Totò e i Re di Roma

Il cappello... metti sull'attaccapanni. Fai attenzione, che è figlio unico!

Ercole Pappalardo

Inizio riprese: 24 settembre 1951, Stabilimenti Titanus Farnesina
Autorizzazione censura e distribuzione: 24 settembre 1952 - Incasso lire 405.950.000 - Spettatori 3.613.906



Titolo originale Totò e i Re di Roma
Paese Italia - Anno 1952 - Durata 95 min - B/N - Audio sonoro - Genere Comico - Regia Steno, Mario Monicelli - Soggetto dai racconti "La morte dell'impiegato" e "Esami di promozione" di Anton Cechov - Sceneggiatura Ennio De Concini, Peppino De Filippo, Dino Risi, Steno, Mario Monicelli - Produttore Golden Films-Humanitas Film,Roma - Fotografia Giuseppe La Torre - Montaggio Adriana Novelli - Musiche Nino Rota - Scenografia Alberto Tavazzi - Costumi Giuliano Paci


Totò: Ercole Pappalardo - Anna Carena: Armida, la moglie - Giovanna Pala: Giannina - Anna Vita: figlia maggiore di Ercole - Alberto Sordi: maestro elementare - Giulio Stival: sua eccellenza Badalozzi - Gianni Glori: Giorgio - Ernesto Almirante: "Padreterno" - Giulio Calì: suonatore di tromba - Erminio Petacci: Filippini - Pietro Carloni: Capasso, capoufficio - Eva Vanicek: Susanna, la figlia - Aroldo Tieri: Ferruccio - Francesca Pietrosi: una squillo al Sistina - Marisa Fimiani: altra squillo al Sistina - Ines Marchesini: signora Sconocchia - Lilia Landi: la contessa al Sistina - Ada Mari: maestra esaminatrice - Paolo Ferrara: un maestro esaminatore - Eduardo Passarelli: altro maestro esaminatore - Nino Milano: impiegato allo sportello 9 - Amedeo Girardi: usciere dell'albergo - Giulio Battisteri: guardiano dell'Olimpo - Armando Annuale: orchestrale - Mario Maresca: Trifossi - Alfredo Ragusa - Mimmo Poli - Rio Nobile - Amerigo Santarelli - Nino Marchetti - Eugenio Galafini - Gorella Gori - Mario Castellani - Celeste Almieri Calza - Italia Marchesini


Soggetto

Ercole Pappalardo (Totò) lavora come archivista capo al ministero. È in attesa della meritata promozione, che lo aiuterebbe a mantenere in modo più dignitoso la sua numerosa famiglia (composta dalla moglie e ben cinque figlie), e della tanto agognata nomina a cavaliere.

Un giorno viene chiamato, assieme al suo superiore (Pietro Carloni), dal ministro in persona, Sua Eccellenza Langherozzi-Schianchi (Giulio Stival), perché si metta a totale disposizione di un suo conterraneo, del quale il ministro vuole avere il consenso in vista delle prossime elezioni. L'uomo con cui il Pappalardo si deve confrontare è un pedantissimo maestro elementare, il professor Palocco (Alberto Sordi), che pretende dall'archivista capo il ritrovamento di una pratica riguardante il trasferimento di un pappagallo già appartenuto a un defunto musicista del suo paesello, di cui il Palocco è un grande estimatore, e eventualmente anche il ritrovamento del pennuto stesso.

La sera stessa, mentre si trova sul loggione del teatro assieme al collega Ferruccio (Aroldo Tieri), il Pappalardo starnutisce inavvertitamente e colpisce proprio il Ministro, che si trova seduto nelle poltrone poste in parallelo al loggione. Lo starnuto viene interpretato come uno sputo e il suo autore, il povero Pappalardo, viene identificato dall'odioso Palocco. Da quel momento, l'archivista capo tenta in tutti i modi di scusarsi con Sua Eccellenza, ma la presenza del Palocco da un lato e i controproducenti suggerimenti di Ferruccio dall'altro fanno solo peggiorare la situazione.

Scoperto che il pappagallo di cui il Palocco cercava notizie è morto da tempo (fucilato dai partigiani perché intento a cantare "Giovinezza"!), il Pappalardo decide di prenderne un altro e farlo passare per quello richiesto. Ma, ancora una volta, la sfortuna si accanisce contro il Pappalardo, poiché la sera in cui l'uomo invita il ministro e il Palocco in casa sua per mostrargli il pappagallo, quest'ultimo insulta Sua Eccellenza, che, arrabbiatissimo, minaccia di vendicarsi. Sempre per suggerimento di Ferruccio, Pappalardo scrive una lettera di scuse al Langherozzi, ma peggiora ulteriormente la sua posizione perché il ministro si rende conto della totale ignoranza dell'archivista, che infatti è persino privo della licenza elementare. Per non fargli perdere il posto di lavoro, il suo superiore gli consiglia di conseguire quel primo titolo di studio.

Il Pappalardo si sforza, ma all'esame di licenza elementare sbaglia quasi tutte le risposte (una delle domande riguarda i re di Roma, e a questa si riferisce il titolo del film). La commissione comprende la situazione tragica del Pappalardo e decide di ammetterlo ugualmente; sennonché, un attimo prima che l'archivista se ne vada, entra nell'aula il presidente di commissione, che la sfortuna vuole sia proprio l'odiato Palocco.

L'uomo ridicolizza il Pappalardo e lo boccia, cosa che spinge l'archivista a esplodere in un vero e proprio pestaggio ai danni della commissione. Consapevole d'aver ormai perduto il posto al ministero, il Pappalardo decide di morire per dar poi in sogno alla moglie(Anna Carena) dei numeri da giocare al lotto.

Dopo avere scoperto che anche l'altro mondo è dominato da uffici e carte bollate, il Pappalardo riesce a ottenere in modo illecito i numeri e a comunicarli in sogno alla moglie. Poco dopo viene portato al cospetto di Dio (Ernesto Almirante), che intende punirlo per il gesto. Tuttavia, quando il Padreterno viene a conoscenza del fatto che il Pappalardo è stato per trent'anni impiegato al ministero, lo manda subito in Paradiso. La voce fuoricampo, nell'ultima scena del film, recita che quello era stato il sogno di Ercole Pappalardo, lasciando il dubbio su quale parte della storia sia stata solo sognata dal protagonista.

Critica & Curiosità

Da un soggetto di Dino Risi, il film si sipira a due racconti di Cechov (La morte dell'impiegato ed Esami di promozione) e da un vecchio atto unico di Peppino De Filippo (Quale onore!). Il titolo originale avrebbe dovuto essere E poi dice che uno..., con riferimento a una frase pronunciata spesso da Totò durante il film: «E poi dice che uno si butta a sinistra...!».


Così la stampa dell'epoca

TOTO’ RE DI ROMA

La lavorazione del film dal titolo provvisorio «l sette re di Roma» è iniziata in interni negli stabilimenti Titanus. Il film è prodotto dalla Golden Film e diretto da Steno Monicelli. Interpreti sono: Totò, Giovanna Pala, Alberto Sordi, Anna Vita.

