi da 10 000 si vede costretto a chiedere la collaborazione del tipografo Giuseppe Lo Turco e, successivamente, del pittore Cardone, tutti e due variamente indebitati come lui.
Facendo leva sui bisogni economici dei suoi compari, organizza delle furtive riunioni notturne per dar vita a una banda di falsari.
I tre riescono a stampare le banconote e a "spacciarne" una in un bar notturno. Le cose però si complicano quando Bonocore scopre che suo figlio maggiore Michele, finanziere da poco trasferito a Roma, sta seguendo un'indagine relativa proprio a delle banconote false.
Dopo aver sentito alcuni particolari raccontati da Michele e vedendo la polizia che va a perquisire la tipografia di Lo Turco, e notando strani cambiamenti nel modo di vestire dei suoi "soci", Antonio teme di essere scoperto, con l'aggravante che essendo egli padre di un finanziere, possa costare il posto al figlio. Pertanto prega i suoi compari di non spendere più un soldo, e di disfarsi subito dell'attrezzatura, sotterrandola fuori città.
Antonio, sentendosi ormai braccato, decide di farsi arrestare proprio da Michele: un figlio che arresta il padre - egli spiega - non solo non lo cacciano, ma lo promuovono, e diventa un esempio per tutti i suoi colleghi.
Decide perciò di mettere in pratica il suo progetto andando di persona in caserma per farsi arrestare dal figlio, il quale crede che voglia scherzare. Ma dopo aver sentito dal Maresciallo che l'indagine seguita da Michele si è chiusa con l'arresto di una banda di falsari professionisti e che il biglietto da lui spacciato era stato sì identificato, ma non era uno di quelli prodotti dai tre, bensì il campione usato, falso anch'esso e cedutogli da un usuraio, certo Pizzigoni, sta quasi per svenire.
Scopre poi che nessuno dei suoi soci aveva avuto il coraggio di spendere una sola delle banconote fabbricate.
I tre, ritrovata la tranquillità, decidono di distruggere tutte le banconote false e la valigia con i cliché, allestendo un falò; come gag finale, Bonocore si accorge (troppo tardi) di aver buttato tra le fiamme, nella foga, anche la busta contenente il suo stipendio.
Critica e curiosità
Sulla Gazzetta dello Sport compare un articolo dal quale si evince che la macchina stampatrice a pedalina che stampò le prime "diecimila" false si trova attualmente in un'azienda tipografica di Macomer in provincia di Oristano dove fa bella mostra di sè assieme ad una foto dei tre falsari.
La banda degli onesti fu girato interamente a Roma nel gennaio del 1956; gran parte del film si svolge in esterni, pochissimi sono gli ambienti interni ricostruiti in teatro di posa. Tutte le scene ambientate nel condominio dove abitano i protagonisti furono filmate in uno stabile situato nel quartiere Della Vittoria, precisamente in viale delle Milizie 76: il cancello d'ingresso, l'androne con la guardiola e il cortile interno compaiono nel piano sequenza dei titoli di testa e più volte nel corso della pellicola; altre scene furono girate sui tetti, per le scale e nelle cantine del medesimo fabbricato.
Altri luoghi romani riconoscibili sono: il ponte dell'industria, dal quale Antonio sta per gettare la valigia prima di cambiare idea; piazza degli Zingari, dove Lo Turco ha la tipografia; la stazione Cavour della metropolitana (inaugurata un anno prima delle riprese) e un bar nell'antistante piazza della Suburra; piazza Gimma nel Quartiere Trieste, dove Bonocore e Lo Turco avvicinano per la prima volta Cardone; la tabaccheria in via di Monte Savello 28, dove i tre spacciano la prima banconota; il parco archeologico di Villa Gordiani, nel quale le rovine della Tor de' Schiavi fanno da sfondo a un bacio tra Michele e Marcella e dove, subito dopo, Bonocore e Cardone seppelliscono la valigia; il Comando Generale della Guardia di Finanza in viale XXI Aprile dove Antonio va a costituirsi e infine la via Appia Antica, che fa da sfondo a tutta la scena conclusiva.
Dati tecnici
Formato negativo (mm/video pollici): 35 mm
Processo cinematografico: Spherical
Formato stampa film: 35 mm
Distribuzione
Portogallo: Totó e as Notas Falsas, 4 maggio 1960
Germania Ovest: Die Bande der Ehrlichen
Così la stampa dell'epoca
Il secondo film prodotto interamente dalla D.D.L. è La banda degli onesti, girato nel gennaio '56 da Camillo Mastrocinque. I protagonisti sono il portinaio Antonio Bonocore (Totò), il tipografo Giuseppe Lo Turco (Peppino De Filippo) e il pittore Felice Cardoni (Giacomo Furia), tutti assillati dai debiti. Un giorno Bonocore si ritrova tra capo e collo un insperato tesoro, un cliché autentico della Zecca e un pacco di carta filigranata, il materiale sufficiente per fabbricarsi in proprio parecchie banconote da diecimila lire. [...]
Alberto Anile
«Le Ore», anno IV, n.151, 31 marzo 1956
Muse napoletane, abbiamo tante volte mangiato cocomeri o lupini insieme, aiutatemi a dire tutto il male e tutto il bene possibili di Totò. Chi è più attore e meno artista di lui? Chi, se non Totò, è l’unico, il massimo denigratore che Totò abbia, l'ospite furtivo, il cugino povero, il visitatore umile, frainteso, balbettante, di se stesso? Chi, o lacere e fulgide Muse napoletane, si inganna, si disconosce, si rinnega più del nostro impareggiabile conterraneo Totò? Poteva, il Creatore dei Petito, degli Scarpetta, dei Viviani, dei De Filippo, realizzare con maggiore talento e con maggiore impegno un lavoretto come Totò? Egli, l’Apollo indigeno (mi permettete di figurarmelo anziano, grigio, arruffato come un « solachianiello », ovverosia come un ciabattino, di Materdei? Gli mettiamo sulle ginocchia un domestico e rognoso, un mandolino, invece della mitica lira, e siamo a posto), vedeva lontano, chilometri e chilometri, sulla via del comico. Perciò fece Totò come lo fece. Piccolo, anzitutto, ma dilatabile: che agevolmente si rapprendesse, fino ad assumere l'apparenza di un oggetto, e che un momento dopo, con altrettanta facilità, si allungasse e allargasse e sfrangiasse come le nuvole di giugno su Mergellina. Un corpo di funambolo, anzi di fachiro, a tratti disanimato, cadaverico, e a tratti invaso dalle furie, scattante, volante. L'inerzia e il moto, pietre e vento, nel medesimo involucro. Gli arti indipendenti, liberi, dissociati, un braccio o una gamba di Totò è in individuo nell'individuo, un attore nell’attore. Il collo a segmenti, a cannocchiale. E infine (Muse napoletane, aiutatemi) un volto senza parentele, indefinibile, astruso, un mondo chimerico di fronte occhi naso bocca zigomi anomali, buffi e terrifici, che agghiaccia e rapisce, che stimola al riso e, contemporaneamente, a non so che umana solidarietà e partecipazione.
Mi fa ridere e sospirare la mascella deragliata di Totò. Egli, tanto se avesse dato retta ai suoi connotati surreali (affrancandosi da ogni coerenza), quanto se li avesse gettati a contrasto nel reale, nei malinconici avvenimenti di ogni giorno, sarebbe stato un pozzo di finissima allegria cinematografica. Ma, debbo ripeterlo, Totò non ha intelligenza di sé, non vive con Totò. Non si è mai cercato o indovinato, mai. Ha trasferito per ventanni, sullo schermo, il Totò del Varietà; e che diavolo annunzia, mentre Taranto passa egregiamente alla prosa e mentre l'incauto Rascel sogna di affrontarla a sua volta? Una Compagnia di Riviste.