«Il Piccolo di Trieste», 13 novembre 1951

Dopo Il cappotto di Gogol , adattato a Rascel, è la volta di Cecov, da due racconti del quale è dato tratto questo film che dà modo a Totò di abbandonare la vecchia formula, del lazzi buffoneschi fine a loro stessi par impersonare questa volta la figura quasi patetica di un impiegato ministeriale, [...] Il racconto anzichè in chiave di satira, e poteva riuscire finissima e garbata, è svolto in chiave di farsa, a volte polemica, con lungaggini a squilibri accanto a qualche trovata inopinatamente felice, che fa rimpiangere maggiormente quello che avrebbe potuto essere tutto il tono del film. Il pubblico ad ogni modo ride e si diverte lo stesso. Accanto a Totò sono Anna Carena, Alberto Sordi, Aroldo Tieri, Giulio Stival, Giovanna Pala. La regia è di Steno e Monicelli.

Vice, «Il Messaggero», 19 ottobre 1952


Ieri Rascel chiedeva ispirazione a Gogol per proporci in una equivoca chiave d’umorismo il dramma del piccolo impiegato; oggi lo stesso dramma ce lo propone Totò sulla scorta, nientemeno, di Cecov e in una chiave anche più apertamente farsesca. Cecov, pero, in questo film è presente solo con lo schema esteriore e molto travisato di due suoi racconti fusi insieme, e ancora una volta a predominare nella vicenda e a improntarla di sè è unicamente Totó con i suoi caratteristici atteggiamenti comici e il suo facile spirito parodistico.

[...]

Naturalmente la paradossale conclusione e le situazioni che abbastanza disordinatamente la precedono sono vistosamente condite di facili spunti ispirati alla più convenzionale contingenza politica e alla parodia di un certo costume burocratico; ad essi si alternano momenti di più sommessa polemica, ma i loro argomenti finiscono per stridere come insinceri e voluti in un clima dove anche il dolore umano sembra diventato motivo di spasso; se qualche volta, tuttavia, giungono a suscitare, dopo le risa, un'ombra di emozione nel pubblico il merito è da attribuirsi alla interpretazione di Totò che, anche senza approfondire il suo personaggio, ha saputo qua e là rivestirlo di note abbastanza patetiche. Al suo fianco Anna Carena, Giulio Stivai, Aroldo Tieri, Alberto Sordi. Regia di Steno e Monicelli.

«Il Tempo», 19 ottobre 1952


Ieri Rascel chiedeva ispirazione a Gogol per proporci in una equivoca chiave d'umorismo il dramma del piccolo impiegato; oggi lo stesso dramma ce lo propone Totò sulla scorta, nientemeno, di Čechov e in una chiave anche più apertamente farsesca. Čechov, però, in questo film è presente solo con lo schema esteriore e molto travisato di due suoi racconti fusi insieme, e ancora una volta a predominare nella vicenda e a improntarla di sé è unicamente Totò con i suoi caratteristici atteggiamenti comici e il suo facile spirito parodistico. [...] Naturalmente questa paradossale conclusione e le situazioni che abbastanza disordinatamente la precedono sono vistosamente condite di facili spunti ispirati alla più convenzionale contingenza politica e alla parodia di un certo costume burocratico; ad essi si alternano momenti di più sommessa polemica [...]».

Ugo Zatterin, «Il Giornale d'Italia», 19 ottobre 1952


Felice di rivederti, Steno. Quanti anni sono passati dalla prima volta che c'incontrammo su Film? Non contiamoli: non ci conviene. Ricordo solo che a quell'epoca ero smilzo come un levriere e le ragazzine impuberi, in autobus, non si alzavano per cedermi il posto. Queste maledette ragazzine impuberi del dopoguerra, che ignorano il fascino sottile e conturbante delle tempie brizzolate! Roba da prenderle a schiaffi! Si alzano e cedono il posto! Che alzarsi e cedere il posto! Turbarsi, dovrebbero, ed abbassare il volto di virginal rossor soffuso. E invece si alzano e cedono il posto. Razza di maleducate! E poi dicono che uno ti diviene nostalgico e va ad Arcinazzo dal Maresciallo Graziani, Per forza! Fra brizzolati ci si comprende. 

Ma torniamo a Steno. Scusami, Steno, la divagazione ma sai, quando ci vuole ci vuole. Dicevo che sono passali molti anni da quei giorni felici in cui tu varavi, insieme a Metz, il tuo primo film, ed io le mie prime critiche. Io, quando penso al passato mi commuovo sempre: è più forte di me. L'altra sera, per esempio, alla prima di Totò e i re di Roma, ripensando al passato, piangevo. Si, piangevo. Tu forse non mi crederai eppure piangevo. Un signore che sedeva vicino a me, nel vedermi piangere, mi urtò col gomito. 

— Scommetto — disse — che lei sta pensando alle trecentocinquanta lire, che ha speso per il biglietto?

— No — risposi.

— Io, invece si.

E cominciò a piangere anche lui. Tentai di confortarlo, magnificandogli i vantaggi dell'inflazione che ha fatto di trecentocinquanta lire una cifra insignificante.

— Insignificante un corno! — mi rispose il signore — Io sono pensionato e per rimediare queste trecentocinquanta lire ho dovuto fare la cessione del quinto. Ha capito?! Del quinto! 

Per cui lo abbandonai al suo destino e ritornai fra i fantasmi del passato. Rividi De Bollis e il Marc'Aurelio. Ti ricordi, Steno, quando eravamo insieme al Marc'Aurelio? Bel tempi! A quell’epoca eri piccolissimo. Mi ricordo che De Bellis appena arrivava in redazione cominciava a cercarti. 

— Avete intravisto Steno? — chiedeva. (Data la sua statura piccolissima, nessuno era mai riuscito a vederlo completamente: il massimo che si poteva ottenere, aguzzando la vista, era di intravederlo).

— Mah, dovrebbe esserci —: rispondeva qualcuno — le orme cl sono. 

— Cercatelo — ordinava De Bellis. 

E tutta la redazione allora si metteva alla ricerca di Steno, seguendo le orme lasciate sul pavimento e sul tavoli, lavoro difficilissimo dato che spesso queste orme. Invece che condurci a Steno, ci conducevano alla zuccheriera ove cl accoglieva una indignatissima mosca. E poi a quell'epoca Steno era dispettosissimo: si nascondeva, per fare arrabbiare De Bellis, nei posti più impensati. Una volta arrivò sino a nascondersi nel calamaio, per cui quando ne usci sembrava un negro con il lutto stretto. E per farlo tornare del colore normale dovemmo usare tanta di quella scolorina che il giorno dopo il nostro editore Giorgio De Fonseca scrisse una lettera ufficiale a De Bellis per chiedergli se aveva intenzione di farlo fallire. 

— Beh — gli osservò De Bellis che aveva l’animo buono — non potevamo mica lasciarlo nero! E poi a me il nero fa melanconia.

— Potevate usare la gomma per inchiostro — replicò De Fonseca — E magari il raschietto. 

Dopodiché Steno rinunziò a nascondersi nel calamai, limitandosi per i suoi dispetti, ai cassetti delle scrivanie e alle chicchere. Infine un giorno decise di lasciarsi crescere i baffi, un magnifico e appariscente palo di baffi neri. Da quel giorno, però, ha dovuto smettere dì fare dispetti: dovunque si nascondesse, i baffi lo tradivano sempre. Oggi quando Mario Monicelli entra in stabilimento per girare una scena -chiede subito: 

— Ci sono i baffi di Steno?

— Si — risponde l'ispettore di produzione.

— Bene — dichiara Monicelli che è un logico e un ragionatore — se ci sono i baffi, deve esserci pure: lui. 