Ma fermiamoci al cinema. Scaduti gli impegni che lo vincolavano se non erro alla Ponti - De Laurentiis, Totò ha fondato una Casa di Produzione. Ottima idea. Quale avrebbe dovuto essere il primo pensiero di un Totò che abitasse in Totò, che gli volesse effettivamente bene? Quello dei copioni e dei registi. Mannaggia. Totò aveva gli indirizzi degli uomini di penna e di manovella usati per lui dalla Ponti - De Laurentiis, e ad essi, immediatamente, ha fatto cenno. Che ve ne pare? È amico o nemico dell’arte sua, l'ineguagliabile Totò? Cosi abbiamo avuto il coraggio (un fallimento) e adesso abbiamo La banda degli onesti, un film quasi apprezzabile nel suo genere, abbastanza gaio, ma che certo non ripiglia il Totò di Napoli milionaria e dell'Oro di Napoli. Infatti La banda degli onesti avrebbe anche potuto chiamarsi Totò portinaio o Totò falsario, alla vecchia maniera; nessuno ci avrebbe rimesso, né gli autori del testo, né gli interpreti, né la regia.
Antonio, il « pipelet » di un casermone suburbano, accudisce a un solitario e decrepito inquilino che, morendo, gli lascia (fu incisore al Poligrafico dello Stato) un cliché per le banconote da diecimila lire e una risma di carta filigranata. Fondamentalmente retto, ma pieno di guai, Antonio si aggrega, per tentare la grande avventura della disonestà, due ometti come lui: Giovanni, proprietario di una meschina tipografia, e Felice, un pittore d'insegne. I tre, dopo molte esitazioni, decidono di osare. La notte, nell'antro di Giovanni, rosicchiati dalla paura, stampano alla meglio i favolosi biglietti. Subito la vicenda si complica: Antonio ha un figlio sbirro, al quale per l’appunto viene affidato l'incarico di stanare certi audaci falsari. Di qui una catena di equivoci, talora ingegnosi, talaltra sgarrati o puerili (quello per esempio del cane dato per morto e che invece, dalla campagna dove Antonio lo ha abbandonato, ritorna ovviamente, caninamente a casa); fino all'epilogo, nel quale i tre compagni bruciano l'apocrifo denaro e ci informano (ma era già successo nel film Racconti romani) di non averne spacciato nemmeno l'ombra. Il motivo essenziale del raccontino era di qualità psicologica, era la nativa incapacità a delinquere degli umili personaggi, il congeniale orrore del crimine, davanti al quale sbiadisce ogni miraggio di ricchezza e di gioia: ma la sommaria, trafelata regia di Camillo Mastrocinque non ha dato, al poetico argomento suggerito dalla trama, né cielo da vedere né terra da camminare.
Due parole sul Giovanni di Peppino De Filippo. Illustre e caro Totò, lo guardi, lo osservi obiettivamente con me. Lui sì. Peppino. sa chi è e che cosa vuole. Pur esilarandoci, pur deformando squisitamente nella caricatura il personaggio affidatogli, Peppino lo adotta, lo vive in ogni gesto, lo fa carne propria. Giovanni ha, in parecchie inquadrature, un'intensità charlottiana. Quella mesta figura di tozzo artigiano, accanto alla sua « pedalina », quella faccia di tanghero oppresso, accigliato. in perpetua guerra con gli infimi e tragici problemi della « cambialetta. dì tremila lire, del cliente in debito di mille e cinquecento lire, del conto di novecento lire in sospeso dal fruttivendolo, Peppino le ha tratte dal gran mare della gentuccia partenopea, nel quale, come il sottoscritto e come Totò, d'altronde, annaspò lungamente. Ridiamo, perciò, del Giovanni di Peppino De Filippo, ma non senza qualche brivido. Antonio è, al contrario, l’ennesimo divertente « numero » di Totò: né verità né bugia; accademia, esibizione dei rari connotati dei quali ho detto in principio, e basta. I muri della portineria fremono come teloni, a causa di ciò; e ammicca, fuori campo, la buca del suggeritore. Dio perdoni ai soggettisti la moglie tedesca dì Antonio. A che pro, tedesca? Non ha la minima ingerenza nell'intreccio, non esiste: Age e Scarpelli avevano questo buco nell'acqua della rappresentazione e lo hanno preferito germanico invece che italiano, sarà una forma di estremo, calante, occiduo patriottismo. Felice, il pittore di insegne, è Giacomo Furia. La sua macchietta di « babbasone », di omaccio puerile e mammista, cioè traboccante dì filiale tenerezza, mi pare valida, imbroccata, e meritava uno sviluppo maggiore. Senonché Totò urgeva... ci vuole il coraggio mio per dirgli: caro Totò, badi che la seconda o la terza virtù del genio cinematografico, paghi o non paghi di sua tasca la pellicola e tutto, è la discrezione. A me i vezzi, l’irresistibile boccuccia a cuore, i femminei sgomenti dì Giacomo Furia, mi deliziarono. E bravo don Giacomino: era inoltre Pasqua a Napoli, figuratevi, l'apoteosi dell’agnello che voi, come attore, gentilmente accarezzate e schernite.
Giuseppe Marotta, «L'Europeo», anno XII, n.15, 7 aprile 1956
[...] Vecchi motivi farseschi, abilmente manipolati, riescono ogni tanto a strappare la risata (felice la sequenza della fabbricazione dei biglietti, condotta a tempi riduiiniani) ; ma meglio che nel copione il filmetto trova consistenza nell'ameno duetto Totò-Pepplno De Filippo, nel quale si inserisce, senza sfigurare, Giacomo Furia.
l.p. (Leo Pestelli), «La Nuova Stampa», 13 aprile 1956
Nel lodevole intento di rinnovare il suo repertorio, Totò cerca, nei soggetti prescelti, di incarnare personaggi più umani e consueti, lontani dai lazzi e dalle smorfie e più vicini alla quotidiana realtà. [...] Film modesto, di stanca vena, povero di situazioni, di trovate e di comicità. Lo spunto di partenza — onesti falsari troppo onesti e troppo timidi — era abbastanza felice, ma risulta stiracchiato in motivi e scenette che rivelano, ad ogni momento, la corda e la loro fredda e inutile costruzione slegata dal racconto e dalla vicenda. Totò è comunque sempre attore di grandi doti e a lui, assai bene affiancato da Peppino De Filippo e da Giacomo Furia, il pubblico fa buona accoglienza, scordando spesso, per merito dell'ottimo protagonista, i limiti del modesto filmetto.
P.V., «Il Popolo», 13 aprile 1956
[...] Nel panorama non troppo consolante dei nostri film comici, questa pellicola di Camillo Mastrocinque merita una menzione onorevole. Spigliata, briosa, dotata di un dialogo vivace e di qualche genuina trovata, la storia corre diritta all'onesto scopo di suscitar risate, e bisogna riconoscere che ci riesce, grazie soprattutto all'interpretazione di Totó, nelle vesti del portinaio capo-banda, di Peppino de Filippo che impersona il tipografo mentre Giacomo Furia è il tremebondo pittore.
Vice, «Il Messaggero», 13 aprile 1956
Non sono mancati, a dire il vero, i film umoristici in questi ultimi tempi. In attesa della nuova legge e par schivare le forbici della censura, produttori e registi si sono esercitati in questo genere di spettacolo. E fra i tanti film umoristici pochi, addirittura rari, sono quelli che fanno ridere. Una gradita sorpresa è anche «La banda degli onesti». Le avventure di tre onesti cittadini romani che tentano, senza la minima attitudine e capacità, di passare dalla parte dei disonesti, fabbricando monete false, riesce divertente ed istruttiva. In un mondo costruito sul furto incontrare un portiere come Totò, un tipografo come De Filippo e un imbianchino come Giacomo Furia che non «ci sanno fare» è veramente roba da ridere. Age e Scarpelli (soggettisti e sceneggiatori) hanno avuto il gioco facile. Ma a parte la «trovata», il racconto è intessuto di annotazioni e osservazioni pertinenti alle miserie della realtà quotidiana e pertanto comprensibili ed efficaci.