E infatti c’è, per cui Monicelli dopo essersi congratulato con se stesso per l acutezza del suo senso logico e conseguenziale «i baffi ci sono? Si? E allora c'è anche lui». Ragionamento profondo e dinanzi al quale non v'è che da arrendersi comincia a girare. E quel che è peggio comincia a girare Totò e i re di Roma. E quel che è peggio ancora, lo finisce. Cecov nella sua tomba si agita e minacciosamente mormora: «Ha da venì!». 

Osvaldo Scaccia, «Film d'Oggi», 29 ottobre 1952


A colloquio con Steno e Monicelli

Ridere non vuol dire nascondere la realtà

Umoristi e registi cinematografici - La nuova via del film comico aperta da «Guardie e ladri» La censura si accanisce contro «Totò e i sette re di Roma» - Comicità e tragedia nelle «Infedeli» 

Roma, 28 novembre

Steno e Monicelli costituiscono in Italia un binomio molto popolare, perché legato ad una serie numerosa di film comici, alcuni del quali notevolmente significativi, come Guardie e ladri e il recente Totò e i re di Roma. In questi due film, e particolarmente nel primo di essi, si notano alcune caratteristiche che li differenziano dalla media della produzione comica italiana; l'umorismo di Guardie e ladri e di Totò e i re di Roma non é, infatti, gratuito e campato in aria, ma si riferisce ad aspetti reali della vita italiana d'oggi. In entrambi i film il protagonista, Totò, oltre a farci ridere, riesce, a tratti, a commuovere con la amara e dolorosa umanità del suoi personaggi. 

Carriera «dalla gavetta» 

Steno e Monicelli sono arrivati entrambi alla regia, diciamo cosi «dalla gavetta». Monicelli cominciò, quindici e forse più anni or sono, facendo «l'uomo del ciak» in un film di Gustav Machatg, Ballerine. A quell'epoca. Machetiy, che aveva sbalordito e scandalizzato il pubblico del Festival di Venezia con famoso quanto mediocre Estasi (in cui Hedy Kieslerova, oggi Hedy Lamar, compariva nuda), era considerato un grande maestro del cinema, soprattutto da certi giovani imbevuti di estetismo. Monicelli era anche lui convinto di vivere una fondamentale esperienza artistica, ma quando vide il film proiettato ci rimase assai male, tanto esso gli apparve scadente. Poi Monicelli fece, via via, l’«aiuto» del più importanti registi italiani, il soggettista e successivamente lo sceneggiatore. Dopo avere scritto assieme alcune sceneggiature, Monicelli cominciò a dirigere film in collaborazione con Steno. Quanto alla carriera cinematografia di quest’u'timo, essa ebbe inizio con il film Imputato alzatevi. In quell'occasione, Steno, che lavorava nel giornale umoristico Marc'Aurelio, venne chiamato a scrivere alcune trovate comiche per il film. Poi realizzò soggetti, sceneggiature e, finalmente, cominciò a lavorare con Monicelli. 

— Quando si hanno piò o meno gli stessi gusti, la collaborazione è molto vantaggiosa — dicono i due registi: — oltre a rendere più spedito il lavoro, si ha modo di esercitare una reciproca critica su quello che si fa. Del resto, il cinema é soprattutto un’arte di collaborazione. 

Nel corso di un lungo e interessante colloquio con i due registi, abbiamo, fra l'altro, chiesto loro informazioni sulle traversìe subite a causa della censura dal film Totò e i re di Roma. Abbiamo chiesto, in particolare, se fosse vero che nel film erano state soppresse molte scene.

— Effettivamente — rispondono Steno e Monicelli — mancano nell'edizione definitiva del film alcune scene molto importanti; per esempio, alla fine, il povero impiegato che aveva cercato la morte per poter andare nell'aldllà (la censura, fra parentesi, ha voluto che alla parola «aldilà» fosse sostituita la parola «Olimpo») a prendere i numeri del lotto e darli in sogno alla moglie, si sfogava con iI Padreterno e gli diceva press'a poco: tu che ti preoccupi tanto di me, dei miei peccatucci, della mia vita piena di miserie e di sacrifici, guarda, guarda un po’ la terra e vedrai come le cose vadano male; c’è la miseria, c’è la guerra, c’é la bomba atomica e un sacco di altri guai. Non faresti meglio ad occuparti un po’ di quello che succede laggiù? Questo finale, che avrebbe dato al film una carica satirica e drammatica molto più forte di quella che esso ha, è stato tolto di mezzo dalla censura.

— La censura — ci spiegano i nostri interlocutori — specialmente quella non ufficiale, quella cosiddetta «preventiva», è un grave ostacolo al nostro lavoro. Certi temi non si possono nemmeno toccare. Noi vorremmo che si avesse un po’ più di fiducia in noi e che ci si permettesse di realizzare film in pace, fidando nel nostra senso di responsabilità.

Il discorso cade ora sull’influenza che il cinema italiano del dopoguerra può aver esercitato specificamente sul nostro film comico .[...]

Franco Giraldi, «L'Unità», 29 novembre 1952


Il cinema sembra cercare nei racconti russi del passato gli spunti per la biografia dei burocrati Italiani d’oggi. Ieri un eroe di Gogol suggeriva a Lattuada Il cappotto: oggi altri umiliati e offesi del tempo zarista. I protagonisti di due racconti al Cechov («La morte dell'impiegato» ed «Esami di promozione»), si unificano in Ercole Pappalardo» protagonista del film Totò e i re di Roma, diretto, da Steno e Monicelli. Mosca, in questo caso, illumina Roma. Ai suggerimenti di Cechov, Steno e Monicelli hanno aggiunto barzellette e «gags» di loro invenzione; il maggiore interprete, Totò, ha irrobustito il dialogo con le battute a soggetto, che sono la sua specialità; sì che il film risulta una mescolanza pittoresca di spiritosità carpatico-partenopee.

L[...]

Infarcito degli umori di molta letteratura, di molto giornalismo umoristico e di molto cinema, il film è un mosaico di cose viste. C'è dentro di tutto, ma specialmente c'è Totò, il Totò delle riviste, con brillanti e meno brillanti richiami dall'attualità politica e una non celata tendenza alla polemica dei nostalgici. Qualche episodio, e cosi i due funerali, quelli di un morto e quelli di un vivo, risultano spassosi: la morte fa allegria, nelle nostre pellicole comiche. La sostanza del film, tuttavia, è risaputa e dimessa. Con Totò, nel panni del superiore burbanzoso, c'è Giulio Stivai, che ha la stessa parte nel Cappotto: e c’é, piena di scatti divertenti, la brava Anna Carena, attrice di buone possibilità. Senza contare che Totò è padre di cinque figlie, e immaginarsi se, per un film del genere, non si tratti di ragazzone insofferenti del peso del vestiti.

lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 10 dicembre 1952 


"E poi si dice che uno si butta a sinistra" è l'intercalare dell'archivista Ercole Pappalardo, protagonista del film "Totò e i re di Roma", di Steno e Monicelli; ossia, praticamente, é l'intercalare di Totò. Ma un impiegato statale non si butta mai a sinistra, almeno a Roma; al contrario, come sembra accadere a Totò, si butta proprio dalla parte opposta, quella del nostalgici; e il risultato non cambia. Questi accenni all’attualità politica danno alla pellicola un sapore da rivista, come del resto, accade spesso al lavori in cui ha parte Totò; e s'innestano male nel nucleo principale del racconto, suggerito da due vecchi racconti russi, di Cechov. Comunque, sono accenni che pongono allo spettacolo precisi limiti, apparentandolo con i toni dei settimanali umoristici, familiari ai due registi del film.