Vice, «L'Avanti», 13 aprile 1956
Per anni il film "comico" italiano sorretto dalla mimica di questo o quel divo e dalle avvenenti sinuosità di stelle stelline pur imponendosi sul piano commerciale ha denunciato una carenza di temi e di ispirazione veramente grave; ma, infine, s'è forse capito che non bastano lezzi insipidi, situazioni troppo da pochade, epidermidi in mostra per sorreggere un genere che vanta al suo attivo intenti più nobili, si pensi soprattutto a Chaplin. Ed ecco ne «La banda degli onesti» il regista Mastrocinque presentarci un poveruomo alle prese con una tentazione troppo forte per la sostanza è per le ristrettezze in cui egli si dibatte. [...] Nell'antitesi profilata delle parole del titolo sta il gioco scenico e la morale di questa commedia, comica di effetti ma sostanzialmente tesa a inquadrare motivi di profondo interesse umano, che un'interpretazione sul filo del rasoio fatta ad arte da un Totò che si allontana sempre più dalla tipica macchietta per approfondire i suoi personaggi e da un De Filippo misurato e sensibile, rende evidente gustosa. Fra gli altri interpreti ricordiamo Giulia Rubini, Giacomo Furia e Gabriele Tinti.
Vice, «Il Tempo», 13 aprile 1956
Un altro film che ha solo la pretesa di divertire. E con ciò si è detto tutto: non che mancassero motivi e possibilità per dare alla pellicola un valore più «umano», ma sembra che il regista si sia contentato soltanto di far ridere il pubblico. E, naturalmente, ha permesso a Totò e a De Filippo di dar pieno corso a tutte le loro risorse di comici, senza tenerli un po' a bada con il freno dell'arte. Comunque, il film è "divertente": e chi si contenta gode. [...] Interpreti principali : Totò. Peppino De Filippo, Giulia Rubini, Giacomo Furia. La regia è di Camillo Mastrocinque.
Paglialunga, «Momento Sera», 14 aprile 1956
Lo spunto de «La banda degli onesti» è allettante: come sia inetta la gente per bene, quando si tratti di far tacere liti coscienza. Non è uno spunto nuovo, tra l'altro De Sica lo ha studiato mirabilmente nella piccola borghesia, per «Umberto D.»; e non è uno spunto comico, se mai si presta a un'analisi psicologica. Per ottenere effetti di allegria, i soggettisti di questo film (che erano Age e Scarpelli in origine; ma poi il loro canovaccio ha subito mutamenti sostanziali) hanno sostituito alla crisi morale, ossia alla lotta con se stessi, la crisi della paura, ossia la lotta con la legge.
[...] Forzatamente, con storture e deviazioni continue dall’attendibilità, travestendo la colpa in modo che sembri innocenza e viceversa, il film si contorce secondo l'estro degli interpreti. La materia di un dramma è divenuta materia buffonesca e nulla è più che sembra; anche le banconote si trasformano da vere in false. Alla fine, in strana associazione a non delinquere risulta candida più delle sue intenzioni, e un po' meno delle sue intenzioni il film riesce divertente. Peppino De Filippo è l'interprete meglio registrato, con il rilievo che egli dà alle mezze tinte o con gli accenni essenziali, asciutti, che in lui esprimono gli stati d'animo. Grazie a De Filippo, a Totò — che non si discosta dal personaggio sè stesso, ma non manca di determinare comunicativa con il pubblico — e a Furia, questa Banda, pur immiserendo il tema, ottiene un suo rozzo effetto; anche moralmente dicendo, giacché afferma i limiti della libertà di stampa, se applicata alle banconote.
lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 19 aprile 1956
Da molti anni io sono legato da buona amicizia con i principali autori del film La banda degli onesti: li conosco bene ed ho stima sincera delle loro qualità. Del regista, Camillo Mastrocinque, ammiro il gusto moderno e sicuro, la finezza e la leggerezza dello spirito argutamente scanzonato; ed ho creduto, per molto tempo, che egli, per queste sue doti, avrebbe finito, dopo rigorosi allenamenti, col diventare Challenger di grossi campioni internazionali, quali Lubitsch o Clair, e, prima o poi, con lo scontrarsi, dignitosamente se non vittoriosamente, a competere con loro. Di Totò ho visto, prestissimo e tra i, primi, le grandi possibilità per il film, e ne ammiro la preziosa e bizzarra fantasia, che ho sempre pensato potesse trasformarlo, da quel grande attore che è sempre stato, e che è, in un grande artista.
Per questa amicizia, per questa stima, per questa conoscenza delle loro capacità, ho dovuto prestissimo smettere di andare a vedere i film di Totò e quelli di Mastrocinque; e non dico di non averne visto e di non vederne spesso di peggiori — ma io preferisco ancora un Castellani, che si cimenta con Puskin e con Shakespeare e promettendo cicli di affreschi smaglianti finisce col darci arazzetti, tappetini e simili cianfrusaglie ottocentesche ?. chi, promettendo buona pittura moderna, smercia poi a dozzine, smorti, e frusti scendiletto.
Prendiamo questa Banda degli onesti dove i talenti di mimo superiore di Totò si manifestano appieno e appaiono purtroppo sprecati, a servizio di una storiella senza capo nè coda, di tre poveri diavoli che, spinti dal bisogno e dalla 'tentazione offerta loro dal caso, si mettono a fabbricare biglietti di banca falsi e non osano poi, per timidezza e paura, spacciarli. Che razza di falsi monetari! All’inizio del film si ha un rabuffo del portiere (Totò) alla moglie, tedesca, che annacqua il vino; lui, magari un solò bicchiere, mezzo bicchiere, due dita, un dito, un mignolo... ma il vino ha da essere vino! Alcool di verità, falsi monetari. Vengono alla mente i problemi più vivi degli intellettuali, i compiti dell’intelligenza. i problemi intricati della libertà e dell'impegno. Nietzsche, Gide, Freud vengono alla mente: i cattivi pastori che hanno insegnato a intiere generazioni il gesto di ribellione, vuoto e inconcludente. E, almeno il gesto della ribellione ci si poteva aspettarlo, e l’episodio del vino sembrava prometterlo. E invece; sempre no. Ma addirittura la pavidità e il «non rubo per paura di esser schiaffato dentro» vengono proposti tranquillamente, come onestà.
E allora: un portiere che oscilla tra i poli opposti della scaltrezza e dell’ingenuità (Totò), il proprietario di una piccola tipografia, duro di testa e di mano (il degno comprimario Peppino De Filippo), un ragazzetto col basco in testa, pittore di mostre, bigotto e facile allo svenimento; i tre componenti la banda, che un po’ di coraggio poteva dare come caratteri e che rimangono invece scialbe macchiette, incaponite a far ridere a tutti i costi.
Umberto Barbaro, «Vie Nuove», anno XI, n.17, 19 aprile 1956
C'era da aspettarsi di peggio. Mastrocinque ha saputo frenare Totò, limitandone al massimo i lazzi teatrali, e, se così si può dire, ha portato avanti Peppino De Filippo, rendendolo cinematograficamente efficace. Si aggiunga il simpatico Giacomo Furia, ed ecco al completo «La banda degli onesti». Degli onesti, perchè? Perchè questo portinaio, questo tipografo e questo pintore da insegne, venuti in possesso di un perfetto clichè per biglietti da diecimila lire, stampano tanto da diventar milionari, ma al momento di spendere manca loro il coraggio, ed eccoli poveri e onorati. C*è qualche momento (quando le si vede nel terrore del pericoloso gioco in cui si son gettate) in cui le tre figurine acquistano la luce e la consistenza del personaggio.