[...]

Ogni tanto si ride; ancora una volta, c’é Totò a provvedere. Ma guai a mettersi in mente che la polemica sociale alimenti "Totò e i re di Roma". Che un capo-archivista, padre di famiglia numerosa, sia pagato male è cosa indegna; ma che il capo-archivista, per trent’anni, abbia frodato lo Stato, nascondendo la sua inettitudine e il suo inguaribile analfabetismo, altrettanto indegna. Quelli che hanno un'idea piuttosto poco lusinghiera della burocrazia ministeriale non la cambieranno dopo questo film comico, e non è giusto. I film di Totò servono a un’ora di spasso, anche se sono insipidi come questo è spesso, ma le idee non si confermano nè si mutano con l’aiuto d'una cinematografia tanto lontana da ogni attività del pensiero.

Art., «Corriere d'Informazione», 11 dicembre 1952


[...] Con Totò e i re di Roma i due registi sono rientrati negli schemi deprecati e il comico napoletano è tornato alla sua ormai scontata maniera farsesca e marionettistica. Con un'attenuante, però: che questo film - come già Guardie e ladri - sì discosta, sul piano del contenuto, dai soliti pasticci a base di gambe nude (in verità, ci sono anche le gambe nude, ma ad esse è riservato un posto marginale). Nei titoli di testa si legge il nome di Cechov: un semplice pretesto.Se negli autori c'era, per caso, la vaga intenzione di erigere una specie di contraltare a Il cappotto (1952) di Lattuada (dove l'origine letteraria è Gogol), contrapponendo al copista Rascel l'archivista Totò, essa è miseramente fallita [... ].

Franco Zannino, «Rassegna del film», 11 febbraio 1953


1953 06 20 Novelle Film intro

Nella triste mattina senza sole, un ometto se ne andava passo passo lungo una stradicciuola romana. Altri, dietro di lui o di fianco, passavano; tutti entravano nel grande portone di un mastodontico palazzo di pietra. Ognuno portava sottobraccio una borsa di pelle, del tipo usato dai bambini per tenervi i libri della scuola. Passavano senza affrettarsi, si tuffavano nell'androne buio che pareva proprio la gran bocca di un drago, salivano alcuni gradini smozzicati da chissà quanto tempo, e salutavano con ampi gesti delle mani, oppure levando in alto il cappella, grasso usciere in uniforme che
sedeva entro la piccola gabbiuola.

« Buondì, cavaliere », rispondeva l’usciere, con sussiego.

L’ometto smiilzo e streminzito passò dinanzi alla gabbiuola fingendo di nulla, e l’usciere non levò manco gli occhi. Allora l’ometto ritornò indietro e ripassò di nuovo davanti alla gabbiuola, e ancora l’usciere non mostrò di avvedersene.

« Ahò! », fece l’ometto, battendo una manata sul legno della gabbiuola. « Non mi saluti? ».

« Ecché!... », fece l’usciere, irritata. « Che devo dire a voi? ».

« Che sarebbe? Io sono Ercole Pappalardo, archivista - capo in pianta stabile, del gruppo C. Dovete salutarmi come per gli altri... ».

« E va bene. Buondì! », disse l’usciere, rimettendosi a leggere.

« Cavaliere! Cavaliere! », urlò Pappalardo.

« Ma voi », disse l’usciere, alzandosi, «voi siete cavaliere?».

Pappalardo strabuzzò gli occhi e portò una mano a comprimersi il petto. Disse: « Da quindici anni, dico quindici, ho inoltrato domanda per il cavalierato... A giorni sarò sicuramente nominato... ».

« Beh, voi diventate cavaliere e io vi chiamerò cavaliere », concluse l’usciere.

Pappalardo si morse le dita, dalla rabbia. Fece come l’atto di scagliarsi contro l'usciere, ma in quella un giovanotto, sopravvenuto, lo fermò e lo trascinò pel corridoio!. Era Ferruccio, il suo giovane aiutante.

« Ma che fai? Sei pazzo, Ercole? », disse Ferruccio.

« E poi dicono che uno non si riversa a sinistra... », gridò Pappalardo, inferocito.

« Ssst! », fece Ferruccio, tappandogli la bocca. E a forza lo sospinse entro l’ufficio dell'archivio.

Tale ufficio era in verità un ininterrotta susseguirsi di stanze, le Cui pareti erano interamente coperte da scaffalature zeppe di fascicoli e cartacce. In ogni stanza v’erano due funzionari: uno sonnecchiava, per lo più, e l’altro leggeva il giornale o si esercitava alle parole incrociate, a turno. Nella prima erano allogati Pappalardo e Ferruccio.

« Tu sei troppo impulsivo », disse Ferruccio, una volta al sicuro entro l’ufficio.

« Macché impulsivo! Ho trent’anni di. anzianità, capisci?, e da quindici anni ormai attendo la nomina a cavaliere. Tutti qui sono cavalieri, m'eno io Perché? Perché, domando io? ».

« Ma vedrai che sarai accontentato, uno di questi giorni... ».

« Sicuro! Ma intanto le beffe le sopporto io! Tu sentissi mia moglie... Ho cinque figlie, io, da mantenere nell’onore del mondo... Cinque figlie! Con trentamila lire mensili... e nemmeno cavaliere! ».

Le lamentele di Pappalardo vennero interrotte dall'affluire di numerosi impiegati nella loro stanza. Uno aveva vinto quarantacinquemila lire al lotto, coi numeri 12, 71, 43, usciti sulla ruota di Bari, perciò offriva il vermouth ai colleghi.

Mentre tutti bevevano e scherzavano, Pappalardo pensava cupamente che anche la Cabala tramava contro di lui. Era oltremodo superstizioso, e da ogni avvenimenti egli cavava la terna o la quaterna da giocare al lotto: ma mai neppure una sola volta aveva vinto! Mai: neppure un centesimo. E sì che di bisogno ne aveva fin troppo!

Cinque figlie, delle quali due ancor bambine frequentavano le scuole! La maggiore, Giannina, e un’altra lavoravano sì, ma guadagnavano nemmeno il necessario per vestirsi. E la terza stava a casa, ad aiutare sua moglie per i lavori domestici.

Adesso, a esempio, si era giunti all'estate e tutti gli inquilini della casa ove i Pappalardo abitavano, proprio tutti, andavano in villeggiatura. Loro, naturalmente, non avrebbero nemmeno potuto muoversi da Roma. Ma ecco che sua moglie, per il vezzo di mostrarsi all’altezza dei vicini, aveva detto a tutti che quell’estate egli avrebbe portato l’intera famiglia a Rapallo.

Erano accadute scene da non dirsi, in casa, allorché Ercole aveva saputo la faccenda.

« Sei pazza! Siete tutte pazze! Aiuto! Soccorso! », si era messo ad urlare. « E dii vi può condurre a Rapallo? Ohi, ohi, sciagurata famiglia... ».

Gli era persino sopravvenuto un attacco cardiaco. In realtà Ercole era malato di cuore da un’infinità di tempo, e ogni tanto lo coglieva qualche crisi: ma quella volta si rimise proprio a gran fatica.