Mosca, «Corriere d'Informazione», 20 aprile 1956
C'è stato un tempo che un abisso separava la serietà, l’impegno e la capacità dell'industria di Hollywood dalla faciloneria, dal gusto dell’improvvisato e dell’approssimativo, dalla inettitudine della nostra produzione cinematografica commerciale. Ora non più. Ed a dimostrarlo basta confrontare questo film di Totò con quella modesta ma ingegnosa e spiritosa commediola americana che fu, su un tema simile, « L'inafferrabile 888». Lo spunto della «Banda degli onesti» aveva ed ha dato tutte le possibilità di essere sviluppato in una brillante commedia comica. Totò il nostro brillante attore comico con una sua multiforme interpretazione sa passare dall’umorismo alla farsa con agile ricerca di effetti, sapendo sfruttare abilmente le numerose trovate e le sue qualità personali. Regia di Camillo Mastrocinque. - Interpreti: Totò, Peppino De Filippo, Giacomo Furia, Giulia Rubini.
«Corriere Biellese», 3 maggio 1956
La casa di produzione che fa capo a Totò ha realizzato finora un solo film di rilievo, quel "Coraggio" di cui si è parlato alcuni numeri fa. Ma "Destinazione Piovarolo", e ancor più questo "La banda degli onesti", rivelano unicamente l’esigenza di buttar fuori in fretta e furia un prodotto comico adatto a far fronte alla nutrita concorrenza che esiste in questo settore del cinema italiano. A rigor di logica, e basandosi su certe esperienze del passato, dovrebbe bastare un film con in cartellone due nomi di sicuro richiamo come Totò e Peppino De Filippo: in altre occasioni film anche più banali di questo hanno, come si suol dire, fatto soldi.
E invece "La banda degli onesti" non attira il pubblico come era nei voti dei realizzatori. Spiegare questa parziale defezione di spettatori non è facile, perché non è neppure esatto affermare che la gente non va a vedere i film mediocri. Probabilmente nel caso di "La banda degli onesti" è valida la considerazione che per reggere una vicenda banale non bastano due attori comici famosi, ma ce ne vorrebbero almeno il doppio (come è il caso di "Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo" che è appena uscito e a cui arriderà certamente un successo maggiore).
[...]
Trattato con un certo coraggio, ed eventualmente puntando su un tono amaro e sarcastico, questo soggetto poteva fornire parecchi spunti di indagine del costume. Ma il buon Mastrocinque si è comportato come sempre (meno che come quando fece l’attore nel film di Germi "In nome della legge") e ha risolto ogni notazione sul piano fin troppo abusato della macchietta regionale. Per rendersi conto, del resto, di come il film sia mancato basterà pensare a quello che, pur su un piano altrettanto modesto, riusciva a dire un analogo filmetto americano: "L’imprendibile sig. 880". Un umorismo gradevole, anche se superficiale, una serie di situazioni congegnate con garbo facevano di questa vicenda del falsario dilettante una cosa godibile.
«Cinema Nuovo», 10 maggio 1956 (Giudizio * su ****)
[...] Totò e Peppino De Filippo, affiancati da Giulia Rubini, Giacomo Furia e Gabriele Tinti sono gli interpreti principali del lavoretto: uno dei soliti filmetti casalinghi che soltanto la mimica e le battute dei due noti comici napoletani riescono a mantenere a galla sino alla fine. Soggetto di Steno e Scarpelli. Regia di Camillo Mastrocinque.
«L'Azione», 12 giugno 1956
Quanti film ha fatto Totò? Il conto si potrebbe fare con esattezza, ma rischierebbe di dover subire un aggiornamento tra il momento in cui scriviamo e quello in cui il lettore avrà sotto gli occhi questa nota. Tanto vale dire che l'elenco sta per sfiorare il centinaio di titoli, e tributare un ammirato pensiero a tate esempio di vitalità e di attaccamento ai lavoro. Nato sui palcoscenici dei teatrini rionali e degli agonizzanti caffè-concerto dell'altro dopoguerra (dal Trianon di Milano al Maffei di Torino, dal partenopeo Sannazzaro alla romana Sala Umberto), impostosi poi come animatore di alcune delle più memoratili riviste galdieriane, Totò arrivò al cinema relativamente tardi, né è a dire che abbia subito incontrato il pieno favore del pubblico e il riconoscimento della critica.
La grande popolarità di Totò esplose nel dopoguerra con una folta serie di filmetti di scarse pretese, talvolta sciatti e raffazzonati, i quali però consentirono all’attore di esprimere in piena libertà, grazie proprio all'inconsistenza dei soggetti, le sue straordinarie doti mimiche, il suo estro improvvisatore, la sua comicità buffonesca e surreale da antica «maschera» dell'Arte, mai sganciata tuttavia da una riconoscibile e cordiale sostanza umana. Sulla quale di quando in quando qualche regista intelligente cominciò a puntare, consentendo all'attore di esprimersi più compiutamente attraverso personaggi di una certa consistenza psicologica, che andassero al di là dell'esteriore buffoneria pulcinellesca nella quale il favore delle platee e la protervia dei produttori tendeva generalmente a confinarlo, per toccare anche le corde di una risentita amarezza o di una crepuscolare drammaticità. In tal modo anche la critica fu indotta a considerare Totò in una prospettiva più ampia e a riconoscergli senza più incertezza o restrizioni la qualifica, cui da tempo aveva diritto, di attore vero, nel senso pieno della parola.
La banda degli onesti, diretto nel 1955 da Camillo Mastrocinque su soggetto e sceneggiatura di Age e Scarpelli, non si annovera tra le oprer che, come Napoli milionaria e Guardie e ladri, Totò e Carolina e Dov'è la libertà?..., L'oro di Napoli e I soliti ignoti, hanno accreditato l'estimazione di Totò come attore dalle ricche risorse umane, ma neanche può confondersi con i tanti sciatti filmetti nei quali troppo spesso il nostro comico si è lasciato gioiosamente coinvolgere. Siamo ancora sul terreno della farsa aliena da implicazioni psicologiche e da intendimenti moralistici; ma il racconto, semplice e lineare, si snoda con scorrevolezza, le trovate comiche sono inserite con giusto dosaggio senza eccessi farseschi, la volgarità non è mai sfiorata. Accanto a Totò, compare per la prima volta un altro attore di razza, Peppino De Filippo: i due saranno destinati a formare coppia in numerosi altri film, con risultati incontestabili se non altro sul piano della più schietta e saporita comicità. [...] Tra gli altri interpreti della garbata commediola vanno ricordati Giuda Rubini, Memmo Carotenuto, Luigi Pavese e Nando Bruno.
Guido Cincotti, «Radiocorriere TV», 8 aprile 1963
La fortuna di un film di Totò era spesso legata a una battuta che detta da un altro comico, non avrebbe probabilmente fatto ridere nessuno. Alcuni motti famosi del nostro attore: «A prescindere», «Siamo uomini o caporali ?» e, ne La banda degli onesti, «Portieri si nasce». Tali frasi, a volte di gusto discutibile, gli servivano per accattivarsi consenso del pubblico popolare che lo amava. Una volta assicuratasi l'attenzione degli spettatori, Totò gli imponeva delle osservazioni di aspro realismo. Si vedano, nel film presentato questa sera, le sequenze della morte del vecchio tipografo e della cerimonia della firma, che sono spia di una visione tragica della vita e che, riproposte da sole, difficilmente sarebbero state «digerite» dalle platee più rozze. Sono molti, nella lunga carriera dell'attore napoletano, i momenti di forte amarezza.
Si ricordino gli sguardi dell'accompagnatore di Yvonne la Nuit; le smorfie del padre di famiglia, costretto a sistemare i suoi in un cimitero, in Totò cerca casa; le sorprese dell'osservatore di Napoli milionaria: i silenzi di Salvatore Lojacono che, scoperte le ipocrisie del nostro mondo, preferisce cercare un pò di dignità in carcere del rosselliniano Dov'è la libertà?; le considerazioni umanistiche del piccolo imbroglione di Guardie e ladri ; le lezioni del «maestro» dei Soliti ignoti; le massime del poveraccio, lamentoso e felice, crudele e candido di idi Pasolini che, dalla vita, ha imparato un unico insegnamento; è bene badare a stare il meglio possibile; e, infine, si tenga presente tutto il personaggio di Antonio Bonocore di La banda degli onesti, disgraziato titolare di una «portineria ben avviata» che, per difendersi dalle prepotenze altri, è costretto a trasformarsi in falsario (pur continuando a sentirsi un «cittadino ligio alle leggi»).