Comunque, sulla faccenda della villeggiatura sua moglie non era disposta a transigere. Aveva escogitato un progetto che lì per lì sembrava insensato; Infatti lo era, ma Ercole dovette rassegnarsi ad accettarlo. Dunque: avrebbero finto una partenza in grande stile, un bel mattino, e siccome non c’era proprio nessuna possibilità di recarsi nemmeno a Ostia, avrebbero trascorso la giornata' in una trattoria del forese. Sarebbero quindi rincasati a sera inoltrata, e così avrebbero passato almeno due settimane tutti tappati in casa.

Venne il giorno in cui la famiglia Pappalardo doveva partire per la villeggiatura. Ercole venne caricato di valigie come un somaro, e tutti colmi di fagotti lasciarono la casa, fra i saluti e vari auguri gridati dall’intera vicinanza. Anziché recarsi alla Stazione Termini, naturalmente, presero un tram e raggiunsero una misera trattoria di San Giovanni, dalla quale tornarono a casa che ormai tutto il vicinato era immerso nel sonno.

Sembrava che le cose filassero per il meglio, sennonché Ferruccio, visto che il suo collega e capo restava a casa solo (credendo anch’egli che la famiglia fosse andata davvero a Rapallo) fece la bella pensata di andare a trovarlo, insieme con due belle e procaci figliuole. Per farla breve, Ercole dovette uscire, per evitare che il collega si insospettisse e che anche il vicinato se ne avvedesse.

« E che facciamo? » domandò Ercole, con vivo disappunto, una volta in istrada.

« Ce la spassiamo », fece una delle ragazze.

« Incominciamo con l’andare a veder la rivista », decise Ferruccio, « e poi si vedrà... ».

Meno di mezz’ora più tardi, Ercole con il collega e le due bellezze stavano sul loggione d’un teatro e se la godevano un mondo ad ascoltare le barzellette di un comico e ammirare le snelle figure semivestite delle ballerine. D’un tratto pierò Ercole avvertì una ventata fredda alle spalle e starnuti. Fu uno starnuto clamoroso, e siccome Ercole si era sporto al di là della balaustrata del loggione, finì che lo sputo colpì giusto nel mezzo della testa calva un distintissimo signore che stava in platea. Questi si voltò verso l’alto, quanto mai corrucciato, ed Ercole Pappalardo allibì riconoscendo in colui nientemeno che Sua Eccellenza il Direttore Generale Badalozzi, vale a dire il capintesta del Ministero ove lui era impiegato!

L’effetto di simile constatazione fu veramente tragico. Pappalardo era divenuto addirittura cadaverico: riteneva che Sua Eccellenza lo avesse riconosciuto e potesse credere che lui, il capo-archivista del gruppo C., avesse inteso con quello sputo offenderlo.

« Sarò licenziato... Mi butterà sul lastrico... », gemeva Ercole.

« Ma no, che dici mai? Non ti avrà nemmeno visto... ».

« Mi ha visto. Mi ha riconosciuto benissimo! Oh, Dio! Ormai non formulerà mai più la mia nomina a cavaliere... Ohi, ohi, ohi!... ».

Insamma i piagnistei di Ercole furano tali e tanti, che alla fine Ferruccio gli consigliò di presentare immediatamente le sue scuse a Sua Eccellenza. Difatti, appena venne annunciato l'intervallo dello spettacolo, Ercole, seguito dal collega e dalle altre ragazze, discese nel ridotto. Scorse Sua Eccellenza che insieme con una bellissima signora stava accanto al banco del bar, in mezzo a un gruppo di persone eleganti. Senza polr tempo in mezzo egli si avvicinò e prese, balbettando, a scusarsi per lo sputo.

« Eccellenza, non volevo sputarle in testa... », cominciò.

« Che? ». fece l’altro, stupefatto.

« Sì. Lo sputo. Lo scaracchio di prima. Sono stato io, sì. Ma non volevo farlo apposta... »,

Va da sé che Sua Eccellenza si indignò, e cacciò via in malo modo il malcapitato Ercole.

Rincasato, quella notte Ercole non potè dormire. Nella mente gli si agitavano i pensieri più tenebrosi. Cercò d’acquietarsi sforzandosi a sognare almeno qualche numero da giocare al lotto, ma il passar delle ore non gli portò né sollievo né qualche numero.

In ufficio, il mattino dopo, Ferruccio lo persuase a tentar di fermare Sua Eccellenza nel corridoio e presentargli ancora le sue scuse, ma in forma più acconcia. Ercole decise di seguire il consiglio del collega. Postosi in agguato nel corridoio, avvistò infine Sua Eccellenza che, galante, accompagnava verso l’uscita una splendida signora. Ercole gli si parò davanti di scatto e ricominciò a farfugliare incomprensibili spiegazioni. Le u-niche parole chiaramente percettibili erano: "lo sputo in testa”, sicché il Direttore Generale si adirò di nuovo e gli diede una gran strapazzata. Più morto che vivo, Ercole ritornò nel suo ufficio, ma fu quasi subito chiamato dal caposezione. Costui aveva appena ricevuto l’ordine, da Sua Eccellenza, di ritrovare una pratica chissà dove mai finita nell’archivio. Era una pratica riguardante la morte d’un pappagallo ammaestrato, inoltrata da persone compaesane di Sua Eccellenza, e alle quali il Direttore Generale non poteva in alcun modo usare sgarberie.

Mentre Ercole e Ferruccio facevan passare, ambedue in orgasmo, tutti gli scartafacci dell’archivio, giunse la notizia che un loro collega era poco prima deceduto in seguito ad un violento attacco cardiaco. Ercole pensò subito a cavarne i numeri per il lotto: 9-26-56.

Proprio durante i funerali del collega, che avvennero nel pomeriggio dei sabato. Ercole constatò che nemmeno quella volta la Cabala s’era mostrata benigna con lui.

Frattanto, tra la questione della pratica che non si trovava e quella, da Ercole ritenuto ben più grave, dello sputo in testa al Direttore Generale, Pappalardo affondava sempre più in un mare di depressione. Anche in casa non faceva che litigare con la moglie e sgridare le figlie. Se la prendeva specialmente con Giannina, la quale aveva per fidanzato un giovane del quartiere, Giorgio, che non andava affatto a genio al padre. Eran tutti motivi di disappunto, che martoriavano senza tregua il povero impiegato statale.

Egli viveva sempre fra continue paure, e in casa sua trovava nient’altro che scompiglio e insensatezza. Costantemente tappate in casa, le figlie cercavano di far passare il tempo mettendosi a far la cura del sole, per acquistare la tintarella di cui dovevan pur far mostra quando la ''villeggiatura” sarebbe terminata.

Finalmente Ferruccio, per trarlo da quello stato di perenne atonia, gli suggerì di scrivere una lettera a Sua Eccellenza, sempre per fargli le scuse e chiedergli indulgenza. Ne seguì che il giorno successivo Ercole fu chiamato dal caposezione, il quale gli mostrò la sua lettera tutta costellata di segnacci rossi. Infatti lo scritto non era altro che un ammasso di errori d’ortografia e il Direttore Generale era andato su tutte le furie leggendola. Come mai al posto di capoarchivista c’era un funzionario pressoché analfabeta? Ecco perché, dunque, non si potevano mai ritrovare le pratiche!

« Ma tu, che studi hai fatto? ».

«Beh», confessò Pappalardo, «mi dimenticai di prendere la licenza elementare... ».

« Oh Dio! E come hai fatto a farti assumere qui? ».

« Per mezzo d’un mio parente. Entrai in pianta stabile il 28 ottobre 1922... Sapete... per via di quella marcia... ».

Quando il Direttore Generale venne a saperlo, si imbestialì del tutto. Fece porre a Pappalardo l’ultimatum: o si assoggettava a sostenere gli esami almeno per la licenza elementare, oppure sarebbe stato licenziato in tronco! Tuttavia, rimaneva un’altra alternativa: ritrovare la pratica del pappagallo. Ercole fu messo in rapporto con uno stravagante tipo di maestro elementare, compaesano di Sua Eccellenza, il quale era stato incaricato dalla sua cittadinanza di svolgere tutte le pratiche inerenti alla riabilitazione di quel tal pappagallo: sì, perché il variopinto volatile era stato fucilato, nei giorni della Liberazione, perché cantava... Giovinezza!

Pappalardo non riuscì a ritrovare la famosa pratica ministeriale, anzi si urtò malamente anche col maestro elementare, per la aual cosa non gli restò altroi che sottomettersi agli esami.

Si presentò, qualche settimana più tardi, nella Scuola elementare ove studiava la sua figlia minore. Attese, insieme con i bambini, di essere chiamato in aula per l’esame. Venne il momento, e qual non fu il disappunto vedendo che fra. gli esaminatori c’era pure il maestro compaesano del Direttore Generale!

Gli altri esaminatori avrebbero volentieri chiusi entrambi gli occhi sulla preparazione di Ercole, data l’età e la condizione, ma quel maestro si impuntò e volle che Pappalardo subisse il fuoco di fila •delle domande. Va da sé che egli non ne imbroccò giusta neanche una. Quando poi il maestro compaesano di Sua Eccellenza gli chiese chi fossero i sette Re di Roma, avvenne il crollo. Pappalardo non seppe rispondere, e esasperato dal sorriso sarcastico del maestro afferrò il mappamondo e glielo sfasciò sul capo.

Così significava la fine, la completa rovina. Egli rincasò definitivamente abbattuto. Si rinchiuse nella sua stanza, e disse alla moglie che aveva deciso di morire.

« Che vuoi fare? », domandò sua moglie, spaventata.

« Morire! Stai tranquilla: non mi butto dal quarto piano. Mi stendo «ul letto e muoio. Poi, ti verrò in sogno e ti darò i numeri sicuri da giocare al lotto, così vincerai una grossa somma e voi tutte potrete vivere felici... ».

Tutti i pianti e le argomentazioni della móglie non valsero a nulla. Ercole si vestì di nero e si approntò per lasciare questa valle di lacrime. Saputo però che la famiglia non avrebbe potuto sostenere la spesa per dei funerali appena decenti, si levò dal letto e decise di recarsi a spengersi addirittura al Cimitero. E poche ore dopo, fra la costernata stupefazione della
igente, lungo le strade di Roma passò lo strano corteo funebre, con Ercole (ossia il defunto) che camminava tenendo un cero fra le mani e in mezzo a festoni di crisantemi. Proprio al Cimitero, un puntualissimo attacco cardiaco pose fine alle sofferenze terrene dello statale Ercole Pappalardo.

Una volta raggiunto il Limbo, Ercole venne però a sapere che era ritenuta grave scorrettezza il chiedere numeri da giocare al lotto. Il codice vigente nel Limbo prevedeva severe punizioni per i contravventori. Ciononostante, egli riuscì ad impossessarsi d’una terna: 54-33-89, da giocare sulla ruota di Bari, e quella stessa notte comparve nel sogno a sua moglie e glieli riferì.

54-33-89, il sabato seguente, uscirono regolarmente sulla ruota di Bari, di modo che la vedova Pappalardo potè incassare svariati milioni, con i quali la vita delle cinque orfanelle mutò completamente. E mediante tale cambiamento, Giannina potè convolare a giuste nozze con l'innamoratissimo, ma spiantato, Giorgio. E dall’alto del cielo, finalmente sereno e pacificato, Ercole ebbe la sconfinata consolazione di veder la felicità penetrare nella sua misera casa.

Roberto Martini, «Novelle Film», 20 giugno 1953


La censura

Nella scena dell'interrogazione, quando Alberto Sordi chiede a Totò il nome di un pachiderma, si sente la risposta doppiata con voce diversa, che risponde: «Bartali!». Il movimento labiale dell'attore già tradisce il cambiamento e inoltre la risposta di Sordi - «Vedo che Lei non ha perso l'abitudine d'insultare i suoi superiori!» - rende ancor più evidente la manomissione del copione originario. Il tono è infatti fortemente sdegnato e quel "superiore" non può riferirsi al ciclista. Leggendo infatti il labiale di Totò, si può capire che pronuncia "De Gasperi!". Altra scena che provocò problemi con la censura fu tutta la parte ambientata nell'aldilà.

Al colloquio finale tra Pappalardo e Dio (interpretato da Ernesto Almirante) viene tagliata una intera pagina di dialogo ritenuta troppo irriguardosa nei confronti della religione. Viene anche ritenuto inaccettabile che il protagonista ricorresse al suicidio per salvare la famiglia, e così, per mezzo di una consolatoria postilla affidata a una voce fuori campo a fine film, il tutto viene "sfumato" in una sorta di sogno per smorzare i toni drammatici non consoni a un film comico. Inoltre, viene tagliata la battuta con cui Pappalardo, preparandosi a morire, chiede melodrammaticamente di vedere per l'ultima volta le sue cinque figlie, sembrata fin troppo allusiva a un suicidio.

1952 Toto e i re di Roma 1Documenti censura del film Totò e i Re di Roma, 1952 - Fascicolo - Direzione Generale Cinema


Misero impiegato? Misero impiegato?! Giovanotto! Non infangare! Non vilipendere la integerrima categoria di coloro che anche Sua Eccellenza Togni nel suo ultimo discorso ha detto che sono la struttura della Patria, il cemento armato della nazione...

Totò, battuta contestata nel film "Totò e i Re di Roma"




Lettera di Giulio Andreotti indirizzata all'Avv. de Tomasi

Caro de Tomasi, ricevo qui questo SOS di Amati. La prego di chiamarlo e di dirgli quel'è il mio pensiero, costruito sul ricordo poichè naturalmente non ho portato con me a Montecatini i dialoghi di Totò. Quello che nel film è irriverente in senso assoluto è la raffigurazione del Padre Eterno (nelle spoglie da colonnello a riposo di amirante). Il resto passa, anche senza quella umoristica ribattezzatura in "olimpo" dell'al di là dove vanno le anime dei morti nel 1951. Se Amati vuol dire questo con "eliminazione della parte dialogata" siamo d'accordo. In caso inverso farmi trovare per sabato l'estratto della contestazione. Amati deprezza il suo film legandone il successo ad una battuta buona (pietà del Padre Eterno per gli statali) infarcita di contorni pesanti e di dubbio gusto. Per me il film ha le sue carte di sicuro successo in tutto ciò che avviene nei primi quattro quinti, ma non è certo il mio giudizio critico-commerciale quello che importa. Buon lavoro e ringraziamenti.

8 settembre 1952

Manoscritto, firmato da Andreotti

"Totò e i Re di Roma" L'ultima stesura è accettabile a parte la censura, i produttori toglieranno l'accenno all'On. De Gasperi sostituendolo con una battuta su Bartali.

18 settembre 1952


I documenti


Totò aveva capito benissimo di trovarsi davanti un grosso attore e così in una scena improvvisò una serie di starnuti con lo sputo per non farsela fregare ma Sordi, senza la minima incertezza, gli tenne testa con una valida controscena.