Come il vecchio Pulcinella, Totò sembra sempre sul punto di ripeterci: «Sono vivo perché non sono morto ancora». In questa massima assurda, eppure vera, poteva esserci una grossa scoperta che approfondita avrebbe fatto di lui un grande personaggio del cinema comico, da mettere forse vicino a Charlot e a Keaton. Ma quasi non volesse saperne, quasi temesse cosi facendo di perdere l'applauso del pubblico, il nostro attore si scuoteva, riprendeva a snocciolare battute di conio assai facile, a ripetere lazzi dì precisa derivazione rivistaiola.
Insomma Totò possedeva una grande carica tragica, la stessa che rende tanto vive certe splendide figure che si intravvedono nei canovacci della commedia dell’arte. Poteva diventare una sorta di Ruzzante meridionale, e narrarci la storia dei discendenti dei nostri poveri costruttori di castelli e di cattedrali, degli eredi del nostro umile, muto passato contadino. Lo lasciò capire, più che nei film diretti da registi di indubbio temperamento artistico, in commediole minori, ma essenziali per intendere il suo personaggio, come La banda degli onesti, che è scritta da Age e Scarpelli e realizzata da Camillo Mastrocinque. Lo stesso Totò si rendeva conto di tutto ciò, e in una delle sue ultime interviste confessò: «La mia vita è un fallimento».
Francesco Bolzoni, «Radiocorriere TV», aprile 1968
I documenti
Quella che Age e Scarpelli consegnarono al regista per La banda degli onesti era già in partenza una signora sceneggiatura. L’ossatura del film è tutta loro. Totò e Peppino l’hanno infarcita ulteriormente durante la lavorazione. Succedeva che prima di una scena Totò convocasse Peppino e me in un angolo del set, e lì, come costumava ai tempi della commedia dell’arte, uno diceva una cosa, uno un’altra e si inventavano delle gag fuori dal copione. Quindi al ciack ognuno dava un ulteriore contributo personale così come gli veniva in mente. L’idea, per esempio, di velocizzare la sequenza dei soldi la ebbe Totò lì per lì. Sbaglia, però, chi definisce Peppino la spalla di Totò, perché Totò era un grande comico e Peppino era un grande attore comico. E tra una dote e l’altra corre una bella differenza. Sul piano umano Totò era una persona davvero eccezionale, ha fatto del bene a piene mani a tutti. Lavorarci era inoltre un andare a divertirsi. Comunque, era tanto spassoso sul set quanto pacato appena smetteva i panni della scena. La prima volta che mi invitò a casa sua mi trovai d fronte un gran signore che, sebbene affabile, incuteva soggezione.
Giacomo Furia
Discutendo con Andrea Camilleri su Totò e Peppino De Filippo, da lui molte volte diretti:
Che cosa volevi intervenire su quei due? Io mi facevo dire suppergiù come avrebbero recitato in scena, stabilivo dove mettere la camera e mi andavo a prendere un caffè.
Camillo Mastrocinque
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Celebre e divertentissimo. Esilaranti i tre protagonisti (Totò, Peppino e Giacomo Furia) che mettono a segno trovate lessicali esilaranti, incomprensioni, gesti, esitazioni, paure, con il vertice nell'incontro fra Totò e Nando Bruno, altro delizioso caratterista dell'epoca. Dialoghi ricchi di finezze fanno scordare alcuni eccessi. Un bel film.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Una di Totò, una di Peppino. Totò: "Chiedo scusa a nome del pavimento". Peppino: "...e i treni arrivano in orario!".
- Tra i migliori film della collaborazione tra Totò e Peppino De Filippo, La banda degli onesti è la storia di un gruppo di sprovveduti che si improvvisano falsari. Sebbene la regia non sia impeccabile, il film regala momenti molto divertenti, assicurati dalla bravura dei due protagonisti supportati da ottimi caratteristi.
- Tre poveracci si improvvisano falsari di banconote. Spassosissima commedia con l'impareggiabile Totò, accompagnato da un brillante Peppino. La storia è divertente e i due, in gran forma, la trasformano in un piccolo gioiello della comicità. La capacità di Totò di trovare l'equilibrio tra la sua verve pirotecnica (soprattutto verbale, per non parlare del ritmo comico) e l'adesione a un personaggio da commedia all'italiana è straordinaria.
- Il film, quel poco che dice lo dice molto bene, grazie alla verve e all'affiatamento dei due protagonisti, così terrorizzati dalle conseguenze di ciò che stanno facendo da... Inoltre Totò ha la sfortuna di avere il figlio finanziere e la faccia che fa quando viene a sapere che è sulle tracce di una banda di falsari è impagabile. Come spesso accade, quando escono di scena i due istrioni il film precipita. Lo spaccio della prima banconota è un gioiello, ma anche la sua produzione. Da vedere.
- Il connubbio tra Mastrocinque e Totò ha partorito pellicole migliori. Non che il film manchi di simpatia e non sia divertente ma sono le idee a latitare. Pochi i momenti davvero riusciti. Naturalmente la professionalità e la verve dei protagonisti è indiscussa. Niente di particolare.
- Commedia con momenti molto divertenti ed un sottofondo malinconico, legato alle mediocri condizioni economiche dei protagonisti e alle loro situazioni familiari (vedi i rapporti di Totò con la moglie), che le dona spessore. Contiene una sequenza assolutamente spassosa: quella della stampa delle prime banconote false, con uno splendido duetto Totò/Peppino, ben supportato da Giacomo Furia. Trascurabili le scene col figlio finanziere (ma del resto, nelle commedie storiche di Totò i figli sono sempre detestabili o insulsi).• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Totò che, alla richiesta della "carta", tira fuori di tasca un rotolo di carta igienica.
- Mio vanto e orgoglio aver "litigato" con Mereghetti in persona riguardo l'una stella e mezzo assegnata a questo film; uno dei migliori interpretati da Totò e uno dei pochi con una storia solida alla base. Profumo di Soliti Ignoti nelle rocambolesche vicende di tre uomini piccoli alle prese con un vero clichè della zecca. Tecnicamente non sono neanche falsari; diciamo che sono una... dependance della banca. Caratteri straordinari, battute immortali. Dopo anni Mereghetti ora segna 2 e mezzo.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La barba fatta coi "peli dei condannati a morte"; Totò legge i nomi dei condomini; la stampa; il test dal tabaccaio; Mustafà ritorna...
- Classico della premiata ditta Totò & Peppino con il consueto stuolo di comprimari valore aggiunto (Giacomo Furia parte del "diabolico terzetto", i consueti Pavese, Carotenuto, ecc.). E' possibile dare una svolta alla vita grama attraverso un "colpo gobbo"? I nostri eroi ci provano, ovviamente con risultati esilaranti. D'altro canto più che l'onor poté il digiuno (basta broccoletti e patate!); vicenda a latere dei giovani funzionale e non prepotente. Viva la filiale della Zecca.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il nome del povero Lo Turco ripetutamente storpiato da Bonocore ai confini con le parolacce; La fabbricazione della prima banconota.
- Capolavoro assoluto. Scritto e diretto con la consueta maestria dall'ottimo Mastrocinque con almeno quattro sequenze memorabili: Totò e Peppino al bar con lo zucchero; produzione del primo biglietto; lo spaccio e il finale davanti al falò. Totò e Peppino sono ad alti livelli e sono ottimamente affiancati dal grande Giacomo Furia. Cult irripetibile.
- Un film agrodolce. Da un lato si sorride grazie all'abilità del principe De Curtis, dall'altro ci si interroga sulle condizioni sociali e sulle difficoltà quotidiane di mettere pranzo e cena insieme. "L'occasione fa l'uomo ladro" fa da filo conduttore della sceneggiatura di Age e Scarpelli, ma "la paura fa novanta" ne può essere perfetto contrappeso. Totò trova in Peppino e Furia ottime spalle comiche e si lascia andare alla consueta ridefinizione linguistica dell'idioma italiano. Un classico.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Totò che cerca di stampare i biglietti ex se...