Mario Monicelli


Dividere il lavoro tra me e Steno era una cosa abbastanza naturale. Durante la gestazione del film e mentre si scriveva il soggetto e la sceneggiatura capitava che uno dei due fosse più solerte, più contento, più affezionato, più consono al film e al tema che si stava facendo. Quindi veniva naturale che uno dei due andasse sul set più spesso; l’altro stava un po’ più indietro e aiutava, la sera vedevamo i giornalieri tutti e due... Se mancava un attore in una parte secondaria, l’altro diceva: “Uè, guarda che per dopodomani mi serve quello”, allora l’altro andava in giro, cercava e faceva i provini, se c’erano dei posti da trovare li cercava uno dei due; quindi sul set in realtà poi ci stava uno solo, quello che aveva sposato il film con maggiore entusiasmo. Si andava avanti così, era abbastanza raro che fossimo sul set in due: capitava che uno dei due venisse, domandava come va, portava qualche consiglio, però il lavoro sul set era di uno solo, a seconda del film. Io comunque non avrei nessuna voglia di dire chi stesse di più sul set e in quali film, perché abbiamo firmato insieme, erano film di tutti e due: girare sul posto non era così importante, decisiva era la preparazione, la scelta degli attori, dei costumi, insomma il tono del film, il montaggio, che facevamo insieme naturalmente.

Mario Monicelli


Cosa ne pensa il pubblico...


I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com

  • Pellicola che presenta vari accenti: il comico, il tragicomico, il surreale. Film di Totò, capace di espressioni di grande artista a tutto tondo (si pensi ai minuti successivi al disastroso esame scolastico), con cospicua e ottima presenza di Sordi, in uno dei suoi ruoli da cattivo, con vocetta isterichina e fare supponente. Due grandi, che riescono a compensare, qua e là, qualche caduta di tono della vicenda, comunque godibile.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: L'impiegato olimpico dice a Totò di sbrigarsi perché c'è la coda e l'altro gli risponde: "La coda ce l'avrà sua sorella!".

  • Strano film codiretto da Steno e Monicelli, rappresenta l'unico episodio cinematografico che vede insieme sul set Totò e Alberto Sordi. L'ispirazione viene da due racconti dello scrittore russo Cechov, opportunamente rielaborati. Nel film vengono mescolati insieme (e non sempre con grande equilibrio), il comico, la farsa e la commedia nera, insieme a qualche spunto drammatico e lacrimevole. Il tutto è abbastanza godibile anche se non memorabile.

  • Malgrado la gran parata di talenti (non solo i registi ma anche Risi in sceneggiatura e Fulci aiuto) un Totò non riuscitissimo e non troppo equilibrato nei registri, di una gran tristezza di fondo appena riscattata dallo sbrigativo finale. Ruba la scena un Sordi a fuoco con personaggio caricato e odiosissimo. Il celebre "Poi dice che uno si butta a sinistra" diventa qui tormentone
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: "Addavenì" "E noi qui lo aspettiamo" "Ma qui lui non viene!".

  • Modesto travet ministeriale si ritrova nei guai per un banale incidente gogoliano che rischia di costargli non solo la nomina a cavaliere, ma pure il posto di lavoro... Come diceva Totò, la somma non (sempre) fa il totale, e qui infatti la collaborazione di Steno con Monicelli si rivela inferiore alle attese, anche se il film, assai discontinuo, si risolleva nettamente nel finale, prima grazie ad un pezzo di bravura del grande attore (il discorso davanti alla commissione d'esame), poi con l'epilogo surreale che vede il nostro alla prese con la burocrazia celeste.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il funerale con il morto a piedi (per risparmiare sulla carrozza) - La borsa nera dei numeri al lotto e l'intervento dei celerini manganellatori.

  • Una commedia curiosa, parecchio sconnessa e composta più che altro da una serie di episodi, che stupisce per l'anarchia degli ultimi snodi narrativi, piuttosto estranei al genere e caratterizzati da un piacevole surrealismo. Ciò che viene prima non è il massimo, a partire da un primo tempo decisamente blando e poco interessante, ma l'espressività di Totò riesce a sostenere anche i momenti meno brillanti. Un po' macchiettistico il personaggio di Sordi. Discreto film.

  • Monicelli e Steno prendono spunto da racconti di Cecov e ci mettono dentro il grande principe De Curtis. Non si ride come in altri suoi film, ma ci si limita al sorriso. Film che sfocia in alcuni momenti nel grottesco. Simpatico il perfido Sordi.

  • Non uno dei migliori film con Totò, ma rimane memorabile per essere l'unica occasione in cui si incrocia con un altro grande: Alberto Sordi. Le parti in ufficio sono le migliori e le più divertenti, insieme al surreale momento nell'adilà con la borsa nera per il lotto. Buoni i duetti con Albertone, ma anche migliori quelli con il buon Aroldo Tieri. Simpatico.

  • Totò riesce ad esprimersi al suo massimo solo nella scena dell'esame di licenza elementare. Naturalmente regge anche il resto del film che come argomento principale ha il lavoro ai ministeri statali e la descrizione (come era e ancora è nell'immaginario collettivo) del lavoro degli impiegati. Basti dire che tutto l'impegno di un capo ufficio sta nel fare le parole crociate e manco ci riesce. Sordi, antipaticissimo, ripete la sua macchietta dalla voce stridula. Presenza femminile decorativa e una brava Anna Carena che interpreta la moglie di Totò.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Tutta la parte dell'anticamera al paradiso, organizzata burocraticamente come i ministeri statali.

  • Comunque miliare, testimoniando l'unico incontro "pubblico" tra due generazioni di maschere italiane, quella aggressiva, cinica ed egocentrica di Albertone e quella più umanistica, antica e popolare di Totò. Al di là di questo affatto accessorio elemento storico, il film si incastona perfettamente nel processo di crescita del sodalizio Steno-Monicelli, arricchendo la galleria di travet del nostro cinema (Campanini, Rascel, Fabrizi) di una ironicamente amara dimensione cechoviana. Coerente e solo apparentemente conciliatorio il finale "fantastico".
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: I duetti Totò - Sordi; Il pappagallo che insulta il ministro; Il funerale "autotrasportato"; Totò col fazzoletto attorno alla testa.

  • Un gradevole film diretto dal duo Steno-Monicelli che rimane memorabile in particolare per l'unico incontro fra Totò e Alberto Sordi. Qualche momento di noia serpeggia quà e là, ma Totò salva il tutto, mentre Sordi è un poc' acerbo ma pronto al grande salto. Si ride amaro. Bella la scena dell'esame di Totò con Sordi.

  • Poco riuscito tentativo di adeguare l'impeto farsesco di Totò alla sommessa comicità di Cechov. Il comico napoletano si attiene più del solito al testo e sfoggia grandi doti di attore a tutto tondo, imponendo la sua classe ai pur bravi ma troppo macchiettistici Sordi e Tieri. Interessanti anche i momenti in cui l'ironia si fa amara, ma nel complesso la storia resta poco coinvolgente e alcuni momenti paiono piuttosto forzati. Restano comunque alcuni episodi che strappano risate convinte, soprattutto quando il Principe va a ruota libera.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Il pappagallo; La banda sgangherata a casa di Totò; Gli esami.

  • I temi erano pretenziosi, raccontare la mediocrità e l'incapacità dell'essere all'altezza delle proprie ambizioni della piccola nuova borghesia creatasi nel secondo dopoguerra italiano. Ma purtroppo i ritmi non rendono sempre il miglior servizio al film, che sembra stare in piedi solo grazie all'interpretazione di Totò e di un iperespressivo Sordi nel ruolo del cattivo burocrate. Garantisce comunque una buona dose di amaro divertimento.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: L'assurdo paradiso burocratico.

  • Un film piuttosto sgangherato, questo di Steno e Monicelli. Dove non recita il solito Totò scatenato, marionettistico o anarchico, ma un attore che interpreta un ruolo a tutto tondo di un impiegatuccio di un archivio pubblico, in perenne lotta con il mondo che l'opprime e che perderà il lavoro se non conseguirà il diploma elementare. Un Totò piuttosto dimesso e patetico che sfiora il sentimentalismo più vieto ma la cui recitazione si fa, altresì, più sfumata e modulare ben adattandosi ai timbri richiesti dalla varie situazioni drammatiche e narrative.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: La "drammatica" scena dell'esame: l'unico incontro tra Totò e Sordi su un set.

  • Uno dei migliori film di Totò, dove l'intento di critica contro burocrazia e caporali non soffoca la verve del protagonista, che duetta (ahinoi, per l'unica volta) con un altro mostro sacro del nostro cinema, Alberto Sordi, irresistibile e cattivissimo antagonista. Il film anticipa molti aspetti del "primo" e miglior Fantozzi, tra ironia, surrealismo e anche tragicità. Per ridere e riflettere, giacchè dal 1951 ad oggi non sembra aver perso attualità.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: L'esame del protagonista da parte del severissimo Alberto Sordi.

  • Firmato da Mario Monicelli e, soprattutto, Stefano Vanzina, con una regia tirata via, secondo la migliore tradizione romana, con attori ottimi e un copione a metà strada e una sceneggiatura relativamente interessante. Nel complesso è un po' "televisivo", frammentario, tuttavia si può rivedere durante queste giornate estive sonnolente con la stessa indulgenza che il regista riservò a se stesso.
    MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Le evoluzioni "politiche" strumentali di Totò, che cerca di accaparrarsi il favore dei potenti buttandosi ora a sinistra, ora a destra.

Le incongruenze

  1. Durante l'esame di licenza elementare Sordi chiede a Totò il nome di un pachiderma. La risposta, dopo alcuni suggerimenti, è "Bartali". La contraddizione nel film è, oltre alla divergenza con il labiale, che il nome sia pronunciato con una voce stranissima, sicuramente non quella di Totò. Probabilmente si tratta di un successivo ridoppiaggio per opera della censura, infatti Sordi replica seccato alla risposta di Totò: "vedo che non ha perso l'abitudine di insultare i suoi superiori". Tutto questo livore non si spiegherebbe con il semplice uso del nome del noto ciclista.
  2. Quando Totò entra in aula per l'esame nelle inquadrature di fianco ha i pugni sul tavolo, nelle altre gesticola.
  3. I maestri cambiano posizione continuamente in base alle diverse inquadrature. Per esempio il maestro al centro nella scena di fianco ha la mano destra sul mento ed in quella successiva sul tavolo.
  4. Totò è nell'Olimpo e chiede a Filippini dove danno i numeri del lotto, ma nella inquadrature successiva cambiano entrambi posizione nella sala dove si trovano.
  5. A tavola la moglie di Totò si lamenta perché mangiano "in 7 quello che è scarso per 2", ma con la mano sinistra fa il segno di 3.
  6. Quando Alberto Sordi informa Totò sul numero di pratica da ricercare, dice 460 B 61 mentre, subito dopo, per ricordarglielo dice "in sua memoria, pratica 480 B 61".
  7. Scena in casa Pappalardo, con sua eccellenza e Alberto Sordi. Mentre quest'ultimo parla, Totò ride, ma allo stacco di montaggio lo guarda pensoso.
  8. Durante l'esame, Totò fa per dare la mano ad uno degli esaminatori, ma allo stacco invece sta tenendo la mano sulla faccia.
  9. Passa la signorina Corradini nel corridoio e tutti gli impiegati sono sulla porta a guardarla. Ercole Pappalardi è su di una scala, da cui, comicamente, cade giù. E si vede molto bene che si tratta di una controfigura, perché viene inquadrato proprio di fronte.
  10. Pappalardo dice al collega Pietrucci "Dove andremo a finire? Mah!", però, quando dice "Mah!", l'audio è sfasato rispetto al labiale di un paio di secondi.
  11. La moglie di Pappalardo, gesticolando con un pezzo di pane (o di salame), dice che in sette si spartiscono una porzione che è scarsa per due. Ma allo stacco non solo non ha più nulla in mano, ma anzi la mano è posata sul tavolo!
  12. La moglie di Ercole Pappalardo commenta ironica "Villeggiatura!" mentre chiude la porta dopo aver salutato i vicini che vanno al mare. In realtà non apre bocca.
  13. Il giorno dello sciopero, il collega Pietrucci cerca di convincere Pappalardo a chiedere scusa a Sua Eccellenza per il famoso sputo. Lo spinge fuori dalla porta dell'ufficio, ma nella ripresa dal corridoio si vede che Totò esce fuori senza l'ausilio di alcuna spinta.
  14. Spoiler Ercole Pappalardo è sul letto e si appresta a morire. Chiede della figlia Ines: "Ines, dove sei?", tendendo la mano verso la ragazza. Ma allo stacco, la mano è posata sul letto.
  15. A proposito dei maestri che non mantengono la stessa posizione nelle varie inquadrature: quando Totò è entrato, da poco, nell'aula per affrontare l'esame, il maestro esaminatore al centro, dei tre presenti - inquadrato da vicino - ha il braccio sinistro che pende dietro la sedia ma, nell'inquadratura successiva, ha le braccia entrambe poggiate sul tavolo.

www.bloopers.it


Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo

1952-Toto e i re 01

1952-Toto e i re 02

La scuola dove Totò fa gli esami di licenza elementare e dove fa capire ad Alberto Sordi che cos'è il "paliatone" è in Via La Spezia a Roma.

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Il palazzo dove abita Totò e da cui finge di partire con la famiglia per le vacanze a Rapallo è in Via dei Banchi Vecchi a Roma.

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Vi tornerà poi furtivamente di notte.

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Il Ministero dove lavora come archivista capo Totò è il Ministero della pubblica istruzione in Viale di Trastevere a Roma.

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La strada utilizzata per i cortei funebri nel film (quello a metà film per la morte di Filippini durante il quale i suoi colleghi del Ministero parlano di tutto tranne che del morto e quello finale in cui Totò, per risparmiare, immagina i suoi funerali a piedi) è la Circonvallazione Clodia a Roma. Questo il funerale di Filippini

Questo il funerale di Totò

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Ecco il gruppo che passa davanti alla perpendicolare Via Durazzo

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Ancora parti riconoscibile della Circonvallazione Clodia:

E sempre lì, appena passato l'incrocio con Via Durazzo

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Riferimenti e bibliografie:

  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Totò e Peppino, fratelli d'Italia" (Alberto Anile, Lello Arena, Roberto Escobar), Einaudi tascabile -Stile Libero, 2001
  • "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
  • "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
  • "L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. 1", (Franca Faldini - Goffredo Fofi), Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • Il cineracconto, Roberto Martini, «Novelle Film», anno VIII, n.287, 20 giugno 1953