- Quando le diecimila lire erano grandi come un lenzuolo e rappresentavano circa un sesto di uno stipendio medio negli anni '50. Una commedia caratterizzata da personaggi di una umanità scomparsa (altri tempi), attori dalla recitazione talmente spontanea che forse non si può nemmeno più definire recitazione. Divertimento allo stato puro, quando i tre sono in azione. Totò e Peppino iniziano un sodalizio di una comicità unica, che supera di gran lunga quella di tante altre coppie, seppur meritevoli, dello schermo. Imperdibile.
- Tre poveri diavoli s'improvvisano falsari ma il senso civico prevarrà sull'azione criminosa. Una spassosa commedia in cui emergono alti momenti verbali gestiti dal duo Totò e Peppino. Alcune scene sono rimaste nell'immaginario collettivo ed anche la regia cerca di privilegiare la verve dei protagonisti.
- Film che consacra il sodalizio tra Totò e Peppino De Filippo. I due attori (in grande spolvero) sono decisi a fare soldi attraverso lo spaccio di banconote false. Ma anche essere falsari non è facile... Le scene belle sono davvero tante e il sospetto di essere scoperti fa sì che i protagonisti si trovino di fronte a situazioni sempre più comiche e paradossali. Un classico evergreen.
- Uno dei migliori film di Totò in assoluto, riconosciuto anche dalla critica. Merito non solo del Principe della risata e della sua degnissima spalla, ma anche e soprattutto della sceneggiatura (Age e Scarpelli) e della regia (Mastrocinque). Gli sketch si sprecano e le battute sono spesso travolgenti. Tanto che riesco a ridere ancora oggi, rivedendolo. La regia fa funzionare come un meccanismo svizzero i "tre compari", caratterizzati magnificamente ed assolutamente complementari tra loro. Anche Furia fa la sua parte degnamente e non sfigura.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Tutta la sequenza di quando iniziano a falsificare le banconote; Il ragionere Casoria; La storpiatura continua di Totò del nome di Lo Turco (Peppino).
- Seppur supportata da un tessuto narrativo che poggia su siparietti comici gustosissimi e su dialoghi spassosi, ciò che colpisce maggiormente nel lavoro dell'abile Mastrocinque è la vena malinconica dei personaggi alle prese con le difficoltà economiche e quotidiane. L'insegnamento morale è chiaro e univoco, ovvero per fare i delinquenti bisogna averne le capacità, mentre i puri di cuore devono "rassegnarsi" a scelte di vita che si confanno alle proprie caratteristiche. Ben oleati e amalgamati Totò e Peppino, affiancati da un buon Furia.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La stampa della prima banconota; L'equivoco fra Totò e il figlio; Il primo spaccio di banconota falsa.
- L'alchimia tra Totò e Peppino trova linfa in una sceneggiatura semplice che tratteggia a grandi linee la vita scarna degli anni '50. Tempi comici puntuali e comprimari di livello per una regia sufficiente nei tratteggi e buon uso dei primi piani. Verso la fine un po' si sgonfia l'effetto dirompente dell'inizio e il filarino amoroso risulta debole per lo scopo conclusivo.
- Una commedia ben riuscita grazie alla sinergia tra Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia, tutti in piena forma e molto bravi a non esasperare troppo i rispettivi personaggi. C’è anche tanta malinconia e umanità che scaturiscono dalle situazioni umili in cui versa ognuno di essi. Non ci sono grossi vuoti narrativi che compromettono irrimediabilmente la visione e la vis comica dilaga dall’inizio alla fine.
- Divertente (a tratti da sbellicarsi) commedia in cui, dinanzi allo sfondo di una società povera, si mette stupendamente in scena l’arte di arrangiarsi tipicamente napoletana, l’umiltà e l’integrità morale delle gente comune. Calembour a tutto tondo, fraintendimenti, il dono dell’autoironia, squisiti giochi di parole, la maschera sorniona e frizzante di un Totò in piena forma, due spalle eccellenti come Peppino De Filippo e Giacomo Furia. Da incorniciare tutta la sequenza con Totò che fa visita a Lo Turzo, Turchese, Lo Struzzo!!!
- Un classico della coppia Totò/De Filippo, diretti dall'esperto Mastrocinque. Il film vive su una sceneggiatura povera e si basa tutto sulla bravura dei due protagonisti, molto affiatati qui come in altre pellicole. La tematica è semplice: si improvvisano falsari grazie a un "colpo di fortuna" ricevuto e se ne vedranno delle belle, specie considerando che Totò ha un figlio nella finanza. Non tutto fila liscio, ma grazie ai due grandi attori si può comunque parlare di un buon film.
- Altro celeberrimo e straordinariamente riuscito successo cinematografico (ma anche televisivo) dell'immenso principe De Curtis. Con l'intento evidente di "farsificare" alcuni topoi tematici del noir statunitense, Age e Scarpelli forniscono a Totò terreno fertile per le sue gag surreali, coadiuvate stavolta da due superbe spalle quali Peppino De Filippo e l'inatteso Giacomo Furia. All'arte di arrangiarsi proverbialmente napoletana, i tre protagonisti aggiungono anche un'amara ma onestissima vena umana di orgogliosa rinuncia ed umilissima integrità morale.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: I ripetuti ed impacciatissimi tentennamenti di Totò dinanzi al titolare della tabaccheria, al quale cerca di rifilare la sua prima banconota falsa.
- Impagabile commedia diretta da Camillo Mastrocinque con la coppia Totò e Peppino che fa scintille grazie anche all'aggiunta di un simpaticissimo e goffo Giacomo Furia. Il film si lascia seguire senza sbavature e con moltissime gag azzeccate e ci fa rimpiangere quali bei film ci sapessero regalare negli anni '50.
- Un portiere prossimo a perdere il lavoro si imbatte nell'occorrente per fabbricare banconote false e, nonostante la ritrosia iniziale, non può che cedere alla tentazione. Totò (attore che personalmente trovo fastidioso) rappresenta il tipico comportamento italiano e in particolare partenopeo, truffaldino e intrallazzatore, pronto a dichiararsi "ligio alla legge" (almeno un tempo) per poi corrompersi alla minima seduzione. Le gag gestuali e le mosse di Totò appartengono a una comicità d'altri tempi, fastidiosa e in parte scomparsa, fortunatamente.
- Il primo di una (purtroppo) breve serie di capolavori del cinema comico italiano girati da Totò e Peppino nel 1956. La storia una volta tanto non scontata e una intelligente sceneggiatura di Age e Scarpelli esaltano il duo che confeziona scene ormai di patrimonio comune. Regge bene la scena anche il bravo Giacomo Furia. Interessanti i continui riferimenti alla povertà, piuttosto diffusa, di un'Italia che stava ancora aspettando il boom economico. I duetti fra i protagonisti sono, naturalmente, piccoli capolavori d'improvvisazione. Doveroso!• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La fabbricazione delle banconote false...
- Tre uomini vengono in possesso di un cliché per stampare banconote da 10.000 lire e si improvvisano falsari ma, alla lunga. Insieme alla "malafemmina" è il miglior film della straordinaria coppia Totò-Peppino, che recita con meccanismi straordinariamente oliati e tempi comici perfetti. Sebbene ci sia qualche caduta, il film non esce mai dai binari di una sana goliardia e offre numerosi momenti spassosi. Sullo sfondo ancora una volta la bella cartolina di un'Italia in bianco e nero.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La stampa delle prime banconote false; Totò che sbaglia sempre il cognome di Peppino.
- Forse il miglior film interpretato da Totò. Il suo personaggio del portiere di stabile è un vero, commosso salmo all’umanità semplice ed autentica oltraggiata dalla malvagità altrui e insultata dalle difficoltà della vita. Totò, Peppino e Giacomo Furia danno vita a personaggi eterni, senza tempo, veri archetipi immortali di una condizione esistenziale: gli uomini sconfitti dalla vita. Siamo ancora in pieno neorealismo, ben mescolato ai modelli drammaturgici della commedia comica non ancora all’italiana. Ma questo film ne è un potente annuncio.
- Uno dei classici della filmografia di Totò, grazie anche alle interpretazioni di Peppino e del bravo Giacomo Furia. La storia del padre di famiglia che, per troppa onestà, viene messo in mezzo a una strada e deve scegliere scegliere tra "i morsi della coscienza e quelli della fame" non può che essere sempre attuale. Tante battute memorabili e duetti irresistibili che coinvolgono il cast. Il finale è forse un po' troppo buonista e retorico, ma tutto sommato può starci. Evergreen.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: "Mi ricorda il Pinturicchio... Della prima maniera!"; "Papier Igienic... L'ho vinta a una lotteria..."; "Lei e il cane mi avete smontato!".
- Tra i più celebri e riusciti film con il grande Totò (e De Filippo) e la regia di Camillo Mastrocinque. Una commedia davvero eccellente, dai tempi perfetti e gag ancora oggi divertentissime. Il "principe" De Curtis regala risate e battute in continuazione. Imperdibile.
- Totò e Peppino De Filippo funzionano sempre (e il secondo non è da meno). Questo è un film di poche pretese ma, almeno nella prima parte, la vicenda scorre via in modo brillante, godibilissima. Manca la cattiveria della classica commedia italiana, ma almeno Totò non deborda dal suo personaggio. Un film da vedere e rivedere, specie per chi ha una certa età (anche oltre) e ricorda il sapore del buon tempo andato dove, chissà come e perché, c'era lavoro per tutti e tempo di godersi la vita.
- Un altro raro caso nel quale il Principe della risata si mette al servizio della storia (ottima), anziché il contrario. Assieme alla Malafemmina si raggiunge l'apice dell'alchimia Totò + Peppino, dove il secondo è talmente bravo a dar corda al primo che definirlo spalla è altamente limitativo. Si fa molto presto ad augurarsi che i tre timorosi e simpatici falsari riescano a togliersi dalle secche smerciando le diecimila lire false, alla faccia della Finanza, figlio incluso, che (non) li sta braccando. Bel cinema comico d'altri tempi.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Peppino, nel fugare i dubbi: "Allora, siete d'accordo?" Totò: "Siete...? Siamo!" Peppino e Furia: "Siamo!" Totò, con fare accusatorio: "Ah, siete d'accordo!".
- Film talmente simpatico da meritare ogni volta la visione, grazie a De Filippo almeno a livello di Totò, al simpatico Furia e nondimeno al resto del cast. Un paio di scene sono classici della comicità, e il tema della povertà e dei rapporti familiari complicati risulta tanto toccante quanto tristemente attuale, senza scadere nel patetico e nell'eccessivamente melodrammatico come in altri film coevi. Gli onesti veri non possono cambiare... un bel messaggio da un bel film che non invecchia mai.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Lo spiegone davanti al caffè super-zuccherato; La carta igienica; La barba finta.
- Altro celebre film della rinomata ditta Totò e Peppino che, poveri e senza quattrini, tentano la via dell'illegalità per diventare ricchi. Il tentativo fallisce prima di iniziare perché è meglio rimanere onesti e senza soldi piuttosto che ricchi e malviventi. La morale del film è questa, semplice ma partorita pian piano, con delicatezza e situazioni divertenti che, numerose, accompagnano gli attori dall'inizio alla fine. Grande esempio di cinema con poche lire di budget perché la differenza la fanno gli attori, non gli effetti speciali.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il caffè tra Totò e Lo Turco (Peppino).
- Grande film di Mastrocinque, molto ben costruito, che mescola a dovere commedia all’italiana (non a caso il copione è di Age e Scarpelli) e patetismo, senza dimenticare di lasciare a Totò i suoi spazi (ad esempio, il puntuale storpiamento del cognome di Peppino, come al solito bravissimo). Il giovane Giacomo Furia non sfigura accanto ai mostri sacri, ritagliandosi una figurina di grande tenerezza.
- Indubbiamente uno dei migliori film della ditta Totò/Peppino, ma bravissimo anche Giacomo Furia come spalla dei due protagonisti, che insieme danno vita a sequenze veramente divertenti e memorabili. La sceneggiatura e i dialoghi sono ben lavorati e strutturati, sapientemente inseriti dalla ben oliata mano di Camillo Mastrocinque. Attori di contorno e caratteristi ben usati, soprattutto la figura del commissario. Merita sicuramente la visione!• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La stampa in tipografia; Il test dal tabaccaio; Il cane Mustafà; La figura del commissario.
La scena in cui si stampano i soldi falsi fu un’idea di Totò, che suggerì di girarla in modo da farla diventare una comica alla vecchia maniera. L’effetto velocizzazione lo fece l’operatore stesso girando, noi recitavamo regolarmente, ma l’idea fu di Totò. Parecchie cose in quel film sono di Totò. Ricordo che Alfredo De Laurentiis, che era un ottimo organizzatore, aveva pronte tante di quelle cose che faceva prendere dal trovarobe perché a un certo momento Totò poteva dire: “Per fare questa cosa mi serve un calamaio”, le cose più impensate... E allora per non fare fermare il film in attesa che arrivasse sul set l’oggetto richiesto da Totò, la produzione si organizzava in modo tale che qualunque cosa potesse chiedere era subito pronta.
Giacomo Furia
Mi sono trovato con due grandi. Totò un grande comico: poteva leggere l’elenco telefonico e suscitare ilarità. Peppino un grande attore comico: doveva capire il personaggio e poi ne faceva quello che voleva. Due grandi che però mi hanno agevolato, cercavano di farmi fare le mie cose nella maniera migliore... Totò pensava a Peppino, Peppino pensava a Totò, tutt’e due pensavano a Giacomo Furia... Questo ha reso il film più interessante, più bello, perché quando si lavora in questo modo poi si vedono i risultati. Dovrebbe essere il segreto del successo di tutti i film; l'unico responsabile di una pellicola è il regista però se c’è un’ottima collaborazione da parte di tutti, dall’ultimo macchinista al produttore, vien fuori un buon film. Questa era la cosa bella con Totò, uno andava a lavorare però in fondo non andava a lavorare. I francesi dicono parlando del teatro, à jouer, e in fondo con Totò era proprio un gioco.
Giacomo Furia
Le incongruenze
- Quando Toto' e Peppino(Lo Turco) sono nel bar e prendono un caffè le tazzine sono piene ma nell'inquadratura successiva esse sono vuote e loro fanno finta di bere lo stesso
- Il film si svolge nel 1956 e il vecchio signor Andrea quando muore ha circa 90 anni quindi si presume che sia andato in pensione circa 30 anni prima giusto? E mi dite dove esistevano quelle banconote da 10000 lire nel 1930 o giu di li?
- Quando Antonio è nella sala caldaie con il rag. Casoria, quest'ultimo in alcune scene gli dà del "tu" in altre del "lei"
- Nella sala caldaie, Antonio ferma il rag. Casoria prima che vada a sbattere con la testa contro un tubo di ferro. dopo che i due hanno battibeccato il rag. va via e si vede Antonio (Totò) che attende che il rag. urti. Poi si sente un suono metallico e un grido di dolore. Il blooper sta nel fatto che il rag. portava il cappello (che avrebbe dovuto attutire il rumore), mentre il rumore che si ode appartiene a un contatto tra due parti metalliche.
- Si nota chiaramente, in alcune scene, la differenza tra audio in presa diretta e dialoghi successivamente doppiati. Un esempio quando Cardone va a fare visita a Totò con la mano di legno: un paio di battute di Totò sono state sicuramente doppiate.
- Nella scena in cui i tre provano a stampare per la prima volta un biglietto da diecimila, si vede che Peppino inserisce un foglio di carta filigranata completamente bianco nella macchina e dopo solo un giro di stampa lo estrae stampato su entrambi i lati, mentre il foglio sarebbe dovuto uscire stampato solo da un lato dato che la macchina è del tipo vecchio che non prevede la stampa fronte-retro.
- Totò nella carbonaia con il ragioniere Casoria accende la luce due volte, nelle due inquadrature che si susseguono.
- Totò dice che il figlio sta bene perché è nell'esercito, quando invece è nella Guardia di Finanza.
- Lo Turco legge "La legge punisce i falsificatori e gli spacciatori di moneta falsa", seguendo con il dito sul cliché. In realtà quella scritta sul cliché è scritta al contrario quindi Peppino fa finta di seguire la scritta con il dito.
- Da come è scritto sul cartello della Guardia di Finanza appare che un maresciallo comanda una brigata!!!!; come maresciallo è molto potente, anche troppo.
- Cardone quando va ad aprire la porta di casa per fare entrare il portiere ha in mano una mano di legno che sta dipingendo. La mano di legno è in due posizioni diverse rispettivamente nelle due inquadrature.
- Quando Totò legge alla famiglia riunita a cena la lettera che il figlio Michele ha mandato, rimprovera la moglie di aver chiesto al figlio di mandare qualche soldo, dicendole: "Capirai, con quello che gli passa l'Esercito". Ma Michele non è un militare dell'Esercito, bensì della Guardia di Finanza.
- Il figlio finanziere di Totò viene assegnato alla squadra "Volanti" (ma la squadra volante non è della Polizia?).
- Sempre Michele è assegnato alla repressione frodi valutarie, falsari, e quant'altro: però si vede che quando si reca in caserma, sulla targa esterna si legge: "Guardia di Finanza - Legione Allievi". Ma le Legioni Allievi GdF sono reparti addestrativi, non operativi...
- Quando Totò va a proporre "l'affare" a Lo Turco, durante la consumazione dei caffè al bar Totò fa un accenno ai "disonesti profittatori" e ai vari "rag. Casoria", al che Lo Turco chiede chi sia questo Casoria che di tanto in tanto compare nel discorso. Ma da quando i due si sono incontrati, questa è la prima volta che Totò accenna a Casoria...
- Quando stanno per stampare la prima banconota, Lo Turco ad un certo punto dice: "Ecco, abbassiamo e via..." e abbassa una leva, lasciando a intendere che da questo gesto dovesse uscire la banconota. In realtà, nella scena successiva, Lo Turco ripete il medesimo gesto, abbassando la leva che, a questo punto, doveva trovarsi già abbassata...
- Nella scena in cui Totò ha tra le mani la lettera del figlio e dice alla moglie "Ha scritto Michele" si nota chiaramente che il doppiaggio non si trova col movimento delle labbra.
- Quando Totò va a casa del Sig. Andrea, questi gli indica la valigia contenente clichè e filigrana che si trova sopra un armadio senza specchio e con una cimasa arrotondata: dopo la morte del vecchio, Totò va a recuperare la valigia, ma questa volta l'armadio è a specchio ed ha una cimasa squadrata.
- Quando Totò non riesce a prendere sonno, accende un piccolo lume sul suo comodino e non solo come di incanto la stanza si illumina a giorno come se avesse acceso un lampione da strada, ma l'errore più grande sta nel fatto che tutti gli oggetti che sono nella stanza, proiettano due ombre ciascuno, segno evidente che sono illuminati da due fonti di luce diverse e che provengono dall'alto e non certo dal piccolo lume.
- Alla fine della chiacchierata in cucina tra Buonocore e Lo Turco, quando Totò elenca le cose che vorrebbe gli venissero portate in carcere, Peppino gesticola con le mani dicendo "io non ho le rendite stese al sole" facendo un gesto con la mano destra e tenendo la barba nella sinistra. Al successivo stacco di inquadratura, Peppino continua a fare lo stesso gesto con la mano destra ma nel frattempo la mano sinistra è vuota e la barba è sul tavolo.
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La pasticceria di cui Cardone (Giacomo Furia) decora la vetrina è in Piazza Gimma a Roma. Tenendo conto della nuova toponmastica, l'unico sistema per arrivare alla location rimaneva la vetrina su cui dipingeva Furia. Viste le fattezze più moderne doveva esserci ancora oggi e di certo non sarebbe cambiato di molto l'aspetto. 11 era il primo numero chiave e che corrisponde al numero delle sezioni decorative a fianco della vetrina di Furia. Erano 11 anche nel film! A quel punto, conteggiando le vetrine non corrispondeva la porta... | |||
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Nel paesaggio retrostante il mercato coperto ora chiude la visuale del film. Con un fotogramma da Il segno di Venere (1955), si nota uno dei palazzi scomparsi: | |||
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Ecco cosa si vedrebbe ora dalla ripresa più classica della scena | |||
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A sinistra la avola riassuntiva che mostra bene dov'era il palazzo principale abbattuto, oltre al resto. Purtroppo possiamo dire definitivamente addio ai palazzi della Banda degli onesti. Il loro "sacrificio" ha dato vita alla succursale del Liceo Scientifico Statale Avogadro. Erano palazzi dei ferrovieri che già a metà degli anni '60 erano stati abbattuti. | |||
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Il ponte da cui Totò tenta di disfarsi della valigetta contenente i cliché originali della Banca d'Italia è, come evidente, il Ponte dell'Industria a Roma. La freccia rossa indica il punto in cui stava Totò. | |||
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La strada dove Bonocore (Totò) e Cardone (Furia) abbandonano il cane è oggi nientemeno che il Grande Raccordo Anulare a Roma! Il profilo dei monti sullo sfondo coincide e sulle mappe viene segnalato anche come km 13 (e nel film si vede di sfuggita una pietra miliare che porta la scritta " S.S 5 - km 13 Roma"). IL GRA era in sede di approvazione come "Nuova strada di circonvallazione della città di Roma". I lavori li iniziarono nel 1951. Seguendo il percorso di Totò e Furia si possono riconoscere il Casale di via Grotte di Torre Rigata. | |||
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la Torre di Pratolungo sullo sfondo | |||
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e infine il casale di via di Casal Monastero di fronte a loro | |||
A sinistra, la mappa che mostra il punto dove stanno i due (e da dove partono le tre linee verso gli edifici inquadrati) | |||
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E infine ecco l'enorme differenza dello stesso punto visto ieri e oggi | |||
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La tipografia Lo Turco si trovava in Piazza degli Zingari a Roma. | |||
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Il bar dove Totò spiega a Peppino la metafora del caffè senza zucchero, si trova in Piazza della Suburra adiacente all'ingresso della Metro Cavour, dove Totò e Peppino si fermano a parlare. | |||
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Il condominio dove Totò lavora come portinaio è in Viale delle Milizie 76 a Roma. | |||
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La vetrina del negozio dove Totò crede di essere pedinato da due carabinieri è in Via degli Zingari a Roma | |||
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Il Comando della Guardia di Finanza dove Totò va a confessare di aver falsificato le banconote è l'attuale sede del Comando Generale della G.d.F., Caserma Piave, in Viale XXI Aprile a Roma. | |||
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La tabaccheria dove Totò tenta di scambiare la banconota presunta falsa è in Via di Monte Savello a Roma. |
La banda degli onesti (1956) - Biografie e articoli correlati
Articoli & Ritagli di stampa - Rassegna 1956
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Totò e... Giacomo Furia
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Totò e... Peppino De Filippo
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "Totò e Peppino, fratelli d'Italia", (Alberto Anile, Pablo Escobar), Einaudi, 2001
- Giacomo Furia, intervista di Alberto Anile, "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- http://ilcinemaitalianoperlestradediroma.blogspot.it
- "Totò, un napoletano europeo" (Valentina Ruffin), Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996
- «Le Ore», anno IV, n.151, 31 marzo 1956
- Giuseppe Marotta, «L'Europeo», anno XII, n.15, 7 aprile 1956
- "La banda degli onesti" dal sito www.quicampania.it